Introduzione

3 WMF ITALIA 2000

La negoziazione ragionata come "intenzionalitą normatrice" della mediazione sociale e culturale.

ROBERTA DE MARTINO,
LAURITA FACCHINETTI,
GENNARO GALDO,
BRUNO SCHETTINI,

ABSTRACT

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Country:
Italy

Language:
Italian

Le complesse e repentine trasformazioni economiche, sociali e culturali contemporanee e le condizioni di forte marginalità alle quali sono sottoposti, in modo crescente, individui e gruppi comporteranno un progressivo abbassamento della soglia di tollerabilità della convivenza umana, anche in aree storicamente caratterizzate da un clima relazionale positivo, con la conseguenza di una estensione ed esasperazione dei microconflitti sociali, culturali, razziali, etnici, etc... Pertanto, viene assunta l'ipotesi che la formazione ad una corretta pratica della mediazione sociale e culturale, secondo un approccio sistemico relazionale in ambito problematicistico, possa costituire un investimento antideflagrativo della conflittualità per la società futura. La mediazione sociale e culturale non è una generica pratica socio - educativa; essa, sul piano epistemologico, pone il problema, proprio anche a quello pedagogico, della doppia intenzionalità: intenzionalità sia del mediatore sia degli attori sociali e culturali, che lega tutti ad un "patto di fiducia" senza il quale non è possibile l'impresa tanto mediativa quanto educativa. La mediazione suppone la possibilità del cambiamento infra e fra le parti attrici ed anche che il cambiamento sia possibile. Laddove le parti non accedono all'istituzione di una negoziazione ragionata sui conflitti culturali e sociali, non ci può essere né educazione in atto né mediazione: ambedue i processi esigono la negoziazione ragionata del conflitto. Quest'ultima conduce le parti ad una intenzionalità normatrice comune, per concreti accordi, condizione necessaria per successive negoziazioni. E' l'intenzionalità normatrice comune che consente alle parti di porre in essere valutazioni di adeguatezza teorica e pratica sugli accordi raggiunti, di negoziarne di nuovi, e al mediatore di svolgere la sua funzione. Le riflessioni precedenti evidenziano la ricaduta fortemente metabletica di una corretta pratica di mediazione; essa viene prospettata, ad un tempo, come socialmente efficiente ai fini della capacità gestionale dei conflitti socioculturali, ma anche come pedagogicamente efficace ai fini del processo autoformativo delle persone, consentendo benefici e riduzione dei costi e, soprattutto, di investire sulle lunghe scadenze.

 

Operatori del Servizio di Mediazione Familiare, Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale e Familiare, Napoli.

 

     
 


Il quadro di partenza

Le complesse e repentine trasformazioni economiche, sociali e culturali contemporanee e le condizioni di forte marginalità alle quali sono sottoposti, in modo crescente, individui e gruppi sociali, culturali ed etnici, stanno comportando un progressivo abbassamento della soglia di tollerabilità della convivenza umana, anche in aree storicamente caratterizzate da un clima relazionale positivo, con la conseguenza di una estensione ed esasperazione dei microconflitti sociali, culturali, etnici, etc... In Italia costanti flussi immigratori irregolari stanno determinando stanziamenti residenziali di gruppi dalle caratteristiche culturali ed etniche notevolmente distanti dalla cultura italiana, con il conseguente sbilanciamento della capacità di un ragionevole assorbimento dei medesimi flussi nel rispetto delle identità culturali ed etniche. Da più parti, ormai, sociologi, politologi e studiosi dei fenomeni sociali parlano di "losangelizzazione" delle città del futuro, sempre più in uno con le periferie degradate del suburbio, ma anche di "losangelizzazione" dei saperi e delle culture.
Viene assunta, pertanto, l'ipotesi che la formazione di operatori ad una corretta pratica di mediazione sociale e culturale, secondo l'approccio sistemico relazionale e del problematicismo pedagogico, possa costituire un investimento antideflagrativo della conflittualità per la società futura. Tuttavia, occorre stare in guardia da quello che può essere considerato un vero e proprio approccio "fideistico" o romantico alla capacità ricettiva di una cultura ospitante rispetto alle tante culture ospitate.


Mediazione e patto negoziale

La mediazione sociale e culturale non è una generica pratica socioeducativa fondata sulla buona volontà delle persone; essa, sul piano epistemologico, pone il problema, proprio anche a quello educativo, della doppia intenzionalità: intenzionalità sia del mediatore sia degli attori sociali e culturali, che lega tutti ad un patto negoziale senza il quale non è possibile l'impresa tanto mediativa quanto educativa. La mediazione è una pratica che esige lo sforzo di tutte le parti in causa e, quindi, è un percorso bilaterale o plurilaterale.
La mediazione, infatti, suppone la possibilità del cambiamento infra e fra le parti attrici ed anche che il cambiamento sia praticabile. Laddove le parti non accedono alla pratica della negoziazione ragionata dei conflitti interindividuali, culturali, sociali ed etnici, non ci può essere né educazione né mediazione in atto: ambedue i processi esigono la negoziazione ragionata del conflitto e la prescrizione al cambiamento che legittimano una intenzionalità normatrice reciproca, condizione necessaria per concreti accordi e successive rinegoziazioni. E' l'intenzionalità normatrice comune che consente alle parti di porre in essere valutazioni di adeguatezza teorica e pratica sugli accordi raggiunti, di negoziarne di nuovi e al mediatore di svolgere la sua funzione di catalizzatore delle risorse, facilitatore dell'impresa dialettica secondo quel principio di equità, ben noto a chi svolge tale ruolo, che consente un esito, fra le parti, del tipo "vittoria-vittoria".

Il mediatore, dunque, non sposa la causa anti-illuministica e falsamente laica dell'uguaglianza astratta (astratta, perché gli individui non sono uguali ma diversi nelle loro rispettive identità) e, quindi, anti-libertaria, ma quella della valorizzazione della coesistenza e del riconoscimento delle differenze assolute nel nome di un confronto che non ammette compromessi, nascondimenti, deleghe, bensì costante legittimazione della individuale e gruppale volontà di ex-sistere cioè di venire fuori dall'anonimato per essere soggetto epistemico storico. Ciò esige il riconoscimento e il rispetto reciproco delle soggettività (up/up).
In tale prospettiva, occorre chiarire che il mediatore non si pone (inter)fra le culture, ma consente ad esse di incontrarsi face to face in un set relazionale facilitante l'incontro. Terzo fra le parti, il mediatore è imparziale, schivo da pregiudizi negativi o positivi. Pur riconoscendosi egli stesso figlio della sua cultura di appartenenza, ne controlla la storia e il suo percorso attraverso il tempo e lo spazio, ne gestisce le implicazioni emozionali, sociali, politiche; è consapevole della sua struttura condivisa di pensiero della quale è debitore per ciò che è stato, per quello che è e sarà.


Mediazione e cambiamento

Le presenti riflessioni tendono ad evidenziare la ricaduta fortemente metabletica - orientata al cambiamento - di una corretta pratica di mediazione; essa viene prospettata, ad un tempo, come socialmente efficiente ai fini della capacità gestionale dei conflitti socioculturali, ma anche come pedagogicamente efficace ai fini del processo autoformativo delle persone, consentendo benefici e riduzione dei costi e, soprattutto, di investire sulle lunghe scadenze. La mediazione, da questo punto di vista, può essere considerata e, in questa sede, viene proposta come una pratica di "lifelong learning". Questo approccio, tuttavia, esige lo smascheramento ideologico di tutte quelle pratiche che - nel nome dell'uguaglianza e del rispetto astratto delle differenze - non prescrivono il cambiamento offrendo, di fatto, servizi di assistenza, custodia e invocano l'adesione a quel sentimento di tolleranza foriero di un relativismo identitario individuale, sociale, culturale, etnico, il quale - nel nome di una non ben precisata pax universale e di un "nirvana" delle emozioni - finisce con l'impedire ogni sforzo teso all'autentica, quanto sofferta, comprensione delle rispettive identità e alla concreta possibilità di gestione dei conflitti. Tali operatori finiscono con il frapporsi e con l'impedire il manifestarsi esplicito del conflitto, costituendosi come un vero e proprio cuscinetto o ammortizzatore sociale e culturale; tuttavia, i conflitti talvolta, nonostante tutto, esplodono e assumono una connotazione distruttiva.

La società delle identità individuali e plurime ammette un "sano eclettismo", ma non le ibridazioni che in realtà potrebbero nascondere le identità rendendo tutti deboli. Una società frutto di ibridazioni e meticciamenti darebbe luogo ad una società orizzontale, priva di un patto negoziale in grado di porre tutti nella tensione euristica verso il necessario cambiamento; sarebbe una società chiusa, tendente all'isolamento, priva di afflato apprenditivo perché non favorirebbe lo scontro dialettico che conduce al cambiamento; sarebbe una società spettrale senza storia e priva di futuro. In definitiva, sarebbe una società che non è in grado di generare il nuovo, che non proverebbe emozioni, priva di spessore; costruirebbe in orizzontale cioè allargando ed omologando, preoccupandosi di curare il malessere individuale e sociale attraverso lo svelamento dei soli fraintendimenti e malintesi linguistici, terminologici, comportamentali, in ciò pensando di accrescere la coincidentia oppositorum e, in realtà, senza nulla restituire in termini di accrescimento delle identità in co-evoluzione. E' il lavoro di chi teme il conflitto e lo non ammette come risorsa positiva, perché non sa come gestirlo, come trasformarlo, perché non accetta la sfida evolutiva che è dentro ogni autentico apprendimento, riducendo quest'ultimo al solo aspetto dell'informazione e del trattamento "indolore" di esso (apprendimento "0").

Il trattamento indolore dell'informazione è ciò che rende questa (= l'informazione) asettica, neutrale, innocua, snaturata però della identità più profonda, che la rende oppositiva, rendendola accettabile, o socialmente e culturalmente "degradabile", smorzando in tal modo la contesa; tuttavia, la sola eliminazione del pregiudizio e dello stereotipo non favorisce la co-esistenza e la co-evoluzione, allontana semplicemente il momento dello scontro. La "creolizzazione" delle culture, contrariamente a come sostengono molti interculturalisti, non favorirebbe né rispetterebbe le identità, anzi le indebolirebbe fino a farle scomparire e comportando, così, l'esatto contrario di ciò che essi vorrebbero difendere e cioè le differenze e le rispettive identità. Occorrerebbe, per esempio, chiedersi perché mai in Europa non abbia attecchito l'esperanto: ostinata radicalizzazione dei nazionalismi o esigenza di tutela delle identità? Chi scrive si rende ben conto che quanto si viene affermando nella presente relazione non è, come sostengono alcuni, politically correct perché contro tendenza.


Prospettive della mediazione sociale e culturale

Il vero problema del mediatore sociale, etnico e culturale non è quello di aggiungere mere informazioni, e quindi non è di tipo toponomastico - contro ogni riduzionismo derivante dall'approccio definito dei "malintesi" e dei "fraintendimenti" - ma è quello di ordinare e, quindi, è un problema di tipo metodologico che si fa carico dell'attuale over inclusion propria di una società cosiddetta policentrica. Infatti, l' over inclusion - tipica delle società policentriche - se "distrugge" coloro che hanno una struttura mentale rigida non di meno invade chi ha una struttura debole. Il mediatore, equamente, consente agli uni e agli altri, la titolarità della propria soggettività e dell'espressione di essa, favorendo la gestione del conflitto che è possibile soltanto attraverso l'accettazione della sfida co-evolutiva e, quindi, dell'apprendimento-cambiamento. Il mediatore aiuta le soggettività, singole e collettive, a cercare in profondità le radici della diversità che sono dentro le identità tanto individuali quanto gruppali. Egli, quindi, sollecita a definire le identità, non a renderle aleatorie, confuse; un mediatore sa bene che le identità definiscono le differenze e che l'apprendimento avviene per differenza non per sovrapposizione né tanto meno per omologazione. In questo senso, la circolarità delle informazioni che il mediatore favorisce fra individui, gruppi sociali e culturali non deve essere confusa con il livello "0" dell'apprendimento; si tratta, piuttosto, di una circolarità di tipo ellissoidale che ammette l'incrementabilità delle informazioni e quindi il passaggio, non indolore, da un livello all'altro della situazione apprenditiva.

Il mediatore, infatti, lavora sulle situazioni apprenditive, facilita la loro co-evoluzione, innesca "costanti" che favoriscono il cambiamento o quanto meno la non reiterazione cronica delle medesime situazioni apprenditive o una condizione meramente combinatoria. D'altra parte, il set della mediazione è un set forte e la negoziazione ragionata uno strumento parimenti forte che non ammette la coincidentia oppositorum, ma al contrario l' accettazione della radicalità delle differenze e in pari tempo della loro necessità co-costruttiva del contesto di vita. Questo costituisce il paradosso primario dei processi di apprendimento e questo il bivio decisivo per ogni considerazione pedagogica che ammetta la negoziazione ragionata della prescrizione al cambiamento cioè dell'intenzionalità della relazione co-educativa fra gli attori sociali e culturali e mediativa dell'operatore rispetto agli individui e ai gruppi.

Se la mediazione sociale e culturale si limitasse ad integrare, oltre che a contraddire l'etimologia stessa del termine, rischierebbe di essere più pericolosa che efficace. Se, al contrario, si proponesse di sovvertire il mondo non potrebbe che venire espulsa come un corpo estraneo da quel gruppo e da quella cultura che le richiede di perpetuare la propria aggregazione e identità. Alla mediazione il compito di assumere interamente il paradosso di una continuità che permetta il cambiamento e di un cambiamento che non pregiudichi l'identità, evitando in tal modo ogni rischio di debordamento. Non si tratta di trovare una qualche via di mezzo, una mediazione che con un colpo al cerchio e uno alla botte salvi un po' dell'una e un po' dell'altra: l'identità deve essere forte per avere un senso e il cambiamento deve essere efficace per non vanificare il suo ruolo adattivo. Il paradosso va dunque assunto nella sua interezza e nella sua radicalità facendo convivere - non coincidere - due spinte assolutamente opposte, senza pretendere di ridurre la complessità che deriva dalla loro coesistenza. Anzi il mediatore impegna il conflitto per far emergere le risorse positive neglette; non lo teme perché sa che è fisiologico, sa che appartiene alla spinta evolutiva dei sistemi.

Questa condizione assume una cogenza inedita nel mondo contemporaneo, caratterizzato da processi di differenziazione diffusi e rapidi e da una molteplicità di soggetti che, per affrontare le trasformazioni, resistono a quei cambiamenti che rappresentano invece la vera "coerenza" del sistema a cui appartengono. E questo è esattamente il vero problema di ogni educatore e mediatore: far scoprire la coerenza come istanza metodologica evolutiva di ogni sistema vivente umano e non come principio di volta in volta morale, comportamentale, contenutistico sempre identico a se stesso, fisso di una fissità che si lascia sfuggire l' hic et nunc della vita; una coerenza che falsamente ci libera dalle dipendenze costituite dal contesto nel quale siamo immersi dalle origini dei tempi e sin dall'inizio della nostra vita individuale e sociale.

In questa prospettiva, la negoziazione ragionata fra individui che vogliono essere attori è ricerca di una intenzionalità foriera di un'autonomia mai considerata come qualità del soggetto, bensì come qualità del rapporto tra il sistema ed il suo ambiente di vita. Il percorso evolutivo individuale e/o di gruppo viene qui descritto come una sequenza non lineare di "scatti" di autonomia implicanti la complessificazione del proprio sistema di dipendenze. Il risultato di questa evoluzione è che il grado di autonomia raggiunto ad ogni momento della vita può essere descritto a partire dal grado di complessità che riusciamo ad assegnare al nostro sistema di dipendenze. Una complessità che va analizzata sia nei termini della loro quantità sia nella loro tipologia. La misura della dipendenza sta nel riconoscimento del lutto della perdita: se una perdita produce un lutto, questo vuol dire che da ciò che si è perso in qualche modo si dipendeva. Ma la complessità delle dipendenze è anche ciò che garantisce la propria sopravvivenza. Del resto se crescere significa attraversare via via livelli superiori di complessità della propria esperienza anche tramite l'articolazione delle proprie dipendenze, ridurle significa inevitabilmente banalizzarsi. La banalità, poiché trascina con sé la rigidità degli schemi comportamentali e l'incapacità di elaborare risposte flessibili ai problemi, è l'esatto opposto dell'autonomia.

Quindi il problema non va colto sul piano etico, come il termine potrebbe far pensare, ma su quello adattivo: un'esistenza banale è un'esistenza fragile che un qualsiasi evento al di fuori delle poche risposte a disposizione tende a distruggere allo stesso modo di un'esistenza rigidamente strutturata, certa delle poche certezze possedute.
L'autonomia, quindi, è una forma di sviluppo che non riduce ma articola la dipendenza dall'ambiente cioè dagli altri sistemi, consentendo la scelta e la capacità di scelta è indice di un agire più o meno libero e, dunque, etico.
In questo senso, l'attività del mediatore sociale, culturale è proprio quella di far emergere l'autonomia dei soggetti dall'interno della scoperta della loro interdipendenza, in ciò favorendo la possibilità della scelta; la complessità della scelta e delle sue possibili articolazioni, poi, è indice del grado di libertà raggiunto da un sistema umano. Il setting della mediazione, partendo proprio dalla definizione delle rispettive posizioni, consente ai soggetti e ai gruppi di individuare e prendere atto delle molteplici interdipendenze che li vincolano, costringedoli anche a prendere atto delle rispettive identità confligenti, nello stesso tempo accresce il grado di autonomia facendo scoprire in ciò la possibilità di definire la scelta, cioè il cambiamento, attraverso il vincolo metodologico della negoziazione ragionata che istituisce la co-intenzionalità normatrice dei soggetti partecipanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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