Introduzione

3 WMF ITALIA 2000

Le vittime e la mediazione

MARIA ROSA MONDIN

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Le vittime e la mediazione

 
Country:
Italy

Language:
Italian

In quale ambito è possibile iniziare un percorso per incontrare il conflitto? La mia riflessione inizia con una domanda che è formalmente retorica perche' laddove - nella scuola, nella famiglia, nel territorio - è presente un conflitto, sia esso latente o conclamato fino a sfociare nel reato, quel conflitto appartiene alla esperienza del vivere, e' frutto delle nostre diversità e delle nostre contraddizioni.

Non intendo addentrarmi nella problematica della vittimologia cosi come questa viene attualmente considerata, ne' chiedermi se si debba parlare di vittimologia scientifica o umanistica o se occorra ricondurre la vittimologia unicamente all'ambito del reato. La mia riflessione è ora esclusivamente sulla vittima nella sua accezione più ampia e nei vari contesti ostili di comunicazione di chi fa' e/o subisce una violenza.

La mediazione propone uno spazio ed un tempo privilegiati:
- per incontrare il disordine e la violenza che spesso ne deriva,
- per riattivare una comunicazione che si è interrotta o non è mai esistita.

La mediazione mette di fronte i due attori del dramma; il dramma nato dal fatto che due violenze si confrontano, siano esse subite o commesse. La mediazione inizia laddove il conflitto non ha più via di uscita. La mediazione offre la possibilità di esprimere le emozioni, di confrontarle, di identificare i sentimenti che sono all'origine della rottura della relazione. Ognuno deve essere riconosciuto nella sua sofferenza, sofferenza che di per se' genera una violenza soggetta ad esprimersi in vario modo, verso se stessi o verso gli altri.

La mediazione si iscrive in un processo millenario attraverso il quale l'uomo cerca di conoscersi più a fondo e di risolvere le sue contraddizioni. Essa rispecchia un bisogno fondamentale di incontrare se stessi, attraverso la sofferenza dell'altro.
Medianti e non mediati sono le parti in conflitto per riconoscere con il primo termine la partecipazione attiva nella mediazione, luogo della comunicazione confidenziale, spazio di parola, di accoglienza, di libertà.

I mediatori non sono giudici, arbitri o consiglieri, non biasimano, non accusano, non formulano giudizi. Non hanno potere, aiutano semplicemente le parti in conflitto ad esprimere la loro esperienza ed i loro sentimenti. Riconoscere l'alterità è il primo passo verso la risoluzione del conflitto. I mediatori avranno così assunto il ruolo di catalizzatori, facilitando il dialogo e proponendosi come specchio capace di riflettere le emozioni delle parti. I mediatori coglieranno il non detto, aiutando man mano gli antagonisti a prendere coscienza di una realtà di cui non sospettavano l'esistenza. Questo percorso si rivela fatto di ascolto empatico, parola e condivisione, accettazione della diversità, possibile riconciliazione e soluzione del conflitto o quanto meno di un nuovo modo di affrontare il conflitto stesso.(1)

La mediazione può essere complementare alla giustizia perche' essa é il luogo, il momento in cui la vittima può esprimere la sua sofferenza, puo' esternare il sentimento della sua dignita' offesa. La mediazione crea una occasione di contatto e di incontro tra persone che altrimenti sarebbe stato impossibile. La vittima puó prendere la parola. Ed è solo nel contesto della mediazione che probabilmente chi ha subito una violenza e ha per questo un istintivo desiderio di vendetta, può, manifestando liberamente la sua volontà di mediare, convertire quel desiderio in un sentimento di riparazione simbolica prima ancora che materiale.

Lo stesso puo' essere detto per colui che "agisce il conflitto" o il reo, che qui per la prima volta ha la possibilità di esprimersi con un gesto positivo.
Questi sono i concetti ripresi nei Convegni sulla mediazione e negli studi di chi si occupa di mediazione - non solo in ambito penale - e sui quali ritengo fondamentale per la mia relazione richiamare l'attenzione.

L'esperienza fatta a Parigi nel Centro di Mediazione e Formazione alla Mediazione - il C.M.F.M., diretto da J.Morineau, opera dal 1984 e ha trattato duemila mediazioni in campo penale, e anche in quello sociale, familiare e scolastico - mi ha indotto a ritenere possibile il percorso di mediazione dopo la denuncia e prima del giudizio; dopo il giudizio, durante la detenzione o il percorso alternativo ed anche a pena espiata. Questo perché la mediazione consente di ritrovare il presente e di dare senso al futuro, stimolando l'autoresponsabilizzazione

Ritengo pertanto che la cultura della mediazione debba occupare un ampio spazio che va al di là della cornice normativa del processo penale minorile e come tale assumere un ruolo di prevenzione del reato e della sua recidivitá.
In questo contesto presento tre casi esemplificativi di mediazione.

Caso numero Uno

Il conflitto nasce tra i genitori di un bimbo di quattro anni. I due, da due anni, sono separati consensualmente. Fra di loro riemergono le incomprensioni, quando l'ex marito inizia una nuova convivenza. I rapporti tra il padre non affidatario e il bambino si interrompono quando la madre impedisce che il figlio frequenti la casa del padre che intende in particolare prepararlo alla nascita di un fratellino. La collera di entrambi, il pianto della madre per il tradimento e la sua solitudine; la mortificazione del padre per la sua responsabilità verso la madre, la sofferenza del padre e quella della madre: tutto questo è stato sperimentato in mediazione. Il passaggio "catartico" è avvenuto quando c'è stata la disponibilità a riconoscersi. La madre si confrontava con la sua paura e la riconosceva, il padre riconosceva la paura della madre di essere estromessa dalla vita del figlio, piu' la paura per la nuova compagna, percepita come la persona che poteva usurpare il suo posto nell'affetto del bambino. La sofferenza del padre, ostacolato nella organizzazione del suo nuovo nucleo familiare, veniva riconosciuta dalla madre nel momento in cui dava un nome alla sua paura, riconosciuta dal marito stesso che non mandava più messaggi svalutanti con il suo atteggiamento di insofferenza. I due hanno trovato il modo di parlarsi e di preparare il bambino che desiderava conoscere il fratellino.

Quello del tradimento é un duro cammino ed il desiderio di rivalsa può diventare ossessivo, spostando il fuoco dell'attenzione dall'evento del tradimento e dal suo significato verso la persona del traditore. Il meccanismo di difesa della negazione ci porta a negare l'altro. Più pericoloso è il cinismo, il tradimento dei nostri stessi ideali, ma il pericolo più grave è il tradimento di sé, in quanto non si vuole più avere contatto con la sofferenza.
Quando si rompe un amore, un matrimonio, una amicizia ci ritroviamo a comportarci esattamente nello stesso modo che attribuiamo all'altro e a giustificare le nostre azioni con un sistema di valori che non ci appartiene. Allora sì siamo davvero traditi perche' ci consegniamo al nemico interno; rifiutiamo di essere quello che siamo. Anziché soffrire, tradiamo noi stessi. Il risentimento cresce perché chi è stato tradito ha bisogno di essere riconosciuto nella sua sofferenza (2).

La madre in questo caso era consapevole che i rapporti del figlio con il padre dovevano essere ripresi. Anche il padre lo era, ma i due non trovavano le parole e l'ascolto reciproco per una comunicazione che oltrepassasse il muro dell'incomprensione. Solo quando ognuno ha sentito la sofferenza dell'altro, tutti e due si sono sentiti riconosciuti.
In un secondo incontro, a distanza di tempo, la madre riferisce che il figlio frequenta regolarmente la casa del padre e dai suoi racconti non condizionati ha capito che la compagna del padre non invade il rapporto, tornato sereno, fra padre e figlio. La madre si sofferma sulla paura, ormai passata, nei confronti della nuova compagna, paura ora riconosciuta per quel che é e che prima veniva "mascherata" con altre paure, più oggettive, legate al quotidiano del bambino.


Caso Numero Due

Genitori ed il figlio di 16 anni: siedono in silenzio e chiedono di essere ricevuti separatamente. La madre e il padre raccontano che il ragazzo e' stato buono e bravo fino alla terza media e che ora é cattivo. Hanno un secondo figlio più piccolo e non vogliono che questo venga contagiato dal comportamento irregolare del figlio più grande di cui non condividono le scelte. La loro rabbia è al culmine. Dicono che il figlio non si lava, non tiene in ordine la propria stanza, entra ed esce da casa come fosse un albergo; frequenta il mondo punk. Il figlio ha interrotto gli studi di formazione-lavoro alla soglia della qualifica. I genitori gli fanno grandi rimproveri, parlano di tradimento, non reggono, arrivano ad usare la parola "istituto". Considerano di allontanarlo dalla famiglia.

Il ragazzo dal canto suo parla di assoluta incomprensione e di intolleranza da parte dei genitori. Dice che quelli sono arrivati a parlare di cacciarlo di casa. Si sente non accettato. Dice di fare un lavoro diverso da quello per cui aveva studiato, ma uno che si è cercato da solo perché gli piace. Non è un lavoro che svolge regolarmente in quanto il datore di lavoro lo chiama secondo le ordinazioni.

Il conflitto tra le persone padre, madre, figlio tocca il cuore stesso del dolore. I genitori del ragazzo punk sottolineano: "Era buono, è buono, ma non c'è più niente da fare". Il ragazzo sottolinea: "Con il loro comportamento mi fanno sentire una nullità".
Che cosa è stato offerto loro nel momento in cui hanno accettato di continuare l'incontro insieme? E' stato messo a loro disposizione uno spazio di parola, uno specchio nel quale riflettere il loro sentire con grande umiltà senza la paura del silenzio. Alla fine, diversamente da come erano arrivati, sono usciti assieme, consapevoli di una mediazione che, con una apertura al dialogo, era appena incominciata.

Caso Numero Tre

Il grande contrasto è tra genitori e un figlio di 15 anni.
I conflitti a scuola con i compagni, con gli insegnanti, con il preside si traducevano in comportamenti disturbanti, in aggressività e assenze. Continue sospensioni, qualche ripetenza era la risposta. L'istituzione e il ragazzo si difendevano come potevano fino ad arrivare al ritiro da scuola, per non compromettere il risultato dell'ultimo anno e la preparazione da privatista, con l'aiuto di strutture pomeridiane del territorio.
Alla base, prima del disagio, c'è l'interruzione della relazione comunicativa anche in famiglia, c'e' una fortissima sofferenza e il passaggio da questa alla negazione di se stesso, alla perdita di interesse, all'aggressività.

Il ragazzo rimproverava alla scuola di "avercela" con lui e per questo di infliggergli le punizioni. Ai genitori rimproverava di averlo messo in collegio per più tempo rispetto ai fratelli, quando e' nato il fratello più piccolo. Perché proprio lui era rimasto via più degli altri?

La madre parla di difficoltà nell'organizzazione familiare con due figli di età ravvicinata. Secondo lei, questo figlio avrebbe avuto più attenzioni degli altri e sarebbe rimasto via meno degli altri. Lei racconta che quando gli portava dei giocattoli lui li rompeva. La madre sottolinea la grande sensibilità del figlio.
Il ragazzo, dal conto suo, si sentiva punito due volte: prima dalla scuola, poi dalla famiglia per la mancata accoglienza e il mancato riconoscimento.

Anche in questo caso é stato possibile aprire un dialogo tra gli insegnanti
della classe e il ragazzo fino al buon esito del percorso scolastico e tra il ragazzo
e i genitori.

Quando all'inizio di queste riflessioni ponevo l'accento sulla vittima nella sua accezione più ampia era perché penso che la vittima, qualunque sia stato il modo con cui è diventata tale, abbia bisogno di avere la parola, di essere ascoltata con empatia e di essere riconosciuta come vittima. L'offesa, se non è ricordata dagli interessati al conflitto fino al reato conclamato e riconosciuta come offesa o reato, ricade tutta sulla vittima in quanto lei, vittima, non è riconosciuta nella sua dignità ferita e nella sua sofferenza.

Perche' possa esserci una rinascita e perche' i confliggenti possano uscire dal loro ruolo nel dramma-conflitto o nel dramma-reato, e' necessario attraverso alcuni passaggi arrivare alla catarsi dopo la esposizione dei fatti e dopo la crisi conclamata. Solo cosi i ruoli non rimangono cristallizzati.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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