Introduzione

3 WMF ITALIA 2000

LA FORMAZIONE DEL MEDIATORE.
Dall'esperienza formativa alla riconsiderazione epistemica della figura del mediatore.

ROBERTA DE MARTINO,
LAURITA FACCHINETTI,
GENNARO GALDO,
BRUNO SCHETTINI,

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LA FORMAZIONE DEL MEDIATORE.
 




Country:
Italy

Language:
Italian


L'esperienza

Ciò che ha caratterizzato gran parte dell'esperienza didattica volta alla formazione del mediatore familiare, presso l'I.S.P.P.R.E.F. di Napoli, è stata la possibilità di creare un'esperienza formativa di "secondo livello" finalizzata, cioè, sia a far acquisire un corpus teorico e abilità operative di tipo professionale, sia alla stimolazione della competenza autoriflessiva del soggetto adulto in formazione, attraverso il costante richiamo, esplicito e/o implicito, alla personale storia di vita (familiare, scolastica, lavorativa, affettiva, relazionale). Ciò consente al soggetto in formazione di moltiplicare la possibilità di personale significazione e cambiamento e provoca, al proprio interno, trasformazioni altrimenti impensabili, senza alterare la coerenza del proprio sistema, ma abilitandolo a comprendere quali meccanismi regolativi attivare nei futuri adulti-clienti per la loro personale crescita.

Da questa impostazione scaturiscono due riflessioni. La prima è legata alla natura del processo apprenditivo in età adulta. L'adulto, in particolare, ha un bisogno costante di affermare la propria autonomia relazionale e incrementabilità conoscitiva; perciò, è possibile considerare che ogni formazione è autoformazione nella misura in cui è lo stesso sistema vivente che, attraverso la sua struttura e il suo funzionamento, stabilisce che cosa fare di ciò che ha imparato e che cosa imparare di ciò che fa. La seconda riflessione è una necessaria integrazione della precedente; la precedente, infatti, ha il limite di incentrare ed esaurire la processualità apprenditiva all'interno del soggetto titolare del percorso, accantonando da un lato il contesto della relazione apprenditiva e dall'altro quasi ignorando il ruolo del formatore; la "formazione come organizzazione" e il suo dispiegarsi all'interno del "gruppo in formazione" costituiscono, invece, la risposta all'eccessivo individualismo apprenditivo che sembra avere generato e consolidato, nella nostra società, percorsi individuali e collettivi fortemente autoreferenziali, antagonistici, conflittivi.
Tutto ciò ha condotto il gruppo dei didatti a ritarare costantemente l'offerta della relazione formativa e a rivalutare la figura del didatta quale elemento, a sua volta, mediatore fra l'istanza formativa e la crescita individuale e del gruppo, facilitatore dell' "esposizione" apprenditiva di ciascuno all'interno di un percorso caratterizzato dal comune scopo di formarsi alla funzione mediativa. La presenza del didatta non nega né l'autoapprendimento, né l'autoformazione se si considera che non si dà autoformazione senza una preformazione attenta ad evitare sia la dipendenza dalla dimensione formativa tradizionale sia il solipsismo dell'autodidatticità.



La riflessione

A questo punto, si potrebbe tratteggiare una fenomenologia della relazione didattica così come emerge dall'esperienza. Entrambi i soggetti principali dell'interazione: didatta e corsista/gruppo dei corsisti sono legati al comune destino formativo/autoformativo che li unisce facendoli entrare in contatto grazie ai limiti che i ruoli reciproci permettono loro. Più la relazione formativa è autentica, più il ruolo di ciascuno funziona come decodificatore semantico dell'esperienza individuale e di gruppo che può essere immessa nel setting della formazione senza pregiudicarne i caratteri, ma confermando anzi la struttura asimmetrica sulla quale si fonda. Nello stesso tempo, per quanto di sé ognuno riesca ad esprimere attraverso il ruolo che riveste, il sé trascende comunque l'interazione formativa salvaguardando l'autonomia sia dei soggetti nei confronti della relazione didattica, sia viceversa. Per il corsista in formazione non può che essere di grande valore potersi rispecchiare non in un formatore tutto d'un pezzo che si confonde con il vestito che indossa, ma in una persona che affronta il suo stesso problema anche se visto dall'altra parte del mondo. E' corretto pensare, dunque, che un setting è tanto più ricco quanto più le persone che vi sono immesse possono esprimere se stesse attraverso il filtro del ruolo che occupano. Ciò è possibile se si considerano i ruoli non come dei setacci della propria personalità che a seconda della larghezza delle maglie lasciano cadere parti più o meno estese ed interessanti di sé trattenendone altre, ma come codici di interpretazione della propria esperienza che possono quindi potenzialmente restituire per intero anche se elaborata sul piano particolare che la caratterizza.

Ciò che è significativo - nell'esperienza formativa della quale si sta tratteggiando il profilo - non è quello che si apprende, ma il modo con cui tutto ciò accade. Non sono le conoscenze che garantiscono autonomia a chi le possiede, ma la capacità di manipolarle adattandole al nuovo che di volta in volta si incontra e quindi non è l'oggetto dell'apprendimento ad essere fondamentale per lo sviluppo individuale e di gruppo, ma il suo processo, la full immersion nell'esperienza sincronica (contenuto/emozioni/contesto) di apprendimento. All'interno del setting, la condizione di dipendenza che caratterizza il corsista/gruppo permette la sperimentazione di una molteplicità di forme di apprendimento che autonomamente non verrebbe esplorata, alla ricerca invece di un metodo valido, di un contenuto certo. Questa è la caratteristica propria del neofita alle prime armi del suo apprendistato.


La prospettiva

All'interno del setting offerto dal gruppo dei didatti è, dunque, possibile imparare, entrando in relazione con i problemi che si incontrano e che in futuro si incontreranno, provando diversi modi per farlo e cercando di comprendere al tempo stesso le proprie reazioni e le proprie strategie evitando la tentazione sempre in agguato di affidarsi alla prima soluzione individuata o al "guru" del gruppo dei didatti. Inoltre, il setting implica la relazione con altri soggetti che apprendono e questo offre modelli cui fare riferimento e strategie differenziate che legittimano con la loro stessa esistenza la ricerca di quelle personali. Infine, nel setting l'imparare è sempre un imparare da qualcuno che è lì proprio per garantire a ognuno la possibilità di apprendere ben più di ciò che gli permette la sua propria esperienza rendendo possibile l'accesso a quella degli altri. Naturalmente il fatto che tutto ciò sia possibile non ne garantisce affatto l'automatismo e per questo motivo il gruppo dei didatti è costantemente allertato a riflettere, ridisegnare, riproporre, confrontarsi con gli altri colleghi; il gruppo dei didatti, mutatis mutandis, vive e sperimenta su di sé la stessa dinamica del gruppo dei formandi.

D'altronde, se l'unica cosa che un formando deve imparare in una struttura formativa fosse solo ciò che gli viene insegnato come farebbe a imparare ad imparare? Come potrebbe sviluppare la propria capacità di apprendere senza qualcuno che gli indicasse la strada per farlo e nello stesso tempo gli offrisse la possibilità di percorrerla insieme? L'apprendimento prende forma attraverso e dentro la relazione in atto; la sua qualità dipende dalla qualità della relazione posta in essere.

Di qui la comprensione che il lavoro di formazione dei didatti si fonda su due distinte dimensioni: da una parte, la strutturazione dell'esperienza apprenditiva che il didatta deve progettare e condurre nel migliore dei modi possibili, all'interno dei vincoli esistenti; dall'altra, la necessità dell'elaborazione di quello che, comunque, accade anche al di là del previsto. Ciò che infatti è negativo, sul piano del vissuto immediato, può trasformarsi in un qualche significato per gli attori della scena. I significati sono sempre positivi sul piano formativo, perché permettono di sviluppare la complessità del proprio patrimonio simbolico e di conseguenza la propria capacità di apprendimento. Inoltre, cogliere i significati di un'esperienza negativa implica comprendere il senso dei vincoli che l'hanno prodotta e dunque la possibilità di agire su di essi per modificarli o per trasformare gli effetti. L'apertura semantica della quale il lavoro formativo necessita si sposa di più con i quesiti che non con le affermazioni di certezza, con le ipotesi più che con le tesi, con l'ascolto che con la perorazione. Il chiedere, l'immaginare e l'ascoltare lasciano che l'esperienza parli di sé, aggiungendo quindi elementi di comprensione al semplice e naturale fatto di viverla. In termini fenomenologici si tratta di "mettere tra parentesi" ciò che accade per cogliere la relazione tra il fatto e i suoi protagonisti, riportando in tal modo al centro dell'attenzione il ruolo di ciascun soggetto in formazione, l'interazione formativa e il suo setting.

E' il didatta, infatti, il garante di questa possibilità, non tanto per delle capacità che potrebbe avere o non avere, ma per il suo stesso ruolo. Nessuno come un didatta è costretto continuamente a chiedersi il senso di quello che sta facendo, anche se evita accuratamente di farlo. Per il solo fatto di esserci, di stare con e in mezzo al gruppo, il didatta immette la relazione con il formando in una condizione di apertura che può anche venire richiusa immediatamente, ma al prezzo di ineliminabili tensioni, conflitti. Il ruolo del didatta implica un setting che giustifichi questa condizione di apertura e un contratto che la istituisca. E la interazione formativa regolata da un setting fondato sulla presenza del formatore è il primo mondo ad essere disvelato dalla propria autoriflessività. Ciò che appare con la riflessione sull'esperienza formativa che si vive, dopo il suo carattere di artificialità e di metafora, è il suo essere "autoeducante", cioè irriducibilmente orientata ad interrogarsi su se stessa.


La domanda ricorrente di ricerca

Ci si potrebbe chiedere se quanto illustrato sia soltanto un'alchimia astratta, un'ipotesi sofisticata di lavoro da attuare ancora oppure una tensione in atto. Stiamo descrivendo ciò che non solo accade, ma che non può non accadere. La domanda, allora, è un'altra: cos'è che impedisce il pieno dispiegarsi di ciò che - di fatto - non deve essere creato dal nulla, ma che c'è già sempre nei contesti formativi caratterizzandone la struttura profonda? Questo è un percorso di ricerca ben più interessante, che potrebbe condurci, come di fatto ci sta conducendo, ad affrontare il problema dei linguaggi e dei paradigmi scientifici e culturali capaci di vedere una realtà fenomenica che quelli imperanti occultano. Il setting, l'apertura semantica, l'oggetto intenzionale dell'esperienza educativa, l'autoriflessività come sospensione del giudizio quotidiano sul mondo, l'interazione formativa tematizzata come primo e fondamentale universo di significato che emerge dall'elaborazione didattica, il contratto come pratica di istituzione del setting, la struttura metaforica del laboratorio esistenziale sul quale ogni agenzia formativa si regge, non sono dispositivi da attivare, ma fatti da vedere attraverso un linguaggio che ne sappia parlare e rendere ragione. E' alla ricerca di questi fatti che il gruppo dei didatti dell' I.S.P.P.R.E.F. è partito da tempo, per mostrare a se stesso, agli altri e ai propri gruppi in formazione la possibilità e la necessità.

 





Operatori del Servizio di Mediazione Familiare, Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale e Familiare, Napoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia di riferimento:

 
 
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- Id., La danza che crea, Milano, Feltrinelli, 1992;
- de Mennato P., Fonti di una pedagogia della complessità, Napoli, Liguori, 1999;
- Foerster von H., Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987;
- Galdo G., Trapanese G., Dall'oggetto fisico all'oggetto metaforico: un tentativo di approccio interdisciplinare, in S.I.T.F., (a cura di), La formazione relazionale. Individuo e gruppo nel processo di apprendimento, Atti del II Convegno Italiano dell'I.T.F. di Roma, Roma, S.I.T.F., 1988;
- Maturana H.R., Varela F.J., Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio, 1992;
- Villamira M.A., Roggeroni L.D., Inter Actio o dell'interazione tra sistemi, Milano, FrancoAngeli, 1999;
- Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971;
- Watzlawick P., La prospettiva relazionale, Roma, Astrolabio, 1976;
- Watzlawick P., (a cura di), Il linguaggio del cambiamento, Milano, Feltrinelli, 1980;
 

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