• Tempo, memoria e impulso antinarrativo in Yama no oto di Kawabata Yasunari

Capitolo 3

Il viaggio della memoria e la sua reazione

3.1. Il viaggio e la coscienza

L’esperienza di Shingo si può inscrivere all’interno di una doppia serie di sistemi di riferimento: le coordinate spazio-temporali e quelle della coscienza.

Egli si trova in perenne viaggio: ci viene mostrato in movimento fin dal principio del romanzo [74]. Oltre al mondo di Tōkyō, dove lavora, e a quello di Kamakura, dove vive, nei pensieri di Shingo si trova Shinshū, la sua località natale e d’infanzia. I suoi viaggi, quindi, si svolgono nell’ambito di queste tre luoghi, ciascuno con una valenza simbolica ben precisa.

Tōkyō rappresenta il mondo della cruda realtà. Si tratta non solo del luogo dove Shingo lavora, simboleggiante quindi la responsabilità e gli obblighi, ma ha a che fare anche con la lontananza dalla natura, con il traffico caotico. Qui l’amica di Kikuko e successivamente Kikuko stessa finiscono per abortire. A Tōkyō viene ricoverato l’amico di Shingo malato di fegato e sempre qui muoiono e si celebrano i funerali di tutti gli altri amici del protagonista. E’ il luogo della morte. Kamakura, invece, è una località intermedia tra inferno e paradiso. Per Shingo simboleggia il contatto con la natura, è la sua casa, una specie di limbo tra il luogo della sofferenza e la felicità. Tuttavia, nonostante il forte potere rigenerativo del posto, Kamakura non è ancora “i giardini del paradiso” [75].

[74] Kawabata stesso amava i viaggi. Passava gran parte del tempo in hotel e pensioni. Keene lo definisce “viaggiatore perpetuo” (KEENE, cit., p. 839).
[75] TSURUTA Kinya, The Twilight Years, East and West: Hemingway's The Old Man and the Sea and Kawabata's The Sound of the Mountain, in UEDA Makoto (edited by), Explorations, Lanham (MD), University Press of America, 1986, p. 89.

L’aspirazione dei sogni di Shingo è pero Shinshū (信州) [76], il suo paese natale. Esso è così importante perché rappresenta l’infanzia, la spensieratezza, i ricordi della sorella di Yasuko, bella e pura. E’ il luogo dove Shingo vorrebbe tornare alla fine di questo viaggio. Si tratta di un vero e proprio spazio a sé stante, distante sia da quello degli uomini che da quello della natura.

I tre mondi si riflettono anche nelle tre distinte cerchie famigliari che fanno capo al romanzo: la famiglia Shingo-Yasuko, quella Shuichi-Kikuko, infine il trittico Fusako-Satoko-Kuniko.

La triplice evoluzione del romanzo è visibile anche a livello temporale: tre, infatti, sono i tempi dell’opera. Il passato rappresenta il luogo della memoria, dove Shingo rivive i suoi momenti e dove sopravvivono le figure della bellissima cognata e del marito. Il presente è dove si svolgono gran parte degli avvenimenti quotidiani e si assiste al passare ciclico del tempo. Infine il futuro, che ha a che fare con l’inesorabile avvicinarsi della cessazione della vita.

Come un fiume che scorre parallelo alla metafora del viaggio, c’è quella della presa di coscienza del protagonista. Shingo passa attraverso diverse fasi, nell’arco del breve tempo d’ambientazione del romanzo. In principio, egli prende coscienza del suo problema: la perdita di memoria e la morte incipiente. In secondo luogo, reagisce cercando di fermare la spinta temporale, responsabile del decadimento fisico ed intellettuale e dell’avvicinarsi della fine: ciò lo otterrà con tre diverse modalità: il ricordo, i sogni e le fantasie di sonno secolare. In terzo luogo, cercherà di abbandonarsi alla corrente, come le trote nel corso del fiume, nella scena finale del romanzo.

[76] Si tratta di un altro nome dell’antica provincia di Shinano che corrisponde, oggigiorno, alla prefettura di Nagano, nella parte centrale dell’isola di Honshu e celebre per le sue catene montuose.

Se poi seguirà davvero questa indicazione datagli dalla natura non possiamo saperlo: Kawabata ha lasciato le porte aperte a vari sviluppi.

3.2. La prima presa di coscienza di Shingo: oblio e memoria

Fin dall’inizio del romanzo, la perdita di memoria sembra essere una caratteristica portante della figura di Shingo. Egli si trova in treno con il figlio:

«Mmmm, com’era…..?»
In quei momenti, Shingo trovava difficile perfino formare le parole.
«Come si chiamava la cameriera che se n’è andata qualche giorno fa?»
«Ti riferisci a Kayo?»
«Ecco, era Kayo. Quando se n’è andata?»
«Era giovedì scorso, perciò cinque giorni fa.»
«Cinque giorni fa? Sono solo cinque giorni che ha dato le dimissioni e non mi ricordo né il viso né l’abbigliamento. Sono esterrefatto!» [77]

Shingo non ricorda il nome della cameriera, che ha dato le dimissioni solo cinque giorni prima. Insiste sul riferimento temporale: la parola “cinque” viene ripetuta per ben tre volte. Shingo stesso dice di essere “esterrefatto”.

Sono le prime avvisaglie del deterioramento della memoria: Shingo mano a mano finirà con dimenticare perfino le cose più banali, più trascurabili, ma forse più ovvie. La parte successiva del brano è illuminante:

Anche se Shingo stesso c’era abituato, provò comunque una certa paura. Per quanto si sforzasse di ricordarsi di Kayo, non emergeva nulla chiaramente.
Quegli sforzi inutili lasciavano qualche volta il posto al sentimentalismo.
Anche in quel momento era così: Shingo cercava di ricordarsi Kayo che protendeva entrambe le mani nell’anticamera. Si ricordava della sua figura che, messa così, leggermente chinata in avanti, diceva: «Forse è un ozure
[78] ».
Shingo pensò che alla fine l’unica cosa che gli si fissò nella memoria della cameriera Kayo, che era rimasta per sei mesi a servizio, era quella frase nell’anticamera.
Shingo ebbe la sensazione della vita che sfuggiva via
[79].

[77] KYZ, vol. 12, pp. 243-244. Cfr. SEID p. 4 , SUGA p. 5 e SUGA 2 p. 439.
[78] Ozure è la piaga causata dal laccio degli zoccoli.
[79] KYZ, vol. 12, p. 245. Cfr. SEID p. 5, SUGA pp. 6-7 e SUGA 2 pp. 440-441.

Shingo si trova di fronte ad una situazione abituale per lui, la perdita di memoria. Eppure prova comunque una certa paura. I suoi continui sforzi per ricordarsi il nome della cameriera non approdano a niente. Anzi, si parla di “sentimentalismo[80]. E’ un approccio alla vita che Shingo ha in comune solo con Kikuko [81]. Di certo né Shūichi, né la moglie e tanto meno la figlia Fusako si abbandonano al sentimentalismo, né possono capire la vera entità del problema del vecchio. Nonostante l’evidente défiance della memoria, Shingo ricorda a tinte vivide la figura della cameriera descritta in una particolare situazione. La delicatezza visiva del linguaggio di Kawabata riesce a rendere, con pochi tratti, l’idea della donna di servizio, la quale non compare nel romanzo se non in questo brano. Immediatamente legato al ricordo della donna è il pensiero di Shingo: “…ebbe la sensazione della vita che sfuggiva via”. C’è un legame tra l’immagine nella memoria di Shingo e la vita che fugge via: quella sequenza è tutto ciò che resta della cameriera Kayo, cioè sei mesi della vita di Shingo. Quel periodo vissuto a stretto contatto con la cameriera è condensato in quell’unico paragrafo. La consapevolezza della fugacità del tempo e dell’imperfezione della sua memoria provocano in Shingo, da un lato, un sentimento di tristezza per ciò che viene perduto, dall’altro la percezione della bellezza [82] dell’attimo, che esprime la “essenza”[83] della cameriera condensata in una piccola scenetta.

[80] Kanshō (感傷), una parola a cui Kawabata talvolta ricorre per indicare lo stato d’animo di Shingo.
[81] Shingo e Kikuko sembrano legati anche in questo: nella loro comune visione delle esperienze quotidiane.
[82] Kawabata usa in giapponese il termine bi (
) o l’equivalente utsukushisa (美しさ) per esprimere l’idea della bellezza. L’aggettivo corrispondente, spesso usato, è utsukushii (美しい).
[83] Si tratta di quello che Joyce definirebbe “epifania”, una manifestazione delle qualità intrinseche, della sostanza di un oggetto o di una persona, quella che San Tommaso chiama la quidditas. Si veda DEBENEDETTI, cit., p. 290.

Paradossalmente, è tramite la stessa capacità di memoria che Shingo mette in moto, inconsapevolmente, questo processo. E’ il principio della reazione di Shingo.

Siamo di fronte, perciò, ad un duplice aspetto della memoria: da un lato essa viene meno giorno dopo giorno, in particolare per quelli eventi vicini nel tempo e legati ad aspetti peculiarmente quotidiani. Dall’altro essa è allo stesso tempo vivida nelle condensazioni e nelle manifestazioni di oggetti lontani nel tempo e di una particolare rilevanza emotiva per il protagonista.

La perdita di memoria, quindi, è per Shingo il sintomo di qualcosa di molto delicato. E’, infatti, strettamente connessa con la decadenza fisica che preannuncia la morte che si avvicina. Allo stesso tempo, però, il disfacimento della memoria sembra essere la scintilla che causa e porta con sé la possibilità di percepire la bellezza intima delle cose:

Yasuko e Kikuko guardarono entrambe alla montagnola dietro la casa.
«Capita che le montagne suonino?», chiese Kikuko.
«Una volta l’ho sentito dire da te, mamma, vero? Prima che morisse tua sorella, mi pare dicesti di avere sentito la montagna suonare».
Shingo trasalì. Pensò che era del tutto imperdonabile essersene dimenticati. Come poteva non essersene ricordato quando sentì il suono della montagna?
Kikuko sembrò pentita di averlo detto, se ne stava immobile con le sue bellissime spalle.[84]


Shingo, Yasuko e Kikuko stanno parlando della notte in cui Shingo ode il suono della montagna. Egli non è sicuro di averlo sentito, lo attribuisce alle sue orecchie che forse non funzionano più come dovrebbero. Quindi chiede a loro se una montagna ha la capacità di “suonare”. Ma Kikuko ricorda, invece, quando ha sentito per la prima volta nominare quel suono: era il preannuncio della morte della sorella di Yasuko che, attraverso la montagna, si mostrava a Yasuko stessa.

[84] KYZ, vol. 12, p. 260. Cfr. SEID p. 20, SUGA pp. 21-22 e SUGA 2 p. 456.

Ancora una volta si presenta quello che potremmo chiamare “il paradosso della memoria”, parafrasando Pilarcik [85]: se lo stesso ricordo, da un lato, mette in risalto il decadimento di Shingo e lo scorrere inesorabile del tempo, dall’altro mostra, in modo delicato, la bellezza e la singolarità di quell’istante. Se è vero che Shingo dimentica addirittura che il suono della montagna è indissolubilmente legato alla morte dell’amata, è attraverso quel “mancato ricordo”, in questo caso, che viene mostrata la preziosità e l’unicità di quell’attimo. L’immagine conclusiva, infatti, è quella di Kikuko che muove le spalle, un gesto che ispira bellezza a Shingo, fin da quando Kikuko va da abitare a casa sua [86]. Le bellissime spalle sembrano, perciò, in contrasto con l’immagine dell’oblio e della morte contenute poco prima. E’ come se la linearità della narrazione, immancabilmente tragica nei suoi sviluppi, subisse dei rapidi stop, i quali portano alla luce gli abissi della memoria, un po’ come avviene in questo brano, dove viene portato alla ribalta il furoshiki [87] usato da Fusako per avvolgere le sue cose prima di arrivare a casa di Shingo:

«Sì, il furoshiki. Quel furoshiki a vederlo mi dice qualcosa, ma non mi ricordo cosa, è nostro?»
«Quel grande furoshiki di cotone? Non è servito ad avvolgere lo specchio della specchiera,
quando Fusako si è sposata? Era uno specchio grande.»
«Ah, ecco.»
«Non mi è piaciuto quando ho visto quel furoshiki. Penso che avrebbe potuto usare qualcos’altro per avvolgere le sue cose, magari infilarle nella valigia che ha adoperato per la luna di miele.»
«La valigia è pesante. Lei aveva due bambine. Non poteva curarsi di come appariva.»
«Però poteva pensare alla figura fatta di fronte a Kikuko.
Quel furoshiki l’ho usato io per avvolgere qualcosa quando ci siamo sposati.»
«Ah è così?»
«E’ molto più vecchio. E’ un ricordo di mia sorella. Dopo che è morta, quel furoshiki è servito per avvolgere un vaso da fiori per restituirlo alla famiglia di lei. Si trattava di un grande bonsai d’acero.»
«Si?», rispose dolcemente Shingo, mentre lo splendore dell’acero bonsai sfavillò
in pieno nella sua testa. [88]

[85] Marlene Annette PILARCIK, The Paradox of Time in Yasunari Kawabata's “Meijin” and Hermann Hesse's “Das Glasperlenspiel”, (State University of New York at Binghamton, Ph.d. Thesis, 1981), Ann Arbor, University Microfilms International, 1983.
[86] “Quando Kikuko era venuta a vivere con loro dopo sposata, Shingo notò un non so che di bello nel suo modo di muovere le spalle”, KYZ, vol. 12, p. 256. Cfr. SEID p. 16, SUGA p. 18 e SUGA 2 p. 452.
[87]
風呂敷 furoshiki è un fazzoletto che si usa in Giappone per avvolgere oggetti di vario tipo.
[88] KYZ, vol. 12, pp. 287-288. Cfr. SEID pp. 46-47, SUGA p. 47 e SUGA 2 p. 481.

In principio Shingo non capisce perché Yasuko ritiene sia di cattivo auspicio aver usato proprio quel furoshiki. La moglie, che in questo senso è molto più acuta di lui, gli ricorda che proprio quel furoshiki era servito per avvolgere il bonsai d’acero della sorella morta. Ancora una volta Shingo sembra dimenticarsi di un evento estremamente importante, quale quello della morte della sorella di Yasuko. Eppure la conclusione del brano sembra tutto l’opposto di un’immagine di morte: tramite quella dimenticanza, Kawabata riesce a introdurre l’immagine presente nella mente del protagonista, che ricorda con estrema nitidezza il colore sfavillante dell’acero nano, collegato con la visione dell’amata. E un ricordo dolce, per Shingo, come dolce è il sapore della memoria nel romanzo.

La decadenza della memoria di Shingo è tale che egli arriva a dimenticarsi perfino la data dell’anniversario della morte della cognata [89]. Sono tutti segnali molto precisi del suo decadimento fisico ed intellettuale. Di certo, l’evento più importante da questo punto di vista è quando il protagonista, nel capitolo conclusivo del romanzo, finisce per dimenticarsi di come si annoda la cravatta:

Una mattina di ottobre Shingo stava per stringersi la cravatta.
A un tratto le mani esitarono e si sentì disorientato.
«Ma…aspetta un minuto…»
Poi fermò le mani e la sua faccia assunse un’espressione preoccupata.
«Come si faceva…?»
Provò ad annodarla dall’inizio, riprovò di nuovo, ma non riusciva ad annodarla.
Tirò entrambe le estremità della cravatta, sollevandole davanti al petto,
poi stette a osservarle mentre chinava il capo.
«Che cosa succede?»
Kikuko, che si trovava dietro e un po’ di lato a Shingo, reggeva la giacca preparandosi a vestirlo.
Si spostò di fronte a lui.
«Non riesco ad annodarmi la cravatta. Mi sono dimenticato come si fa. Non è strano?»
Shingo, con un gesto goffo delle mani, arrotolò lentamente un lembo della cravatta intorno ad un dito, cercò di farlo passare dal nodo ma fece una strana manovra che terminò in uno gnocco.
Doveva essere una situazione divertente a dirsi, ma allorché gli occhi di Shingo furono pieni di
profondo terrore e disperazione, Kikuko sembrò spaventarsi.
«Papà», chiamò.
«Come devo fare?»
Shingo stava ritto in piedi, come intontito, senza neppure la forza di provare a ricordarsi come fare.
[90]

[89] Ibid., pp. 288-289. Cfr. SEID p. 48, SUGA p. 48 e SUGA 2 p. 482.
[90] Ibid., pp. 519-520. Cfr. SEID pp. 256-257, SUGA p. 267 e SUGA 2 p. 695.

L’incisività del brano è rafforzata dal fatto che è collocato all’inizio del capitolo. Il riferimento è ad un momento abituale, una qualsiasi mattina di ottobre: l’evento, eccezionale per le sue implicazioni, contrasta con la convenzionalità del contesto in cui è inserito. Attraverso un uso accurato delle ripetizioni, inoltre, Kawabata enfatizza i movimenti continuati che finiscono per non portare a nulla. Sono sforzi inutili [91]. Traspare per di più una certa ironia dell’autore, che fa compiere strane manovre alle mani del protagonista prima di fargli comprendere distintamente la completa assurdità della sua situazione. Si tratta infatti dell’apoteosi dell’impotenza di Shingo di fronte alla corruzione rappresentata dal tempo: non ha neppure “la forza di provare a ricordarsi come fare”. I suoi occhi sono “pieni di profondo terrore e disperazione”. Di fronte a Kikuko sembra essere un bambino, che non faccia altro che aspettare l’aiuto della madre, affrontando un evento del quale non possiede il benché minimo controllo.

[91] Sulla futilità degli sforzi dei protagonisti dei romanzi di Kawabata, si veda Noriko LIPPIT, Kawabata’s Dilettante Heroes in Reality and Fiction in Modern Japanese Literature, London, The Macmillan Press, 1980, pp. 120-145.

3.3. La reazione della memoria

Shingo sembra prendere coscienza del suo problema: si tratta della prima fase di quello che Fernandez chiama “l’aspetto tragico” [92] del romanzo, ovvero la consapevolezza della sofferenza. In questo senso, Shingo è inscritto nella cultura dalla quale è stato partorito: “la vita è dolore [dukkha]” è infatti la Prima Nobile Verità degli insegnamenti del Buddha [93].

Il secondo aspetto della “tragedia” di Shingo è invece l’inevitabilità di quella stessa sofferenza: non c’è via di scampo al passare del tempo e all’approssimarsi della morte o, per meglio dire, la strada della salvezza non è rappresentata dall’opporsi stolidamente ad essi [94].

Shingo, infatti, reagisce in un duplice modo di fronte a questa acquistata consapevolezza: dal punto di vista quotidiano, di fronte ai problemi di Kikuko e della sua figlia Fusako, sembra fare ben poco, assumendo un atteggiamento passivo, tanto da giungere ad affermare: “Oggigiorno, fino a che punto i genitori sono responsabili per la vita matrimoniale dei figli?” [95]. Da un punto di vista interiore Shingo inseguirà un suo personale sentiero di evoluzione, adottando una serie di stratagemmi: il primo di questi, attuatosi proprio in risposta all’oblio e al decadimento fisico, è quello del ricordo.

[92] Jaime FERNANDEZ, El Concepto de lo “Trágico” en “El clamor de la Montaña”, in AA.VV., Studies in Japanese Culture I, Tokyo, The Japan P.E.N. Club, 1973, p. 246.
[93] “E questa, o monaci, è la Santa Verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l’unione con quel che dispiace è dolore, la separazione da ciò che piace è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore, dolore in una parola sono i cinque elementi dell’esistenza individuale”, citazione dal Canone Buddista in Oscar BOTTO, Buddha e il Buddhismo, Milano, Mondadori, 1984, pp. 57-58.
[94] Fernandez sostiene che l’atteggiamento di aperta ribellione è tipica dell’uomo occidentale, mentre l’accettazione passiva rappresenta l’atteggiamento dell’uomo orientale. In questo senso Shingo sembra un po’ assumere entrambi gli atteggiamenti, come si vedrà più avanti. Non ci è dato sapere se davvero, alla fine del romanzo, si lascerà andare al corso della natura. Si veda FERNANDEZ, El Concepto de lo “Trágico” en “El clamor de la Montaña”, cit., p. 247.
[95] KYZ, vol. 12, p. 314. Cfr. SEID p. 70, SUGA p. 71 e SUGA 2 p. 505.

Egli, infatti, desidera ricordare, per non scomparire e perché non si perda ciò che lo contraddistingue. In questo Fernandez è in contrasto con quello che ritiene Seidensticker, il quale sostiene che Shingo, più che desiderare di ricordare, vuole non essere dimenticato [96]. E’ molto più plausibile che siano entrambi gli aspetti a coinvolgere Shingo: il ricordare-attivo e l’essere ricordato-passivo.

La memoria, perciò, ha questo duplice aspetto: da un punto di vista della mancanza essa è oblio, vita che sfugge, disfacimento fisico. Dall’altro, però è ricordo, vita, realizzazione fisica ed erotica [97]. E’ rilevante che entrambi gli aspetti siano strettamente collegati: quando c’è un momento duro della vita di Shingo, ecco manifestarsi il ricordo, spesso tramite la strategia narrativa della finestra aperta in un nuovo mondo:

«Allungo le mani per toccare il corpo di mia moglie solo quando la devo far smettere di russare», pensò Shingo. Ebbe una sensazione di pietà senza fine. Prese in mano una rivista vicino al cuscino. Poi, poiché era afoso si alzò e aprì la veranda. Ci si accovacciò sopra. [98]

A scatenare la reazione di Shingo è qui la presenza fisica, perfino troppo tangibile, della moglie. Dice di degnarsi di toccarla con le sue mani, quasi come se quel corpo vecchio, sintomo e simbolo dello stesso e parallelo disfacimento del corpo di Shingo, non fosse neppure degno di essere sfiorato. Ecco che Shingo prova un improvviso senso di pietà per la figura addormentata e, come reazione, si appoggia alla veranda, dove un mondo di suoni, insetti, sensazioni lo avvolgerà. Altrove può essere il sonno veicolo delle emozioni, sempre per il tramite della finestra che si apre su un nuovo mondo.

[96] FERNANDEZ, El Concepto de lo “Trágico” en “El clamor de la Montaña”, cit., p. 248.
[97] Sulle fantasie e la realizzazione erotica di Shingo, si veda il sottocapitolo sui sogni.
[98] KYZ, vol. 12, p. 247. Cfr. SEID p. 7, SUGA p. 8 e SUGA 2 p. 442.

Shingo, durante la notte passata in un albergo ad Atami, ode il richiamo dell’amata:

Per un po’ non riuscì a prendere sonno.
«Shingo, Shingo», giunse una voce che lo chiamava nel dormiveglia.
Quella voce poteva essere soltanto della sorella di Yasuko.
Si era risvegliato dolcemente, con una sensazione di intorpidimento.
«Shingo, Shingo, Shingo»
Quella voce giungeva da sotto la finestra nel retro della casa, qualcuno lo chiamava nascondendosi là.
Shingo si svegliò sussultando. Il suono dell’acqua nel ruscello dietro la casa era forte.
Si sentivano le voci dei bambini.
Shingo si alzò e aprì la finestra sul retro.
Era una mattina luminosa. La luce era calda come se il sole invernale si fosse immerso
in una pioggia primaverile.
Nel sentiero aldilà del ruscello erano radunati sette o otto scolari.
Quella voce era stata forse quella dei bambini che si chiamavano tra loro?
Shingo, tuttavia, si sporse dal bordo e cercò con lo sguardo tra i cespugli di bambù
su quella sponda del ruscello.”
[99]

Shingo si trova nel dormiveglia, e ode una voce da dietro la finestra. Quella voce, a sua volta, è collegata con il suono dell’acqua e dietro di essa c’è la luce: piena, intensa, calda. La voce è quella della sorella di Yasuko, la luce è quella del sole, ma anche, indirettamente, quella dello splendore della ragazza, ancora collegabile con la rossa luminosità dell’acero bonsai [100].

La finestra è chiaramente uno stratagemma per passare da un mondo all’altro: dal mondo quotidiano e presente della sofferenza, a quello senza-tempo del passato. Si tratta di due dimensioni diverse, il cui transito dall’una all’altra è spesso veicolato dalla presenza di un diversivo, oggettuale o sensoriale, sempre simbolico. È il caso della finestra, ma potrebbe benissimo essere la presenza della luna piena in cielo oppure di un suono qualsiasi: il suono della montagna, il rimbombo del mare o del treno. Questo passo precede di poco il brano citato in precedenza, dove Shingo ode la voce dell’amata che lo chiama:

Il rimbombo del mare era il suono del tifone di montagna, e al di sopra di quello un suono stridente di tempesta si avvicinava.
In fondo al rumore di tempesta si udì un suono lontano come di rimbombo.
Era il suono del treno che passava nel tunnel di Tanna. Shingo lo sapeva. Non poteva sbagliarsi. Quando usci dalla galleria, il treno fischiò.
[101]

[99]   Ibid., pp. 357-358. Cfr. SEID p. 108, SUGA pp. 111-112 e SUGA 2 pp. 542-543.
[100] Si veda brano p. 41.
[101] KYZ, vol. 12, p. 357. Cfr. SEID p. 107, SUGA pp. 110-111 e SUGA 2 pp. 541-542.

Ecco che i “dispositivi” utilizzati da Kawabata per introdurre la presenza di un mondo diverso temporalmente e spazialmente separato dal quello del presente, rappresentano la chiave di accesso per il mondo dei ricordi, dove Shingo raggiunge la cessazione della sofferenza, il suo personale percorso di raggiungimento del nirvana [102], cioè la realizzazione dell’Ottuplice Sentiero del Buddha [103].

Il più importante di questi dispositivi resta comunque Kikuko: “Per Shingo, Kikuko era una finestra che guardava fuori da una situazione famigliare pesante” [104], ci dice Kawabata . Altrove, fa riferimento alle sue capacità stimolanti per la memoria di Shingo:

Dopo che Kikuko sposò il figlio e venne in casa, la memoria di Shingo era ravvivata da luci che erano come bagliori improvvisi, e ciò non era una cosa morbosa. [105]

Kikuko rappresenta, in un duplice aspetto, un medium per Shingo: da un lato essa ricorda in tutto e per tutto la sorella di Yasuko: “La snellezza e il colore candido della pelle di Kikuko ricordavano a Shingo la sorella maggiore di Yasuko” [106]. Dall’altro, essa è la finestra che gli permette di guardare verso il mondo. E’ significativo che Shingo desideri Kikuko non quando è fisicamente presente, ma solo quando è trasposta nei suoi sogni o nei ricordi. Infatti la nuora appartiene ad entrambe le dimensioni temporali: dal punto di vista strettamente fisico, fa parte del mondo di Yasuko, Fusako, Satoko, Shūichi e degli altri personaggi caratterizzati da un’impronta estremamente concreta.

Dall’altro appartiene al mondo dei sogni, cioè a quello della cognata di Shingo e del suo sposo, e quindi in questo senso al mondo dei morti. Ecco perché la figura di Kikuko è più “eterea” e per questo motivo l’affetto del protagonista per la nuora non raggiunge mai la morbosità.

Il “ricordare”, che verrà fatto con mezzi diversi, rappresenta quindi la suprema strategia di Shingo per non perire di fronte all’oblio. Per il tramite della nuora, che stimola involontariamente e per mezzo di “bagliori improvvisi” la sua capacità di ricordare, il protagonista si troverà proiettato nel mondo dei sogni o del sonno secolare.

[102] Nirvana: nella dottrina Buddista, indica lo stato della cessazione della catena che porta allo scaturire del desiderio [tanha], quindi della sofferenza [dukkha].
[103] La Quarta Nobile Verità, ovvero la via che conduce alla rimozione della sofferenza [Dukkhanirodhagamini patipada], viene altrimenti detta il Nobile Ottuplice Sentiero, perché strutturato in otto differenti attività pratiche. Si Veda BOTTO, cit., p. 84. Pare interessante che i sogni di Shingo ammontino proprio a otto, quasi come se il sentiero personale di Shingo fosse assimilabile ad un percorso di tipo buddhista.
[104] KYZ, vol. 12, p. 277. Cfr. SEID p. 37, SUGA p. 38 e SUGA 2 p. 472.
[105] Ibid., p. 257. Cfr. SEID p. 17, SUGA p. 19 e SUGA 2 p. 453.
[106] Ibid., p. 256. Cfr. SEID p. 16, SUGA p. 18 e SUGA 2 p. 452.

3.4. La presa di coscienza di Shingo: la morte

Al principio del romanzo, Shingo ode il suono della montagna. Si tratta del richiamo della natura che suggerisce a Shingo di lasciarsi andare, di fondersi con essa. La voce della montagna dice al protagonista di non resistere, come egli sta facendo. Per Shingo è la presa di coscienza del flusso inarrestabile del tempo e dell’avvicinarsi della fine, non solo la sua, ma anche quella degli altri. Spesso i casi di morte nel romanzo, infatti, fungono da specchio: Shingo vede rappresentati, oltre che dei drammi, dei veri e propri casi umani ciascuno con una propria storia. Si tratta quasi sempre di casi di decesso dovuti a malattie o suicidio e non se ne parla mai come eventi iscritti nel naturale ordine delle cose. La fine dell’esistenza è infatti descritta nelle sue valenze tragiche e talvolta ironiche, come nel brano che segue, che è il primo caso in cui si parla di tentata morte. Shingo ripensa all’incontro con una geisha avvenuto dieci giorni prima. Ella progetta il suicidio con il falegname che ha costruito la casa da tè dove il protagonista fa conoscenza con la donna.

[…] quando stava per prendere il cianuro, fu assalita dal dubbio se quella dose
sarebbe stata sufficiente a ucciderla.
«E’ senza dubbio la dose letale – disse quella persona – le ho comperate, le dosi non sono forse impacchettate una per una? Sono state preparate scrupolosamente.»
Tuttavia lei non gli credeva. I suoi dubbi non facevano che rafforzarsi.
«Chi te l’ha preparato? Può darsi che le dosi siano state preparate per farci soffrire o per punirti, te e me tua donna. Gli chiesi quale medico o farmacista le avesse preparate, ma lui disse che non me lo poteva dire. Com’è che non poteva dirmelo se stavamo per morire entrambi? Dopo non ci sarebbe stato sicuramente modo perché qualcuno lo sapesse.»
«Una storia divertente», stava per dire Shingo, ma non disse nulla.
La geisha si dilungò dicendo che avrebbero riprovato solo dopo che ella si
sarebbe fatta misurare le dosi di veleno da qualcuno.
«Le porto ancora con me!»
[107]

Kawabata descrive nei dettagli il racconto della geisha: si tratta di una piccola cornice narrativa: l’autore scrive ciò che Shingo ricorda che è ciò che la donna a sua volta gli racconta. La conclusione colpisce Shingo, che si chiede se corrisponda a verità ciò che è stato raccontato.

E’ significativo che Shingo non abbia mai pensato né sia mai ricorso al suicidio come mezzo per annullare il corso del tempo o comunque per manifestare l’impossibilità del suo amore per la sorella di Yasuko o per Kikuko [108]. Se è vero che a Shingo manca il coraggio necessario per affrontare la decisione del suicidio, è anche vero che egli ritiene che la soppressione volontaria della vita non risolverebbe il suo problema. Non farebbe altro, infatti, che affermare in modo ancor più perentorio la propria identità e quindi la propria condizione [109]. Ne è misura il distacco e l’ironia con il quale guarda all’episodio della geisha.

[107] Ibid., pp. 249-250. Cfr. SEID p. 9, SUGA p. 11 e SUGA 2 p. 445.
[108] I due meccanismi, nel caso di Shingo, scorrono paralleli: Shingo coltiverà il suo amore e si opporrà al flusso del tempo con lo stesso stratagemma: il ricordo.
[109] Per quanto vi sia ricorso, anche Kawabata deplorava il gesto del suicidio. In Il Giappone, la bellezza ed io [Utsukushii Nihon no watakushi] Kawabata cita il suo saggio Con gli occhi della fine [Matsugo no me] e dice: “Per quanto si possa essere disinteressati e distaccati, il suicidio non è una forma di illuminazione. Per quanto siano alte le sue vette di virtuosità, il suicida è lontano dai livelli di un grande saggio”, KYZ, vol. 28, p. 350. Cfr. la traduzione in italiano di Ornella Civardi in KAWABATA Yasunari, Il Giappone, la bellezza e io in Racconti in un palmo di mano, cit., pp. 48-49 e la traduzione di Maria Teresa Orsi in Romanzi e racconti, cit., p. 1243.

Colpisce Shingo in modo più viscerale, invece, la morte dell’amico Mizuta. La narrazione delle circostanze del suo decesso scaturiscono da un incontro, inaspettato, tra Shingo e il conoscente Suzumoto. Sembra che il trapasso fosse avvenuto in circostanze eccezionali: durante un amplesso amoroso con una giovane donna, in una casa di piacere.

Mizuta era improvvisamente spirato in una locanda termale. Durante il funerale, i vecchi amici avevano sussurrato ciò che Suzumoto aveva chiamato «morte paradisiaca». [110]

Si tratta di quella che Shingo definisce “Morte paradisiaca [gokuraku, 極楽]”, dove la scelta di quella parola non è casuale. Anche il protagonista, infatti, vorrebbe “tornare” al paradiso, ovvero sposarsi con la sorella di Yasuko nella cornice del suo paese natale. Mizuta sentiva di stare perdendo la sua virilità e Shingo si sente vicino a lui in quello. Il gesto dell’amico rappresenta perciò uno dei modi supremi per riottenere la propria virile giovinezza, seppure per un tempo limitato. Il ricordo dell’amico gli sovviene bevendo una tazza di tè, che gli è stato mandato dalla famiglia dopo il funerale. In questo senso il tè serve da meccanismo evocatore [111] e identificante: Shingo ricorda l’amico grazie al tè e per il suo tramite tra egli e Mizuta si stabilisce un legame.

[110] KYZ, vol. 12, p. 327. Cfr. SEID p. 82, SUGA p. 83 e SUGA 2 p. 515.
[111] Il riferimento a La ricerca del tempo perduto di Proust è qui d’obbligo: a Marcel riaffiorano i ricordi, quello che egli chiama le “intermittenze del cuore”, dopo aver affondato un pezzo di madeleine in una tazza di tè. Starrs propone un parallelo tra i due romanzi, si veda STARRS, Soundings in Time – The Fictive Art of Kawabata Yasunari, cit., pp. 154-191.

Shingo avverte la presenza di un legame anche per gli altri amici morti. L’episodio del funerale di Toriyama diventa l’occasione per riflettere sulla sua situazione famigliare:

In casa dell’uomo che, al raccogliersi dei compagni di classe, aveva raccontato la storia di Toriyama, vi erano quattro o cinque vecchie maschere No tramandategli dagli antenati. Toriyama era venuto da lui e allorché gliele aveva mostrate, stette a lungo e non voleva andarsene più. Secondo quella persona, non poteva essere che Toriyama restasse così affascinato dal vedere per la prima volta le maschere: probabilmente ammazzava il tempo per non tornare a casa prima che la moglie si fosse addormentata.
Però Shingo pensò in quel momento che un padre di famiglia che ha superato la cinquantina, mentre passa tutte le notti passeggiando, chissà in quali pensieri profondi è immerso.
La foto di Toriyama esposta al funerale doveva essere stata scattata al tempo in cui Toriyama era ancora funzionario statale, il giorno di capodanno o qualche altro giorno festivo. Aveva il vestito completo, la sua faccia era rotonda e aveva un’aria mite. Poteva darsi che il fotografo l’avesse rimaneggiata, non si vedevano ombre.
Il viso mite di Toriyama era troppo giovane in confronto alla moglie davanti alla bara. Dava l’impressione che fosse stato Toriyama a far invecchiare la moglie di sofferenze.
Poiché la moglie era bassa, Shingo vide i capelli bianchi alla radice, gli pareva che una spalla fosse più bassa dell’altra e che lei fosse sciupata.
Il figlio e la figlia con quelli che sembravano i loro coniugi erano allineati accanto alla madre, ma Shingo li guardò di sfuggita.
[112]

Si tratta di un brano dalle numerose allusioni simboliche e dai paralleli con il protagonista. Innanzitutto Toriyama è un reietto: si sente fuori posto all’interno della sua famiglia. E’ costretto, infatti, a passare intere giornate fuori casa e a tornarci solo quando la moglie è già addormentata. Egli, inoltre, non si sente compreso nell’intimo. Sembra particolarmente interessato alle maschere () [113]: alcune di queste, come quella Jidō (慈童), simboleggiano l’eterno fanciullo: una specie di essere asessuato, dal volto di uomo ma dai tratti di fanciulla. Anche Shingo resta colpito dalle maschere, in particolare da quella che ritrae il fanciullo.

[112] KYZ, vol. 12, p. 313. Cfr. SEID p. 69, SUGA pp. 70-71 e SUGA 2 pp. 503-504.
[113] Si tratta delle maschere utilizzate nell’omonimo teatro tradizionale giapponese, portato al suo splendore da
Zeami Motokiyo (
世阿弥元清, 1363-1443 ), l'attore che più di tutti ha contribuito alla definizione della identità formale, delle tecniche, della drammaturgia e della concezione estetica di questo teatro. I personaggi (interpretati rigorosamente da soli uomini) erano impersonati indossando quelle speciali maschere, che ne riproducevano i tratti salienti.

Oltre alla sua bellezza, lo colpisce l’idea di giovinezza senza fine che la contraddistingue. Vi è, inoltre, un sottile paradosso scaturito dalle descrizioni della foto di Toriyama, dal volto rotondo, giovanile e mite, e la figura della moglie, anziana e “sciupata”. Sembra infatti dalle foto che sia stata la moglie a soffrire e non viceversa. Dopo il funerale, Shingo si trova ad immaginare come risponderebbe ad una serie di domande sulla sua famiglia e sulla sua realizzazione famigliare: queste sono le sue conclusioni:

«Pensavo di essere giunto in qualche modo fino a qui senza grosse difficoltà, ma adesso le cose stanno precipitando sia nella famiglia di mia figlia che in quella di mio figlio.» [114]

Grazie ad un duplice meccanismo, Shingo completa qui la sua identificazione con Toriyama. Innanzitutto la moglie dell’amico sembra, paragonata alla foto, più vecchia di lui, come Yasuko è più anziana di Shingo. La moglie di Toriyama, inoltre, possiede, come Yasuko, una grande forza d’animo. Spesso si fa riferimento alla sua salute di ferro e al suo sonno profondo e traspare la sua maggiore forza emotiva. E’ probabile che Shingo pensi che Yasuko possa sopravvivergli, per quanto sia di un anno più anziana.

Nel brano è possibile ammirare la sottile tecnica ad incastri di Kawabata. Gli eventi sono infatti collegati sottilmente uno all’altro, in un modo che spesso sfugge ad una prima lettura. Si ha addirittura l’impressione che Kawabata possa essere apprezzato non sincronicamente, ma solo diacronicamente: un piacere che si può gustare solo dopo varie letture.

Ancora più rilevante, in questo senso, è l’episodio della follia e della morte di Kitamoto, un amico deceduto diversi anni prima il cui ricordo viene rievocato sempre durante la visita di Suzumoto. Kitamoto impazzisce dopo aver sopportato gli orrori della guerra. Nella tragedia mondiale perde tutti e tre i suoi figli.

[114] KYZ, Vol. 12, p. 314. Cfr. SEID p. 70, SUGA p. 71 e SUGA 2 p. 504.

Un giorno si guarda allo specchio e scopre che i suoi capelli stanno diventando bianchi. Comincia a strapparseli uno ad uno, ma non c’è speranza. Egli sembra incanutire sempre di più, minuto per minuto:

«Il giorno prima pensava di esserseli strappati tutti ma il giorno successivo ridiventavano bianchi. Ritengo che arrivò al punto che fossero davvero troppi per poter essere strappati via. Passavano i giorni e aumentava il tempo che Suzumoto passava davanti allo specchio. Se pensavano «perché non si fa vedere?», ecco che era davanti allo specchio a strapparsi i capelli.» [115]

Finisce per essere ricoverato in un ospedale psichiatrico ed ecco che, quando ormai non gli resta nessun capello sulla testa, cominciano a ricrescergli i primi capelli neri:

«E’ accaduto un miracolo. Sulla testa completamente pelata, sono spuntati svariati ciuffi di capelli neri.»
«Una bella storia», disse Shingo mentre continuava a ridere.
«Guarda che è vero!», replicò l’amico senza ridere, «I matti non hanno età. Se anche noi fossimo pazzi, forse torneremmo ad essere molto più giovani!»
[116]

Il miracolo dell’inversione temporale sembra compiersi, ma sarà di breve durata: dopo poco, infatti, Kitamoto muore.

E’ importante sottolineare che Shingo si ricorderà nuovamente di Kitamoto quando Kikuko gli regalerà un rasoio elettrico. In quell’occasione, infatti, egli vede cadere dei peli bianchi sul suo vestito scuro ed ecco che l’identificazione ha luogo. Shingo riflette con Suzumoto proprio sul fatto che tutti i suoi amici si sono incanutiti o, come Suzumoto stesso, sono diventati calvi [117].

[115] Ibid., pp. 359-360. Cfr. SEID p. 110, SUGA p. 114 e SUGA 2 pp. 544-545.
[116] Ibid., p. 361. Cfr. SEID p. 111, SUGA p. 115 e SUGA 2 p. 546.
[117] Nell’episodio di Kitamoto, così come in altri brani, si scorge anche una certa ironia di Kawabata. Gessel sostiene che l’esigenza di una “barriera emozionale” nei confronti del narrato scaturisce nell’autore da quella “disposizione all’essere orfano” che gli viene dalla sua infanzia travagliata. Si veda GESSEL, cit., pp. 133-135.

L’inesorabile legge della natura viene espressa chiaramente da Shingo:

«Non siamo forse dei pezzi di ricambio nella vita umana? Non è crudele che, anche da vivi, i pezzi di ricambio vengano puniti dalla vita stessa?» [118]

L’eterno divenire non risparmierà nessuno: Suzumoto è semplicemente diventato calvo, ma Kitamoto e gli altri amici di Shingo sono morti.

Se da un lato, tuttavia, Shingo partecipa attivamente alle cerimonie di commiato ai deceduti, manifestando la sua inquietudine, dall’altro se ne sente distaccato. Ciò che veramente sembra lo angusti è il fatto di non avere fatto qualcosa di significativo nella sua vita, e che il tempo ancora disponibile per porvi rimedio sia molto breve. In lui dimora la paura di essere dimenticato per non avere realizzato nulla di grande, e Shingo non desidera spegnersi prima di avere completato qualcosa di significativo. Allora il dolce trapasso si potrà anche compiere, come farà la coppia di anziani morta suicida: si tratta di un episodio che Yasuko legge a Shingo da un quotidiano e riguarda il presidente dell’associazione nazionale canottaggio nonché noto benefattore. Egli decide di suicidarsi con la moglie, e lascia due lettere. Una di queste è per la figlia adottiva e il marito di lei:

«Ci siamo immaginati le nostre figure miserabili, dimenticate dalla società, persone che vegetano solamente, ci sembra meglio non sopravvivere fino a quel momento. Comprendiamo profondamente i sentimenti del visconte Takagi . Riteniamo che sia meglio scomparire mentre siamo ancora amati da tutti, avvolti nell’affetto degli amici di famiglia, accompagnati dall’amicizia dei molti amici, dei colleghi, dei giovani.» [120]

La seconda lettera è invece per i nipoti:

«Si avvicina il giorno dell’autonomia del Giappone, ma il futuro è oscuro. I giovani studenti impauriti dagli orrori della guerra, se ambiscono alla pace, dovranno portare avanti fino alla fine la strada della non-violenza di Gandhi. Non abbiamo più la forza di guidare e di proseguire sulla strada che noi riteniamo giusta. Ci sembra inutile continuare a vivere fino a quel momento, come se aspettassimo che sopraggiunga la “Età sgradevole” [121]. Vogliamo lasciare, almeno ai nipoti, l’impressione di essere stati un buon nonno e una buona nonna. Non sappiamo dove andremo. Solo che dormiremo in pace.» [122]

[118] KYZ, vol. 12, pp. 390-391. Cfr. SEID p. 138, SUGA p. 143 e SUGA 2 p. 574.
[119] Si trattava del suocero del fratello minore dell’imperatore Hirohito. Si pensa che la sua morte, nel 1948, sia stata suicida.
[120] KYZ, vol. 12, p. 397. Cfr. SEID p. 143, SUGA p. 149 e SUGA 2 p. 580.
[121] Yagarase no nenrei (1947), riferimento ad un’opera di Niwa Fumio (
丹羽文雄, 1904-). Vengono descritti i problemi della età senile, attraverso gli sforzi e le perplessità di una donna che deve avere a che fare con la nonna ottantaseienne, voracissima, cleptomane e dall’aspetto sciatto.
[122] KYZ, vol. 12, p. 397. Cfr. SEID pp. 143-144, SUGA p. 149 e SUGA 2 p. 580.

Shingo sta raggiungendo la sua “età sgradevole” e qui, indirettamente, Kawabata ci restituisce una delle sue rarissime considerazioni etiche, indicando ai posteri la strada da percorrere. Ciò che ci sembra importante, tuttavia, è quello che i due coniugi desiderano per essi: dormire un sonno sereno, anche se non sanno dove andranno. Esso rappresenta ciò che spesso lo stesso protagonista anela a poter fare.

La tentata identificazione di Shingo con il vecchio e di Yasuko con la di lui moglie è pertinente ed è corroborata dalle stesse affermazioni della donna dopo la lettura:

«Non c’è una lettera della moglie?»
«Eh?»
Yasuko alzò la testa con un’aria sorpresa.
«Non c’era una lettera della moglie?»
«Una lettera della vecchia moglie?»
«E’ chiaro. Visto che sono usciti per uccidersi in due, ci deve essere anche una lettera della moglie. Per esempio, se ci suicidassimo io e te, tu potresti aver qualcosa da dire e allora
lasceresti qualcosa di scritto, non credi?»
«Io non ne avrei bisogno.», rispose Yasuko a bruciapelo.
«Si lascia uno scritto sia dell’uomo che della donna quando sono due giovani che si suicidano insieme. Esprimono inoltre la loro delusione di non potersi unire in matrimonio o altro. Se si tratta di una coppia,
è in genere sufficiente che sia il marito a scrivere. Io che cosa avrei mai da lasciare scritto?»
«La pensi davvero così?»
«Sarebbe diverso se dovessi morire da sola.»
«Se dovessi morire da sola, ci sarebbero montagne di rancori e rimpianti.»
«Il fatto è che se ci fossero o meno, non importerebbe alla mia età.»
[123]

Questo brano risulta essere interessante perché ci mostra la sottigliezza della narrativa di Kawabata. Yasuko, infatti, non ritiene opportuno dover scrivere una lettera in caso di suicidio di entrambi, a voler dire che in quel caso la morte comune sarebbe una dimostrazione della condivisione degli ideali vissuti e della comunanza della propria esistenza.

[123] Ibid., pp. 397-398. Cfr. SEID p. 144, SUGA pp. 149-150 e SUGA 2 pp. 580-581.

Tutto sommato, non scriverebbe la lettera neppure in caso che si suicidasse da sola, tanto, vista la sua età, non servirebbe dare sfogo ai suoi numerosi rancori e rimpianti, che evidentemente ci sono.

Si avverte, comunque, che il distacco dalla coppia di coniugi è per Shingo notevole. Egli, al contrario di loro, non ha motivi di fama né di gloria; non è ricco e non è neppure benvoluto da tutti. I due figli sicuramente non lo apprezzano come egli desidererebbe, né sembrano comprenderlo nel profondo. Neppure i nipoti lo gratificheranno: Satoko, la figlia maggiore di Fusako, è infatti un personaggio molto inquietante: strappa le ali di una cicala che gli viene data dalla madre, per evitare che voli via e potersi così divertire di più; altrove viene descritta con uno sguardo inquietante, sadico. Si permette, inoltre, di staccare un rametto del sacro ciliegio di Shingo, dopo che è stato potato lo yatsude (八つ手) [124]. Fa quasi travolgere da un’auto, inoltre, una coetanea per l’invidia di non possedere un kimono come il suo. Satoko ha purtroppo preso la bruttezza di Fusako e l’altra figlia, Kuniko, è troppo piccola per poter rappresentare una valida speranza per il vecchio. Shingo vede perduta perciò la possibilità di dare vita ad una generazione che, per bellezza e purezza, sia accostabile alla cognata morta.

In questo senso non l’aiuta neppure la giovane nuora. Il bambino abortito da Kikuko avrebbe infatti potuto radunare in sé quelle caratteristiche di perfezione e purezza, ma mai egli sarà in grado di venirne a conoscenza. Neppure il probabile figlio illegittimo di Shuichi sarà mai conosciuto da Shingo: l’amante decide, infatti, di aprire un’attività lontano dalla capitale.

[124] Un arbusto variegato sempreverde, che può raggiungere anche i quattro metri di altezza. Nome scientifico: fatsia japonica.

Identificazione, distacco ed ironia sembra siano i mezzi attraverso i quali Shingo prende contatto con la morte degli altri all’interno del romanzo. Si tratta di un meccanismo che lo porta gradualmente da un sentimento di vicinanza ad uno di estraniazione. Il problema, però, lo riguarda sempre più dappresso al punto di non poterlo più ignorare. Attraverso i suoi sogni e le sue fantasie di sonno a lungo termine Shingo sembra poter parzialmente aggirare le sue difficoltà.

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