Introduzione

3 WMF ITALIA 2000

La Mediazione:
tra gli isolati etnici una terra di nessuno

SPISSU GIOVANNI


ABSTRACT

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Papers
   

Country:
Italy

Language:
English

Il conflitto è necessariamente presente nel sociale; gli schemi attraverso cui si realizza, ora lo manifestano, altre volte lo celano, sta al mediatore o all'osservatore sociale più attento trovare le strategie per decifrarne gli aspetti nascosti che spesso si rivelano anche i più pericolosi.
Ferguson afferma che:<<La pace e l'umanità sono considerate come le principali basi della pubblica felicità, ma le rivalità di comunità separate e i fermenti di un popolo libero sono i principi della vita politica e la scuola degli uomini...>>.
Occorre sottolineare che ogni situazione conflittuale è teoricamente rapportabile alla coesistenza di tendenze differenti, in questo senso la presenza del conflitto denuncia un'assenza di totale omologazione dell'individuo al potere costituito. <<'E ipotizzabile una "terra di nessuno" posta tra due spazi necessariamente geografici, ciascuno occupato da una società o da una cultura con uno stile distinto da quello dell'altro>>.
La mediazione non può diventare una tecnica moralmente neutra ed eticamente vuota; la frontiera, lo spazio in cui si dovrebbe porre il mediatore risiede semmai in un approccio teorico che vede le culture (le parti), come processi storicamente formatisi, entità dinamiche; l'individuo o il gruppo prodotto e produttore di cultura non deve soggiacere alla logica del Mediatore, ma deve seguire nel terreno della messa in crisi delle proprie certezze culturali. Il Mediatore non può imporre la sua tecnica come ricetta magica. Mai come nella mediazione culturale è necessaria una 'rivisitazione' della memoria della parte e della memoria collettiva di cui è portatrice per tentare di costruire un solido "terreno di frontiera": una terra di nessuno posta tra due spazi, il confine è una linea materiale o immaginaria che 'separa', la frontiera è qualcosa che nel momento in cui separa: unisce.


Sociologo, Mediatore.

 

La mediazione: tra gli isolati etnici, una terra di nessuno.

 
 


Il conflitto e' necessariamente presente nel sociale; gli schemi attraverso cui si realizza, ora lo manifestano altre volte lo celano, sta al mediatore o all'osservatore sociale più' attento trovare le strategie per decifrarne gli aspetti nascosti che spesso si rivelano anche i più' pericolosi.
Per Ferguson il conflitto è una forza costruttiva nella formazione graduale di quegli istituti che costituiscono la società civile, nell'Essay on the History of Civil Society, scrive: "Senza la rivalità delle nazioni e la pratica della guerra, la stessa società civile difficilmente potrebbe aver trovato un oggetto o una forma" E ancora: " La pace e l'umanità sono considerate come le principali basi della pubblica felicità, ma le rivalità di comunità separate e i fermenti di un popolo libero sono i principi della vita politica e la scuola degli uomini… Soltanto la corruzione o la schiavitù' sono in grado di sopprimere le discussioni che si svolgono tra uomini integri e che hanno un egual parte nell'amministrazione dello Stato."

Luciano Gallino definisce il conflitto come quel "Tipo di interazione più' o meno cosciente tra due o più' soggetti individuali o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare verso altri scopi o impedire l'azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue."
Occorre sottolineare che ogni situazione conflittuale è teoricamente riportabile alla coesistenza di tendenze differenti; in questo senso la presenza del conflitto denuncia un'assenza di totale omologazione dell'individuo al potere costituito.

Solo nelle forme più aspre di conflitto, il conseguimento degli scopi di una parte può essere realizzato con l'eliminazione della controparte come soggetto attivo, ossia con la sottrazione ad essa di ogni potere se non addirittura di ogni di diritto, come accade ad esempio nelle istituzioni totali.

Le dinamiche attraverso le quali si manifesta il conflitto possono essere le più disparate: dal silenzio sino all'intervento armato, ciò è determinato da varie situazioni economiche, politiche, ma anche culturali che permettono di identificare l'altra parte come rivale, colui che sta al di la del rivo, oppure come hostis, il nemico per eccellenza, il diverso da sterminare.

Uno dei conflitti che si manifesta in maniera più violenta è, senza dubbio, quello a sfondo razzista. In questo caso il mediatore non può affidarsi alla tecnica, ma deve innanzi tutto conoscere i mutamenti di un fenomeno che torna sulla scena con volti nuovi e con un vocabolario differente.

Il conflitto a sfondo razzista ha, inoltre, la caratteristica di lasciare poca chiarezza su chi siano le reali parti in causa. Il mediatore deve, in questo caso, non solo riconoscere le parti più visibili e quindi maggiormente vulnerabili, ma anche riconoscere, nel senso comune, gli aspetti apparentemente innocui, ma assai pericolosi e, quindi, ricercare un tutt'altro che scontato terreno d'incontro tra i confliggenti.
Trascorso mezzo secolo dallo sterminio nazista, l'Europa, sicura che i campi di concentramento siano utilizzati solamente come musei intitolati alla memoria, è scossa negli anni Novanta da episodi che rievocano un passato che sembrava essere destinato a rimanere una triste parentesi in un continente ormai lanciato verso un civile progresso.
"Della violenta caccia al marocchino che si è scatenata a Firenze la notte del martedì grasso dell'inverno 1988 per opera di una banda giovanile organizzata, giornali e televisione hanno molto parlato, dandole il rilievo che essa cercava…….La banda è formata da una quarantina di giovani, travestiti e mascherati tutti allo stesso modo. Indossano anfibi, un berretto, un giaccone nero, impugnando una mazza da baseball, hanno il viso truccato da clown. Il travestimento è apparentemente identico a quello adoperato dai gruppi fascisti di ragazzi di stadio, tanto che la polizia avrebbe poi cercato in questa direzione, con un'associazione peraltro forse troppo immediata tra simboli e persone. La mazza da baseball, la maschera clownesca appaiono come evidenti riprese dal modello cinematografico degli anti-eroi di Arancia meccanica, il noto film di Kubrik"1 .
"Stoccolma- Tra i casi di violenza più recenti, ci sono stati l'assassinio di un sindacalista, Björn Soederberg; una bomba ha fatto saltare in aria l'auto di un giornalista che indagava sui filo-nazisti; due poliziotti sono stati uccisi in una piccola cittadina del centro della Svezia da tre individui filo-nazisti che avevano rapinato una banca. E ancora: l'esplosione di un'auto di poliziotti attratti in "una trappola" 2 .

"Nell'agosto del 1992 la cittadina di Rostock, sul mar Baltico, diventa simbolo del neonazismo dopo un nuovo pogrom a un quartiere abitato da stranieri: divampano le polemiche e circolano voci di una regia nazionale per gli attacchi, con il coordinamento degli arrivi e una precisa tattica antipolizia. C'è anche chi sostiene che la situazione del quartiere ghetto di Lichtenhagen, teatro dell'assalto, sia stata lasciata peggiorare deliberatamente per provocare un attacco e forzare il dibattito politico sul diritto d'asilo.
Il 31 agosto a Berlino, sul ponte di Pulitz, viene distrutto il monumento che ricorda la deportazione ebrea e la partenza dalla vicina stazione merci. Intanto a Cottubus bande di neonazisti assediano il centro d'accoglimento degli Asylanten"3 .

Tali episodi hanno scosso l'opinione pubblica, la violenza esercitata attraverso una pratica simbolica ad una teatralità che comprende ruoli e travestimenti, è riuscita a rappresentare conflittualità nascoste che riposavano nella memoria.
Sicuramente conflitti di tale violenza lasciano perplessi e potrebbero scoraggiare qualsiasi intervento volto alla gestione razionale e non violenta dello scontro delle parti.
Ma prima di arrendersi o definire irrazionali tali episodi occorre tracciare un quadro teorico che permetta di individuare almeno chi siano le parti, correndo addirittura il rischio di doversi riconoscere come mediatori portatori culturali e quindi in qualche modo esponenti inconsapevoli di una delle parti confliggenti. Già alla fine degli anni sessanta alcuni sociologi e studiosi antirazzisti rilevarono la presenza di un nuovo razzismo, che si basava sulle differenze culturali e sull'incompatibilità tra diverse culture.

"Si trattava di un razzismo che, secondo l'opinione generale, venne delineato per la prima volta alla fine degli anni sessanta, s'impose alla ribalta nei primi anni Ottanta con l'opera polemica degli scrittori legati al giornale della destra radicale The Salisbury Review, e venne poi diffuso dai molti opinionisti e dalle grandi firme di grido dei quotidiani e dei tabloids"4 .

Taguieff sostiene che il razzismo differenzialista o mixofobico va distinto in due manifestazioni ideolologiche.
"Il razzismo differenzialista che si presenta come elogio e affermazione tollerante di tutte le differenze, e si adopera a respingere ogni forma di razzismo così come ogni forma di totalitarismo. In questa prospettiva, il valore di differenza viene esaltato in quanto costituisce una condizione della conservazione delle identità collettive" 5, la seconda manifestazione ideologica appare agli occhi dello studioso francese come una strumentalizzazione del termine differenza: "Il differenzialismo può anche apparire come travestimento tattico del razzismo inegalitario, come una riformulazione accettabile che fa appello ad una parola chiave dell'ideologia (la differenza).Un simile impiego dell'argomento differenzialista non fa che seguire una suggestione del linguaggio corrente: è come se non si potesse affermare una differenza senza affermare nel contempo una differenza di valore"6 .

Esiste agli occhi di Taguieff un fraintendimento semantico sul termine differenza:
"Si tratta di risalire la china naturale del linguaggio corrente, il quale seguita a ripetere che differenziare significa, in tutta evidenza, gerarchizzare."7 ,
Spogliata dal significato di gerarchia la parola differenza e la pratica dell'esclusione apparirebbero innocue, non si comprendono però le motivazioni della volontà di separare e mantenere alti i confini tra le culture, forse se la gerarchia non viene riconosciuta nell'ambito dei valori culturali, rimane però nell'ambito economico o politico, e ciascun attore sociale porta con sé anche questi due ultimi aspetti.
Un rischio in cui potrebbe incorrere il mediatore è, appunto, quello di cedere alla tentazione dell'invisibilità, scomparendo risolverebbe il problema del carico di valori culturali, politici, che porta con sé, non si dovrebbe più schierare culturalmente e potrebbe ammettere innocuamente che una delle parti in conflitto e "diversa" da se' ma sicuramente non inferiore all'altra. Questo atteggiamento del mediatore a operatore super partes, in realtà risulterebbe nientemeno come un nascondiglio e la mediazione rischierebbe, paradossalmente, di diventare un'operazione di potere, una mediazione "colonialista".
La parità tra mediatore e parte confliggente passa inevitabilmente nella partecipazione umana significativa e nella messa in crisi dei propri valori culturali ed etici anche del mediatore e non solo delle parti confliggenti.

Jenkins opera una distinzione tra categorizzazione e identificazione di gruppo, l'espressione processo di categorizzazione, sottolinea la relazione di potere che la possibilità di dare nomi comporta: "L'associazione stretta tra processo di categorizzazione e razzismo si produce all'interno di una esasperata situazione di squilibrio di potere, dove il gruppo dominante seleziona le differenze biologiche (come ad esempio il colore della pelle) per ribadire il carattere immutabile della differenza e quindi quello naturale del dominio"8 .
Christian Brombergern stabilisce una differenza tra una forma di identità creata oggettivamente sulla base di una scelta di un certo numero di criteri e una forma di identità creata dai soggetti interessati: "L'identità prodotta dallo sguardo esterno è detta sostanziale in quanto è costituita mediante una selezione arbitraria di tratti distintivi che hanno tuttavia la pretesa di essere significanti, e perciò esaustivi, di quella identità. L'identità prodotta dai soggetti interessati è detta invece performativa, in quanto essa sarebbe immediatamente colta dai soggetti i quali non hanno bisogno di selezionare in maniera cosciente i tratti che essi ritengono costituire i criteri d'appartenenza"9.

Il potere di creare i confini, di delimitare le culture, è già un sintomo d'ineguaglianza o almeno di conflitto tra gruppi, l'operazione intellettuale che mira a produrre isolati discreti e circoscritti come le culture è figlia della tradizione occidentale: "L'influsso di Boas fu decisivo nell'orientare l'antropologia americana verso lo studio delle singole culture, e anche verso una considerazione della culture come un'insieme di tratti…..se gli antropologi sono d'accordo nello stabilire una parità tra culture, essi sembrano dimenticare che tale nozione è effetto di uno sviluppo disuguale e di un rapporto di forza tra gruppi diversi" 10.
"Proprio la tradizione europea però ci tramanda un'idea di cultura come ideale al quale fare riferimento, "ideale normativo" e finisce per considerare ogni altra cultura come cultura "abusiva", per definizione inferiore o aberrante, in ogni caso da estirpare o da redimere come pre-cultura o in-cultura" 11.

Il termine cultura, se inteso come realtà indipendente e autonoma, come entità naturale astorica, può essere altrettanto pericoloso del termine razza.
Se il razzismo biologico si basava su differenze fisiche come il colore della pelle o la dimensione del cranio, il nuovo razzismo si basa su tratti culturali e potrebbe rivelarsi altrettanto pericoloso del primo.
"Il razzismo colto, in genere chiamato differenzialista è ancora più sottile. Al livello di dibattito viene proclamato il più alto rispetto alle differenze culturali, e infatti viene affermato che le singole culture sono prodotti importanti dello spirito umano, momenti di suprema consapevolezza individuale e interpersonale, tuttavia questo rispetto finisce con l'imbalsamare le culture, concepite come realtà chiuse, autosufficienti che non permettono prestiti dall'esterno" 12.

Nonostante il vocabolario si sia rinnovato e le vittime non vengano più selezionate in base al colore della pelle, è rimasta l'idea che vi sia qualcosa da conservare, da proteggere, ieri era il sangue, oggi la cultura.
Luciano Mazzetti, pedagogista, esponente della consulta nazionale dell'U.n.i.c.e.f. per l'educazione allo sviluppo, in un'intervista rilasciata all'Unione Sarda risponde alla domanda: "perché immaginiamo l'immigrato solo come brutto, nero e cattivo?"
"Quella dell'immigrato è un'immagine arcaica: il viandante fa paura, chi bussa alla porta di casa se non è riconosciuto, fa paura" 13.

Ma chi è il viandante? E soprattutto, dov'è la nostra casa?, Dov'è la porta di casa: dove finiscono i confini territoriali, o dove finiscono quelli economici?
Il razzismo differenzialista non considera il colore della pelle, ma sorge il dubbio che anche la categoria cultura sia stata utilizzata come un pretesto.
Julia Kristeva 14, nel suo "Stranieri a se stessi", sostiene che lo straniero abita dentro di noi: "Stranamente lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l'intesa e la simpatia: riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui: sintomo che rende il noi problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alla comunità" 15.

Un'ipotesi di mediazione potrebbe essere quella della creazione di una "frontiera". Il concetto di frontiera raramente è stato definito con precisione o in maniera esplicita. Secondo Fabietti " Ciò dipende in parte dal fatto che il termine frontiera possiede una pluralità di significati che hanno subito un continuo processo di metaforizzazione. La nozione di frontiera ha trovato applicazione inizialmente, e soprattutto in campo storiografico, e solo nell'ultimo secolo. Il termine compare nella letteratura politologica e geografica del diciottesimo secolo, ma esso ha, in questo contesto, il semplice significato di confine tra stati. Con il tempo il termine frontiera è venuto assumendo un significato diverso da quello di confine. In antropologia ha subito uno slittamento semantico assumendo connotazioni socio-culturali: la frontiera non è tanto la linea di separazione tra due stati, quanto piuttosto qualcosa che indica il punto di incontro, di contatto, tra due società, tra due forme di vita culturale. Mentre il confine è una linea materiale o immaginaria che "separa", la frontiera è invece qualcosa che, nel momento in cui separa unisce."

Fabietti per meglio spiegare cosa si intenda per frontiera utilizza una metafora.
"Dobbiamo pensare ad una specie di terra di nessuno posta tra due spazi "non necessariamente geografici" ciascuno dei quali è occupato da una società o da una cultura con uno stile distinto da quella dell'altra.
"Nonostante la distinzione, la separazione, la diversità che caratterizza le due società e culture, queste ultime danno luogo a processi di scambio nella zona definita come terra di nessuno."

Il mediatore è sicuramente portatore di valori culturali; tentare di spogliarsene per raggiungere un'improbabile obbiettività, risulterebbe non solo un'impresa inutile ma metodologicamente poco corretta. La mediazione non può diventare una tecnica moralmente neutra e eticamente vuota, la frontiera, lo spazio in cui si dovrebbe porre il mediatore risiede semmai in un approccio teorico che vede le culture (le parti) come processi storicamente formatisi, entità dinamiche e non realtà isolate o addirittura ideali normativi; l'individuo o il gruppo prodotto e nello stesso momento produttore di cultura non deve soggiacere alla logica del mediatore, ma deve seguirlo nel terreno della messa in crisi delle proprie certezze culturali. Il mediatore, a sua volta, non può imporre la sua tecnica come ricetta magica e proiettare e forzare le parti verso un'inevitabile soluzione; mai come nella mediazione culturale è necessaria una rivisitazione della memoria della parte e della memoria collettiva di cui è portatrice per tentare di costruire un solido terreno di frontiera.

In un periodo storico, dove gli immigrati bussano alle porte dorate dell'occidente e dove ancora si sta morendo per conquistare qualche metro di terra, il primo passo potrebbe, appunto, essere quello di creare una terra, se pur immaginaria, di nessuno.

BIBLIOGRAFIA

M. Delle Donne, Lo specchio del non sé, Liguori, Napoli 1994.
M. Delle Donne, Relazioni etniche, stereotipi e pregiudizi, Edup, Roma, 1988.
U. Fabietti, L'identità etnica, Nis, Roma, 1996
GALLINO L., Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1993
GOBINEAU A., Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane, Ed. AR, Torino 1954
GOFFMAN E., Le istituzioni totali, Einaudi, Torino, 1968
KRISTEVA J., Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano, 1990
MACIOTI M.I., La ricerca qualitativa nelle scienze sociali, Mondadori, Bologna, 1998
MANACORDA F., L'Italia lacerata, SEAM, Formello (RM) 1998
TAGUIEFF P., La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna 1994
TENTORI T., Antropologia culturale, Studium, Roma 1992


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Note
 
 


1) Clara Gallini, op. cit, p. 39

2) Vincenzo Lanza., Stoccolma, contro i neo-nazi le prime pagine dei giornali, Corriere della sera , Mercoledì 1 Dicembre 1999.

3) Giampiero Cadalanu, Op. cit. p163

4) Luigi Tommasi, Razzismo e Società Plurietnica. Conflitti etnici e razzismi giovanili in Europa.. Angeli, Milano 1997, p72

5) Pierre-Andrč Taguieff, La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna 1994,P417

6) Pierre-Andrč Taguieff Op.cit.,p418

7) Pierre-Andrè Taguieff.Op.cit,p418

8) Ugo Fabietti, L'Identità Etnica Nis Roma 1996, p141

9) Ugo Fabietti, Op.cit., p. 139

10) Ugo Fabietti, Op. cit., p. 54

11) Franco Ferrarotti, Oltre il razzismo, Armando, Roma 1988, p. 66

12) Franco Ferrarotti, Note preliminari su pregiudizi etnici e stereotipi culturali, in M. Delle Donne, Relazioni Etniche, Stereotipi e Pregiudizi, Edup, Roma 1988,p144

13) Franca Porcu, Multiculturalità? In Italia è ancora un gioco di parole. L'Unione Sarda 3 Febbraio 1999

14) Julia Kristeva, psicoanalista, insegna all'Università di Parigi e alla Columbia University di New York.

15) Julia Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990, p. 9.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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