Country:
Italy
Language:
Italian
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In
quale ambito è possibile iniziare un percorso per incontrare il
conflitto? La mia riflessione inizia con una domanda che è formalmente
retorica perche' laddove - nella scuola, nella famiglia, nel territorio
- è presente un conflitto, sia esso latente o conclamato fino a
sfociare nel reato, quel conflitto appartiene alla esperienza del vivere,
e' frutto delle nostre diversità e delle nostre contraddizioni.
Non intendo addentrarmi nella problematica della vittimologia cosi come
questa viene attualmente considerata, ne' chiedermi se si debba parlare
di vittimologia scientifica o umanistica o se occorra ricondurre la vittimologia
unicamente all'ambito del reato. La mia riflessione è ora esclusivamente
sulla vittima nella sua accezione più ampia e nei vari contesti
ostili di comunicazione di chi fa' e/o subisce una violenza.
La mediazione propone uno spazio ed un tempo privilegiati:
- per incontrare il disordine e la violenza che spesso ne deriva,
- per riattivare una comunicazione che si è interrotta o non è
mai esistita.
La mediazione mette di fronte i due attori del dramma; il dramma nato
dal fatto che due violenze si confrontano, siano esse subite o commesse.
La mediazione inizia laddove il conflitto non ha più via di uscita.
La mediazione offre la possibilità di esprimere le emozioni, di
confrontarle, di identificare i sentimenti che sono all'origine della
rottura della relazione. Ognuno deve essere riconosciuto nella sua sofferenza,
sofferenza che di per se' genera una violenza soggetta ad esprimersi in
vario modo, verso se stessi o verso gli altri.
La mediazione si iscrive in un processo millenario attraverso il quale
l'uomo cerca di conoscersi più a fondo e di risolvere le sue contraddizioni.
Essa rispecchia un bisogno fondamentale di incontrare se stessi, attraverso
la sofferenza dell'altro.
Medianti e non mediati sono le parti in conflitto per riconoscere con
il primo termine la partecipazione attiva nella mediazione, luogo della
comunicazione confidenziale, spazio di parola, di accoglienza, di libertà.
I mediatori non sono giudici, arbitri o consiglieri, non biasimano, non
accusano, non formulano giudizi. Non hanno potere, aiutano semplicemente
le parti in conflitto ad esprimere la loro esperienza ed i loro sentimenti.
Riconoscere l'alterità è il primo passo verso la risoluzione
del conflitto. I mediatori avranno così assunto il ruolo di catalizzatori,
facilitando il dialogo e proponendosi come specchio capace di riflettere
le emozioni delle parti. I mediatori coglieranno il non detto, aiutando
man mano gli antagonisti a prendere coscienza di una realtà di
cui non sospettavano l'esistenza. Questo percorso si rivela fatto di ascolto
empatico, parola e condivisione, accettazione della diversità,
possibile riconciliazione e soluzione del conflitto o quanto meno di un
nuovo modo di affrontare il conflitto stesso.(1)
La mediazione può essere complementare alla giustizia perche' essa
é il luogo, il momento in cui la vittima può esprimere la
sua sofferenza, puo' esternare il sentimento della sua dignita' offesa.
La mediazione crea una occasione di contatto e di incontro tra persone
che altrimenti sarebbe stato impossibile. La vittima puó prendere
la parola. Ed è solo nel contesto della mediazione che probabilmente
chi ha subito una violenza e ha per questo un istintivo desiderio di vendetta,
può, manifestando liberamente la sua volontà di mediare,
convertire quel desiderio in un sentimento di riparazione simbolica prima
ancora che materiale.
Lo stesso puo' essere detto per colui che "agisce il conflitto"
o il reo, che qui per la prima volta ha la possibilità di esprimersi
con un gesto positivo.
Questi sono i concetti ripresi nei Convegni sulla mediazione e negli studi
di chi si occupa di mediazione - non solo in ambito penale - e sui quali
ritengo fondamentale per la mia relazione richiamare l'attenzione.
L'esperienza fatta a Parigi nel Centro di Mediazione e Formazione alla
Mediazione - il C.M.F.M., diretto da J.Morineau, opera dal 1984 e ha trattato
duemila mediazioni in campo penale, e anche in quello sociale, familiare
e scolastico - mi ha indotto a ritenere possibile il percorso di mediazione
dopo la denuncia e prima del giudizio; dopo il giudizio, durante la detenzione
o il percorso alternativo ed anche a pena espiata. Questo perché
la mediazione consente di ritrovare il presente e di dare senso al futuro,
stimolando l'autoresponsabilizzazione
Ritengo pertanto che la cultura della mediazione debba occupare un ampio
spazio che va al di là della cornice normativa del processo penale
minorile e come tale assumere un ruolo di prevenzione del reato e della
sua recidivitá.
In questo contesto presento tre casi esemplificativi di mediazione.
Caso numero Uno
Il conflitto nasce tra i genitori di un bimbo di
quattro anni. I due, da due anni, sono separati consensualmente. Fra di
loro riemergono le incomprensioni, quando l'ex marito inizia una nuova
convivenza. I rapporti tra il padre non affidatario e il bambino si interrompono
quando la madre impedisce che il figlio frequenti la casa del padre che
intende in particolare prepararlo alla nascita di un fratellino. La collera
di entrambi, il pianto della madre per il tradimento e la sua solitudine;
la mortificazione del padre per la sua responsabilità verso la
madre, la sofferenza del padre e quella della madre: tutto questo è
stato sperimentato in mediazione. Il passaggio "catartico" è
avvenuto quando c'è stata la disponibilità a riconoscersi.
La madre si confrontava con la sua paura e la riconosceva, il padre riconosceva
la paura della madre di essere estromessa dalla vita del figlio, piu'
la paura per la nuova compagna, percepita come la persona che poteva usurpare
il suo posto nell'affetto del bambino. La sofferenza del padre, ostacolato
nella organizzazione del suo nuovo nucleo familiare, veniva riconosciuta
dalla madre nel momento in cui dava un nome alla sua paura, riconosciuta
dal marito stesso che non mandava più messaggi svalutanti con il
suo atteggiamento di insofferenza. I due hanno trovato il modo di parlarsi
e di preparare il bambino che desiderava conoscere il fratellino.
Quello del tradimento é un duro cammino ed il desiderio di rivalsa
può diventare ossessivo, spostando il fuoco dell'attenzione dall'evento
del tradimento e dal suo significato verso la persona del traditore. Il
meccanismo di difesa della negazione ci porta a negare l'altro. Più
pericoloso è il cinismo, il tradimento dei nostri stessi ideali,
ma il pericolo più grave è il tradimento di sé, in
quanto non si vuole più avere contatto con la sofferenza.
Quando si rompe un amore, un matrimonio, una amicizia ci ritroviamo a
comportarci esattamente nello stesso modo che attribuiamo all'altro e
a giustificare le nostre azioni con un sistema di valori che non ci appartiene.
Allora sì siamo davvero traditi perche' ci consegniamo al nemico
interno; rifiutiamo di essere quello che siamo. Anziché soffrire,
tradiamo noi stessi. Il risentimento cresce perché chi è
stato tradito ha bisogno di essere riconosciuto nella sua sofferenza (2).
La madre in questo caso era consapevole che i rapporti del figlio con
il padre dovevano essere ripresi. Anche il padre lo era, ma i due non
trovavano le parole e l'ascolto reciproco per una comunicazione che oltrepassasse
il muro dell'incomprensione. Solo quando ognuno ha sentito la sofferenza
dell'altro, tutti e due si sono sentiti riconosciuti.
In un secondo incontro, a distanza di tempo, la madre riferisce che il
figlio frequenta regolarmente la casa del padre e dai suoi racconti non
condizionati ha capito che la compagna del padre non invade il rapporto,
tornato sereno, fra padre e figlio. La madre si sofferma sulla paura,
ormai passata, nei confronti della nuova compagna, paura ora riconosciuta
per quel che é e che prima veniva "mascherata" con altre
paure, più oggettive, legate al quotidiano del bambino.
Caso Numero Due
Genitori ed il figlio di 16 anni: siedono in silenzio e chiedono di essere
ricevuti separatamente. La madre e il padre raccontano che il ragazzo
e' stato buono e bravo fino alla terza media e che ora é cattivo.
Hanno un secondo figlio più piccolo e non vogliono che questo venga
contagiato dal comportamento irregolare del figlio più grande di
cui non condividono le scelte. La loro rabbia è al culmine. Dicono
che il figlio non si lava, non tiene in ordine la propria stanza, entra
ed esce da casa come fosse un albergo; frequenta il mondo punk. Il figlio
ha interrotto gli studi di formazione-lavoro alla soglia della qualifica.
I genitori gli fanno grandi rimproveri, parlano di tradimento, non reggono,
arrivano ad usare la parola "istituto". Considerano di allontanarlo
dalla famiglia.
Il ragazzo dal canto suo parla di assoluta incomprensione e di intolleranza
da parte dei genitori. Dice che quelli sono arrivati a parlare di cacciarlo
di casa. Si sente non accettato. Dice di fare un lavoro diverso da quello
per cui aveva studiato, ma uno che si è cercato da solo perché
gli piace. Non è un lavoro che svolge regolarmente in quanto il
datore di lavoro lo chiama secondo le ordinazioni.
Il conflitto tra le persone padre, madre, figlio tocca il cuore stesso
del dolore. I genitori del ragazzo punk sottolineano: "Era buono,
è buono, ma non c'è più niente da fare". Il
ragazzo sottolinea: "Con il loro comportamento mi fanno sentire una
nullità".
Che cosa è stato offerto loro nel momento in cui hanno accettato
di continuare l'incontro insieme? E' stato messo a loro disposizione uno
spazio di parola, uno specchio nel quale riflettere il loro sentire con
grande umiltà senza la paura del silenzio. Alla fine, diversamente
da come erano arrivati, sono usciti assieme, consapevoli di una mediazione
che, con una apertura al dialogo, era appena incominciata.
Caso Numero Tre
Il grande contrasto è tra genitori e un figlio di 15 anni.
I conflitti a scuola con i compagni, con gli insegnanti, con il preside
si traducevano in comportamenti disturbanti, in aggressività e
assenze. Continue sospensioni, qualche ripetenza era la risposta. L'istituzione
e il ragazzo si difendevano come potevano fino ad arrivare al ritiro da
scuola, per non compromettere il risultato dell'ultimo anno e la preparazione
da privatista, con l'aiuto di strutture pomeridiane del territorio.
Alla base, prima del disagio, c'è l'interruzione della relazione
comunicativa anche in famiglia, c'e' una fortissima sofferenza e il passaggio
da questa alla negazione di se stesso, alla perdita di interesse, all'aggressività.
Il ragazzo rimproverava alla scuola di "avercela" con lui e
per questo di infliggergli le punizioni. Ai genitori rimproverava di averlo
messo in collegio per più tempo rispetto ai fratelli, quando e'
nato il fratello più piccolo. Perché proprio lui era rimasto
via più degli altri?
La madre parla di difficoltà nell'organizzazione familiare con
due figli di età ravvicinata. Secondo lei, questo figlio avrebbe
avuto più attenzioni degli altri e sarebbe rimasto via meno degli
altri. Lei racconta che quando gli portava dei giocattoli lui li rompeva.
La madre sottolinea la grande sensibilità del figlio.
Il ragazzo, dal conto suo, si sentiva punito due volte: prima dalla scuola,
poi dalla famiglia per la mancata accoglienza e il mancato riconoscimento.
Anche in questo caso é stato possibile aprire un dialogo tra gli
insegnanti
della classe e il ragazzo fino al buon esito del percorso scolastico e
tra il ragazzo
e i genitori.
Quando all'inizio di queste riflessioni ponevo l'accento sulla vittima
nella sua accezione più ampia era perché penso che la vittima,
qualunque sia stato il modo con cui è diventata tale, abbia bisogno
di avere la parola, di essere ascoltata con empatia e di essere riconosciuta
come vittima. L'offesa, se non è ricordata dagli interessati al
conflitto fino al reato conclamato e riconosciuta come offesa o reato,
ricade tutta sulla vittima in quanto lei, vittima, non è riconosciuta
nella sua dignità ferita e nella sua sofferenza.
Perche' possa esserci una rinascita e perche' i confliggenti possano uscire
dal loro ruolo nel dramma-conflitto o nel dramma-reato, e' necessario
attraverso alcuni passaggi arrivare alla catarsi dopo la esposizione dei
fatti e dopo la crisi conclamata. Solo cosi i ruoli non rimangono cristallizzati.
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