• Tempo, memoria e impulso antinarrativo in Yama no oto di Kawabata Yasunari

Capitolo 4 (seconda parte)

Contro il tempo e il movimento narrativo

4.4. L’impulso antinarrativo e le sue modalità

Abbiamo visto come in Yama no oto la spinta narrativa si affievolisca notevolmente, per scomparire talvolta del tutto. In effetti, c’è chi sostiene che i romanzi di Kawabata non possano neppure essere definiti tali [251]. Ne è convinto perfino Seidensticker, il quale sostiene che “Una delle più problematiche caratteristiche della moderna narrativa giapponese è la tendenza dei romanzi a non sembrare tanto tali, quanto raccolte di brevi racconti” [252].

Seppure questa coesione narrativa non è presente a livello formale, è internamente presente un collante alternativo che consenta al lettore di leggere il romanzo di Kawabata come un qualcosa che abbia una sua giustificata organicità. Il punto di partenza potrebbe essere la visione del protagonista. Ciò che risalta, infatti, da quella maglia di giustapposizioni e parallelismi che sottendono all’opera è che Yama no oto sembra funzionare, secondo Mishima, come “successione reattiva dei sentimenti irrazionalmente provocati da una emozione, come se dipendessero da libera associazione” [253]. Le “vedute liriche” di Shingo sostituirebbero, perciò, la continuità data dalla concatenazione strettamente causale in modo che la percezione del protagonista rappresenti l’unica vera fonte di informazioni sulla realtà.

[251] Come sostiene PALMER, cit., p. 393.
[252] Edward SEIDENSTICKER, Strangely Shaped Novels: a Scattering of Examples, in Joseph ROGGENDORF (a cura di), Studies in Japanese Culture: Tradition and Experiment, Toōkyō, Sophia University Press, 1963, p. 211.
[253] Mishima Yukio zenshū, vol. 31, Tōkyō, Shinchōsha, 1977, p. 210 citato in ICHIHARA Yasuko, Estetica Letteraria di Kawabata Yasunari. Ritorno al passato, in AA.VV., Atti A.I.STU.GIA., XXI, 1997, Venezia, A.I.STU.GIA., 1998, p. 254.

In questo consiste l’aspetto lirico di Yama no oto [254]. In particolare, Kawabata utilizza le percezioni olfattive, tattili e gustative e, solo in seconda analisi, visive, per costruire le visioni del protagonista: le prime tre sono facoltà legate ad uno sviluppo più primitivo rispetto alle facoltà visive, che si sono formate in un tempo più recente nella storia dell’evoluzione dell’uomo. Il parallelo è con la percezione della realtà dei bambini [255] e non risulta casuale che Kawabata tenesse in grande considerazione le composizioni di quest’ultimi, di cui apprezzava la creatività e la freschezza del linguaggio [256].

Sarebbe un errore, tuttavia, confondere la liricità di molti passi di Yama no oto con uno slancio lirico ipso facto dello scrittore. Infatti questo effetto in Kawabata è appositamente indotto nel lettore, anzi, come sostiene Starrs, “calcolato con precisione” [257].

La strategia della visione lirica del protagonista, per quanto presente, non sembra essere però l’unico filo conduttore della prosa, la quale doveva rispondere anche all’esigenza di poter legare, anche se in modo non ortodosso, quelle percezioni tra loro. Kawabata sembra ispirarsi ancora una volta alla tradizione per colmare questa mancanza, in particolare a quella forma compositiva che si chiama renga [258]. Originaria del XII secolo trae origine da un tanka [259] il cui emistichio superiore (kami no ku, 5-7-5) è diviso da quello inferiore (shimo no ku, 7-7) e, insieme, formano il primo mattone di una sequenza di strofe (ku) [260] che normalmente arrivano a cento ma possono anche giungere a mille o diecimila.

[254] Come sostiene LIMAN, cit., p. 267.
[255] Ibid., p. 269.
[256] Si veda UEDA Makoto, Modern Japanese Writers, Stanford (CA), Stanford University Press, 1976, pp. 186-187.
[257] STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 182.
[258] Come sostiene, tra gli altri, Liman, si veda LIMAN, cit., p. 271. Renga (
連歌) ovvero “poesia a catena”.
[259]
短歌 alla lettera “poesia corta”, il genere di componimento poetico più conosciuto in Giappone, che trae origine in epoca classica.
[260]
ovvero “strofa”.

I poeti che contribuiscono alla composizione devono essere almeno due e mai due ku consecutivi devono essere composti dallo stesso poeta. Una serie intricata di ulteriori regole garantisce la variabilità e la freschezza, che sono ciò che conferisce corpo al renga [261]. Mai, infatti, i poeti sanno dove il renga giunga: il tema non viene fissato in anticipo perciò i ku sono collegati tra loro per mezzo di associazioni.

Questa impossibilità strutturale di una progressione lineare, unita ad una apertura verso infinite opportunità di sviluppo che scaturivano dal fatto che il poeta non sapesse mai dove si andasse a finire, rendevano l’interazione continua, dinamica e organica [262]. In questo contesto l’uso della poesia viene spesso accostato a quello che ne facevano i surrealisti, a Bréton in particolare [263]. Ciò trova fondamento nell’apprezzamento di quella corrente artistica da parte della Shinkankakuha.

Grazie a questa intricata serie di regole, perciò, la pratica del renga di fatto favoriva l’annullamento del singolo individuo nel contesto della poesia. Questa progressiva scomparsa del soggetto [264] fornisce al renga una estrema modernità e, secondo Starrs, in questo senso se ne ravvisano le radici nel Buddismo Zen [265].

Nella mancanza di una qualsiasi progettualità e nelle sue possibilità liriche grazie all’annullamento della divisione soggetto/oggetto, il renga sembra possedere perciò le caratteristiche per estinguere qualsiasi spunto narrativo, perciò qualsiasi concatenazione strettamente causale.

[261] Si veda ŌOKA Makoto, The Unexpected Universality of the Modern Japanese Literary Tradition, in AA.VV., The Voice of the Writer 1984: Collected Papers of the 47th International P.E.N. Congress in Tōkyō, Tōkyō, the Japan P.E.N. Club, 1986, pp. 238.
[262] Come sostiene ŌOKA, cit., p. 238.
[263] Ibid., p. 239.
[264] In sintonia con la moderna psicologia, che frantuma l’io in svariate entità e modalità percettive.
[265] STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 176. L’illusione dell’esistenza di un io (ātman) trae origine, per il Buddismo, dalla persistenza dei cinque cosiddetti skandha (aggregati) che danno l’idea della continuità dell’individuo. In realtà, esso non esiste (anātman) perché muore e si rigenera secondo per secondo, si veda BOTTO, cit., pp. 60-61.

Come struttura compositiva il renga, quindi, viaggia in direzione marcatamente opposta a quella della narrativa, ma sarebbe inesatto dire che è privo di qualsiasi tensione. Più correttamente, la spinta che sottende al renga è “antinarrativa” dove quell’“anti” esprime la positività, la presenza, piuttosto che l’assenza di qualcosa, che si oppone alla narrazione strettamente lineare e la sostituisce.

Anche la narrativa di Kawabata risponde perciò a delle regole che non sono, ovviamente, quelle del romanzo occidentale, ma sono in una certa misura assimilabili a quelle del renga. Innanzitutto molte delle suggestioni che vengono indotte sono causate da quell’effetto che in cinematografia si ottiene grazie alla sovrapposizione o alla rapida successione di immagini, spesso senza una concatenazione esplicitamente causale [266]. Grazie alle sue capacità elaborative, la mente umana crea automaticamente le connessioni tra le varie immagini, riempie cioè i vuoti tra un’immagine e le successive [267]. In questo senso l’occhio di riguardo è ancora una volta rivolto verso il lettore, in particolare al lettore medio della società giapponese dell’epoca [268], nella mente del quale Kawabata desidera evocare associazioni, mostrare più che dire, “presumendo nel lettore l’energia potenziale necessaria per ricostruire in un insieme unico quanto spesso giunge in pezzi frammentati” [269]. L’intento dell’uso sapiente di questa tecnica di sovrapposizione ed accostamento da parte di Kawabata è quello perciò di estendere le possibilità della prosa, enfatizzandone le possibilità allusive.

[266] Per la connessione tra la Shinkankakuha, Kawabata e il cinema si vedano le pp. 23-24.
[267] In questo senso si può affermare che la prosa di Kawabata si basa su illusioni, come sostiene
ICHIHARA, cit., p. 253.
[268] Come sostiene STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 182.
[269] Keith COHEN, Cinema e narrativa: le dinamiche di scambio, Torino, ERI, 1982, p. 19.

La ricerca costante, perciò, di una narrativa che suggerisce ed evoca, prima che affermare, porta lo scrittore a presentare immagini che di per sé sono semplici, spesso legate alla tradizione culturale giapponese, ma che rimandano a significati più oscuri ed impliciti e possiedono perciò una forte valenza simbolica. Le rappresentazioni della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e del ginko sono solo alcuni di questi simboli [270]. Ecco come Kawabata utilizza le immagini della luna e delle fiamme:

La città risplendeva nella luce della luna, Shingo guardò verso il cielo.
La luna era immersa in una fiamma. Shingo, almeno, ebbe questa sensazione momentanea.
Le nuvole attorno alla luna avevano una forma curiosa, facevano pensare o alle fiamme dietro ai dipinti Fudō
[271] o ai fuochi fatui. Erano fiamme dipinte in un quadro.
Tuttavia le fiamme delle nuvole erano fredde, e di un bianco opaco, anche la luna era fredda ed opaca. Improvvisamente Shingo sentì l’autunno penetrare dentro di lui.
La luna era ad oriente, quasi piena. In mezzo alle nuvole di fiamma, essa sfumava leggermente nelle nuvole alle estremità.
Oltre alle nuvole candide che contenevano la luna, non vi erano altre nuvole nelle vicinanze. Il colore del cielo, una sola notte dopo il temporale, era diventato nero cupo.
I negozi della città erano chiusi, e anch’essa, in una sola notte, aveva preso una aspetto malinconico. Le persone tornavano a casa dal cinema percorrendo strade silenziose.
[272]

[270] Come sostiene MALATESTA, cit., p. 194.
[271] Fudo è una divinità buddista (corrisponde ad una delle molteplici manifestazioni del bodhisattva Avalokitesvara), è il dio del fuoco e contrasta tutti i demoni. Nelle iconografie è rappresentata come divinità irata, con occhi neri minacciosi e circondata da linguelle di fuoco.
[272] KYZ, vol. 12, pp. 293-294. Cfr. SEID p. 52, SUGA p. 52 e SUGA 2 p. 486.

Shingo sta tornando a casa dopo aver visto un film con la moglie, il figlio e la nuora. Lo sguardo va verso il cielo e, immediatamente, i suoi sensi si perdono nelle nuvole fiammeggianti che avvolgono la luna. Il linguaggio è semplice e vi sono numerose ripetizioni, ma è allo stesso tempo allusivo ed elegante, conferendo una valenza simbolica e misteriosa al brano [273]. Più avanti, i pensieri di Shingo sembrano chiarirne il senso:

Aveva avuto la sensazione di essere giunto più che mai ad un momento decisivo della vita. Gli sembrò che urgesse prendere una decisione. [274]

Le immagini della luna e della fiamme, perciò, sembrano possedere una valenza simbolica che si estende alle persone. Come sostiene Kenneth “Nella misura in cui le emozioni umane soggettive sono diffuse e oggettivate negli oggetti inanimati della natura, questa diviene la controparte della personalità umana” [275].

Già nella poesia classica giapponese le immagini della luna, della neve e dei ciliegio in fiore erano manifestazioni non solo della bellezza della natura, ma anche dei sentimenti umani. E’ ancora più chiaro, perciò, il legame tra la narrativa di Kawabata e forme compositive più antiche come haiku e renga.

A fronte della sua apparente semplicità, tuttavia, queste oggetti possono assumere svariate valenze simboliche, ciascuna con una sua giustificata validità. Quale possa poi essere quella intesa da Kawabata, non ci è dato saperlo né pare plausibile che lo scrittore volesse darci un’interpretazione chiara e definita della realtà.

Uno dei simboli più ricorrenti in Yama no oto è quello del ciliegio. La sua valenza più immediata è legata in Giappone alla visione tradizionale dei suoi fiori come manifestazione della bellezza effimera. Essi, infatti, cadono pochi giorni dopo che sono sbocciati. Esistono, tuttavia, altre valenze meno apparenti che compaiono un po’ lungo tutto il romanzo e che dipendono dal contesto in cui l’immagine è evocata.

[273] Come sostiene Miyoshi Masao, questi oggetti hanno esistenza di per sé e Kawabata non ci fornisce una chiave per collegarli a persone o per collegarli fra loro, per quanto spesso inviti il lettore a sforzarsi a farlo. Cfr. MIYOSHI Masao, Accomplishes of Silence – The Modern Japanese Novel, Berkeley, University of California Press, 1974, p. 119.
[274] KYZ, vol. 12, p. 294. Cfr. SEID p. 52, SUGA p. 53 e SUGA 2 p. 487.
[275] KENNETH, cit., p. 103

Quasi sempre il ciliegio è legato alle situazioni dei personaggi nel romanzo e in genere funziona da punto catalizzatore dell’attenzione del protagonista e, con lui, del lettore. In ben cinque occasioni le cicale volano verso il ciliegio o sono da esso attratte, quasi come la sua figura possedesse una forza magnetica. Spesso, inoltre, l’attenzione di Shingo è concentrata sulla sua figura e in un caso succede poco prima che Shingo oda il suono della montagna. Il ciliegio, inoltre, è collegato ai problemi famigliari del protagonista: quello che Shingo ha in giardino, infatti, è parzialmente coperto da un cespuglio di yatsude che Shingo si decide a potare (ma non tagliare completamente) dopo l’aborto di Kikuko e quando si intuisce che ormai la relazione tra Shūichi e l’amante Kinuko è al capolinea. Dopo averlo potato, infatti, Kikuko sembra davvero felice, il suo viso è radioso, e Shingo nota che è da tanto tempo che non la vedeva così.

Rispetto al ciliegio, la figura del ginko è più maestosa e più resistente. Se questa è la valenza simbolica più evidente che l’albero ricopre un po’ per tutto il romanzo, cioè quella della forza e della resistenza, ve n’è una, tuttavia, più discreta e meno visibile. Al principio del quarto capitolo Kawabata ci spiega la disposizione dei famigliari a tavola, le posizioni occupate e la loro vista da quella posizione. Shingo e Kikuko danno uno di faccia all’altro e l’albero di ginko si trova proprio di fronte a lui, nella stessa porzione visiva dell’immagine di Kikuko. Questa, al contrario, siede sempre di spalle all’albero e oltretutto non lo osserva quasi mai, tanto che Shingo la rimprovera di non guardarlo. La grande pianta sembra perciò legata in qualche modo al rapporto tra Shingo e Kikuko, tanto che lo si ritrova di fronte a quest’ultima quando Shingo la incontra nel parco imperiale.

Perciò il simbolo, pur avendo una sua valenza più superficiale, ne contiene altre più nascoste e sfuggenti. In molta prosa di Kawabata sembra di poter scorgere un significato recondito, spesso elusivo, di cui lo scrittore non ci dà spiegazione e non sembra neppure fornire nessun strumento necessario per l’interpretazione, quasi come se non fosse interessato a mostrare un’associazione univoca con contenuti strettamente semantici, ma più a indurre artatamente nel lettore sensazioni, stati emotivi.

Questo accostamento di suggestioni, le quali variano per intensità e qualità a formare il tessuto del romanzo, è assimilabile a quel procedimento che Burke chiama “progressione qualitativa” [276], la quale funziona nei dettagli in questo modo: ad una scena che induce nel lettore un certo umore, viene fatta seguire una scena di tono totalmente diverso da quello che ci si aspetterebbe, spesso più elevato. Ad esempio, dopo che Kawabata ci ha presentato un brano dalle valenze quasi drammatiche, mostrandoci Shingo che pensa ai suoi problemi polmonari, osserva il vecchio corpo della moglie che dorme e ne ascolta il russare, ci offre questa descrizione della natura dal tono sostenuto e lirico, che contrasta notevolmente con la parte precedente. Vale la pena citarlo per intero:

Era una notte di luna piena.
Penzolava dalla finestra un vestito di Kikuko. Era di un brutto colore bianco pallido. Shingo pensò:
«Si sono dimenticati di tirare dentro il bucato?»
Ma forse l’avevano lasciato nella rugiada appositamente per togliere le macchie di sudore.
«Cri, cri, cri», gridi striduli si udivano nel giardino.
Erano cicale sul tronco del ciliegio a sinistra.
Non si immaginava che le cicale potessero gridare in modo così stridulo, però si trattava di cicale.
Poteva darsi che una cicala avesse degli incubi?
Una cicala volò all’interno e si fermò sull’orlo della zanzariera.
Shingo afferrò la cicala, che non emise alcun suono.
«E’ muta», mormorò Shingo. Poteva non essere una delle cicale che aveva gridato.
Perché non volasse nuovamente, attratta per sbaglio, verso la luce, Shingo scagliò la cicala mirando verso la cima del ciliegio a sinistra, con tutta la sua forza.
Nella sua mano sinistra non c’era più nulla.
Appoggiandosi alla finestra, Shingo guardò in direzione del ciliegio. Non sapeva se la cicala si fosse fermata o meno là.
Sembrava che la notte di luna fosse profonda, si avvertiva quella profondità da tutti i lati, in lontananza.
Sebbene agosto fosse cominciato da poco, si udivano già gli insetti cantare.
Si udiva anche il suono della rugiada che gocciolava da una foglia all’altra.
Poi, improvvisamente, Shingo udì il suono della montagna.
Non c’era vento. La luna era luminosa, quasi piena, ma l’aria notturna era umida, i contorni degli alberi che delineavano la cima della collina erano confusi.
Essi, tuttavia, erano immobili.
Neppure una foglia della felce sotto la veranda dov’era Shingo si muoveva.
Nei recessi della cosiddetta yato, la valle di Kamakura, anche nella notte si udivano le onde, quindi Shingo pensò che potesse trattarsi del suono del mare, ma era invece il suono della montagna.
Somigliava al suono del vento lontano, ma possedeva una forza profonda come fossero rimbombi della terra.
Pensando che fosse un ronzio nel suo orecchio, poiché giungeva fin dentro la sua testa,
Shingo provò a scuoterla.
Il suono smise.
Dopo che il suono ebbe cessato, Shingo ebbe per la prima volta paura.
Rabbrividì pensando che si potesse trattare del preannuncio della morte.
Shingo pensò di aver riflettuto con calma se si fosse trattato del suono del vento, del mare o di un ronzio nell’orecchio, ma non si trattava di un suono simile.
Era sicuramente, tuttavia, il suono della montagna.
Era come se fosse passato un demonio, facendo risuonare la montagna.
A causa della notte luminosa e piena d’umidità, l’erta ripida del lato anteriore della montagna sembrava erigersi come un muro oscuro.
Poiché era una montagna così piccola che rientrava interamente nel giardino della casa di Shingo, quella muraglia sembrava un uovo tagliato a metà.
C’erano altre colline a lato e dietro la collina, ma quel suono sembrava fosse giunto da quella particolare collina alle spalle della casa di Shingo. [277]

[276] Kenneth BURKE, Counter-Statement, Los Altos, Hermes Publications, 1953, p. 125, citato in STARRS, Soundings in Time…, cit., pp. 182-183.
[277] KYZ, vol. 12, pp. 247-248. Cfr. SEID pp. 7-9, SUGA pp. 9-10 e SUGA 2 pp. 443-444.

Dopo aver ascoltato il russare della moglie, Shingo apre la finestra, la quale, in questo senso, funziona da tramite tra due mondi, come già visto nel capitolo precedente. La luna è qui simbolo di bellezza e di calma. La sua luce illumina i vestiti di Kikuko, che ci viene presentata così, indirettamente, per la prima volta. Gli stimoli uditivi, cioè il frinire delle cicale, si mescolano a quelli visivi: l’immagine del ciliegio “a sinistra”, ad indicare quasi come se anche il lettore potesse vederlo nel contesto della scena. Dall’immagine delle cicale sul ciliegio si passa ad un’esperienza tattile: Shingo ne afferra una e constata che è muta. Questa “sensazione” di silenzio si estende anche allo spazio intorno alla casa, illuminato dalla luna, quasi tangibile. Poi la sfera tattile lascia nuovamente il posto a quella uditiva: le cicale e gli insetti, le gocce di rugiada e, alla fine, il suono della montagna. A questo punto l’esperienza tattile (il vento, l’umido) si fonde con quella visiva: l’assoluta immobilità nonostante la presenza del vento. Ecco che la suggestione torna al suono della montagna, che viene scambiato da Shingo, in un primo tempo, con il rumore delle onde del mare. Quel suono è simile al rimbombo della terra stessa, di cui ne possiede la forza. Il paragone è un “demonio” che avesse scosso, passando, (e qui c’è l’associazione suono della montagna=passaggio del demonio=l’avvicinarsi della morte) la montagna e l’avesse fatta suonare. Le suggestioni tornano, quindi, ad essere visive, e l’autore ci restituisce le impressioni di Shingo sulla forma e la consistenza della montagna stessa, che altro non è se non un terrapieno dietro casa sua.

Questo brano è quasi esclusivamente costruito su suggestioni che, utilizzate nel senso descritto da Burke, rappresentano uno dei collanti tramite il quale si regge la delicata economia dell’opera. Starrs suggerisce di chiamare le progressioni qualitative “salti qualitativi” [278] proprio perché in Kawabata non riflettono una concatenazione strettamente causale.

Il brano è a pieno titolo considerato uno dei capolavori della prosa di Kawabata. Come sostiene Starrs, è attraverso questi passi che traspare il valore lirico della sua narrativa [279].

Poco più avanti nel romanzo, Shingo ha appena udito il suono della montagna e si appresta a chiudere le persiane quando gli viene in mente l’episodio di tentato suicidio narratogli dalla geisha nella casa da tè [280]. La reminescenza è evocata dal fatto che Shingo pensa alla sua morte e gli viene in mente quella tentata dalla geisha.

[278] STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 184.
[279] Ibid., p. 184. Starrs giunge a chiedersi se “le opere di Kawabata sarebbero sopportabili, qualora il loro tono generalmente basso non respingesse molti lettori a causa dell’assenza di frequenti interiezioni di immagini artistiche o della natura che ne elevano il tono”.
[280] Si vedano le pp. 47-48.

Questa tecnica di transizione da una scena all’altra grazie ad una associazione nella mente del personaggio centrale, un po’ come accade con il filo conduttore del renga, è quella che Burke chiama “progressione associativa” [281]. Dal momento che il tono del brano della geisha, apertamente ironico, è diverso da quello che lo precede, ecco che il salto qualitativo si abbina a quello associativo [282].

Queste tecniche antinarrative, perciò, si uniscono e contribuiscono a creare la prosa di Kawabata, quella che Konishi Jun’ichi, associandola al renga, chiama “sinfonia di immagini” [283], enfatizzando l’aspetto antinarrativo e strettamente associativo. Eppure, come in una sinfonia musicale, vi è un motivo ricorrente che si esprime in una infinità di scale diverse. Sono, perciò, “forme ripetitive” [284] che operano come successioni di immagini che presentano lo stesso tono, ma con delle piccole differenze, come nei due passi in cui si parla del fiorire dei semi di loto dopo secoli [285].

La prosa di Kawabata, quindi, è forte di tensione antinarrativa che non significa, però, assenza totale di una spinta, di un movimento. Come nella musica, il movimento non sempre è suggerito da concatenazioni causali, ma da sottili richiami e da ripetizioni sul tema.

[281] STARRS, Soundings in Time…, p. 185.
[282] Starrs propone, in analogia a quello qualitativo, di rinominare la progressione associativa “salto associativo”.
[283] Citato in STARRS, cit., p. 176.
[284] BURKE, cit., p. 125, citato in STARRS, cit., p. 187.
[285] Si vedano le pp. 69-71.

4.5. Esempi di uso degli schemi temporali e relativo grafico

     4.5.1. Premessa metodologica

In appendice sono riportati due schemi temporali e un grafico. Il principio ispiratore della loro redazione risponde ad una doppia esigenza. Da un lato è stato necessario approntare uno strumento che consentisse di individuare con precisione il flusso temporale del romanzo e, perciò, notarne le “anomalie”. E’ stato, quindi, uno strumento importante per la compilazione di questo lavoro. Il secondo principio ispiratore si identifica con la necessità di facilitare il lettore, il quale abbia più o meno confidenza con Yama no oto, ad avere un quadro abbastanza completo non solo degli avvenimenti salienti nel romanzo, ma alla loro collocazione all’interno dello sviluppo narrativo.

Lo schema temporale sinottico mostra, in una sola tavola, gli avvenimenti principali del romanzo. Esso è di supporto allo schema temporale dettagliato e rivolto al lettore che già ne abbia dimestichezza.

Il grafico temporale mostra le variazioni temporali rispetto al flusso narrativo principale. L’asse delle ascisse rappresenta appunto quel flusso e i quadratini lo scostamento degli avvenimenti salienti, indicati in ascissa da un numero, il quale fa riferimento allo schema temporale dettagliato. Sull’asse delle ordinate sono riportati i valori temporali. I quadratini rossi indicano un evento i cui riferimenti temporali nel romanzo sono abbastanza precisi, quelli gialli gli eventi che rimandano ad un passato imprecisato. I quadratini verdi hanno a che fare con un’incongruenza temporale desunta sulla base dei riferimenti temporali prossimali e non. I quadratini blu, invece, indicano un evento temporale fuori scala.

Lo schema temporale dettagliato presenta, innanzitutto, il titolo del capitolo a cui fa riferimento con il rispettivo numero. In ciascuno dei riferimenti temporali di ciascun capitolo è indicato:

a) Il numero progressivo (per identificarlo nel grafico temporale).

b) Il riferimento temporale in grassetto (in grassetto corsivo quelli che seguono il flusso narrativo     principale, in grassetto normale gli altri).

c) L’evento ed eventuali annotazioni.

d) I riferimenti, rispettivamente, all’originale (KYZ, vol.12), alla traduzione in inglese di Edward     Seidensticker (KAWABATA, Yasunari, The Sound of the Mountain, tr. di Edward Seidensticker,     London, Secker and Warburg, 1970), a quella in italiano di Atsuko Ricco Suga (KAWABATA,     Yasunari, Il suono della montagna, a cura di Atsuko Ricco Suga, Milano, Bompiani, 1991 (1969)) e     alla sua recente revisione (KAWABATA, Yasunari, Il suono della montagna, trad. di Atsuko Ricco     Suga, in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 2003, pp. 437-714).

Ai fini della compilazione dello schema non sono stati tenuti in considerazione le interruzioni del flusso narrativo causate dai pensieri del protagonista o di uno qualsiasi dei personaggi, qualora non coincidano coi ricordi di avvenimenti. Questo perché ciò avrebbe richiesto un lungo studio approfondito in separata sede, dato il loro grande numero. Vi è un’altra considerazione non trascurabile, inoltre. In Giapponese i pronomi personali sono spesso omessi e quindi è talvolta difficile capire quando pensieri e opinioni sono una considerazione indiretta dell’autore-narratore e quando sono pensieri diretti del protagonista.

     4.5.2. Esempi di uso

Osservando il grafico temporale, una caratteristica salta subito all’occhio: ci sono molte e significative variazioni temporali all’interno del romanzo. Esse corrispondono, perlopiù, ai pensieri del protagonista e ai suoi ricordi. Queste variazioni fluttuano anche all’interno di ogni singolo capitolo, e possono riferirsi ad eventi vicini nel tempo (ore prima) o a decenni prima, così come possono occupare poche righe o intere pagine.

Le fluttuazioni temporali possono essere o meno collegate con le strutture antinarrative della prosa di Kawabata che abbiamo incontrato nel corso di questo lavoro: in breve i simboli, i salti qualitativi ed associativi e le forme ripetitive. Possono, oppure, avere a che fare con quelle modalità che riguardano più specificatamente l’ottica del protagonista, cioè il suo personale modo per arginare lo scorrere del tempo: ricordi, sogni e fantasie di sonno secolare.

I capitoli che, in genere, hanno un più alto numero di salti temporali, come il primo o il quarto, possiedono anche un significativo numero di stratagemmi antinarrativi. Sul primo capitolo sono già state forniti numerosi esempi esplicativi, il quarto sembra altrettanto interessante.

Il capitolo si apre con la figura del ginko che germoglia fuori stagione (4,1 [286]), un’immagine già di per sé abbastanza simbolica. La narrazione prosegue con la descrizione dei posti occupati a tavola dai famigliari, indugia nelle descrizioni del ciliegio e del ginko nel giardino di Shingo, collegate, e qui abbiamo la prima variazione temporale, con la loro perdita di foglie durante la notte di tifone (4,2) descritta nel capitolo terzo (3,2). Successivamente, mentre parla con Yasuko, Shingo nota degli amaranti, che gli fanno ricordare (salto associativo; 4,4) la testa di girasole per terra vista vicino a casa durante il capitolo secondo (qui la testa era simbolicamente legata a quella di Shingo e alla sua figura di eroe; 2,2-3, p. 68). Yasuko, invece sogna la casa di campagna (4,3) e solo successivamente si parla dei dettagli del sogno e di quella casa, che si trova a Shinshu, il luogo natale di Shingo, che è anche dove Shingo e Yasuko si sono sposati. C‘è il riferimento, quindi, ad un riccio di castagna (4,8; da qui il titolo del capitolo) caduto durante la cerimonia di nozze, circa trent’anni prima (4,9; altro salto temporale e salto associativo, perché Shingo si ricorda del riccio quando rievoca mentalmente le nozze). Sempre per salti associativi, stavolta meno marcati, dal riccio si passa a parlare del rapporto tra Yasuko e la sorella, poi morta, e al cognato (il marito della sorella; 4,10).

[286] Tra parentesi i riferimenti al capitolo e al numero d’ordine nello schema temporale e, se presente, separato da un’ulteriore virgola, il riferimento alle pagine nella trattazione.

La narrazione ritorna nuovamente, per un salto associativo, al flusso principale, cioè al telegramma che avvisa Shingo che Fusako è andata per qualche tempo a stare in quella casa di campagna (4,12), indi, (altro salto associativo) ai problemi di Fusako (4,13). Successivamente giunge la notizia della morte di Toriyama e la partecipazione di Shingo al suo funerale (4,14, pp. 49-51) i cui eventi rappresentano per Shingo l’occasione per riflettere, in una ridda di pensieri, sulla vecchiaia, la morte e la responsabilità dei genitori nei confronti dei figli (4,16, p. 51). Il sottocapitolo si chiude con un salto qualitativo, seppure breve, nel quale Shingo osserva dei passeri svolazzare nel tetto del tempio. Tornato in ufficio, Shingo intrattiene degli ospiti e comincia a pensare alle cince e ai passeri nel giardino di casa visti quella mattina mentre si lavava (4,17, p. 82). Il ricordo viene evocato dai passeri che vede nel tetto del tempio poco dopo il funerale di Toriyama e prima di tornare in ufficio (salto associativo). Successivamente Shingo convince Eiko a portarlo alla casa dell’amante di Shūichi, ad Hongō, ma Shingo non entra e finisce per tornare a casa sua (4,18).

Vi sono dei capitoli dove i salti temporali sono sporadici o abbastanza inconsistenti, tanto da far pensare che non siano presenti dispositivi antinarrativi. E’ il caso, ad esempio, dei capitoli quattordicesimo e quindicesimo. Il capitolo quattordicesimo presenta la particolarità di essere molto breve e di descrivere l’arco di una sola giornata della vita di Shingo, cioè quando si reca ad Hongō a parlare con Kinuko per convincerla ad abortire (14,1). Vi è, però, nella parte finale, il sogno delle zanzare (14,6, pp. 64-65) che, per la sua estensione e per la sua valenza simbolica, ci mostra che non necessariamente l’assenza di salti temporali indichi la mancanza di strutture antinarrative. Nel capitolo quindicesimo, infatti, ci sono pochi salti temporali ma diversi salti qualitativi. Il primo è al principio, quando Shingo ci parla dei filari di acacia. Qui la descrizione dei fiori caduti e il sentimento di mono no aware del protagonista sono seguiti dalla brusca informazione che Shingo era tornato da una visita a un amico malato di cancro al fegato e perciò vicino alla morte (15,2, p. 81). Con un salto associativo, la caduta dei fiori di acacia è accostata alla morte prossima dell’amico e di riflesso alla incombente morte di Shingo. Un altro salto qualitativo è quando Shingo, dopo aver osservato (15,3, p. 89) il giovane che si prostituiva all’uomo occidentale, gira la testa e osserva le piante che crescono rigogliose dentro la fogna puzzolente (qui il salto di tono è meno forte ma comunque presente). Successivamente Shingo fa il sogno delle uova (15,4), poi c’è una “forma ripetitiva”, il riferimento cioè alla scena dei fiori di loto che fioriscono dopo secoli (15,6-7, pp. 70-71), di cui si era parlato in un capitolo precedente (10,5-6, p. 69-70). Subito dopo la scena dei fiori di loto c’è la fantasia di sonno di Shingo, che si immagina di poter dormire per secoli e svegliarsi in un mondo nuovo (15,7, p. 71). Conclude il capitolo un salto qualitativo: dalla scena del commiato all’amico appena morto di cancro al fegato si giunge alla telefonata di Kikuko a Shingo (15,9), nella quale ella lo avvisa che si è decisa a tornare a casa e che vuole incontrarlo prima al parco imperiale. Dopo la telefonata Shingo sente un dolce calore che lo riscalda.

Altri capitoli sono collegati tra loro da una serie di rimandi o di forme ripetitive. Ad esempio nel capitolo tredicesimo, mentre Shingo parla con Eiko in trattoria (13,12), viene ricordato il fatto di essere stati a ballare insieme (2,14) e lui ricorda di avere visto il fiocco bianco nei suoi capelli quel giorno, mentre era il giorno del tifone (3, tra 7 e 8). Altrove viene fatto riferimento (10,3), con una valenza simbolica, ai pini che Shingo scorge dal treno il giorno che Shuichi gli comunica che Kikuko ha abortito. Gli stessi pini ricompaiono successivamente (11,6), sempre mentre Shingo ripercorre quel tratto in treno. Stavolta, però, il protagonista non riesce a provare la stessa meraviglia di quando li osserva la prima volta, perché li associa con il ricordo dell’aborto e di lì con Kikuko. I rimandi, però, possono anche essere più sottili: nel capitolo quattordicesimo, ad esempio, durante il sogno delle zanzare (14,6, pp. 64-65) Shingo ricorda di essersi diviso in due e a uno dei due Shingo sono uscite fiammelle dalle maniche, quelle stesse fiamme che sembrano circondare le nuvole nel capitolo terzo (3,9, p. 101), accostandole ai dipinti Fudō.

Molte altre connessioni, perciò possono essere fatte sullo spunto degli schemi temporali e con la lettura attenta del testo. Questi esempi, lungi dal essere esaustivi, servono solo come illustrazioni di possibili letture e associazioni.

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