Studi Storici 3, luglio-settembre 1995 anno 36
In Germania Granata e i suoi compagni di prigionia furono accolti dapprima in un Lager di prigionieri di guerra, poi, quando si scoprí che non erano militari furono avviati al lavoro. Come Freiarbeiter Granata fece prima il minatore in una cava di pietra presso Garmich e poi il facchino nella Brauerei di Peissemberg. Ma - come egli stesso scrive45 - «mi ammalai e deperii a tal punto da costringere le autorità tedesche a rimpatriarmi». Cosí appare chiaro che alle convergenze italiane favorevoli al suo rimpatrio, si era aggiunta la disponibilità dei datori di lavoro tedeschi, che non traevano alcun vantaggio dalla presenza di «liberi lavoratori» non piú utilizzabili come mano d'opera.
Granata arrivò a Venezia verso la metà di agosto del '44. Per qualche mese riuscí a curarsi e a mantenersi con l'aiuto di qualche amico e di parenti. Poi, non volendo gravare sul bilancio di queste famiglie che certo non nuotavano nell'abbondanza, il 24 ottobre del '44 presentò una domanda al locale provveditorato agli studi chiedendo di essere assegnato a una cattedra di un liceo di Venezia. La domanda era redatta in termini molto fieri, e senza concessioni politiche: Granata rivendicava il suo diritto, come professore di ruolo, di essere riassunto in servizio, dal quale era stato allontanato dal corso degli eventi determinati dalla guerra. Il provveditore trasmise la domanda al ministro, che a febbraio del '45 comunicò a Granata che gli era stata assegnata la cattedra di Filosofia e pedagogia nell'Istituto magistrale «N.Tommaseo»46. Granata asserisce di non ricordare quasi nulla del suo insegnamento a Venezia durato solo pochi mesi, a causa delle sue condizioni fisiche di allora e della tensione del suo spirito che a tutt'altro si rivolgeva. Il ricordo piú vivo di quel gruppo di ragazze che seguivano le sue lezioni era «l'incantevole dolcezza del loro parlare».
Venne la Liberazione, e con l'autunno del '45 Granata riprese il suo posto nel liceo di Perugia. Abbiamo già parlato dell'esperienza sconcertante di questa ripresa dell'insegnamento in regime di libertà che segnò una crisi irreversibile nel rapporto tra Granata e la nuova generazione dei suoi allievi perugini. Perugia che, nei suoi tempi difficili, aveva rappresentato il momento della ripresa di una vivace attività antifascista grazie alla conoscenza di Capitini e di studenti e colleghi che intorno a Capitini avevano costituito un ambiente di antifascismo legato al rinnovamento culturale, ora lo deludeva ostentando indifferenza al suo insegnamento. Ma la «crisi giovanile» non era soltanto perugina, come Granata dovette presto constatare. Nel 1949 chiese ed ottenne il trasferimento a Roma, al Liceo «Dante Alighieri», dove trovò un ambiente piccolo borghese, retto da un preside clericale e conservatore. Grazie alle sue qualità di studioso e di didatta, Granata non tardò ad affermarsi come docente e anche a segnalarsi come uomo di saldi principi politici, che mise presto in luce quando si rifiutò di leggere in classe una circolare ministeriale che diffidava gli alunni, sotto minaccia di gravi punizioni, dal prender parte alle manifestazioni indette per il giorno successivo dalle sinistre contro la presenza a Roma del generale Eisenhower, rappresentante degli Usa allora impegnati nella guerra di Corea e nella politica di forte ripresa della produzione di armamenti nella quale era coinvolta anche l'Europa e in particolare l'Italia. L'agitazione della sinistra in Italia aveva lo scopo di segnalare la portata rilevante della nuova fase dell'alleanza degli Usa con le potenze dell'Europa occidentale47.
Ma, per quanto riguarda gli studenti, a Roma si presentarono a
Granata problemi analoghi a quelli perugini. E per giunta in un
ambiente sociale molto piú conformista. Il Liceo «Dante»,
ci ricorda Granata, sorge a due passi dal palazzo di Giustizia,
in un tipico quartiere di piccola borghesia: impiegati, magistrati,
ufficiali e professionisti. E nella scolaresca del liceo era possibile
rinvenire i pregiudizi tipici di questo ceto.
In piú - aggiunge Granata
-, rispetto alle scolaresche di altre sedi dalla composizione
sociale su per giú analoga, ho notato un maggior ossequio
alla religione e alle sue pratiche (di cui sono prova l'abitudine
quasi generale di segnarsi allo scoccare del mezzogiorno e il
prestigio dei sacerdoti e dei frati insegnanti di religione),
un maggior reverenziale e timoroso rispetto dell'autorità
(... specialmente di quella del «signor Preside»), infine
un piú accentuato spirito di corpo alimentato dalla impostazione
agonistica, con relative gare sportive con altri istituti, dell'insegnamento
assai ben curato dell'educazione fisica48.
A Granata questa situazione «diede
fin dal primo momento l'impressione del piú generale squallore».
Sommate, tuttavia, le due esperienze di Perugia e del Liceo «Dante»
a Roma, Granata si interrogava sulle origini e sulle cause della
«crisi giovanile», dato comune alle due residenze, pur
cosí diverse per altri aspetti. A Perugia aveva cercato
di recuperare la lezione marxista contro ogni concezione deterministica
della storia:
I grandi mutamenti storici,
l'affermarsi, cioè, di una classe al posto di un'altra,
tenevo a chiarire, non si producono spontaneamente e con ineluttabile
necessità in corrispondenza delle modificazioni intervenute
nei rapporti di produzione. Levatrice della storia è la
volontà rivoluzionaria. Senza il suo intervento anche a
tempi socialmente ed economicamente maturi possono non corrispondere
adeguati mutamenti nella sovrastruttura49.
Segnate chiaramente le differenze
sociali e ideologiche tra le due scolaresche di Perugia e di Roma:
le prime nutrite di tradizioni laiche e liberali, le seconde piú
conformiste e nutrite di cattolicesimo formale, Granata osservava,
nelle une e nelle altre, la presenza diffusa di un problema dei
giovani con caratteri comuni, sosteneva, quindi, che bisognava
cercarne la comune origine o trovarne comunque una spiegazione
unitaria, tanto piú che la crisi si manifestava con caratteri
comuni in ambienti di diversa estrazione sociale e ideologica.
In che cosa, dunque, differivano le nuove leve di alunni dalle
precedenti?
A me sembra - risponde Granata
- che la nota distintiva dei giovani di oggi sia nella carenza
d'interesse per l'universale. Di fronte ai problemi della civiltà
e del suo destino, alle concezioni del mondo, dell'uomo, della
vita scuotono le spalle con aria sardonica come per dire: a noi
non ce la fate50.
Ed è allora indotto a pensare
che questa carenza abbia origine dalla «delusione nazionale
di tutto il secolo»: dalla guerra mondiale coronata dalla
vittoria che poi si risolse nel fascismo, alla delusione dei piccoli
borghesi che aderirono in buona fede al fascismo e alla fine ne
scoprirono «il vero volto di reazione capitalistica»,
a «quella dei combattenti della Resistenza che aspettavano
dal crollo del regime la palingenesi che non è venuta».
Se questa analisi è giusta, sembra a Granata che spieghi
anche perché l'alta cultura e la filosofia viva un periodo
di pessimismo e cita di nuovo a questo proposito Calogero e Spirito.
Spesso, anzi, i giovani sono piú accomodanti e piú
propensi al compromesso riformista col presente:
Non nascondono il loro scetticismo
di fronte ai programmi di rinnovamento generale della società;
per loro la politica altro non è, né deve essere,
se non scelta di soluzioni ai problemi particolari che si presentano
di volta in volta e azione per attuarle; per loro il credere che
tutto non finisca lí è dar prova di mentalità
ipostatizzante. Le nuove generazioni vogliono vivere quanto piú
intensamente possibile il presente e si rifiutano ad ogni proiezione
e ad ogni impegno della volontà verso il futuro: dimensione
del tempo questa che ovviamente non interessa chi persegue il
guicciardiniano «particulare». Ma forse sono ingiusto51.
Dopo un giudizio cosí severo
che non sembra lasciare luogo a speranze, Granata arretra di colpo,
non spinge il suo pessimismo alle conseguenze estreme, richiama
di nuovo le patite delusioni, e scopre che la preferenza per le
soluzioni dei problemi particolari si spiega con «l'amore
di concretezza cosí caratteristico nei giovani d'oggi e
che per se stesso non è affatto negativo». È
lui, Granata, che a questo punto negherebbe tutta la sua visione
del mondo, tutta la sua coerenza di intellettuale fedele al mito
della rivoluzione proletaria, se non nutrisse piú speranza
nella gioventú d'oggi. Quindi il dubbio e la palinodia:
Che sia nel torto io e che
abbiano ragione invece questi nostri ragazzi: sportivi, ma che
studiano la matematica e le scienze assai meglio di quanto non
facessimo una volta noi; collezionisti di fotografie delle stelle
del cinema, ma che guardano le compagne di scuola con occhi limpidi
e puri e si comportano con esse con una scioltezza di modi e una
franchezza che meravigliano quanti ricordiamo l'impaccio dei nostri
rari rapporti con le compagne di classe timide e rosse di vergogna
piú di noi; appassionati del «Musichiere», ma
che si rivelano anche capaci di comprendere e gustare la bellezza
di un canto dantesco e della pittura degli Umbri; tifosi di «Lascia
o raddoppia», ma che sanno di storia e di filosofia molto
di piú di quanto ne sapessero gli studenti di quarant'anni
fa52.
E infine:
La concezione che io accolgo
mi suggerisce qual è lo stato presente della società,
quali i suoi problemi, quali le sue esigenze: la lotta tra le
classi all'interno degli Stati capitalistici, la lotta sul piano
mondiale tra il campo del capitalismo e quello del socialismo;
la portata e il significato di questa lotta per il destino dell'umanità,
rappresentando l'una parte il disperato tentativo di mantenere
la società nello stato presente e l'altra l'esigenza di
un radicale mutamento che porti alla fondazione di una società
senza classi in cui sia abolito lo sfruttamento e realizzata la
liberazione di tutti e di ognuno. Dal convincimento che tale sia
appunto la situazione del nostro tempo scaturisce imperiosamente
per me la necessità di fissare alla mia opera nella scuola
il compito di promuovere nei miei alunni la consapevolezza della
situazione storica in cui ci è toccato vivere e di richiamarli
al dovere di prendere posizione nella lotta in corso dalla parte
del progresso, dalla parte cui è legato il destino dei
valori piú fecondi e validi per l'umanità tutta.
L'unico limite a questa mia azione nella scuola, della cui osservanza
riconosco di dovere rendere conto a Lei, è l'obbligo di
condurla in maniera non dogmatica e nel rispetto delle opinioni
altrui. Ma quell'obbligo non è per me un limite, che anzi
reputo il metodo liberale il solo legittimo per un insegnante
degno di questo nome53.
Il punto di arrivo di questa lunga
e tormentata analisi della crisi giovanile non può non
essere il recupero delle nuove generazioni. E Granata rivendica
la fecondità del suo impegno di insegnante e dell'impegno
dei giovani:
Ma ho fatto scuola, signor
Preside, ho seguito gli alunni nello sviluppo delle menti, spettacolo
per me sempre nuovo e sempre prodigioso, li ho aiutati a potenziare
le doti naturali, ho messo nell'insegnamento tutto l'impegno e
l'arte che le mie forze fisiche e le capacità professionali
mi consentivano. E li ho conosciuti, apprezzati e amati. Non c'è
nulla in questi nostri ragazzi che mi richiami l'idea di una gioventú
bruciata. È vero, non hanno ideali, ma non è difficile
scoprire nelle loro anime, al di sotto della stessa irrisione
che poi spesso altro non è che autoironizzazione, un vago
sentimento di rimpianto per un bene mai posseduto. Gioventú
insoddisfatta, la direi piuttosto, travagliata da un interiore
contrasto dal quale cerca la liberazione nella concretezza degli
interessi, nella tenacia dell'impegno e nella diligenza con cui
si dedica all'esecuzione dei suoi compiti. Da ciò il discreto
profitto dei nostri alunni e conseguentemente il giudizio favorevole
che, malgrado tutto, non posso non dare loro54.
Mentre nel mondo della scuola Granata
faceva i conti fino in fondo con il suo mestiere d'insegnante
e giungeva a modificare profondamente il suo giudizio pessimistico
sulle nuove generazioni, fuori dalla scuola intanto la storia
accelerava il suo ritmo e lo scandiva con eventi di portata incommensurabile,
fino ai fatti di Ungheria. Nella divisione che si determinò
allora anche all'interno delle forze progressiste o rivoluzionarie
sulla base dei movimenti occorsi in Ungheria e della loro repressione
da parte dell'Unione Sovietica, Granata prende una posizione intransigente,
coerente con le sue premesse. Che cosa avviene in Ungheria? È
una rivolta antisocialista, anticomunista? Bisogna, allora, riconoscere
alla Repubblica ungherese il diritto di difendersi da sola e anche
il diritto di chiedere l'intervento dell'Unione Sovietica. Granata
affronta il problema a chiare note, non ignaro di provocare i
suoi ascoltatori:
Io la scelta l'avevo fatta
da moltissimi anni e conservavo integra la certezza nella sua
bontà e nel suo valore. E voi? domandai?55
La risposta degli alunni questa volta fu corale: non si tratta di una rivolta antisocialista, gli operai e gli intellettuali ungheresi sono insorti per la libertà e la giustizia, contro l'oppressione degli stranieri e dei gerarchi del partito, per un socialismo che non sacrifichi il presente all'ipotetico paradiso del futuro. Gli insorti si sono battuti per un ordinamento economico che non sacrifichi troppo la soddisfazione dei bisogni presenti alle esigenze della costruzione del socialismo, quelli dall'altra parte della barricata sostenevano, invece, la necessità del sacrificio. Ma voi, ribatte Granata rivolgendosi ai suoi scolari, preferite una valutazione e un giudizio di natura esclusivamente morale.
La crisi del '56 investí i paesi dell'Europa orientale,
che sotto l'egemonia sovietica avevano conosciuto condizioni diverse
nello sviluppo economico, ma che erano tutti caratterizzati dalla
dipendenza dall'Urss nella politica, nell'economia, nei rapporti
internazionali. Questo sistema, che si reggeva con la forza e
derivava dalla divisione delle sfere d'influenza fissate negli
accordi conclusi tra le grandi potenze vincitrici della seconda
guerra mondiale, che garantirono il mantenimento della pace come
«guerra fredda», subí nel '56 una grave scossa
ma parve resistere. Le ripercussioni furono tuttavia notevoli
ben oltre i confini dei paesi satelliti dell'Urss e specialmente
in seno ai partiti comunisti. Molti comunisti italiani, specie
fra gli intellettuali, in quella circostanza si schierarono contro
la politica sovietica nell'Europa orientale e contro l'egemonia
dell'Urss nel movimento comunista internazionale, alcuni abbandonarono
il partito, altri vi rimasero ma non rinunciarono a criticare
la scelta della direzione, che aveva appoggiato la repressione
armata sovietica in Ungheria. Granata fin da principio prese posizione
contro il movimento antisovietico dell'Ungheria e della Polonia,
e si dichiarò favorevole alla repressione. Non si limitò,
tuttavia, a sostenere le ragioni dell'Urss, identificandole con
la difesa del socialismo, neppure si identificò con il
sostegno dato all'Urss in quell'occasione dalla direzione del
Pci e da Togliatti personalmente, ma colse l'occasione della nuova
situazione creatasi nell'Europa orientale per muovere una critica
argomentata alla politica culturale del Pci. Il documento piú
interessante che ci ha lasciato in proposito è una lettera
diretta a Enzo Modica, allora responsabile della commissione culturale
della Federazione romana del Pci. Sono ventuno pagine dattiloscritte
datate 4 giugno 1957 che criticano la politica culturale del Pci
quale si manifestava in special modo nelle pubblicazioni periodiche.
Granata, da un lato si schiera a favore della linea filosovietica
prevalsa nella Germania orientale e in Cecoslovacchia e respinge
la posizione polacca, che era la piú critica nei confronti
dell'Urss, e dall'altro constata e documenta l'arretramento ideologico
verificatosi in alcuni circoli intellettuali del Partito comunista
italiano:
Mi riferisco - precisa - a
quell'oscurarsi della consapevolezza delle mete ultime cui tende
il proletariato, quel venir meno, in una parola, della coscienza
socialista che rende poi disarmati davanti alle suggestioni delle
ideologie riformiste. Salta subito agli occhi, a questo riguardo,
la differenza di tono, d'ispirazione, oltre che di tematica, nelle
manifestazioni della cultura marxista dei primissimi anni dopo
la Liberazione e di oggi. Si potrebbe brevemente caratterizzarla
dicendo che allora la nostra cultura era tutta protesa verso l'avvenire,
mentre oggi si rivolge di preferenza al passato56.
In altre parole, Granata denuncia
l'abbandono della lotta ideologica per il socialismo e il ripiegamento
su tematiche condizionate dalla fase attuale della lotta politica,
e quindi dall'ideologia avversaria:
A parte la difficoltà
oggettiva di una qualsiasi fissazione della prospettiva dell'avvenire,
che l'instabilità e l'incertezza delle vicende politiche
sottoponevano agli spostamenti piú subitanei e drammatici,
un ruolo importante nella obnubilazione della consapevolezza dei
futuri traguardi verso cui marcia la classe operaia ha avuto anche
la maggiore attenzione alla realtà presente, ai modi, cioè,
in cui si manifesta presentemente ed effettivamente la vita sociale
la cui conoscenza veniva giustamente ritenuta necessaria per un
concreto operare in essa. Ma non ci si è difesi a sufficienza
dal pericolo di dimenticare nell'andar dietro alla realtà
presente il compito rivoluzionario del mutamento e del superamento
e di appagarsi in conseguenza di mere prospettive riformistiche.
Ciò vale per l'azione culturale del partito e anche per
il modo in cui talvolta viene impostato il problema dei rapporti
con la Chiesa cattolica57.
È indubbio che il realismo
politico del Pci nel suo complesso aveva indirizzato la cultura
fiancheggiatrice piú allo studio dei problemi del presente
che a quelli delle mete da raggiungere nell'avvenire. La politica
realistica del Pci non lasciava spazio al «sole dell'avvenire»
e all'utopia, ma Granata, non senza ragione, segnala casi in cui
una rivista del partito (che vuol dire finanziata dal partito
e affidata alla direzione di uomini di fiducia del partito stesso
come «Il Contemporaneo») impostava il problema dei rapporti
con la Chiesa cattolica proponendo, a suo dire (ma, in realtà,
non era molto lontano dal vero)
soluzioni di maggior capitolazione
di quelle stesse cui le controrivoluzionarie, per tanti aspetti,
giornate dell'ottobre scorso hanno costretto i compagni polacchi58.
Le critiche particolari che Granata rivolge alla politica del Pci colgono in parte nel segno, ma quello che egli vede nel '57 come una sorta di tradimento ideologico del partito ai danni delle classi lavoratrici dell'agricoltura e dell'industria, altro non era - giudicato oggi dopo una trentina d'anni e dopo una serie di avvenimenti orami irreversibili -, in realtà, che il manifestarsi del cominciamento della fine del comunismo storico che, identificandosi con l'industrializzazione dell'Unione Sovietica e con l'armamento di quella grande potenza mondiale e subordinando al raggiungimento di queste mete ogni altro obiettivo, era giunto, alla fine, all'esasperazione delle contraddizioni che uno sviluppo forzato non poteva non generare. Di qui nasceva il dubbio, anzi la convinzione sempre piú diffusa, che quello offerto dall'Urss non fosse un modello esportabile, un'esperienza da imitare, la vera e unica via al socialismo: tutte certezze che con la morte di Stalin si mostrarono allo scoperto all'interno del mondo «socialista» egemonizzato dall'Urss e produssero tensioni insuperabili all'interno dello stesso gruppo dirigente sovietico sopravvissuto alle terribili purghe staliniane, e infine aprirono la strada alla grande crisi del comunismo sovietico e dei paesi da esso dominati. Da parte dei nuovi dirigenti sovietici, di Krus_c_èv in particolare, ci furono aperture verso una nuova politica che si manifestò da principio nella ripresa di relazioni normali con la Jugoslavia. Ma la rivolta ungherese ebbe un carattere di ribellione aperta, e la sua repressione con l'impiego della forza militare del Patto di Varsavia segnò un ritorno alle soluzioni di forza, che erano poi una confessione di debolezza.
Il movimento incominciato con i fatti del '56 si è concluso
con la crisi dell'impero sovietico e con la fine del comunismo.
In Italia il processo è stato meno lento che altrove, ma
bisogna aspettare il 1976 per avere una dichiarazione esplicita
del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, al XXV Congresso del
Pcus, che constatava la fine dell'egemonia dell'Urss sul movimento
comunista internazionale e definiva in termini inequivocabili
quella che era ormai la linea collaudata del Pci. Quella dichiarazione
di Berlinguer prende atto di una realtà nuova e segna un
momento decisivo nella storia del movimento operaio internazionale.
Eccone il testo:
L'attualità del problema
del socialismo ci impone anche di indicare con assoluta chiarezza
quale socialismo noi riteniamo necessario e il solo possibile
per la società italiana. Noi ci battiamo per una società
socialista che sia il momento piú alto dello sviluppo di
tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di
tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà
religiose e delle libertà della cultura, dell'arte e delle
scienze. Pensiamo che in Italia si possa e si debba non solo
avanzare verso il socialismo ma anche costruire la società
socialista con il contributo di forze politiche, di organizzazioni,
di partiti diversi; e che la classe operaia possa e debba affermare
la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico59.
Granata, dunque, aveva avuto qualche
ragione di criticare, nel '57, la debolezza ideologica del Pci,
che si era allontanato dall'ideologia classica del marxismo-leninismo
senza abbandonarlo esplicitamente. Ma la crisi manifestatasi apertamente
con le rivolte dei satelliti dell'Urss a partire dal '56 va in
una direzione completamente diversa da quella che illustra Granata,
il quale finisce per imputare alla debolezza dei quadri intellettuali
del Pci, quella che è invece la manifestazione di un fenomeno
molto piú vasto e piú profondo, che verrà
in piena luce negli anni Novanta con la fine del Pci e degli altri
partiti comunisti e la nascita di partiti nuovi. L'abbandono di
un'ideologia invecchiata non è avvenuto in un giorno, ma
nel corso di un'evoluzione durata un buon trentennio.
45 Relazione, p. 10.
46 Relazione, p. 14.
47 Si veda in proposito J. e G. Kolco, I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954, trad. it. Torino, Einaudi, 1975, specialmente alle pp. 795-796: «Per quanto si trovasse di fronte a problemi seri, già prima che il programma venisse avviato, l'Europa occidentale stava già riprendendosi dalla guerra, ed a molti osservatori era chiaro che gli Stati Uniti avevano bisogno dell'Europa occidentale quasi quanto l'Europa aveva bisogno dell'aiuto americano. L'Europa occidentale temeva anche un collegamento troppo stretto della sua economia con quella degli Stati Uniti, considerate le esperienze del passato e sapendo che essi erano, oltre che il paese capitalistico piú potente, anche quello piú instabile. Anche considerando le cose dal suo punto di vista conservatore, essa aveva un potere di contrattazione molto piú grande di quello che essa decise di esercitare. Ma la visione di un fiume di dollari frenò, in questo senso, i dirigenti conservatori dell'Europa i quali, in ultima analisi, avevano gli stessi obiettivi sociali del loro partner atlantico. Tuttavia, una volta accettate le condizioni americane e collegate intimamente le economie nazionali agli Stati Uniti, la minima oscillazione nell'economia americana ebbe profonde ripercussioni in Europa. E concedendo agli americani un potere sulle scelte fondamentali di politica economica, l'Europa occidentale, con ciò stesso abdicò temporaneamente alla propria sovranità».
48 Relazione, p. 16.
49 Relazione, p. 15.
50 Relazione, p. 18.
51 Relazione, p. 20.
52 Relazione, pp. 20-21. Ricordiamo che la Relazione è scritta in forma di lettera diretta al preside del Liceo «Dante Alighieri».
53 Relazione, pp. 22-23.
54 Relazione, p. 23.
55 Relazione, p. 25.
56 Lettera a Modica, p. 2.
57 Ivi, p. 3.
58 Ibidem.
59 Riprendo il testo da G. Fiori, Vita di Enrico
Berlinguer, l'Unità-Laterza, 1992, p. 272.