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Per comprendere l'eziologia di questa fase di conflittualità inter
etnica si deve tenere conto che si tratta di un conflitto storico, tra
persone che desiderano la stessa terra, tre individualità etnico
- nazionali che non sono riuscite a portare a compimento quella mediazione
storica necessaria al superamento delle differenze; differenze che pretendono
uno spazio fisico e storicamente determinato che si materializza in una
terra, che è 'tutta' sacra per una parte, la Serbia slava e cristiano
- ortodossa, necessaria per sopravvivere ai musulmani dall'altra, che
vivono nelle varie enclave incuneate un po' dappertutto nel territorio
della ex Yugoslavia.
Trovo che le prime illuminanti risposte siano nelle parole del prof. Haynes
appena lette:<<I Serbi che amano Milosevic lo hanno seguito nella
strada verso il conflitto etnico>>.
Cosa voleva dire il prof. Haynes con queste parole? ritengo che avesse
capito che, oltre che ragioni naturalmente storiche, religiose, geopolitiche,
economiche e culturali, vi sono anche delle profondissime ragioni psicologiche
che sarebbe errato sottovalutare o ignorare, e da cui qualsiasi tipo di
mediazione che aspiri sinceramente a qualche apprezzabile risultato non
potrà prescindere; esse diventano ancora più chiarificatrici
se si tiene conto di quella che è la ricerca fatta dai migliori
analisti occidentali in materia di studio della 'psicologia del conflitto
e della guerra', sullo stesso Milosevic; in base alle loro analisi appare
un quadro psicologico del leader serbo e, conseguentemente, del suo popolo,
particolarmente interessante. 1
E' un dato che i genitori ed uno zio materno di Milosevic morirono suicidi.
In base a questo fatto e sulla base di studi specifici relativi alla elaborazione
paranoidea del lutto come fattore specifico di guerra, ci si chiede quale
relazione possa stabilirsi fra quei traumi ed i comportamenti del leader
jugoslavo, e come si possa spiegare questa tendenza o desiderio di opposizione
che sfocia in una tendenza distruttiva e autodistruttiva? E' possibile
spiegarla alla luce del doppio trauma provocato dalla perdita per suicidio
di entrambi i genitori e al particolare codice genetico della sua famiglia.
2
Dal desiderio di opposizione si passa a quello di distruzione e annullamento.
C'è però il contrasto interiore nel bambino per cui egli
anche vuol bene al proprio genitore e non tollera alcune volte che questi
desideri lo travolgano, quindi sul piano cosciente si sente legato al
genitore. La componente emotiva, ma di carica negativa, è quindi
spinta giù nel subconscio, insieme con l'elemento del vissuto di
minaccia; da qui, poi, vengono le fantasie di distruzione inconsce verso
il padre che scatenano un turbine di sensi di colpa che permangono, però,
sempre inconsci.
Questi soggetti conservano nel proprio Io la tristezza e la solitudine
che deriva dal fatto che nell'infanzia hanno rinunciato ad una parte del
proprio sé, togliendo la spontaneità nel rapporto col genitore,
impostato secondo precise regole di 'formalità' ed allo stesso
tempo ad una continua ricerca di spazi di controllo e di potere tendenti
alla rivincita futura e all'affermazione del proprio ego.
Una volta che il genitore muore questo individuo entra in una fase subconscia
in cui i dubbi prendono piede, provocando paure ed angosce. Se il genitore
è morto suicida questi dubbi sono più martellanti e velenosi.
Questi pensieri apparentemente illogici sono presenti in ciascuno di noi.
E' ampiamente dimostrato da un'intera tradizione di studi filosofici,
medico - psicologici, e logico - matematici che la mente umana non funziona
solo con la componente razionale ma che vi agiscono diversi tipi di logica,
che spesso prevalgono (come nell'arte, nell'ebbrezza 'mistica' del bello,
o nella follia); queste diverse tipologie logiche ( e conseguentemente
comportamentali) sono naturalmente presenti in tutti noi, agiscono determinando
in buona parte le nostre scelte, anche quelle che vorremmo far passare
per totalmente calcolate.
Il dubbio angoscio di aver determinato la morte del proprio genitore,
del proprio oggetto d'amore, rischia di gettare l'individuo in una crisi
di sé, della propria identità spirituale, che può
indurlo a far si che la rabbia distruttiva, originariamente orientata
contro il genitore si volga spesso contro di sé e ancor più
frequentemente contro un capro espiatorio che diventa il colpevole di
tutti i mali e di tutte le perdite.
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I nuovi contrasti diventano occasioni per dislocare la propria carica
emotiva verso altre situazioni, contro nuovi oppositori. La mancanza di
legami affettivi permette la percezione ed eventualmente l'espressione
dell'emozione di attivazione, di agitazione, di aggressione.
In tal modo il soggetto non risolve ma placa transitoriamente le angosce
di colpa e di morte per lui insopportabili ed anziché percepirle
prova ad annegarle in uno scontro, prima immaginario poi reale, contro
il capro espiatorio che intende sottomettere e controllare (così
come sottomesso e controllato è stato lui da bambino).
Questo schema aiuta a capire il comportamento di Milosevic nei confronti
degli albanesi durante la crisi del Kosovo.
A livello profondo il soggetto sta ancora lottando con il contrasto iniziale
e si trova in una trappola interiore. L'insoddisfazione interiore, la
rabbia, il dolore e l'angoscia di morte, porta la persona con questo tipo
di problema a cercare di più:<<Non basta un capro espiatorio
su cui sfogarsi, qualcuno che non reagisce o quasi, qualcuno che cerchi
soluzioni civili, come nel caso del Kosovo, Ibrahim Rugova. Ci vuole un
nemico vero, un turpe vile aggressore contro il quale poter esprimere
la propria sfida alla morte, la propria disponibilità e ricerca
della fine>> .3
Tanto meglio se una controparte offre a questo tipo di soggetti l'opportunità
di identificare veramente nella realtà del vissuto un persecutore
utile per neutralizzare, momentaneamente, i sentimenti insopportabili
ed inesprimibili, poi per non ascoltarli e negarli ed infine desiderare
di distruggerli. <<Giova di più all'autoreferenzialità
di questo ragionamento paranoideo trovare veramente uno che ti minaccia,
che vuole distruggerti, bombardarti>> . 4
Così il soggetto con questo tipo di problema può confermare
che non era una sua fissazione quella della persecuzione e della minaccia,
ma era la pura realtà. Il passaggio dalla fantasia alla azione
reale e distruttiva assume anche un senso di sfogo dell'energia rabbiosa
ed omicida, un senso di vendetta nei confronti di coloro che vengono individuati
come 'assassini' dei suoi genitori. E' mentre costruisce e provoca sempre
di più ossessivamente un nemico esterno da distruggere o dal quale
farsi distruggere, allo stesso tempo si aggrappa sempre più tenacemente
a qualcosa che rappresenti la vita che lo ha generato, a qualcosa che
gli dia l'illusione che il genitore sia ancora vivo, che la stirpe sia
ancora viva, che gli permetta di continuare a sperare; si attacca ad un'ancora,
una immagine, una idea, un progetto che gli consenta una ricostruzione
interna della frantumazione e lacerazione spirituale che il suicidio di
due genitori può rappresentare; si aggrappa ad un mito di identità,
si appoggia al concetto di una Nazione pura dal punto di vista della stirpe,
della razza, della religione
:.<<Milosevic si è avvinghiato
al mito della culla kosovara del popolo serbo, mito di morte e di sconfitta,
mito di speranza e di rinascita>> .5
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Ritengo che questa analisi scientifica possa permettere al Mediatore di
comprendere meglio, psicologicamente, l'uomo Milosevic. Credo che Egli,
il peacemaker, debba innanzitutto chiedersi: quale può essere la
reazione psicologica di un leader che si sente 'assediato' perennemente
dal 'suo' nemico, che è anche nemico della Nazione, della Stirpe,
della Religione, delle Tradizioni, che hanno sostituito la sua famiglia
al momento della perdita tragica, tanto che non si comprende più
chi sia la Nazione, il Popolo, il Leader, un rapporto simbiotico continuo
che rende il dialogo arduo?
Poco tempo prima che i bombardamenti sulla Yugoslavia iniziassero, Javier
Solana, allora Segretario generale della N.A.T.O., in un'intervista ad
un giornale nazionale nel gennaio 1999, disse, riferendosi a Milosevic:<<E'
un uomo talmente fuori dalla portata della mia logica che non riesco a
capire quello che pensa(
). L'impressione che si ha oggi, dopo avergli
parlato, è che è un uomo in trincea, rinchiuso in un bunker,
al di fuori della realtà. Ha perso ogni contatto(
). E' una
persona dall'animo bunkerizzato ed è molto difficile trattare con
questo tipo di individui, ma tant'è, lui è fatto così>>.
Questo carattere bunkerizzato si è manifestato in modo ancor più
netto nella situazione del Kosovo, nei confronti del quale Milosevic accentuava
il suo atteggiamento radicale, come riferiscono le parole di una persona
che ha avuto un ruolattivo di mediazione già nel conflitto bosniaco,
l'ex primo ministro svedese Carl Bildt:<<Nei molti, molti incontri
che ho avuto con Milosevic, l'unico argomento di cui non ho mai potuto
parlare è stato il Kosovo. Su questo punto prima taceva, diventava
arcigno, poi diceva che il Kosovo era una faccenda della Serbia e di nessun
altro>> (Wall Street Journal Europe, 20/4/1999).
Questo stato sintomatico, che gli esperti definiscono di psicosi schizo
- paranoidea (mentre i media occidentali preferiscono la definizione più
telegenica di "sindrome di Milosevic") non appartiene solo al
leader serbo.
Wiliam Walker, americano, capo della missione dell'OSCE in Kosovo, affermò:La
gente di questa regione è esasperante, paranoica (
). Continuano
a metterci alla prova, come se volessero capire fin dove possono spingersi
nel loro ostruzionismo 6. Significativo
ciò che alcuni giovani dell'opposizione serba hanno scritto sui
muri di Belgrado durante i Colloqui di Rambouillet:La Serbia
non è una Nazione ma una malattia.
Massimo Nava, giornalista, la definisce malattia psicoanalitica:
forse così si spiega la sindrome d'accerchiamento combinato al
patriottismo e alla voglia suicida di collezionare sconfitte per riaffermare
la propria identità.7
Il prof. Veljo Vujocic (Oberlin College, U.S.A.), esperto in materia di
nazionalismo serbo, dice:Sarà misterioso ed irrazionale,
ma la storia incide fortemente sul vissuto della gente, in particolare
nei Balcani. I Serbi hanno una passione peculiare per il Kosovo ed una
tendenza a sentire questa regione come una grande ombra sull'anima della
Nazione 8. Non meravigliano quindi
le parole dell'Economist: Mr. Milosevic, after all, has built
his career by teaching the Serbs that they should never revel in martyrdom
and defeat: the trauncing he dwells on most was that delivered by the
Ottomans un Kosovo 610 years ago, paving the way for their five centuries
of subjugation by Muslins. So good riddance now to the Muslims Kosovars?9
.
A questo punto si pongono due alternative:
- o ci troviamo di fronte ad una psicosi collettiva di tipo appunto schizo-paranoideo
di un popolo guidato da un soggetto fuori dalla realtà
e con l'animo buncherizzato;
- oppure questo signore e questo popolo vengono descritti in quella maniera
(usando la terminologia psichiatrica solo come pretesto propagandistico)
dai dirigenti della NATO e dell'OSCE, oltre che da una moltitudine di
corrispondenti e commentatori occidentali.
Quello che è certo è che l'Occidente ha una tale percezione
della Serbia e del suo Leader.
Percezioni tali orientano pesantemente ogni tipo di mediazione e le scelte
geopolitiche e geostrategiche (come le guerre Balcaniche peraltro hanno
ampiamente dimostrato).
Penso, però, che ritenere che il problema sia solo Milosevic sia
una pericolosa semplificazione.
Il suo potere si fonda su un consenso che esprime la sintonia fra il leader
e le rappresentazioni storiche e geopolitiche dominanti nel popolo serbo,
che egli ha saputo gestire a suo favore. Basta riflettere un attimo sulle
parole di una motivo patriottico (mandato in onda dalla TV serba, insieme
alle principali notizie durante il bombardamento della NATO):With
or without you, our holy ground? I'm not giving up what's mine to anybody,
even if I perish with it. Even if the skies open and even if judgement
day comes, we will stay here where our roots are 10.
La crisi politica ed economica della ex Yugoslavia ha innescato lo sgretolamento
della identità collettiva jugoslava che ha portato i serbi a sentirsi
più isolati e minacciati.
Le progressive rivendicazioni di indipendenza della altre repubbliche
ponevano il problema delle minoranze serbe, nodo spinoso che non è
mai stato affrontato seriamente dall'Occidente, il quale ha favorito le
richieste dei croati, degli sloveni, un po' di quelli bosniaci, ed infine
quelli degli albanesi del Kosovo.
Il senso di essere inascoltate vittime della storia è collegato
al loro atteggiamento di fierezza. L'essere orgogliosi contribuisce pesantemente
a creare dei breakdown nei processi di comunicazione e quindi a creare
condizioni per cui non si possa più veramente permettere l'ascolto
e l'armonizzazione della differenza. Il non sentirsi presi in considerazione
dal punto di vista storico è un vissuto oggettivo e soggettivo
insieme che travalica lo spazio del momento.
Il sentirsi inascoltate vittime della storia ha ulteriormente innescato
il circolo vizioso della paranoia e dell'odio, del sentirsi discriminati
e minacciati. Come si spiega questo atteggiamento di fierezza, questo
vittimismo, questa tendenza al passaggio all'azione, questa sindrome d'accerchiamento
combinata al patriottismo e alla voglia suicida di collezionare sconfitte
per ri - affermare la propria identità?
Il vissuto di crisi economica e politica si riallaccia ad un vissuto psicologico
profondo di allarme e di perdita dei soggetti che entrano in uno stato
di instabilità, di perdita della propria identità che è
oggettiva e soggettiva insieme.
Anche i primissimi contrasti li abbiamo nel nostro primo contesto e di
solito poi li dimentichiamo, malgrado il modello di reazione alle difficoltà
successive sia saldamente ancorato a questi primi contrasti della vita.
Di solito questi primi conflitti si ricompongono, ma può rimanere
una irrisolta tendenza emotiva sottostante.
Quando si determinano nuove significative situazioni di allarme e di perdita,
a seconda delle circostanze e degli altri tratti caratteriali presenti
nei soggetti e nei gruppi, questi possono reagire, superando il problema
in maniera più o meno efficace, attraverso processi di mediazione
(adulti e socievoli), oppure cadere in uno stato di paralisi, di anergia,
vuoto, impotenza: cioè depressione. Oppure possono reagire con
un senso di irrequietezza, rabbia, odio, che viene controllata da una
forma di autorità, dal senso del dovere e dal senso di appartenenza.
Quindi la violenza risparmiata dai singoli viene convogliata all'interno
di un gruppo di appartenenza che ne impedisce l'esplosione, poi dalle
Istituzioni dello Stato che controllano a loro volta il gruppo. Lo Stato
democratico capitalizza questa violenza nelle istituzioni, la gestisce
e la controlla attraverso un meccanismo di omeostasi e di mediazione fra
interessi e concezioni diverse.
Quando nelle situazioni di crisi la tensione agitativa nei singoli e nella
società cresce, diventa incontenibile, tale violenza risparmiata
può essere agita contro un nemico ed i soggetti possono abbandonarsi,
per volontà superiore, per tacito consenso, passiva accettazione
o per paura dei vertici, allo scatenamento degli impulsi distruttivi,
alla scompostezza e alla violenza, perdendo la dimensione di integrazione
degli adulti equilibrati. Oppure, invece, è lo Stato stesso che
agisce al posto (o prima) dei cittadini e fa uso, con più o meno
consenso, delle armi. Le crisi economiche e politiche che possono quindi
fungere da fattori scatenanti per quei singoli o collettività che
si sentono incapaci di affrontare i problemi in modo costruttivo e dunque
ricadono in forme emotive e comportamentali primitive, sperimentando un'agitazione
che può arrivare alla furia che avevano accantonato da piccoli.
Per talune persone incapaci di superare la crisi, le emozioni legate all'attivazione
scomposta, al nervosismo, alla rabbia sono intollerabili, sicché
esse 'scelgono' il male minore della depressione, tristezza, inerzia.
Per altri (Milosevic) sono le emozioni legate alla disperazione, al non
poter sperare, a essere intollerabili, così essi 'credono' nel
desiderio di scontro ammantato del mito di identità, dal culto
della forza, superiorità, fino ai livelli estremi del genocidio.
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In questo inganno ci è finito l'Occidente, che non ha saputo aiutare
gli albanesi del Kosovo finché hanno manifestato civilmente il
problema ed ha preteso di aiutarli solo quando le tensioni erano al punto
in cui il meccanismo di consenso democratico avrebbe tollerato l'uso della
violenza. Infatti, mentre Javier Solana ritiene che Milosevic sia un uomo
<<dall'animo bunkerizzato>> ed usa quindi una descrizione
da manuale di psichiatria, il comandante militare dell'Alleanza in Europa,
Generale Wesley Clark, guida una campagna di bombardamenti volti in modo
specifico <<a far cambiare idea al Presidente Milosevic>>,
a fargli cambiare modello di comportamento; o, come ha scritto l'Economist:<<The
West's error was to will the end not the means. Failure will not just
ensure a continuation of the brutality in Kosovo (and in the former Yugoslavia);
it will ensure that despots everywhere take heart. NATO is not serious,
they will say
>>11 .
Ma le bombe possono far cambiare opinione ad un soggetto come lui? Il
problema è risolto oppure solo rinviato?
Sono state fatte delle ponderate considerazioni da parte dei mediatori
sul problema umano e caratteriale di Milosevic? Se si, da chi?
La NATO e i mediatori: Bildt, Richard Holbroke, gli inviati dell'Unione
Europea, dell'ONU, del Vaticano, della Russia, di Parigi, Roma e qualche
altra Cancelleria Europea, non sapevano forse che l'anima di Milosevic
è già un campo devastato dal suicidio dei genitori e che
in questo tipo di soggetti la minaccia ed il passaggio all'azione di forza
non fanno che confermare la loro tesi paranoidea che vi sia un persecutore
esterno causa di tutti i loro mali? E quando Milosevic verrà rimosso,
come verrà affrontata la struttura di personalità prevalentemente
paranoidea di una larga fetta della popolazione serba?
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(1) Su questo aspetto che costituisce una chiave di lettura
stimolante per i mediatori e gli analisti mi sono avvalso del prezioso
articolo di Francesco Tullio, Psicopatologia di Milosevic (e della NATO),
Limes, n° 1, 2000. Importanti le citazioni bibliografiche di cui rimando
alla note seguenti.
(2) Essendo difficile disegnare un quadro preciso da dati
biografici documentabili, è possibile rapportare questi stessi
al contesto tipico del rapporto tra figlio e genitori suicidi (questo
in base a ricerche della studiosa Melanie Klein, Il lutto e la sua connessione
con gli stati maniaco - depressivi, in "Scritti" 1921-1958,
Torino 1978, Borighieri), quando, alle prime manifestazioni di conflittualità
col genitore il bambino può dare l'imput a desideri di opposizione.
In alcuni contesti sociali, scolastici e familiari questi desideri di
opposizione nei confronti di chi detiene il legittimo diritto ad esercitare
la giusta autorità, non sono tollerate, quindi il bambino deve rassegnarsi
a 'subire' l'autorità del genitore, più forte ed autorevole.
(3) F. Tullio, art.cit., p. 259.
(4) Idem.
(5) Idem.
(6) W. Walker, citato in M.G. Cutili, Kosovo,
uccisi con un colpo alla nuca, Corriere della Sera, 17/01/99.
(7) M. Nava, La guerra necessaria, Cor. Sera, 16/03/99.
(8) V. Vujocic, citato da N. King jr., art. cit.
(9) The Economist, 03/04/99.
(10) Idem
(11) The Econimist, 3/4/1999.
Author: Dr. Renato Congias, Proposal of Paper III World Mediation
Congress.
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