Introduzione

3 WMF ITALIA 2000

Mediation and Diplomacy
in the Balcanic Conflict
1989-1999.

RENATO CONGIAS

ABSTRACT

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Country:
Italy

Language:
English
Italian


This paper will focus on the analysis of the reasons why the diplomatic mediation, that the international politic has leaded, has been unsuccessful during the Balcanic war. To understand the whole frame of how the mediation has been hold is useful to present some psychological aspects related to this conflict, to the problems of the exasperated Serbian Nationalism and the ethnics conflicts; then, from there, we will see why the International Community and the Mediation Organizations found a brikwall on the way of peace.

I will focus even on the historical reasons of the 'Great Serbia' and the 'panslavism' that I think is deeply linked with the already mentioned psychology of the Balcanic War.
At the end will see at the possible future of mediation, following John Haynes's message left in an interview, pubblished in may 1999 in the main Sardinian daily journal L'Unione Sarda, about the possibility to stop the 'ethnic cleaning' and the nationalism among the best skill of International Mediators, trained to understand first the human mind and second the capacity to establish a link of communication, the first thing that the Serbian Leader and the Western Democracies have lost since the nationalism arose.

 


 

I

 
 
Si chiedeva Einstein nel 1932: <<Com'è possibile che una minoranza riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere?>>.
Le parole di Einstein dimostrano la Sua convinzione che l'uomo ha nel proprio Io la capacità e/o il piacere di odiare e di distruggere: come spiegarsi, altrimenti, le ragioni di ogni guerra, compresa quella Balcanica (o meglio le guerre Balcaniche, dal 1992 al
1999) ?
Il Prof. John Haynes, in un'intervista pubblicata su un quotidiano della Sardegna nel maggio 1999, afferma, invece, che probabilmente <<è più facile chiedersi come si può risolvere un conflitto piuttosto che interrogarsi sulle cause che lo hanno scatenato>>. Riferendosi alle ultime vicende drammatiche del conflitto Balcanico afferma: <<Sono stato in Jugoslavia cinque volte, quattro sotto Tito, che era un bosniaco, eppure teneva insieme il paese. Per cinquanta anni serbi, croati, sloveni, bosniaci, albanesi, macedoni, montenegrini hanno vissuto insieme, in pace. Cinque anni fa sono rimasto colpito dalla prosperità del paese. Tutto ciò è stato spazzato via. I serbi che amano Milosevic lo hanno seguito nella strada verso il conflitto etnico>>.
Perché tutto ciò? Come mai la mediazione diplomatica non ha portato alla pace sperata? Quali le ragioni profonde di un conflitto inter etnico così lungo e drammaticamente profondo? Chi potrà mediare nei futuri, prevedibili, conflitti etnici nell'area Balcanica? Sono tanti gli interrogativi.

 

 

 

 

 

II

 
 


Per comprendere l'eziologia di questa fase di conflittualità inter etnica si deve tenere conto che si tratta di un conflitto storico, tra persone che desiderano la stessa terra, tre individualità etnico - nazionali che non sono riuscite a portare a compimento quella mediazione storica necessaria al superamento delle differenze; differenze che pretendono uno spazio fisico e storicamente determinato che si materializza in una terra, che è 'tutta' sacra per una parte, la Serbia slava e cristiano - ortodossa, necessaria per sopravvivere ai musulmani dall'altra, che vivono nelle varie enclave incuneate un po' dappertutto nel territorio della ex Yugoslavia.
Trovo che le prime illuminanti risposte siano nelle parole del prof. Haynes appena lette:<<I Serbi che amano Milosevic lo hanno seguito nella strada verso il conflitto etnico>>.
Cosa voleva dire il prof. Haynes con queste parole? ritengo che avesse capito che, oltre che ragioni naturalmente storiche, religiose, geopolitiche, economiche e culturali, vi sono anche delle profondissime ragioni psicologiche che sarebbe errato sottovalutare o ignorare, e da cui qualsiasi tipo di mediazione che aspiri sinceramente a qualche apprezzabile risultato non potrà prescindere; esse diventano ancora più chiarificatrici se si tiene conto di quella che è la ricerca fatta dai migliori analisti occidentali in materia di studio della 'psicologia del conflitto e della guerra', sullo stesso Milosevic; in base alle loro analisi appare un quadro psicologico del leader serbo e, conseguentemente, del suo popolo, particolarmente interessante. 1
E' un dato che i genitori ed uno zio materno di Milosevic morirono suicidi. In base a questo fatto e sulla base di studi specifici relativi alla elaborazione paranoidea del lutto come fattore specifico di guerra, ci si chiede quale relazione possa stabilirsi fra quei traumi ed i comportamenti del leader jugoslavo, e come si possa spiegare questa tendenza o desiderio di opposizione che sfocia in una tendenza distruttiva e autodistruttiva? E' possibile spiegarla alla luce del doppio trauma provocato dalla perdita per suicidio di entrambi i genitori e al particolare codice genetico della sua famiglia. 2

Dal desiderio di opposizione si passa a quello di distruzione e annullamento. C'è però il contrasto interiore nel bambino per cui egli anche vuol bene al proprio genitore e non tollera alcune volte che questi desideri lo travolgano, quindi sul piano cosciente si sente legato al genitore. La componente emotiva, ma di carica negativa, è quindi spinta giù nel subconscio, insieme con l'elemento del vissuto di minaccia; da qui, poi, vengono le fantasie di distruzione inconsce verso il padre che scatenano un turbine di sensi di colpa che permangono, però, sempre inconsci.
Questi soggetti conservano nel proprio Io la tristezza e la solitudine che deriva dal fatto che nell'infanzia hanno rinunciato ad una parte del proprio sé, togliendo la spontaneità nel rapporto col genitore, impostato secondo precise regole di 'formalità' ed allo stesso tempo ad una continua ricerca di spazi di controllo e di potere tendenti alla rivincita futura e all'affermazione del proprio ego.

Una volta che il genitore muore questo individuo entra in una fase subconscia in cui i dubbi prendono piede, provocando paure ed angosce. Se il genitore è morto suicida questi dubbi sono più martellanti e velenosi. Questi pensieri apparentemente illogici sono presenti in ciascuno di noi. E' ampiamente dimostrato da un'intera tradizione di studi filosofici, medico - psicologici, e logico - matematici che la mente umana non funziona solo con la componente razionale ma che vi agiscono diversi tipi di logica, che spesso prevalgono (come nell'arte, nell'ebbrezza 'mistica' del bello, o nella follia); queste diverse tipologie logiche ( e conseguentemente comportamentali) sono naturalmente presenti in tutti noi, agiscono determinando in buona parte le nostre scelte, anche quelle che vorremmo far passare per totalmente calcolate.
Il dubbio angoscio di aver determinato la morte del proprio genitore, del proprio oggetto d'amore, rischia di gettare l'individuo in una crisi di sé, della propria identità spirituale, che può indurlo a far si che la rabbia distruttiva, originariamente orientata contro il genitore si volga spesso contro di sé e ancor più frequentemente contro un capro espiatorio che diventa il colpevole di tutti i mali e di tutte le perdite.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III

 
 


I nuovi contrasti diventano occasioni per dislocare la propria carica emotiva verso altre situazioni, contro nuovi oppositori. La mancanza di legami affettivi permette la percezione ed eventualmente l'espressione dell'emozione di attivazione, di agitazione, di aggressione.
In tal modo il soggetto non risolve ma placa transitoriamente le angosce di colpa e di morte per lui insopportabili ed anziché percepirle prova ad annegarle in uno scontro, prima immaginario poi reale, contro il capro espiatorio che intende sottomettere e controllare (così come sottomesso e controllato è stato lui da bambino).
Questo schema aiuta a capire il comportamento di Milosevic nei confronti degli albanesi durante la crisi del Kosovo.

A livello profondo il soggetto sta ancora lottando con il contrasto iniziale e si trova in una trappola interiore. L'insoddisfazione interiore, la rabbia, il dolore e l'angoscia di morte, porta la persona con questo tipo di problema a cercare di più:<<Non basta un capro espiatorio su cui sfogarsi, qualcuno che non reagisce o quasi, qualcuno che cerchi soluzioni civili, come nel caso del Kosovo, Ibrahim Rugova. Ci vuole un nemico vero, un turpe vile aggressore contro il quale poter esprimere la propria sfida alla morte, la propria disponibilità e ricerca della fine>> .3

Tanto meglio se una controparte offre a questo tipo di soggetti l'opportunità di identificare veramente nella realtà del vissuto un persecutore utile per neutralizzare, momentaneamente, i sentimenti insopportabili ed inesprimibili, poi per non ascoltarli e negarli ed infine desiderare di distruggerli. <<Giova di più all'autoreferenzialità di questo ragionamento paranoideo trovare veramente uno che ti minaccia, che vuole distruggerti, bombardarti>> . 4
Così il soggetto con questo tipo di problema può confermare che non era una sua fissazione quella della persecuzione e della minaccia, ma era la pura realtà. Il passaggio dalla fantasia alla azione reale e distruttiva assume anche un senso di sfogo dell'energia rabbiosa ed omicida, un senso di vendetta nei confronti di coloro che vengono individuati come 'assassini' dei suoi genitori. E' mentre costruisce e provoca sempre di più ossessivamente un nemico esterno da distruggere o dal quale farsi distruggere, allo stesso tempo si aggrappa sempre più tenacemente a qualcosa che rappresenti la vita che lo ha generato, a qualcosa che gli dia l'illusione che il genitore sia ancora vivo, che la stirpe sia ancora viva, che gli permetta di continuare a sperare; si attacca ad un'ancora, una immagine, una idea, un progetto che gli consenta una ricostruzione interna della frantumazione e lacerazione spirituale che il suicidio di due genitori può rappresentare; si aggrappa ad un mito di identità, si appoggia al concetto di una Nazione pura dal punto di vista della stirpe, della razza, della religione…:.<<Milosevic si è avvinghiato al mito della culla kosovara del popolo serbo, mito di morte e di sconfitta, mito di speranza e di rinascita>> .5

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV

 
 


Ritengo che questa analisi scientifica possa permettere al Mediatore di comprendere meglio, psicologicamente, l'uomo Milosevic. Credo che Egli, il peacemaker, debba innanzitutto chiedersi: quale può essere la reazione psicologica di un leader che si sente 'assediato' perennemente dal 'suo' nemico, che è anche nemico della Nazione, della Stirpe, della Religione, delle Tradizioni, che hanno sostituito la sua famiglia al momento della perdita tragica, tanto che non si comprende più chi sia la Nazione, il Popolo, il Leader, un rapporto simbiotico continuo che rende il dialogo arduo?
Poco tempo prima che i bombardamenti sulla Yugoslavia iniziassero, Javier Solana, allora Segretario generale della N.A.T.O., in un'intervista ad un giornale nazionale nel gennaio 1999, disse, riferendosi a Milosevic:<<E' un uomo talmente fuori dalla portata della mia logica che non riesco a capire quello che pensa(…). L'impressione che si ha oggi, dopo avergli parlato, è che è un uomo in trincea, rinchiuso in un bunker, al di fuori della realtà. Ha perso ogni contatto(…). E' una persona dall'animo bunkerizzato ed è molto difficile trattare con questo tipo di individui, ma tant'è, lui è fatto così>>. Questo carattere bunkerizzato si è manifestato in modo ancor più netto nella situazione del Kosovo, nei confronti del quale Milosevic accentuava il suo atteggiamento radicale, come riferiscono le parole di una persona che ha avuto un ruolattivo di mediazione già nel conflitto bosniaco, l'ex primo ministro svedese Carl Bildt:<<Nei molti, molti incontri che ho avuto con Milosevic, l'unico argomento di cui non ho mai potuto parlare è stato il Kosovo. Su questo punto prima taceva, diventava arcigno, poi diceva che il Kosovo era una faccenda della Serbia e di nessun altro>> (Wall Street Journal Europe, 20/4/1999).
Questo stato sintomatico, che gli esperti definiscono di psicosi schizo - paranoidea (mentre i media occidentali preferiscono la definizione più telegenica di "sindrome di Milosevic") non appartiene solo al leader serbo.

Wiliam Walker, americano, capo della missione dell'OSCE in Kosovo, affermò:‹‹La gente di questa regione è esasperante, paranoica (…). Continuano a metterci alla prova, come se volessero capire fin dove possono spingersi nel loro ostruzionismo›› 6. Significativo ciò che alcuni giovani dell'opposizione serba hanno scritto sui muri di Belgrado durante i Colloqui di Rambouillet:‹‹La Serbia non è una Nazione ma una malattia››.
Massimo Nava, giornalista, la definisce ‹‹malattia psicoanalitica: forse così si spiega la sindrome d'accerchiamento combinato al patriottismo e alla voglia suicida di collezionare sconfitte per riaffermare la propria identità››.7

Il prof. Veljo Vujocic (Oberlin College, U.S.A.), esperto in materia di nazionalismo serbo, dice:‹‹Sarà misterioso ed irrazionale, ma la storia incide fortemente sul vissuto della gente, in particolare nei Balcani. I Serbi hanno una passione peculiare per il Kosovo ed una tendenza a sentire questa regione come una grande ombra sull'anima della Nazione›› 8. Non meravigliano quindi le parole dell'Economist: ‹‹Mr. Milosevic, after all, has built his career by teaching the Serbs that they should never revel in martyrdom and defeat: the trauncing he dwells on most was that delivered by the Ottomans un Kosovo 610 years ago, paving the way for their five centuries of subjugation by Muslins. So good riddance now to the Muslims Kosovars?››9 .

A questo punto si pongono due alternative:
- o ci troviamo di fronte ad una psicosi collettiva di tipo appunto schizo-paranoideo di un popolo guidato da un soggetto ‹‹fuori dalla realtà e con l'animo buncherizzato››;
- oppure questo signore e questo popolo vengono descritti in quella maniera (usando la terminologia psichiatrica solo come pretesto propagandistico) dai dirigenti della NATO e dell'OSCE, oltre che da una moltitudine di corrispondenti e commentatori occidentali.
Quello che è certo è che l'Occidente ha una tale percezione della Serbia e del suo Leader.
Percezioni tali orientano pesantemente ogni tipo di mediazione e le scelte geopolitiche e geostrategiche (come le guerre Balcaniche peraltro hanno ampiamente dimostrato).
Penso, però, che ritenere che il problema sia solo Milosevic sia una pericolosa semplificazione.

Il suo potere si fonda su un consenso che esprime la sintonia fra il leader e le rappresentazioni storiche e geopolitiche dominanti nel popolo serbo, che egli ha saputo gestire a suo favore. Basta riflettere un attimo sulle parole di una motivo patriottico (mandato in onda dalla TV serba, insieme alle principali notizie durante il bombardamento della NATO):‹‹With or without you, our holy ground? I'm not giving up what's mine to anybody, even if I perish with it. Even if the skies open and even if judgement day comes, we will stay here where our roots are›› 10.

La crisi politica ed economica della ex Yugoslavia ha innescato lo sgretolamento della identità collettiva jugoslava che ha portato i serbi a sentirsi più isolati e minacciati.
Le progressive rivendicazioni di indipendenza della altre repubbliche ponevano il problema delle minoranze serbe, nodo spinoso che non è mai stato affrontato seriamente dall'Occidente, il quale ha favorito le richieste dei croati, degli sloveni, un po' di quelli bosniaci, ed infine quelli degli albanesi del Kosovo.
Il senso di essere inascoltate vittime della storia è collegato al loro atteggiamento di fierezza. L'essere orgogliosi contribuisce pesantemente a creare dei breakdown nei processi di comunicazione e quindi a creare condizioni per cui non si possa più veramente permettere l'ascolto e l'armonizzazione della differenza. Il non sentirsi presi in considerazione dal punto di vista storico è un vissuto oggettivo e soggettivo insieme che travalica lo spazio del momento.

Il sentirsi inascoltate vittime della storia ha ulteriormente innescato il circolo vizioso della paranoia e dell'odio, del sentirsi discriminati e minacciati. Come si spiega questo atteggiamento di fierezza, questo vittimismo, questa tendenza al passaggio all'azione, questa sindrome d'accerchiamento combinata al patriottismo e alla voglia suicida di collezionare sconfitte per ri - affermare la propria identità?
Il vissuto di crisi economica e politica si riallaccia ad un vissuto psicologico profondo di allarme e di perdita dei soggetti che entrano in uno stato di instabilità, di perdita della propria identità che è oggettiva e soggettiva insieme.
Anche i primissimi contrasti li abbiamo nel nostro primo contesto e di solito poi li dimentichiamo, malgrado il modello di reazione alle difficoltà successive sia saldamente ancorato a questi primi contrasti della vita.
Di solito questi primi conflitti si ricompongono, ma può rimanere una irrisolta tendenza emotiva sottostante.
Quando si determinano nuove significative situazioni di allarme e di perdita, a seconda delle circostanze e degli altri tratti caratteriali presenti nei soggetti e nei gruppi, questi possono reagire, superando il problema in maniera più o meno efficace, attraverso processi di mediazione (adulti e socievoli), oppure cadere in uno stato di paralisi, di anergia, vuoto, impotenza: cioè depressione. Oppure possono reagire con un senso di irrequietezza, rabbia, odio, che viene controllata da una forma di autorità, dal senso del dovere e dal senso di appartenenza.
Quindi la violenza risparmiata dai singoli viene convogliata all'interno di un gruppo di appartenenza che ne impedisce l'esplosione, poi dalle Istituzioni dello Stato che controllano a loro volta il gruppo. Lo Stato democratico capitalizza questa violenza nelle istituzioni, la gestisce e la controlla attraverso un meccanismo di omeostasi e di mediazione fra interessi e concezioni diverse.

Quando nelle situazioni di crisi la tensione agitativa nei singoli e nella società cresce, diventa incontenibile, tale violenza risparmiata può essere agita contro un nemico ed i soggetti possono abbandonarsi, per volontà superiore, per tacito consenso, passiva accettazione o per paura dei vertici, allo scatenamento degli impulsi distruttivi, alla scompostezza e alla violenza, perdendo la dimensione di integrazione degli adulti equilibrati. Oppure, invece, è lo Stato stesso che agisce al posto (o prima) dei cittadini e fa uso, con più o meno consenso, delle armi. Le crisi economiche e politiche che possono quindi fungere da fattori scatenanti per quei singoli o collettività che si sentono incapaci di affrontare i problemi in modo costruttivo e dunque ricadono in forme emotive e comportamentali primitive, sperimentando un'agitazione che può arrivare alla furia che avevano accantonato da piccoli. Per talune persone incapaci di superare la crisi, le emozioni legate all'attivazione scomposta, al nervosismo, alla rabbia sono intollerabili, sicché esse 'scelgono' il male minore della depressione, tristezza, inerzia.
Per altri (Milosevic) sono le emozioni legate alla disperazione, al non poter sperare, a essere intollerabili, così essi 'credono' nel desiderio di scontro ammantato del mito di identità, dal culto della forza, superiorità, fino ai livelli estremi del genocidio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


V

 
 


In questo inganno ci è finito l'Occidente, che non ha saputo aiutare gli albanesi del Kosovo finché hanno manifestato civilmente il problema ed ha preteso di aiutarli solo quando le tensioni erano al punto in cui il meccanismo di consenso democratico avrebbe tollerato l'uso della violenza. Infatti, mentre Javier Solana ritiene che Milosevic sia un uomo <<dall'animo bunkerizzato>> ed usa quindi una descrizione da manuale di psichiatria, il comandante militare dell'Alleanza in Europa, Generale Wesley Clark, guida una campagna di bombardamenti volti in modo specifico <<a far cambiare idea al Presidente Milosevic>>, a fargli cambiare modello di comportamento; o, come ha scritto l'Economist:<<The West's error was to will the end not the means. Failure will not just ensure a continuation of the brutality in Kosovo (and in the former Yugoslavia); it will ensure that despots everywhere take heart. NATO is not serious, they will say…>>11 .

Ma le bombe possono far cambiare opinione ad un soggetto come lui? Il problema è risolto oppure solo rinviato?
Sono state fatte delle ponderate considerazioni da parte dei mediatori sul problema umano e caratteriale di Milosevic? Se si, da chi?
La NATO e i mediatori: Bildt, Richard Holbroke, gli inviati dell'Unione Europea, dell'ONU, del Vaticano, della Russia, di Parigi, Roma e qualche altra Cancelleria Europea, non sapevano forse che l'anima di Milosevic è già un campo devastato dal suicidio dei genitori e che in questo tipo di soggetti la minaccia ed il passaggio all'azione di forza non fanno che confermare la loro tesi paranoidea che vi sia un persecutore esterno causa di tutti i loro mali? E quando Milosevic verrà rimosso, come verrà affrontata la struttura di personalità prevalentemente paranoidea di una larga fetta della popolazione serba?

 

 

 


VI

 
 


Qual è la mediazione più razionale, idonea ed efficace se non possiamo avere certezze di successo? In questi contesti un criterio di buon senso è la scelta di soluzioni che permettano una via di uscita qualora si dimostrino sbagliate. Nelle situazioni di incertezza le scelte che implicano irreversibilità sono le più rischiose. Se cioè io sono preoccupato per i diritti umani nella ex Yugoslavia ed il mio intervento peggiora la situazione, allora è sbagliata la scelta. Se però non posso tornare indietro e la mia scelta innesca una valanga di lesioni ai diritti umani, allora è dubbio anche il criterio di scelta.
A quali dinamiche inconsce dell'Occidente risponde questa logica del non intervenire finché lo scontro non sembra inevitabile? Qual è l'intreccio fra i fattori economici, geopolitici e gli aspetti psichici predominanti in Occidente che rendono difficile una soluzione civile del conflitto con le armi della diplomazia e della mediazione?

 

 
 

VII

 
 
Nell'intervista citata all'inizio di questo lavoro, apparsa nelle pagine del principale quotidiano della Sardegna L'Unione Sarda, John Haynes, alla domanda del giornalista su come la Mediazione, etnica e diplomatica, possa aiutare a risolvere la tragica evoluzione della crisi balcanica, rispose che è più che mai necessaria una <<mediazione neutrale, condotta da mediatori garantiti nel loro totale anonimato, come nell'esempio delle trattative di pace tra Israeliani e Palestinesi, o come nella situazione della Bosnia, che furono condotte da una organizzazione in Svezia>>, ma soprattutto è necessario portare avanti una <<mediazione etnica, nelle scuole e nella vita pubblica per ricostruire un tessuto sociale basato sulla convivenza>>.

 

 

Note

 
 


(1) Su questo aspetto che costituisce una chiave di lettura stimolante per i mediatori e gli analisti mi sono avvalso del prezioso articolo di Francesco Tullio, Psicopatologia di Milosevic (e della NATO), Limes, n° 1, 2000. Importanti le citazioni bibliografiche di cui rimando alla note seguenti.

(2) Essendo difficile disegnare un quadro preciso da dati biografici documentabili, è possibile rapportare questi stessi al contesto tipico del rapporto tra figlio e genitori suicidi (questo in base a ricerche della studiosa Melanie Klein, Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco - depressivi, in "Scritti" 1921-1958, Torino 1978, Borighieri), quando, alle prime manifestazioni di conflittualità col genitore il bambino può dare l'imput a desideri di opposizione. In alcuni contesti sociali, scolastici e familiari questi desideri di opposizione nei confronti di chi detiene il legittimo diritto ad esercitare la giusta autorità, non sono tollerate, quindi il bambino deve rassegnarsi a 'subire' l'autorità del genitore, più forte ed autorevole.

(3) F. Tullio, art.cit., p. 259.

(4) Idem.

(5) Idem.

(6) W. Walker, citato in M.G. Cutili, ‹‹Kosovo, uccisi con un colpo alla nuca››, Corriere della Sera, 17/01/99.

(7) M. Nava, La guerra necessaria, Cor. Sera, 16/03/99.

(8) V. Vujocic, citato da N. King jr., art. cit.

(9) The Economist, 03/04/99.

(10) Idem

(11) The Econimist, 3/4/1999.


Author: Dr. Renato Congias, Proposal of Paper III World Mediation Congress.


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