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Il quadro di partenza
Le complesse e repentine trasformazioni economiche, sociali e culturali
contemporanee e le condizioni di forte marginalità alle quali sono
sottoposti, in modo crescente, individui e gruppi sociali, culturali ed
etnici, stanno comportando un progressivo abbassamento della soglia di
tollerabilità della convivenza umana, anche in aree storicamente
caratterizzate da un clima relazionale positivo, con la conseguenza di
una estensione ed esasperazione dei microconflitti sociali, culturali,
etnici, etc... In Italia costanti flussi immigratori irregolari stanno
determinando stanziamenti residenziali di gruppi dalle caratteristiche
culturali ed etniche notevolmente distanti dalla cultura italiana, con
il conseguente sbilanciamento della capacità di un ragionevole
assorbimento dei medesimi flussi nel rispetto delle identità culturali
ed etniche. Da più parti, ormai, sociologi, politologi e studiosi
dei fenomeni sociali parlano di "losangelizzazione" delle città
del futuro, sempre più in uno con le periferie degradate del suburbio,
ma anche di "losangelizzazione" dei saperi e delle culture.
Viene assunta, pertanto, l'ipotesi che la formazione di operatori ad una
corretta pratica di mediazione sociale e culturale, secondo l'approccio
sistemico relazionale e del problematicismo pedagogico, possa costituire
un investimento antideflagrativo della conflittualità per la società
futura. Tuttavia, occorre stare in guardia da quello che può essere
considerato un vero e proprio approccio "fideistico" o romantico
alla capacità ricettiva di una cultura ospitante rispetto alle
tante culture ospitate.
Mediazione e patto negoziale
La mediazione sociale e culturale non è una generica pratica socioeducativa
fondata sulla buona volontà delle persone; essa, sul piano epistemologico,
pone il problema, proprio anche a quello educativo, della doppia intenzionalità:
intenzionalità sia del mediatore sia degli attori sociali e culturali,
che lega tutti ad un patto negoziale senza il quale non è possibile
l'impresa tanto mediativa quanto educativa. La mediazione è una
pratica che esige lo sforzo di tutte le parti in causa e, quindi, è
un percorso bilaterale o plurilaterale.
La mediazione, infatti, suppone la possibilità del cambiamento
infra e fra le parti attrici ed anche che il cambiamento sia praticabile.
Laddove le parti non accedono alla pratica della negoziazione ragionata
dei conflitti interindividuali, culturali, sociali ed etnici, non ci può
essere né educazione né mediazione in atto: ambedue i processi
esigono la negoziazione ragionata del conflitto e la prescrizione al cambiamento
che legittimano una intenzionalità normatrice reciproca, condizione
necessaria per concreti accordi e successive rinegoziazioni. E' l'intenzionalità
normatrice comune che consente alle parti di porre in essere valutazioni
di adeguatezza teorica e pratica sugli accordi raggiunti, di negoziarne
di nuovi e al mediatore di svolgere la sua funzione di catalizzatore delle
risorse, facilitatore dell'impresa dialettica secondo quel principio di
equità, ben noto a chi svolge tale ruolo, che consente un esito,
fra le parti, del tipo "vittoria-vittoria".
Il mediatore, dunque, non sposa la causa anti-illuministica e falsamente
laica dell'uguaglianza astratta (astratta, perché gli individui
non sono uguali ma diversi nelle loro rispettive identità) e, quindi,
anti-libertaria, ma quella della valorizzazione della coesistenza e del
riconoscimento delle differenze assolute nel nome di un confronto che
non ammette compromessi, nascondimenti, deleghe, bensì costante
legittimazione della individuale e gruppale volontà di ex-sistere
cioè di venire fuori dall'anonimato per essere soggetto epistemico
storico. Ciò esige il riconoscimento e il rispetto reciproco delle
soggettività (up/up).
In tale prospettiva, occorre chiarire che il mediatore non si pone (inter)fra
le culture, ma consente ad esse di incontrarsi face to face in un set
relazionale facilitante l'incontro. Terzo fra le parti, il mediatore è
imparziale, schivo da pregiudizi negativi o positivi. Pur riconoscendosi
egli stesso figlio della sua cultura di appartenenza, ne controlla la
storia e il suo percorso attraverso il tempo e lo spazio, ne gestisce
le implicazioni emozionali, sociali, politiche; è consapevole della
sua struttura condivisa di pensiero della quale è debitore per
ciò che è stato, per quello che è e sarà.
Mediazione e cambiamento
Le presenti riflessioni tendono ad evidenziare la ricaduta fortemente
metabletica - orientata al cambiamento - di una corretta pratica di mediazione;
essa viene prospettata, ad un tempo, come socialmente efficiente ai fini
della capacità gestionale dei conflitti socioculturali, ma anche
come pedagogicamente efficace ai fini del processo autoformativo delle
persone, consentendo benefici e riduzione dei costi e, soprattutto, di
investire sulle lunghe scadenze. La mediazione, da questo punto di vista,
può essere considerata e, in questa sede, viene proposta come una
pratica di "lifelong learning". Questo approccio, tuttavia,
esige lo smascheramento ideologico di tutte quelle pratiche che - nel
nome dell'uguaglianza e del rispetto astratto delle differenze - non prescrivono
il cambiamento offrendo, di fatto, servizi di assistenza, custodia e invocano
l'adesione a quel sentimento di tolleranza foriero di un relativismo identitario
individuale, sociale, culturale, etnico, il quale - nel nome di una non
ben precisata pax universale e di un "nirvana" delle emozioni
- finisce con l'impedire ogni sforzo teso all'autentica, quanto sofferta,
comprensione delle rispettive identità e alla concreta possibilità
di gestione dei conflitti. Tali operatori finiscono con il frapporsi e
con l'impedire il manifestarsi esplicito del conflitto, costituendosi
come un vero e proprio cuscinetto o ammortizzatore sociale e culturale;
tuttavia, i conflitti talvolta, nonostante tutto, esplodono e assumono
una connotazione distruttiva.
La società delle identità individuali e plurime ammette
un "sano eclettismo", ma non le ibridazioni che in realtà
potrebbero nascondere le identità rendendo tutti deboli. Una società
frutto di ibridazioni e meticciamenti darebbe luogo ad una società
orizzontale, priva di un patto negoziale in grado di porre tutti nella
tensione euristica verso il necessario cambiamento; sarebbe una società
chiusa, tendente all'isolamento, priva di afflato apprenditivo perché
non favorirebbe lo scontro dialettico che conduce al cambiamento; sarebbe
una società spettrale senza storia e priva di futuro. In definitiva,
sarebbe una società che non è in grado di generare il nuovo,
che non proverebbe emozioni, priva di spessore; costruirebbe in orizzontale
cioè allargando ed omologando, preoccupandosi di curare il malessere
individuale e sociale attraverso lo svelamento dei soli fraintendimenti
e malintesi linguistici, terminologici, comportamentali, in ciò
pensando di accrescere la coincidentia oppositorum e, in realtà,
senza nulla restituire in termini di accrescimento delle identità
in co-evoluzione. E' il lavoro di chi teme il conflitto e lo non ammette
come risorsa positiva, perché non sa come gestirlo, come trasformarlo,
perché non accetta la sfida evolutiva che è dentro ogni
autentico apprendimento, riducendo quest'ultimo al solo aspetto dell'informazione
e del trattamento "indolore" di esso (apprendimento "0").
Il trattamento indolore dell'informazione è ciò che rende
questa (= l'informazione) asettica, neutrale, innocua, snaturata però
della identità più profonda, che la rende oppositiva, rendendola
accettabile, o socialmente e culturalmente "degradabile", smorzando
in tal modo la contesa; tuttavia, la sola eliminazione del pregiudizio
e dello stereotipo non favorisce la co-esistenza e la co-evoluzione, allontana
semplicemente il momento dello scontro. La "creolizzazione"
delle culture, contrariamente a come sostengono molti interculturalisti,
non favorirebbe né rispetterebbe le identità, anzi le indebolirebbe
fino a farle scomparire e comportando, così, l'esatto contrario
di ciò che essi vorrebbero difendere e cioè le differenze
e le rispettive identità. Occorrerebbe, per esempio, chiedersi
perché mai in Europa non abbia attecchito l'esperanto: ostinata
radicalizzazione dei nazionalismi o esigenza di tutela delle identità?
Chi scrive si rende ben conto che quanto si viene affermando nella presente
relazione non è, come sostengono alcuni, politically correct perché
contro tendenza.
Prospettive della mediazione sociale e culturale
Il vero problema del mediatore sociale, etnico e culturale non è
quello di aggiungere mere informazioni, e quindi non è di tipo
toponomastico - contro ogni riduzionismo derivante dall'approccio definito
dei "malintesi" e dei "fraintendimenti" - ma è
quello di ordinare e, quindi, è un problema di tipo metodologico
che si fa carico dell'attuale over inclusion propria di una società
cosiddetta policentrica. Infatti, l' over inclusion - tipica delle società
policentriche - se "distrugge" coloro che hanno una struttura
mentale rigida non di meno invade chi ha una struttura debole. Il mediatore,
equamente, consente agli uni e agli altri, la titolarità della
propria soggettività e dell'espressione di essa, favorendo la gestione
del conflitto che è possibile soltanto attraverso l'accettazione
della sfida co-evolutiva e, quindi, dell'apprendimento-cambiamento. Il
mediatore aiuta le soggettività, singole e collettive, a cercare
in profondità le radici della diversità che sono dentro
le identità tanto individuali quanto gruppali. Egli, quindi, sollecita
a definire le identità, non a renderle aleatorie, confuse; un mediatore
sa bene che le identità definiscono le differenze e che l'apprendimento
avviene per differenza non per sovrapposizione né tanto meno per
omologazione. In questo senso, la circolarità delle informazioni
che il mediatore favorisce fra individui, gruppi sociali e culturali non
deve essere confusa con il livello "0" dell'apprendimento; si
tratta, piuttosto, di una circolarità di tipo ellissoidale che
ammette l'incrementabilità delle informazioni e quindi il passaggio,
non indolore, da un livello all'altro della situazione apprenditiva.
Il mediatore, infatti, lavora sulle situazioni apprenditive, facilita
la loro co-evoluzione, innesca "costanti" che favoriscono il
cambiamento o quanto meno la non reiterazione cronica delle medesime situazioni
apprenditive o una condizione meramente combinatoria. D'altra parte, il
set della mediazione è un set forte e la negoziazione ragionata
uno strumento parimenti forte che non ammette la coincidentia oppositorum,
ma al contrario l' accettazione della radicalità delle differenze
e in pari tempo della loro necessità co-costruttiva del contesto
di vita. Questo costituisce il paradosso primario dei processi di apprendimento
e questo il bivio decisivo per ogni considerazione pedagogica che ammetta
la negoziazione ragionata della prescrizione al cambiamento cioè
dell'intenzionalità della relazione co-educativa fra gli attori
sociali e culturali e mediativa dell'operatore rispetto agli individui
e ai gruppi.
Se la mediazione sociale e culturale si limitasse ad integrare, oltre
che a contraddire l'etimologia stessa del termine, rischierebbe di essere
più pericolosa che efficace. Se, al contrario, si proponesse di
sovvertire il mondo non potrebbe che venire espulsa come un corpo estraneo
da quel gruppo e da quella cultura che le richiede di perpetuare la propria
aggregazione e identità. Alla mediazione il compito di assumere
interamente il paradosso di una continuità che permetta il cambiamento
e di un cambiamento che non pregiudichi l'identità, evitando in
tal modo ogni rischio di debordamento. Non si tratta di trovare una qualche
via di mezzo, una mediazione che con un colpo al cerchio e uno alla botte
salvi un po' dell'una e un po' dell'altra: l'identità deve essere
forte per avere un senso e il cambiamento deve essere efficace per non
vanificare il suo ruolo adattivo. Il paradosso va dunque assunto nella
sua interezza e nella sua radicalità facendo convivere - non coincidere
- due spinte assolutamente opposte, senza pretendere di ridurre la complessità
che deriva dalla loro coesistenza. Anzi il mediatore impegna il conflitto
per far emergere le risorse positive neglette; non lo teme perché
sa che è fisiologico, sa che appartiene alla spinta evolutiva dei
sistemi.
Questa condizione assume una cogenza inedita nel mondo contemporaneo,
caratterizzato da processi di differenziazione diffusi e rapidi e da una
molteplicità di soggetti che, per affrontare le trasformazioni,
resistono a quei cambiamenti che rappresentano invece la vera "coerenza"
del sistema a cui appartengono. E questo è esattamente il vero
problema di ogni educatore e mediatore: far scoprire la coerenza come
istanza metodologica evolutiva di ogni sistema vivente umano e non come
principio di volta in volta morale, comportamentale, contenutistico sempre
identico a se stesso, fisso di una fissità che si lascia sfuggire
l' hic et nunc della vita; una coerenza che falsamente ci libera dalle
dipendenze costituite dal contesto nel quale siamo immersi dalle origini
dei tempi e sin dall'inizio della nostra vita individuale e sociale.
In questa prospettiva, la negoziazione ragionata fra individui che vogliono
essere attori è ricerca di una intenzionalità foriera di
un'autonomia mai considerata come qualità del soggetto, bensì
come qualità del rapporto tra il sistema ed il suo ambiente di
vita. Il percorso evolutivo individuale e/o di gruppo viene qui descritto
come una sequenza non lineare di "scatti" di autonomia implicanti
la complessificazione del proprio sistema di dipendenze. Il risultato
di questa evoluzione è che il grado di autonomia raggiunto ad ogni
momento della vita può essere descritto a partire dal grado di
complessità che riusciamo ad assegnare al nostro sistema di dipendenze.
Una complessità che va analizzata sia nei termini della loro quantità
sia nella loro tipologia. La misura della dipendenza sta nel riconoscimento
del lutto della perdita: se una perdita produce un lutto, questo vuol
dire che da ciò che si è perso in qualche modo si dipendeva.
Ma la complessità delle dipendenze è anche ciò che
garantisce la propria sopravvivenza. Del resto se crescere significa attraversare
via via livelli superiori di complessità della propria esperienza
anche tramite l'articolazione delle proprie dipendenze, ridurle significa
inevitabilmente banalizzarsi. La banalità, poiché trascina
con sé la rigidità degli schemi comportamentali e l'incapacità
di elaborare risposte flessibili ai problemi, è l'esatto opposto
dell'autonomia.
Quindi il problema non va colto sul piano etico, come il termine potrebbe
far pensare, ma su quello adattivo: un'esistenza banale è un'esistenza
fragile che un qualsiasi evento al di fuori delle poche risposte a disposizione
tende a distruggere allo stesso modo di un'esistenza rigidamente strutturata,
certa delle poche certezze possedute.
L'autonomia, quindi, è una forma di sviluppo che non riduce ma
articola la dipendenza dall'ambiente cioè dagli altri sistemi,
consentendo la scelta e la capacità di scelta è indice di
un agire più o meno libero e, dunque, etico.
In questo senso, l'attività del mediatore sociale, culturale è
proprio quella di far emergere l'autonomia dei soggetti dall'interno della
scoperta della loro interdipendenza, in ciò favorendo la possibilità
della scelta; la complessità della scelta e delle sue possibili
articolazioni, poi, è indice del grado di libertà raggiunto
da un sistema umano. Il setting della mediazione, partendo proprio dalla
definizione delle rispettive posizioni, consente ai soggetti e ai gruppi
di individuare e prendere atto delle molteplici interdipendenze che li
vincolano, costringedoli anche a prendere atto delle rispettive identità
confligenti, nello stesso tempo accresce il grado di autonomia facendo
scoprire in ciò la possibilità di definire la scelta, cioè
il cambiamento, attraverso il vincolo metodologico della negoziazione
ragionata che istituisce la co-intenzionalità normatrice dei soggetti
partecipanti.
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