• Tempo, memoria e impulso antinarrativo in Yama no oto di Kawabata Yasunari

Capitolo 4

Contro il tempo e il movimento narrativo

4.1. Il percorso di maturazione dell’arte narrativa

Dopo aver fatto tesoro dell’esperienza nell’ambito della Shinkankakuha, Kawabata imboccherà un percorso di elaborazione e sviluppo artistico che lo porterà gradualmente ad apprezzare la letteratura classica giapponese. Come sostiene Washburn tuttavia, il processo di rielaborazione e acquisizione dell’estetica tradizionale nipponica non sarà mai automatico ma sempre cosciente nello scrittore [166]. Non si tratta tanto, perciò, di un “ritorno al passato”, come sostiene, tra gli altri Ichihara [167], piuttosto della costante ricerca di una forma che possa restituire la profonda visione estetica dell’autore: Kawabata infatti, secondo Ōe Kenzaburō (大江健三郎) , era giunto ad una comprensione della bellezza di natura mistica [168]. Per restituire questa maturazione o forse sarebbe meglio dire visione, le possibilità espressive convenzionali, cioè della letteratura occidentale di fine Ottocento e inizi Novecento, sembrano ormai giunte per l’autore ad un empasse. Kawabata lo aveva già compreso durante il suo periodo emergente, nel corso del quale si era trovato anche a stretto contatto con la narrativa occidentale ma fu solo negli anni a venire, dopo lo scioglimento dello sperimentalismo della Shinkankakuha, che lo scrittore ravvisò nella letteratura giapponese classica quel retaggio al quale si sentiva di fare affidamento nel processo espressivo della sua visione della bellezza.

[166] Dennis C. WASHBURN, The Dilemma of the Modern Japanese Fiction, New Haven, Yale University Press, 1995, p. 248.
[167] ICHIHARA Yasuko, Estetica Letteraria di Kawabata Yasunari. Ritorno al passato, in AA.VV., Atti A.I.STU.GIA., XXI, 1997, Venezia, A.I.STU.GIA., 1998, pp. 247-248.
[168] Ōe Kenzaburō, Japan, the Dubious and Myself, in Charles WEI-HSUN FU – Steven HEINE, Japan in Traditional and Postmodern Perspectives, New York, State University of New York Press, 1995, pp. 316-317. Ōe (1935-) fu, nel 1994, il secondo scrittore giapponese a laurearsi premio Nobel. Scrisse un discorso di accettazione per certi versi polemico rispetto a quello di Kawabata, al quale se ne ricollega con il titolo (Il Giappone, il “dubbio” e io).

Il percorso seguito dall’autore non è stato, però, quello di procedere alla acritica e pedissequa acquisizione delle forme letterarie della tradizione, bensì di intraprendere una personale evoluzione estetica e letteraria. L’avvicinamento avviene con la presa di coscienza degli ideali artistici della poesia classica e della narrativa di epoca Heian, come il Genji monogatari e il Makura no soshi [169], fino a giungere alla assimilazione di quella speciale sensibilità giapponese per l’asimmetrico e per l’irregolare che sono in stretta connessione con il Buddismo Zen.

L’enfasi che viene data alla spontaneità, alla brevità e all’immediatezza da parte dello Zen e da quella che è la sua massima espressione artistica in campo letterario, cioè lo haiku, sembra affascinare particolarmente Kawabata. Nello haiku il tempo sembra fermarsi, dando un particolarissimo effetto di silenzio e perciò di vuoto. E’ l’espressione di quella che Starrs chiama “estetica del vuoto” [170].

L’idea di una letteratura che possa restituire un senso di vuoto e di improvviso, di istantaneo, sembra apparentemente inconciliabile con la necessità di una tensione narrativa. Kawabata, tuttavia, attraverso tutta una serie di “artifici” che potremmo definire “antinarrativi” [171], assimilabili in parte ai principi su cui si basa quella forma poetica medievale che risponde al nome di renga, sembra restituire quella giusta tensione. La sua tecnica consiste perlopiù di un uso simbolico di parole ed oggetti, di legami associativi prima che causali.

[169] [Appunti del guanciale] 枕草子 , “opera in prosa del X secolo, composta di brevi e brevissime sezioni, nelle quali l’autrice, Sei Shōnagon, elenca una serie di “cose spiacevoli”, “cose piacevoli”, “cose che fanno ridere”, ecc. attraverso le quali ci offre una testimonianza immediata e realistica della vita di corte del X secolo” (Dal glossario a cura di Adriana BOSCARO in KATŌ Shūichi, Storia della Letteratura Giapponese, Vol. 1, Venezia, Marsilio, 1987, p. 323). Per la traduzione italiana, si veda Sei Shōnagon, Note del guanciale [Makura no sōshi], trad. di Lydia Origlia, Milano, SE, 1988. Come sostiene Mathy, quella di Kawabata è “una tradizione estetica e letteraria piuttosto che filosofica. E’ la tradizione di Ki no Tsurayuki, Murasaki Shikibu, Saigyō, Zeami e Bashō” in Francis MATHY, Kawabata Yasunari: Bridge Builder to the West, «Monumenta Nipponica», 24, N° 3, 1969, p. 212.
[170] Come la definisce STARRS, Soundings in Time – The Fictive Art of Kawabata Yasunari, Richmond (Surrey, UK), Japan Library, 1998, p. 177.
[171] Si veda Roy STARRS, The Anti-Narrative Impulse in Kawabata and the Renga in Jorma KIVISTÖ; Mika MERVIÖ; TAKAHASHI Mutsuko; Mark WALLER (edited by), Modulations in Tradition – Japan and Korea in a Changing World: Third Nordic Symposium of Japanese and Korean Studies held in Tampere 24-27 May 1992, Tampere, University of Tampere, 1993, pp. 1-13 e STARRS, Soundings in Time…, cit., pp. 154-191.

4.2. Il retaggio della tradizione

Secondo Ōe Kenzaburō, premio nobel per la letteratura nel 1994, una delle caratteristiche che si respira nella narrativa di Kawabata è quello dell’ambiguità. Ne è permeata la prosa e anche il discorso di accettazione del premio Nobel, Il Giappone, la bellezza ed io sembra avere questo tono di fondo. Più precisamente, una delle caratteristiche di quel discorso, ma che si potrebbe estendere facilmente a tutta la letteratura di Kawabata, è definito da un aggettivo della stessa lingua giapponese, aimaina: ovvero “vago, ambiguo, dubbio” [172].

In realtà, il discorso di Kawabata, per Ōe, non è mai veramente “dubbio”, quanto “vago, ambiguo ed oscuro”. All’apparenza esprime cioè molti concetti, ma poi risulta difficile coglierne il senso. Questa ambiguità di fondo di molta narrativa dell’autore, che è una caratteristica portante un po’ di tutta la cultura giapponese e della stessa lingua [173] e che le conferisce un’aria di mistero, di simbolico, di implicito, risponde al concetto estetico dello Yugen (幽玄). Kenneth lo descrive come “oscurità, soggettività, bellezza sensuale, elegante semplicità” [174].

[172] Aimai-na 曖昧な , si veda Ōe, cit., pp. 313-315.
[173] PILARCIK, cit., pp. 15-16.
[174] Richard L. KENNETH, The Tree of Life – Life Consciousness in Kawabata Literature, in Japon, Actes du XXIXe Congrès International des Orientalistes, Vol. 2, Paris, L'Asiateque, 1976, p. 104.

Yūgen è una parola composta da due sillabe, ciascuna delle quali significa “nuvoloso, impenetrabile”, la combinazione delle due sillabe dà vita ad una parola che significa “oscurità, inconoscibilità, aldilà delle possibilità dell’intelletto”, senza la valenza, però, di “oscurità totale”. Il principio che si vuole esprimere, perciò, è quello di qualcosa che sta aldilà delle nostre capacità intellettuali, nascosto alla luce, ma visibile a chi lo sa cogliere attraverso una percezione interiore, un’intuizione improvvisa ed immediata. Yūgen riguarda “i sentimenti che non possono essere espressi con parole, per esempio gli effetti della luna velata da un piccolo cumulo di nubi o delle foglie di montagna scarlatte avvolte nella foschia autunnale” [175]. Ancora più illuminante è la definizione di Kamo no Chomei (鴨長明, 1153-1216) [176]:

Allorché molti significati sono compressi in una sola parola, quando le profondità di un sentimento sono esaurite ma non ancora espresse, quando un mondo invisibile aleggia nell’atmosfera di una poesia, quando il modesto e il banale sono utilizzati per esprimere l’eleganza, quando una concezione poetica di rara bellezza è portata avanti al massimo grado in uno stile di superficiale semplicità, solo allora, quando la concezione è esaltata al suo massimo livello e le parole sono troppo poche, la poesia…avrà il necessario vigore… [177]

Kawabata sembra seguire fedelmente queste suggestioni per ridare slancio alla sua prosa. Da qui il suo stile asciutto, mai ridondante, elegante senza tuttavia ricorrere all’utilizzo di parole apparentemente complesse. La sua narrativa restituisce spesso l’impressione che, dietro quella apparente semplicità, vi sia tutto un universo nascosto.

[175] Come sostiene il poeta medievale Shotetsu citato in Thomas RIMER, Modern Japanese Fiction and Its Traditions, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1978, p. 15.
[176] Aristocratico di corte poi ritiratosi in eremitaggio, scrisse il famoso Ricordi di un eremo [Hojoki] nel quale descrive i vantaggi di una vita di isolamento e tranquillità lontano dal trambusto della vita cittadina.
[177] Citato in PILARCIK, cit., p. 204.

Semplicità con un velo di malinconia e rustica eleganza sono le qualità di sabi e wabi, due dei principali concetti su cui si basa l’estetica tradizionale nipponica. Wabi (侘び) significa “gusto per il semplice e il tranquillo”, da cui, come sostiene Suzuki, “povertà; non dipendenza dalle cose” [178], quindi, a livello letterario, “economia nelle parole, nelle frasi”. Al principio di wabi è strettamente connesso quello di sabi (寂び) (patina, aspetto antico), che si può scrivere anche (ruggine, patina) e significa, sempre secondo Suzuki “Bellezza nell’imperfezione, sapore dell’antico, del rustico, dello spoglio” [179]. Si tratta di quel gusto per la solitudine “tranquilla ed impersonale” [180] e del passaggio inesorabile del tempo evocati da certi oggetti.

La tradizione estetica giapponese possiede una forte sensibilità nei confronti di ciò che è bello ed effimero allo stesso tempo: è quello che i giapponesi chiamano mono no aware (物のあわれ) [181], un concetto che risale all’epoca Heian. In principio aware (あわれ) era un’interiezione o aggettivo che si riferiva all’emozione che un oggetto o situazione faceva risuonare nell’animo di una persona. Con l’aggiunta del termine mono (, cosa) tale esperienza viene oggettivata e diviene l’espressione di una sensibilità comune degli uomini di fronte a un’esperienza che coglie l’essenza di una cosa, sottolineandone la sua brevità e la caducità. Si tratta quindi di un “empatia” che sorge, è il caso di sottolinearlo, “spontaneamente” tra l’oggetto e il soggetto, avvicinando i due e creando, di fatto,
un’unità [182]. Le emozioni suscitate, quindi, possono essere molteplici: da gioia improvvisa, a tristezza, a malinconia, ma anche dolore. Rimer lo definisce così:

Rappresenta una profonda sensibilità alle cose, una capacità di cogliere i movimenti, le possibilità, le limitazioni di una vita nel contesto di un singolo incidente, talvolta di natura trascurabile. Questa risposta intuitiva eppure acculturata alla vita rappresenta la virtù estetica più elevata, e la messa in opera artistica del principio è visibile nelle opere di Tanizaki e di Kawabata così come in parecchie opere precedenti, specialmente nel Genji monogatari. [183]

[178] SUZUKI Daisetz T., Zen and Japanese Culture, New York, Bollingen Foundation, 1959, pp. 23-24.
[179] Ibid., pp. 24-25.
[180] Si veda PILARCIK, cit., p. 205.
[181] La definizione di questo concetto si deve a Motori Norinaga (1730-1801) che lo ha codificato in piena epoca Tokugawa e elevato a elemento essenziale della cultura nipponica.
[182] E’ implicito, infatti, il concetto di transitorietà non soltanto nell’oggetto percepito, ma anche nel soggetto che percepisce. Si legga STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 188.
[183] RIMER, cit., p. 14.

Non è semplice restituire in letteratura, ancora di più in prosa, una esperienza così delicata. Kawabata ne possedeva indubbiamente una profonda comprensione, avendo letto molto i classici sia di prosa che di poesia. La trasposizione letteraria del principio consiste nel rendere l’esperienza del bello unendola a quel sentimento misto a tristezza di fronte ad un evento che si sa che non potrà durare a lungo:

Era all’incirca la metà di agosto, piovigginava. In una fila di alberi, sotto ad un solo albero di acacia, i fiori erano caduti coprendo l’asfalto. Shingo si domandò come mai, mentre li seguiva con la testa dalla macchina, e la scena gli rimase impressa. I fiori erano minuti e di colore verdolino e giallognolo. Anche se non ci fosse stato quell’unico albero dal quale erano caduti i fiori, il solo fatto che le file di acacie erano fiorite gli sarebbe rimasto lo stesso impresso. Era sulla strada di ritorno dall’ospedale dove era andato a trovare un amico malato di cancro al fegato. [184]

Shingo scorge un albero di acacia che ha perduto i fiori. Ciò che lo colpisce non è soltanto il fatto che quell’unico albero li stia perdendo mentre gli altri ancora li hanno, ma che la loro bellezza sia, in ogni caso, un fatto da ammirare in sé. Il sentimento di effimero del protagonista è però rivolto anche verso sé stesso: Shingo, infatti, è appena tornato dall’ospedale dove si trova un amico malato di cancro al fegato. La morte che si avvicina per l’amico risveglia in Shingo il pensiero della propria morte, riflessa nella caducità dei fiori di acacia.

[184] KYZ, vol. 12, p. 501. Cfr. SEID p. 240, SUGA p. 251 e SUGA 2 p. 679.

Profonda percezione della bellezza, quindi, ma anche consapevolezza della sua estrema labilità sono orizzonti esplorati in lungo e largo da Kawabata tanto che, all’età di 69 anni, quando si è recato a ritirare il premio Nobel a Stoccolma, egli sembra avere rinunciato alla possibilità di tradurre in un linguaggio comprensibile ad un pubblico occidentale questa profonda intuizione, sembra parlare più per sé che per il pubblico [185]. Del resto, come già ampiamente affermato in precedenza, l’idea dello scrittore era quella di restituire percezioni sensoriali e suggestioni più che trasmettere valori.

In Yama no oto Kawabata privilegia perciò le percezioni, il flusso di pensieri e di ricordi del protagonista [186]. Ecco che l’enfasi si sposta su attimi di stasi narrativa, tornando alla narrazione, poi volgendosi nuovamente a stimoli percettivi: è l’espressione di quell’aspetto che molti critici definiscono “discontinuità” nell’estetica giapponese [187]. Nel brano seguente Shingo si trova in ufficio e riceve degli ospiti. Mentre li intrattiene, gli vengono in mente i passeri che ha visto da casa sua la mattina precedente, oltre alle cince:

Stette a osservare per un po’ se i passeri e le cince si mettevano a litigare.
Ma mentre i passeri volavano e tornavano chiamandosi tra di loro, le cince stavano raccolte tra di loro. Restavano così divisi senza un motivo e anche quando si mescolavano,
non avevano l’aria di voler litigare.
Shingo rimase stupito. Successe la mattina mentre si lavava.
Doveva essersene ricordato perché poco prima aveva visto i passeri sulla porta del tempio.
Quando gli ospiti se ne furono andati, Shingo chiuse la porta e rivolgendosi verso Eiko le disse:
«Portami a casa della donna di Shūichi.»
[188]

La narrazione scorre dalla situazione di Shingo che si trova in ufficio, al suo pensiero per i passeri e le cince, ritorna alla mattina in cui aveva notato il fatto, per passare all’episodio che lo aveva fatto evocare e poi nuovamente al presente narrativo, ovvero all’ufficio e all’impiegata.

[185] Ōe, cit., pp. 317-318.
[186] RYAN, cit., pp. 257-258.
[187] Idem e HASEGAWA Izumi, Continuity and Discontinuity in Modern Japanese Literature, «Acta Asiatica», 56, 1989, p. 87.
[188] KYZ, vol. 12, p. 315. Cfr. SEID p. 71, SUGA pp. 72-73 e SUGA 2 p. 506.

La frammentazione del continuum del romanzo è evidente ed è anche un debito da pagare alla stessa lingua giapponese che, grazie alle strutture sintattiche ridotte all’osso e all’economia nell’uso delle parole, vi contribuisce notevolmente. Sarebbe errato, tuttavia, pensare che questa sia una caratteristica portante della stessa lingua, che ben si presterebbe in altri contesti a costruzioni sintattiche più elaborate ed a un uso lessicale più ampio. Si tratta invece di una precisa e consapevole scelta dell’autore, quella stessa che lo ha fatto avvicinare alla letteratura classica.

La critica non è unanime riguardo alla consistenza del retaggio culturale della tradizione nella letteratura di Kawabata e ondeggia fra chi, come Ryan, ne riconosce il grande debito, pur ammettendo l’influenza delle correnti letterarie occidentali del novecento [189], e chi, come Hasegawa Izumi, ritiene che l’influenza di Kawabata si debba quasi esclusivamente al retaggio autoctono [190]. In questo caso, per Hasegawa, si tratta di ravvisare negli stessi scritti dell’autore il suo rifarsi a haiku e renga in particolare. Tra le posizioni di chi è a favore di un’influenza esterna vi è quella più mediata di Palmer, il quale sostiene che il modernismo di Kawabata è più “tecnico” che “importato”, cioè Kawabata non tentò di “importare l’essenza del romanzo Occidentale, piuttosto ne elaborò le innovazioni probabilmente per espandere e arricchire il suo retaggio letterario” [191]. Washburn sposta l’enfasi, tuttavia, sul grande spirito innovatore, più che sulla continuità con la tradizione [192].

[189] RYAN, cit., pp. 262-266.
[190] HASEGAWA, cit., p. 80.
[191] Thom PALMER, The Asymmetrical Garden: Discovering Yasunari Kawabata, «Southwest Review», 74, 3 (Summer 1989), p. 392.
[192] Dennis C. WASHBURN, The Dilemma of the Modern Japanese Fiction, New Haven, Yale University Press, 1995, p. 247.

In realtà la posizione di Kawabata era molto particolare: come ex-membro della Shinkankakuha e acuto lettore di opere occidentali, Kawabata avvertirà sempre di più, in particolare dopo la seconda guerra mondiale e nel generico panorama di distruzione e ricostruzione del nuovo Giappone, la distanza incolmabile tra la tradizione del passato e la cultura del presente [193]. Gli effetti di un simile quadro globale si ravvisano sia nel suo stile narrativo che nel tratteggio dei personaggi principali delle sue opere, in particolare in Yama no oto: Shingo dimentica e ricorda un po’ lungo tutto il romanzo, tanto che il punto di vista focale è il suo, caratterizzato da una forte discontinuità, di ritorni al passato, di lacune talvolta incolmabili, che spingono a domandarsi, sempre secondo Washburn, “Quanto possiamo considerare affidabile il punto di vista narrativo?” e ancora più direttamente “Quanto possiamo considerare affidabile la realtà delle esperienze individuali e delle immagini che costituiscono la storia?” [194]. L’esperienza di Shingo è quindi frammentaria, come frammentaria e discontinua è l’esperienza del reale dello scrittore stesso: in ciò si ravvisa la grande modernità della narrativa di Kawabata.

Egli stesso, tuttavia, non mancherà di riconoscere il debito della sua narrativa nei confronti della tradizione. Si è parlato in questo senso della tecnica narrativa, descrittiva del flusso dei pensieri dei personaggi principali dei romanzi di Kawabata, come assimilabile allo stream-of-consciousness: Kawabata, al contrario, riconoscerà il suo debito più alle forme poetiche classiche giapponesi piuttosto che a quella tecnica occidentale [195]. Sempre riguardo allo stream-of-consciousness, Kawabata ritiene che le opere di scrittori occidentali (Joyce, Woolf, Proust e Faulkner) non esprimano altro che la decadenza e la problematicità dei tempi moderni, anche se sono meritorie perché aprono nuove strade all’esplorazione della mente dell’uomo [196].

[193] Ibid., p. 248.
[194] Ibid., p. 257.
[195] Nel suo saggio Makura no soshi, citato in HASEGAWA, cit., p. 80.
[196] Ibid., p. 81.

L’origine della scrittura per associazioni e il flusso di coscienza farebbero già parte da secoli, per l’autore, della civiltà giapponese classica, come è ravvisabile nel Kagero Nikki [197], nel Genji monogatari e nel Makura no Soshi.

Leggendo la prosa di Kawabata in traduzione sembra che, tutto sommato, questo effetto di frammentazione del reale non sia poi così evidente. E’ il risultato di un accurato lavoro di traduzione che ha portato sì a restituire la bellezza suggestiva della sua prosa, ma ha finito per cancellare quell’effetto di discontinuo che si respira leggendo l’originale. Perfino Sedeinsticker, che è stato il più grande traduttore di Kawabata in occidente e il più grande fautore del suo successo al di fuori del Giappone, riconosce di non poterne restituire fino in fondo il senso e il ritmo [198]: “le ambiguità di Kawabata […] sono il cuore di ciò che egli vuole esprimere. Egli ha un approccio molto più vicino alla poesia che gli altri due [Mishima e Tanizaki]” [199]. Spesso è proprio la traduzione che rompe la discontinuità presente in Yama no oto, aspetto che è strettamente legato a quello che Palmer chiama “asimmetria” [200].

Per asimmetria s’intende l’assenza, nell’estetica tradizionale giapponese, del raggiungimento di un fine o di un punto di conclusione; è la propensione per l’irregolarità e per il numero dispari. Palmer ne parla in stretta connessione con i giardini giapponesi. L’idea è quella di restituire vastità e molteplicità, attraverso un equilibrio più interno, basato su una “finissima sensibilità giapponese” [201].

[197] Diario di un’effimera かげろふ日記. Si tratta di una delle opere più importanti del periodo Heian. Si sa molto poco dell’autrice nota come la “madre di Michitsuna”. Il diario narra le vicende private e le contrarietà della vita dell’autrice nel periodo dal 954 al 974. Per la traduzione in inglese, si veda Edward SEIDENSTICKER (edit. By), The Gossamer Years, Tōkyō, Charles E. Tuttle, 1974.
[198] Seidensticker stesso riconoscerà i limiti e le difficoltà delle traduzioni in Edward SEIDENSTICKER, Translation: What good does it do? In Jean TOYAMA – Nobuko OCHNER (a cura di), Literary Relations East and West, Vol. 4, Honolulu, University of Hawaii Press, 1991, pp. 177-184. Cfr. Anche PETERSEN, cit. p. 124.
[199] SEIDESTICKER, Translation: What good does it do?, cit., p. 179.
[200] PALMER, cit., p. 391.
[201] Utsukushii Nihon no watakushi, KYZ, vol. 28, p. 353. Cfr. la traduzione di Ornella Civardi in KAWABATA Yasunari, Racconti in un palmo di mano, cit., p. 52 e di Maria Teresa Orsi in KAWABATA Yasunari, Romanzi e racconti, cit., p. 1248. Kawabata parla dell’asimmetria anche in relazione con la disposizione di sabbia e rocce nel giardino di ispirazione Zen, la quale ruota su di un effetto di irregolarità e di tensione verso il vuoto e l’infinito, restituendo l’idea che non possa mai possedere una sua compiuta perfezione. Si legga Isabella CACIOLLI, Giardino giapponese in Marco VANNUCCHI, Progettare con il verde vol. IV: il Giardino storia e tipi, Firenze, Alinea, 1996 (2° ed.), pp. 120-135.

L’asimmetria, perciò, ha una duplice corrispondenza nell’opera di Kawabata. Da un lato è rapportabile alla mancanza di un finale e mostra che alla narrativa dell’autore non premono infatti né compiutezza né perfezione e lo si nota anche dalle numerosissime aggiunte e rimaneggiamenti a distanza di decenni. Dall’altro lato c’è un totale disinteresse per qualsiasi messaggio conclusivo di tipo morale o etico. E’ in questo senso prepotentemente centrale per l’autore una narrativa che provochi perlopiù emozioni e suggestioni [202], nel modo più diretto possibile, anche a scapito del filo narrativo che si rompe continuamente. La semplice mancanza di una progressione strettamente causale accentua la frammentarietà e, come sostiene Ryan “I frammenti suggeriscono, mentre la totalità definisce” [203]. In linea con questo è il pensiero di Valéry: “Se la ‘creazione’ è definita dall’’ordine’, il disordine gli è essenziale” [204]. Lo spirito della letteratura di Kawabata si può sintetizzare nell’appello di Wittgenstein “non parlare, guarda!” [205].

[202] In realtà, David Pollack sostiene che la letteratura è necessariamente legata ad una espressione di pensiero, e perciò ad una ideologia, cfr. David POLLACK, Reading Against Culture: Ideology and Narrative in the Japanese Novel, Ithaca, Cornell University, 1992. La narrativa di Kawabata non fa eccezione e risponde, secondo Pollack, ad una “ideologia dell’estetica” strettamente articolata che si oppone alla più superficiale ”estetica del vuoto”. Si vedano le pp. 100-120.
[203] RYAN, cit., p. 266.
[204] Paul VALÉRY, Aesthetics, tran. by Ralph Manheim, New York, Pantheon Books, 1964, p. 66, citato in STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 171.
[205] PALMER, cit., p. 397.

4.3. Verso un’estetica del vuoto

L’osservazione della realtà sembra così essere, per Kawabata, un momento importante della sua esperienza estetica. Attraverso questa capacità è possibile scorgere il “bello” insito nelle situazioni della vita, per poi restituirlo in letteratura.

Questo processo di tipo osservativo è strettamente correlato a quello che porta a restituire, per mezzo della “purificazione” della realtà, quelle manifestazioni della bellezza simili a vere e proprie “epifanie”. In questo senso si misura la distanza che separa Kawabata dal watakushi-shōsetsu. Non è infatti, come solevano fare gli scrittori dello Shizenshugi, attraverso la descrizione nuda e cruda di avvenimenti concreti e spesso scabrosi del quotidiano che si crea l’arte. Kawabata si muove piuttosto in direzione opposta, cioè verso le fonti stesse del bello, che sembrano le uniche capaci di restituire quella visione “pura” [206] della realtà.

Nei dettagli questa profonda e minuziosa capacità di osservazione, che rappresenta il primo passo nel processo di acquisizione dell’esperienza del bello è, secondo Ichihara, una caratteristica rilevante del costume giapponese [207]. Non è un caso che la maggior parte delle opere di Kawabata siano state scritte, come dichiara egli stesso, nelle pause dei soggiorni durante i suoi numerosissimi viaggi [208], nel corso dei quali, osservando la natura e le persone magari da un finestrino del treno come fa Shingo [209], Kawabata matura la sua visione del reale.

[206] L’aggettivo utilizzato da Kawabata è kiyorakana (清らかな), il sostantivo è junsui (純粋, purezza, genuinità) .
[207] ICHIHARA, cit., p. 255.
[208] Ibid. p. 256.
[209] Kawabata descrive la sua abitudine di fissare le persone in Hinata. McClellan riferisce un episodio nel quale Kawabata riesce a fare piangere una redattrice inesperta semplicemente fissandola, senza dire nulla. Citato in GESSEL, cit., p. 143.

Il secondo passo di questo processo è quello di rendere, in questo caso per il tramite della letteratura, quell’esperienza fulminea, immediata della bellezza, avvicinabile all’esperienza Zen del satori [210]. L’abilità di Kawabata si misura perciò tra le due fasi della percezione della bellezza e quella del distacco necessario per poterla restituire nel processo narrativo.

Lo haikai [211] sembra possedere quelle caratteristiche atte ad esprimere in forma immediata la percezione delle intuizioni di bellezza. La sua estrema brevità, il forte impatto visivo e la presenza di due o più immagini spesso unite per semplice giustapposizione [212] , sortiscono l’effetto di rompere qualsiasi seppur piccola tensione di tipo narrativo e frantumare ogni tentativo di istituire concatenazioni strettamente causali. Gli haikai, infatti, venivano spesso utilizzati dai maestri Zen per mostrare la propria visione del reale e per porre quesiti agli allievi, in modo da preparare le loro menti al satori.

Di seguito riportiamo alcuni esempi di haikai di Matsuo Basho (松尾芭蕉, 1644-1694), poeta itinerante, che fu colui che portò questo tipo di composizione al massimo splendore:

Onde sull’oceano blu
Profumo di sake
La luna di stanotte. [213]

Fragranza di orchidea
Nelle ali di farfalla
Respira l’incenso. [214]

Questa strada
Nessun viandante la percorre
Questa sera d’autunno.
[215]

[210] 悟りsignifica risveglio spirituale, illuminazione, realizzazione.
[211] Lo haikai (
俳諧) è la forma poetica dalla quale in seguito si svilupperà lo haiku. Non vi è una netta distinzione tra haiku, haikai e hokku (lett. “verso che inizia”), e in genere oggigiorno la parola haiku li ingloba tutti (dal glossario di Adriana BOSCARO a KATŌ Shūichi, Storia della Letteratura Giapponese, Vol. 3, Venezia, Marsilio, 1996, p. 300.
[212] STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 119.
[213] “Sōkai no/Nami sake-kusashi/Kyō no tsuki” in UEDA Makoto, Matsuo Basho, Tokyo and New York, Kodansha International, 1982, p. 41. Qui Basho esprime, attraverso la giustapposizione, il contrasto umoristico tra le immagini poetiche dell’oceano e quelle del profumo del sake, il quale evoca un’atmosfera conviviale.
[214] “Ran no ka ya/Chō no tsubasa ni/Takimono su” in ibid., p. 48. E’ possibile notare l’uso della sinestesia: odori si mescolano a immagini visive.
[215] “Kono michi ya/Yuku hito nashi ni/Aki no kure” in ibid., p. 61. La strada descritta da Bashō è qui letterale e simbolica, accostata alla sera d’autunno. Le immagini, oltre che la natura, possono riguardare anche gli uomini.

Kawabata riprende questa tecnica di giustapposizione di due o più sequenze con precisi intenti semantici [216]. Shingo si trova sul treno che lo riporta a casa e vede seduto nella carrozza un uomo occidentale, molto corpulento, che ha vicino a sé un ragazzino il quale, molto probabilmente – sostiene Shingo – si prostituisce.

Shingo sentì come se si trovasse di fronte ad un grande mostro, venuto dall’estero per prendere con sé il ragazzo del posto. Il ragazzo indossava una maglietta rosso cupo e avendo un bottone aperto,
se ne potevano vedere le ossa del petto.
Shingo ebbe la sensazione che la fine di quel ragazzo non sarebbe stata lontana.
Gli venne di distogliere lo sguardo.
Dentro alla fogna puzzolente, crescevano rigogliose file di erbe verdeggianti.
Il treno era ancora fermo.
[217]

La descrizione del ragazzo è seguita dalle valutazioni di Shingo riguardo al suo breve futuro e, subito dopo, per giustapposizione, la descrizione della fogna aperta e puzzolente. Il significato è qui chiaro: la sensazione che provoca in Shingo la visione della scena è accostata a quella dell’odore della fogna.

Effetti di immediatezza, quindi, ma anche di estrema libertà espressiva, rompendo con le solide e rigide forme espressive tradizionali. Per Liman l’effetto è quello che:

le forme solide e le relazioni convenzionali, pietrificate tra gli oggetti, divengono elastiche e liquide, quasi raggiungendo un’ideale trasparenza; gli oggetti tornano alle possibilità aperte e alla libertà del caos prima del tempo, eppure le loro forme riflettono ancora il mondo materiale. [218]

Si ritorna, quindi, a quel “caos primordiale” nel quale gli oggetti possiedono nuovamente infinite possibilità di essere plasmati.

[216] STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 121.
[217] KYZ, vol. 12, p. 504. Cfr. SEID p. 243, SUGA pp. 254-255 e SUGA 2 pp. 682-683.
[218] Anthony V. LIMAN, Kawabata's Lyrical mode in “Snow Country”, «Monumenta Nipponica», 26, N° 3, 1971, p. 283.

Le pause che si formano tra le immagini della composizione, perciò, le quali vengono accostate per semplice giustapposizione, creano dei salti [219] assimilabili agli spazi vuoti della pittura Zen o addirittura al silenzio [220]. L’invito esplicito rivolto al lettore è quello di riempire il vuoto con l’immaginazione. Gli spazi, oltre a suggerirlo, sono anche il riflesso del mu [221], del vuoto stesso [222]. A fronte di possibili incomprensioni riguardo a cosa si intenda precisamente con “vuoto” nell’estetica Zen, Kawabata ce lo definisce chiaramente:

Questo “vuoto” è lo stato che raggiunge il discepolo Zen che “siede con gli occhi chiusi”, per lungo tempo, in silenzio, senza muoversi, così entra in uno stato dove non ci sono né idee né pensieri. Egli così facendo si distacca dal sé e raggiunge uno stato di vuoto. Questo “vuoto” non è il nichilismo all’occidentale, piuttosto il contrario, un mondo di spirito dove tutto comunica liberamente con tutto, oltrepassando tutti i confini, senza limiti. [223]

In sintonia con la definizione dello scrittore, Barthes sostiene che è il “vuoto di parola” che costituisce la scrittura, ed è “da questo che nascono quei tratti con cui lo Zen, nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la violenza” [224]. Questi spazi vuoti sono quindi il necessario divario tra una serie di immagini, spesso semplicemente giustapposte, che conferiscono una sensazione di discontinuità.

[219] In giapponese ma (), ovvero “spazio vuoto”, “intervallo”.
[220] Starrs sostiene che lo haiku sia “la composizione poetica più vicina al silenzio di quanto ogni possibile mezzo verbale possa essere”, in STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 180.
[221]
vuoto in giapponese.
[222] Come sostiene STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 20.
[223] Utsukushii Nihon no watakushi, KYZ, vol. 28, p. 352. Cfr. la traduzione italiana di Ornella Civardi in KAWABATA Yasunari, Il Giappone, la bellezza e io, cit., p. 51 e quella di Maria Teresa Orsi in KAWABATA Yasunari, Romanzi e racconti, cit., p. 1246.
[224] Roland BARTHES, L'impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984, p. 81.

Frammentazione, quindi, ma anche desiderio di raggiungere l’unità tra soggetto che percepisce/oggetto percepito. Tra le figure retoriche utilizzate da Kawabata con questa intenzione sicuramente fa una grossa parte la sinestesia, un punto di connessione, secondo quanto sostiene Starrs, tra Kawabata, la Shinkankakuha e i simbolisti francesi [225]. Ne è esempio il seguente brano, nel quale Shingo si trova nel parco imperiale con Kikuko, subito dopo il suo aborto. Di ritorno da un breve soggiorno dai suoi a Tōkyō, dopo una telefonata di Shingo decide di incontrarsi con lui al parco:

Shingo si trovava in difficoltà e salutò dicendo dolcemente:
«Puoi già tornare a Kamakura?»
«Sì»
Kikuko annuendo con franchezza, disse:
«Vorrei proprio tornarci».
Le sue belle spalle si mossero allorché fissò gli occhi di Shingo. Il movimento della spalle non era stato avvertito da Shingo ma un dolce profumo lo colse di sorpresa.
[226]

Qui l’immagine visiva del movimento delle spalle si fonde con quella del profumo di Kikuko.

In Kawabata, quindi, l’uso di tecniche narrative vicine alla forma dello haiku ha il duplice effetto di sospendere la narrazione e di creare una discrepanza, in mezzo al cui spazio vuoto così creato si inserisce l’intuizione, “l’illuminazione temporanea nella quale vediamo la vita delle cose”, secondo Blyth [227]. Le immagini, insomma, unite allo spazio vuoto tra loro, puntano direttamente ed immediatamente alle intuizioni stesse.

Il risultato è che anche il tempo narrativo si ferma. Come accade nello stagno di Bashō dove cade la rana [228], si giunge dall’altra parte dell’eternità, nel mondo del “tempo senza tempo” [229]. E’ lo stato di mushin [230] e il poeta risiede in questo mondo senza tempo, dove le immagini sono esperibili nella loro purezza e la realtà si esprime nella purezza delle immagini.

[225] STARRS, Soundings in Time…, cit., pp. 136-137. UEDA Makoto sostiene che I simbolisti francesi hanno rivalutato per primi, nel Novecento, le caratteristiche dello haiku che enfatizzavano la visione monistica del reale, attraverso l’uso delle sinestesie. Si veda UEDA Makoto, Matsuo Bashō, cit., p. 178.
[226] KYZ, vol. 12, p. 447. Cfr. SEID p. 189, SUGA p. 196 e SUGA 2 pp. 626-627.
[227] R. H. Blyth, citato in SUZUKI, cit., p. 228.
[228] Si allude al famosissimo haiku di Basho: “Un vecchio stagno/una rana salta/rumore dell’acqua” [Furuike ya/Kawazu tobikomu/Mizu no oto] in UEDA, Matsuo Bashō, cit., p. 53.
[229] Come sostiene SUZUKI, cit., p. 241.
[230]
無心 “senza mente”.

Vi sono all’interno di Yama no oto tre figure principali che restituiscono l’idea della preponderanza delle immagini sulla mera realtà oggettiva. La prima riguarda la similitudine tra la posizione assunta da uno dei cuccioli di Teru, la cagna ospite della casa di Shingo, e un dipinto ad inchiostro di china monocromo [231] di Sōtatsu [232]:

Alla fine Teru si alzò, si liberò dei cuccioli scuotendosi e corse giù dal terrapieno.
Un cucciolo nero che era rimasto attaccato alle mammelle con particolare ostinazione, [nell’occasione] cadde rotolando dalla collinetta.
Poiché era caduto da un’altezza di poco meno di un metro
[233], Shingo trasalì. Il cucciolo si rialzò tranquillo come se nulla fosse e con aria intontita stette lì per qualche secondo, poi cominciò a camminare e annusò il suolo.
«Cos’era?» pensò Shingo. Ebbe la sensazione di avere visto per la prima volta in quel momento la posa del cucciolo, ma anche di averla vista, così com’era, in precedenza. Shingo stette a pensare per un po’.
«Ecco! Era il dipinto d’inchiostro di china di Sōtatsu», mormorò tra sé.
«Eh, è notevole!»
Shingo aveva visto di sfuggita una riproduzione fotografica del dipinto d’inchiostro del cucciolo di Sōtatsu. Il fatto è che aveva pensato che il cucciolo fosse come un giocattolo stilizzato, si meravigliò quindi quando si accorse che si trattava di una riproduzione della vita reale. Se si aggiungeva dignità ed eleganza alla figura del cucciolo nero che stava guardando in quel momento, si otteneva esattamente il dipinto di Sōtatsu.
[234]

Shingo viene particolarmente colpito dalla posa del cucciolo e ciò gli restituisce un’emozione immediata, come se l’avesse vista “per la prima volta”. La posa, però, viene allo stesso tempo accostata al dipinto di Sōtatsu, il quale è sì più stilizzato dell’immagine reale, ma possiede maggiore “dignità ed eleganza”.

[231] Suiboku (水墨).
[232] Tawaraya Sotatsu, pittore giapponese (
俵屋宗達, 1576-1643). Fra le sue opere, i paraventi del dio del Vento e del dio del Tuono.
[233] Nell’originale tre shaku, 1 shaku (
, piede giapponese)=0,994 piedi, quindi 0,3029712 centimetri.
[234] KYZ, vol. 12, pp. 336-337. Cfr. SEID pp. 90-91, SUGA pp. 92-93 e SUGA 2 pp. 524-525.

Le rappresentazioni della realtà che l’arte (in questo caso la pittura) ci propongono, perciò, hanno caratteristiche del tutto speciali:

Nonostante Shingo se lo aspettasse nel profondo del cuore, né il cucciolo nero né gli altri cuccioli mostrarono più la grazia del dipinto di Sōtatsu.
Sia il fatto del cucciolo che era diventato un quadro di Sōtatsu, sia quello della maschera Jidō che era diventata una donna reale, entrambi questi avvenimenti e il loro opposto erano stati rivelazioni casuali, pensò Shingo.
[235]

Le immagini, al contrario della nuda realtà, infatti, non si ripetono mai uguali a sé stesse, e sono generate da avvenimenti del tutto “casuali”, imprevedibili ed immediati.

Nel brano si fa riferimento alle maschere le quali provocano in Shingo un effetto simile a quello del cucciolo. Shingo le acquista da Suzumoto il quale le ha avute dalla vedova di Mizuta per poterle rivendere. Per vedere come sono, ne fa provare una ad Eiko, l’impiegata. La maschera Jido sortisce questo effetto sul suo volto:

Eiko stava così seduta e muoveva la maschera in varie direzioni.
«Splendido, splendido», disse Shingo senza pensare. Con quei soli movimenti, la maschera aveva acquistato vita.
Eiko indossava un vestito color rosso scuro e aveva i capelli ondulati che uscivano dai due lati della maschera, sembrava avere un fascino che avvolgeva Shingo. [236]

[235] Ibid., p. 337. Cfr. SEID p. 90, SUGA p. 93 e SUGA 2 p. 525.
[236] Ibid., p. 331. Cfr. SEID p. 86, SUGA p. 87 e SUGA 2 p. 519.

Eiko non è più Eiko, diventa un tutt’uno con la maschera Jidō e la loro fusione provoca l’immagine della maschera che diventa reale, tangibile, a tal punto che, ad osservarla con calma e da solo, Shingo si trattiene a stento dal baciarla:

Allorché avvicinò gli occhi da sopra, la pelle, liscia come quella di una fanciulla, portò sollievo agli occhi da vecchio di Shingo e la maschera gli sorrise piena di vita e col calore della pelle umana.
«Ah!», Shingo trattenne il fiato. A una distanza di circa dieci centimetri
[237] dal viso, una donna viva gli sorrideva. Era un sorriso di una purezza bellissima.
Gli occhi e la bocca avevano preso davvero vita. Al posto dei fori vuoti c’erano le nere pupille. Le labbra rosse sembravano umide e sensuali.
Shingo, trattenendo il respiro, avvicinò così tanto il naso che le pupille nere galleggiarono verso di lui, e la carne del labbro inferiore si gonfiò. Shingo per poco non la baciò. Emettendo un profondo sospiro, Shingo si allontanò dal viso.
Prese le distanze, gli sembrò tutto irreale. Per un po’ Shingo respirò con affanno.
[…]
Shingo ebbe l’impressione di avere visto l’interno del labbro inferiore della maschera Jidō, dove il colore rosso antico della bocca sfumava dai bordi all’interno delle labbra. La bocca era leggermente aperta e non c’erano denti dietro il labbro inferiore. Le labbra erano come boccioli di fiore sulla neve.
[238]

Più avanti è Kikuko a provarsi la stessa maschera e, ancora una volta, il miracolo si compie:

Poiché il viso di Kikuko era minuto, la maschera lo copriva quasi fin alla punta del mento. Dalla punta del mento che si vedeva sì e no fluivano delle lacrime sulla gola.
Le lacrime continuavano a fluire, erano due, poi tre.
«Kikuko», la chiamò Shingo.
«Kikuko, se ti separassi da Shūichi, hai pensato che potresti insegnare la cerimonia del tè, come l’amica che hai incontrato oggi?»
Kikuko-Jidō fece segno di sì.
[239]

[237] Alla lettera, “tre o quattro sun”, dove 1 sun () o pollice giapponese=3, 03 centimetri.
[238] KYZ, vol. 12, pp. 333-334. Cfr. SEID p. 88, SUGA pp. 89-90 e SUGA 2 pp. 521-522.
[239] Ibid., p. 414. Cfr. SEID p. 160, SUGA p. 166 e SUGA 2 p. 597.

Kikuko e la maschera Jidō, come era stato per Eiko, si identificano e la loro immagine, immediata e improvvisa, si sovrappone al reale.

Talvolta le immagini trasformano la bruttezza in bellezza, purificando il reale, come avviene in questo brano:

Shingo pensò al dipinto in inchiostro monocromo [240] di Watanabe Kazan [241] che aveva visto a casa di un amico quattro o cinque giorni prima.
Sul dipinto era rappresentato un corvo sulla cima di un albero morto. Era intitolato:
«Un corvo ostinato all’alba, la pioggia del quinto mese. Kazan».
Leggendo quei versi, Shingo comprese il significato del dipinto e i sentimenti di Kazan.
Era la figura di un corvo che, in cima ad una albero secco, mentre resisteva alla pioggia e al vento sferzanti, attendeva l’alba. La scena mostrava con inchiostro di china leggero la pioggia che cadeva battendo. Shingo non si ricordava bene la forma dell’albero secco, ma egli pensò che fosse solo uno spesso tronco, spezzato ed isolato. Si ricordava bene la figura del corvo. Forse perché dormiva o perché era stato bagnato dalla pioggia, o per entrambe queste ragioni, il corvo era un po’ gonfio. Aveva un grosso becco. Nella parte superiore del becco l’inchiostro era sbiadito, ed essa sembrava così più grossa e spessa. Gli occhi erano aperti, ma addormentati, come se non si fosse ancora svegliato completamente. Eppure erano forti e come se fossero pieni d’ira. La figura del corvo era stata disegnata piuttosto grande per la dimensione del dipinto.
Shingo sapeva solamente che Kazan era vissuto in grande povertà e si era ucciso facendo seppuku
[242]. Tuttavia, l’illustrazione del «corvo all’alba sotto la pioggia e il vento» esprimeva con efficacia il sentimento di Kazan all’epoca. Era certo che il suo amico avesse messo il dipinto nel tokonoma [243] per accordarlo con la stagione.
«Un corvo di carattere molto ostinato!» aveva commentato Shingo.
[244]

Il corvo qui rappresenta la minuziosa trasfigurazione, nell’ideale dell’arte, dell’ostinazione e dell’orgoglio di fronte alle difficoltà della vita. Shingo capisce i sentimenti del pittore, perché sono quasi gli stessi che egli prova in quel momento, aspettando l’alba nella pioggia autunnale. Il dipinto assume una realisticità e uno spessore che, come nel caso del cucciolo di Sotatsu e delle maschere , conferiscono una vitalità particolare al corvo, rendendo ancor più significativa l’esperienza di stenti e avversità di Kazan.

Il processo di scoperta e di espressione della bellezza diventa quindi il punto nodale dell’esperienza artistica, come viene delineato in modo chiaro ed eloquente da Kawabata nel suo saggio Bi no sonzai to hakken [245], il testo di una conferenza da lui tenuta nell’università delle Hawai nell’estate del 1969. In questo contesto l'autore prende spunto da un'esperienza occorsagli nell'Hotel Hilton di Kahala, nelle isole Hawaii.

[242] 切腹 o harakiri (腹切) alla lettera “tagliare la pancia” è il suicidio rituale giapponese.
[243]
床の間 . Si chiama così la stretta rientranza in un muro nella casa tradizionale giapponese, usata per tenere una pittura, una calligrafia o una composizione floreale.
[244] KYZ, vol. 12, pp. 469-470. Cfr. SEID pp. 208-209, SUGA pp. 217-218 e SUGA 2 pp. 647-648.
[245] Bi no sonzai to hakken, KYZ, vol. 28, pp. 384-385 in inglese in KAWABATA Yasunari, The Existence and Discovery of Beauty, cit., pp. 13-17.

Si trovava su di una terrazza, al tramonto, sulla quale erano disposti dei tavoli da pranzo con i bicchieri rovesciati sopra, già pronti per la cena. Con il sole tropicale, i bicchieri brillarono in modo forte alla base, in modo più delicato all'estremità superiore, in modo da produrre un effetto di luce bellissimo, intenso ed effimero: “quel riflesso, del tipo che non si nota se non ci si pone attenzione, crea una bellezza pura”[246].

Una esperienza della bellezza, dunque, resa disponibile solo a chi è in grado di coglierla. Il protagonista di Yama no oto, grazie al fatto di essere vicino alla morte, sembra averne le capacità. La morte, infatti, “indebolendo l’attaccamento dell’uomo verso la vita, lo porta a risolvere la contraddizione della concezione dualistica della coscienza, rendendo così possibile la percezione immediata e spontanea della natura” [247].

Nella percezione ed espressione della bellezza il tempo si ferma: si tratta di quello che Takeda Katsuhiko definisce l’aion, l’istante verticale, il tempo degli dei “ritagliato in un tratto dell’orizzontale fluire del
tempo”
[248]. Nel campo della letteratura l’aion è il tempo del lirismo, che si contrappone al kairos, il tempo in eterno fluire, il tempo degli uomini [249]. Nell’aion accade che:

il lettore trascinato dalla bellezza del mondo evocato dai poeti dimentichi i limiti del tempo. Come in una pittura. Chi osserva un dipinto guarda uno dopo l’altro e da varie angolazioni le nuvole del cielo, le case tra la neve, gli alberi dai rami nudi. Il suo animo è rapito da innumerevoli immagini che creano sezioni di tempo isolate dal suo fluire. [250]

Se il tempo si ferma per dare rilievo all’istante lirico, la spinta narrativa finisce per giungere ad un empasse.

[246] Bi no sonzai to hakken, KYZ, vol. 28, p. 385. Per la traduzione inglese si veda KAWABATA Yasunari, The Existence and Discovery of Beauty, cit., p. 17.
[247] In Matthew MIZENKO, Bamboo Voice Peach Blossom: Speech, Silence and Subjective Experience, «Monumenta Nipponica», 54, N° 3, 1999, p. 311.
[248] TAKEDA Katsuhiko, Teoria letteraria in Giappone e in Occidente, Milano, Spirali, 1987, p. 153. Takeda prende spunto per la definizione da un saggio di Frank KERMODE, The sense of an Ending: Studies in The Theory of fiction, Oxford, Oxford University Press, 1966.
[249] Per un’analogia con il tempo sacro e il tempo profano nelle religioni si veda Mircea ELIADE, Il sacro e il profano, Torino, Boringhieri, 1984, pp. 47-74.
[250] TAKEDA Katsuhiko, Teoria letteraria in Giappone e in Occidente, cit., p. 154

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