La
Mediazione:
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Il
conflitto è necessariamente presente nel sociale; gli schemi attraverso
cui si realizza, ora lo manifestano, altre volte lo celano, sta al mediatore
o all'osservatore sociale più attento trovare le strategie per decifrarne
gli aspetti nascosti che spesso si rivelano anche i più pericolosi. Ferguson afferma che:<<La pace e l'umanità sono considerate come le principali basi della pubblica felicità, ma le rivalità di comunità separate e i fermenti di un popolo libero sono i principi della vita politica e la scuola degli uomini...>>. Occorre sottolineare che ogni situazione conflittuale è teoricamente rapportabile alla coesistenza di tendenze differenti, in questo senso la presenza del conflitto denuncia un'assenza di totale omologazione dell'individuo al potere costituito. <<'E ipotizzabile una "terra di nessuno" posta tra due spazi necessariamente geografici, ciascuno occupato da una società o da una cultura con uno stile distinto da quello dell'altro>>. La mediazione non può diventare una tecnica moralmente neutra ed eticamente vuota; la frontiera, lo spazio in cui si dovrebbe porre il mediatore risiede semmai in un approccio teorico che vede le culture (le parti), come processi storicamente formatisi, entità dinamiche; l'individuo o il gruppo prodotto e produttore di cultura non deve soggiacere alla logica del Mediatore, ma deve seguire nel terreno della messa in crisi delle proprie certezze culturali. Il Mediatore non può imporre la sua tecnica come ricetta magica. Mai come nella mediazione culturale è necessaria una 'rivisitazione' della memoria della parte e della memoria collettiva di cui è portatrice per tentare di costruire un solido "terreno di frontiera": una terra di nessuno posta tra due spazi, il confine è una linea materiale o immaginaria che 'separa', la frontiera è qualcosa che nel momento in cui separa: unisce. |
Sociologo, Mediatore. |
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La mediazione: tra gli isolati etnici, una terra di nessuno. |
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Luciano Gallino definisce il conflitto come quel "Tipo di interazione
più' o meno cosciente tra due o più' soggetti individuali
o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza
di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti
scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire
soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare
o deviare verso altri scopi o impedire l'azione altrui, anche se ciò
comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi
relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue." Solo nelle forme più aspre di conflitto, il conseguimento degli
scopi di una parte può essere realizzato con l'eliminazione della
controparte come soggetto attivo, ossia con la sottrazione ad essa di
ogni potere se non addirittura di ogni di diritto, come accade ad esempio
nelle istituzioni totali. Le dinamiche attraverso le quali si manifesta il conflitto possono essere
le più disparate: dal silenzio sino all'intervento armato, ciò
è determinato da varie situazioni economiche, politiche, ma anche
culturali che permettono di identificare l'altra parte come rivale, colui
che sta al di la del rivo, oppure come hostis, il nemico per eccellenza,
il diverso da sterminare. Uno dei conflitti che si manifesta in maniera più violenta è,
senza dubbio, quello a sfondo razzista. In questo caso il mediatore non
può affidarsi alla tecnica, ma deve innanzi tutto conoscere i mutamenti
di un fenomeno che torna sulla scena con volti nuovi e con un vocabolario
differente. Il conflitto a sfondo razzista ha, inoltre, la caratteristica di lasciare
poca chiarezza su chi siano le reali parti in causa. Il mediatore deve,
in questo caso, non solo riconoscere le parti più visibili e quindi
maggiormente vulnerabili, ma anche riconoscere, nel senso comune, gli
aspetti apparentemente innocui, ma assai pericolosi e, quindi, ricercare
un tutt'altro che scontato terreno d'incontro tra i confliggenti. "Nell'agosto del 1992 la cittadina di Rostock, sul mar Baltico,
diventa simbolo del neonazismo dopo un nuovo pogrom a un quartiere abitato
da stranieri: divampano le polemiche e circolano voci di una regia nazionale
per gli attacchi, con il coordinamento degli arrivi e una precisa tattica
antipolizia. C'è anche chi sostiene che la situazione del quartiere
ghetto di Lichtenhagen, teatro dell'assalto, sia stata lasciata peggiorare
deliberatamente per provocare un attacco e forzare il dibattito politico
sul diritto d'asilo. Tali episodi hanno scosso l'opinione pubblica, la violenza esercitata
attraverso una pratica simbolica ad una teatralità che comprende
ruoli e travestimenti, è riuscita a rappresentare conflittualità
nascoste che riposavano nella memoria. "Si trattava di un razzismo che, secondo l'opinione generale, venne
delineato per la prima volta alla fine degli anni sessanta, s'impose alla
ribalta nei primi anni Ottanta con l'opera polemica degli scrittori legati
al giornale della destra radicale The Salisbury Review, e venne poi diffuso
dai molti opinionisti e dalle grandi firme di grido dei quotidiani e dei
tabloids"4 . Taguieff sostiene che il razzismo differenzialista o mixofobico va distinto
in due manifestazioni ideolologiche. Esiste agli occhi di Taguieff un fraintendimento semantico sul termine
differenza: Jenkins opera una distinzione tra categorizzazione e identificazione
di gruppo, l'espressione processo di categorizzazione, sottolinea la relazione
di potere che la possibilità di dare nomi comporta: "L'associazione
stretta tra processo di categorizzazione e razzismo si produce all'interno
di una esasperata situazione di squilibrio di potere, dove il gruppo dominante
seleziona le differenze biologiche (come ad esempio il colore della pelle)
per ribadire il carattere immutabile della differenza e quindi quello
naturale del dominio"8 . Il potere di creare i confini, di delimitare le culture, è già
un sintomo d'ineguaglianza o almeno di conflitto tra gruppi, l'operazione
intellettuale che mira a produrre isolati discreti e circoscritti come
le culture è figlia della tradizione occidentale: "L'influsso
di Boas fu decisivo nell'orientare l'antropologia americana verso lo studio
delle singole culture, e anche verso una considerazione della culture
come un'insieme di tratti
..se gli antropologi sono d'accordo nello
stabilire una parità tra culture, essi sembrano dimenticare che
tale nozione è effetto di uno sviluppo disuguale e di un rapporto
di forza tra gruppi diversi" 10. Il termine cultura, se inteso come realtà indipendente e autonoma,
come entità naturale astorica, può essere altrettanto pericoloso
del termine razza. Nonostante il vocabolario si sia rinnovato e le vittime non vengano più
selezionate in base al colore della pelle, è rimasta l'idea che
vi sia qualcosa da conservare, da proteggere, ieri era il sangue, oggi
la cultura. Ma chi è il viandante? E soprattutto, dov'è la nostra casa?,
Dov'è la porta di casa: dove finiscono i confini territoriali,
o dove finiscono quelli economici? Un'ipotesi di mediazione potrebbe essere quella della creazione di una
"frontiera". Il concetto di frontiera raramente è stato
definito con precisione o in maniera esplicita. Secondo Fabietti "
Ciò dipende in parte dal fatto che il termine frontiera possiede
una pluralità di significati che hanno subito un continuo processo
di metaforizzazione. La nozione di frontiera ha trovato applicazione inizialmente,
e soprattutto in campo storiografico, e solo nell'ultimo secolo. Il termine
compare nella letteratura politologica e geografica del diciottesimo secolo,
ma esso ha, in questo contesto, il semplice significato di confine tra
stati. Con il tempo il termine frontiera è venuto assumendo un
significato diverso da quello di confine. In antropologia ha subito uno
slittamento semantico assumendo connotazioni socio-culturali: la frontiera
non è tanto la linea di separazione tra due stati, quanto piuttosto
qualcosa che indica il punto di incontro, di contatto, tra due società,
tra due forme di vita culturale. Mentre il confine è una linea
materiale o immaginaria che "separa", la frontiera è
invece qualcosa che, nel momento in cui separa unisce." Fabietti per meglio spiegare cosa si intenda per frontiera utilizza una
metafora. Il mediatore è sicuramente portatore di valori culturali; tentare
di spogliarsene per raggiungere un'improbabile obbiettività, risulterebbe
non solo un'impresa inutile ma metodologicamente poco corretta. La mediazione
non può diventare una tecnica moralmente neutra e eticamente vuota,
la frontiera, lo spazio in cui si dovrebbe porre il mediatore risiede
semmai in un approccio teorico che vede le culture (le parti) come processi
storicamente formatisi, entità dinamiche e non realtà isolate
o addirittura ideali normativi; l'individuo o il gruppo prodotto e nello
stesso momento produttore di cultura non deve soggiacere alla logica del
mediatore, ma deve seguirlo nel terreno della messa in crisi delle proprie
certezze culturali. Il mediatore, a sua volta, non può imporre
la sua tecnica come ricetta magica e proiettare e forzare le parti verso
un'inevitabile soluzione; mai come nella mediazione culturale è
necessaria una rivisitazione della memoria della parte e della memoria
collettiva di cui è portatrice per tentare di costruire un solido
terreno di frontiera. In un periodo storico, dove gli immigrati bussano alle porte dorate dell'occidente
e dove ancora si sta morendo per conquistare qualche metro di terra, il
primo passo potrebbe, appunto, essere quello di creare una terra, se pur
immaginaria, di nessuno. M. Delle Donne, Lo specchio del non sé, Liguori, Napoli 1994.
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Note
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2) Vincenzo Lanza., Stoccolma, contro i neo-nazi le
prime pagine dei giornali, Corriere della sera , Mercoledì 1 Dicembre
1999. 5) Pierre-Andrč Taguieff, La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna 1994,P417 6) Pierre-Andrč Taguieff Op.cit.,p418 7) Pierre-Andrè Taguieff.Op.cit,p418 8) Ugo Fabietti, L'Identità Etnica Nis Roma 1996, p141 9) Ugo Fabietti, Op.cit., p. 139 10) Ugo Fabietti, Op. cit., p. 54 11) Franco Ferrarotti, Oltre il razzismo, Armando, Roma 1988, p. 66 12) Franco Ferrarotti, Note preliminari su pregiudizi
etnici e stereotipi culturali, in M. Delle Donne, Relazioni Etniche, Stereotipi
e Pregiudizi, Edup, Roma 1988,p144 15) Julia Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990, p. 9.
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