next essay Studi Storici 3, luglio-settembre 1995 anno 36


Gastone Manacorda, Storia di un antifascista. Giuseppe Granata

A distanza di molti anni Granata nel 1955 ha dato un giudizio severo sul suo nicodemismo considerandolo come una resa al nemico. Ha ripetuto solennemente - è vero - anche nel 1955, quello che aveva già detto e scritto piú di una volta: che mai il nicodemismo era penetrato nelle aule per inquinare e deformare l'insegnamento, e che tutto l'indirizzo dell'insegnamento dei docenti nicodemici era «lontano e contrario all'ispirazione fascista». Già dal periodo di Rossano gli si erano presentati i problemi piú scabrosi che mettevano a dura prova non solo la preparazione dell'insegnante nicodemico ma anche il suo coraggio. Perciò Granata esalta la nuova compagnia di studenti e di colleghi che trovò a Perugia nel 1939. Gli studenti, che non tardarono a scoprire in lui l'antifascista, erano già nel movimento clandestino facente capo a Capitini («non nicodemico questi, ma saldissimo testimone della causa della libertà», chiosa Granata).

E si può dire che furono essi, gli studenti a farmi ritrovare il vecchio me stesso, quello del dopoguerra e dei primi anni del fascismo fino al '27, quando l'assoluzione alla Corte d'Assise di Napoli - ripete ancora - mi offrí la possibilità e la tentazione, alla quale non seppi resistere, di diventare nicodemico.

Fin qui Granata non ha fatto che ribadire con piú forza quello che già aveva scritto. La trattazione di certi argomenti nelle lezioni eccitava nei migliori alunni la voglia di saperne di piú, e quindi a Rossano si erano formati gruppi di giovani che andavano a trovare a casa il maestro, il quale passava con loro «interi pomeriggi». Cioè riprendeva, con altre modalità, una forma di insegnamento libero. Qui, per fortuna, Granata abbandona il tono di mea culpa e parla con discreta fierezza di quel rapporto quasi socratico che apriva davanti alle menti dei giovani la cognizione di un mondo tutto diverso da quello che forniva loro la scuola e li spingeva «a prendere il posto non piú poi abbandonato da adulti nella vita pubblica». Qui, come quando parla del suo insegnamento della storia specialmente al liceo di Perugia, Granata è fiero della sua capacità di battere il nemico ideologico con l'arma della astuzia messa al servizio della verità. Ma in generale ha dato un'interpretazione riduttiva del suo nicodemismo e non si è posto una domanda realistica: qual era l'alternativa? Darsi alla cospirazione, entrare a far parte del partito clandestino, che risiedeva all'estero, del partito sezione della III Internazionale, che mandava in Italia i suoi piú coraggiosi militanti, sfidando il Tribunale speciale, il carcere ventennale e il confino nelle isole? Il paragone implicito con l'antifascismo eroico, senza retorica e senza ammissioni di sorta, gli pesa. Ma al giudizio storico un antifascismo attivo all'interno del paese, esercitato da una posizione cosí importante come quella dell'insegnamento nella scuola pubblica, come lo stesso Granata ha dimostrato con tutta la sua vita, non è detto che appaia meno fecondo di risultati sol perché non ha lo stesso grado di eroismo di quello dei comunisti militanti, che subirono decenni di carcere e di confino. Il tradimento verso la causa - dice Granata - consisteva principalmente nell'«ossequio formale» al regime e nell'astensione dall'opposizione e dalla lotta politica.

L'opera dell'insegnante è essenzialmente colloquio, dove non si può essere diversi da quello che si appare, perché l'insegnante è proprio e solo in ciò che dice. Quindi non c'era scampo, non si poteva parlare fascista e illudersi di non esserlo. Parlare fascista significava esserlo, agire cioè da fascista sulle coscienze dei giovani che ci erano affidati. Ora gli insegnanti nicodemici non portarono mai fino a questo estremo d'ignominia il loro tradimento.

Non posso consentire in tutto con Granata e definire la condotta nicodemica «un tradimento». È, al contrario, una scelta realistica di chi non accetta di essere escluso, prima di tutto, dalla formazione dei giovani che, se avessero avuto contatto solo con insegnanti fascisti fanatici o tiepidi conformisti, ligi comunque al regime e disposti ad insegnare la storia nazionalistica e la filosofia dello statalismo, sarebbero stati privati di ogni alternativa. E, invece, in molti casi, anche piú modesti dell'azione svolta da Granata e da altri «nicodemici», ebbero almeno maestri migliori. D'altronde non si poteva essere antifascisti leali, «per la contraddizion che nol consente». Per queste ragioni non mi sento di sottoscrivere pienamente l'opinione di Granata, quando ricorda gli insegnanti piú giovani che ebbero una parte di qualche rilievo nel movimento antifascista perugino di quegli anni:

Con noi erano ora giovani insegnanti, come Ottavio Prosciutti, Walter Binni e Gastone Manacorda che, ancora ragazzi all'epoca della marcia su Roma, all'antifascismo erano arrivati per vie e convinzioni diverse, della cui sincerità facevano testimonianza l'ardire e la tenacia con cui prendevano parte all'attività clandestina. Non nicodemici, dunque, come non lo erano gli studenti avanguardisti, giovani fascisti e giovani italiane, che dell'appartenenza, del resto obbligatoria, alle organizzazioni del regime si servivano come scudo e riparo per meglio e piú efficacemente operare. Nella loro coscienza non c'era e non poteva esserci l'ombra che per il ricordo del passato tradimento aduggiava la nostra di vecchi nicodemici. Un'ombra, un solco nella coscienza che né le prove e le sofferenze, né il riconoscimento di amici e compagni sono riusciti a fare sparire29.

Qui bisogna spiegarsi, perché tutto il merito o il demerito non dipenda dalla data di nascita (parlo per me, s'intende, e non per gli amici e colleghi che sono nominati insieme con me). Il dato anagrafico è il dato obiettivo da cui bisogna partire per definire la differenza tra l'antifascismo di un cittadino italiano nato nel 1900, come Granata, e uno nato, poniamo, nel 1916, come il sottoscritto. Al tempo dell'ascesa del fascismo al potere il primo aveva 22 anni, aveva fatto il servizio militare, si era laureato o stava per laurearsi, era destinato con i suoi coetanei a combattere nell'ultima fase della guerra, ed aveva, invece, avuto la fortuna di «riportare la ghirba a casa» perché la guerra si concluse prima del previsto. Nel frattempo, aveva aderito prima all'ala rivoluzionaria del Psi e poi, dal gennaio 1921, si era iscritto al neonato Partito comunista d'Italia e per questo aveva dovuto subire gravi persecuzioni fino alla rimozione dal grado di sottotenente, che lo ridusse in miseria e lo costrinse ad abbandonare la sua città; fu poi sottoposto per anni al controllo di polizia e infine, grazie ad un fortunato concorrere di circostanze, fu assolto in Corte d'Assise nel 1927. Fece allora atto di abiura (o almeno di resa) e abbandonò ogni parvenza di vita politica per un decennio per poi riprenderla all'avvicinarsi della seconda guerra mondiale, passando attraverso le avventure piú incredibili: arresti ripetuti, deportazione in Germania, fortunoso ritorno in Italia, e infine lotte interne di partito. È paragonabile questo curriculum di Granata con quello di un italiano nato nel 1916? Questo italiano, il piú giovane dei tre insegnanti antifascisti nominati con lode da Granata, aveva sei anni al momento dell'avvento del fascismo al potere, nell'ottobre del '22, e cominciava proprio in quel mese, con la frequenza della prima elementare, il corso degli studi, che avrebbe concluso con la laurea conseguita l'11 luglio del 1938, quando, cioè, la seconda guerra mondiale era alle porte. Lo iscrissero all'Opera nazionale balilla nel 1928, e con lo scadere degli anni era sempre stato iscritto d'ufficio alle successive formazioni fino al Guf (Gruppo universitario fascista) e poi al Pnf, naturalmente con sempre maggior consapevolezza della situazione politica da parte sua, ma anche con rassegnato realismo, poiché questa era la condizione di tutti i suoi coetanei. Il totalitarismo rivelava, al fondo, la scarsa intelligenza dei suoi inventori, i quali non avevano capito che iscrivere tutti, al limite, era come non iscrivere nessuno. Essere iscritto al partito era come essere iscritto all'anagrafe e, in pratica, non comportava altro che il sottostare a qualche formalità, a meno che, beninteso, l'iscritto non ci mettesse di suo l'entusiasmo e la partecipazione. Noi, dunque, non fummo «nicodemici» perché non potevamo esserlo, e non potevamo esserlo semplicemente perché eravamo fascisti nati, tanto è vero che conservammo e rinnovammo la tessera del Guf o del Pnf anche dopo che avevamo incominciato a essere antifascisti e ad agire come tali. Infatti, che valore aveva quella tessera imposta a tutti fin dall'infanzia, quella tessera che era niente piú che un lasciapassare per qualsiasi lavoro, per qualsiasi concorso, quella tessera obbligatoria che era solo una prova della negazione della libertà e finiva per essere un incoraggiamento all'ipocrisia?

È vero, invece, quello che scrive Granata: che all'antifascismo eravamo arrivati «per vie e convinzioni diverse» e sempre (salvo il caso di un insegnamento diverso ricevuto in famiglia) con una notevole fatica individuale.

L'ambiente perugino «a quel tempo languiva sotto la cappa del totalitarismo imperante»30, come del resto, aggiungiamo noi, la maggior parte della provincia italiana nell'inverno '39-40, quando assistette attonita ai prodigi del Blitzkrieg hitleriano. Solo un piccolo nucleo di intellettuali sentiva l'esigenza di prendere un'iniziativa che servisse a raccogliere le forze disperse della gente colta e pensosa dell'avvenire per stabilire un punto d'incontro e di lí muovere insieme verso una presa di coscienza della realtà attuale e delle prospettive legate alle vicende della guerra e all'avvenire del nostro paese. Ma quale forma dare a questa iniziativa? L'idea di costituire a Perugia una sezione dell'Istituto di studi filosofici fu, naturalmente, di Capitini che la comunicò al professor Averardo Montesperelli nel corso del 1940, e insieme i due amici si adoperarono cercando, prima di tutto, e ottenendo il consenso della presidenza nazionale dell'Istituto. L'antica Società filosofica italiana era stata eliminata dal fascismo perché politicamente invisa al regime, e in suo luogo era stato creato il Reale Istituto di studi filosofici del quale fu nominato presidente il senatore Balbino Giuliano, già ministro dell'Educazione nazionale. L'Istituto aveva un certo numero di sezioni in varie città d'Italia. Imitando questi precedenti si poteva legittimamente aspirare a creare qualcosa di simile a Perugia. Alla riunione costituiva, che si tenne il 7 dicembre 1940 in casa Montesperelli, oltre al padrone di casa e a Capitini parteciparono un'altra dozzina di persone, cui molte se ne aggiunsero nei giorni seguenti e, soprattutto, dopo che l'Istituto ebbe cominciato a svolgere la sua attività. Montesperelli fu eletto presidente, mentre alla carica di segretario fu nominato il piú giovane tra i professori.

Le ostilità da parte degli ambienti fascisti non si fecero attendere. Il presidente dell'Istituto di cultura fascista della provincia, invitato ad assistere all'inaugurazione della prima seduta (relatore Guido Calogero), non venne, ma inviò una lettera in cui ricordava che

per disposizione dell'Eccellenza il Segretario del PNF, nessuna manifestazione culturale che esca dalla competenza del Ministero della Cultura Popolare e dell'Educazione Nazionale può essere organizzata senza il preventivo accordo con la Sezione Provinciale dell'Istituto Nazionale di Cultura Fascista, sia per il tema, sia per il nome del conferenziere31.

Montesperelli rispose con fermezza e senza nulla concedere alle pretese del presidente dell'Istituto di cultura fascista limitandosi a ricordare che l'Istituto di studi filosofici era un'istituzione culturale direttamente dipendente dal ministro dell'Educazione nazionale. Ma ormai le ostilità erano aperte e continuarono per tutta la breve vita della nostra iniziativa. Montesperelli fu molto abile e, fra l'altro, seppe procurarsi l'appoggio, anche finanziario, del rettore dell'Università, Paolo Orano. Seguí un altro colpo a nostro vantaggio, quando invitammo personaggi non invisi o addirittura appartenenti in qualche modo alla gerarchia. Venne a tenerci una conferenza il provveditore agli studi di Perugia, il giovane professore Salvatore Valitutti, creatura di Bottai, che professava idee liberali e, comunque, era un'autorità locale difficilmente attaccabile dal Pnf. Poco dopo facemmo un colpo ancora piú grosso invitando a Perugia il presidente dell'Istituto nazionale di studi filosofici, Balbino Giuliano, che parlò nei locali dell'Università. I biglietti di invito erano firmati congiuntamente dal rettore Paolo Orano e dal presidente della sezione dell'Istituto. L'iniziativa valse a consolidare il nostro diritto di esistere e la nostra indipendenza. Ora potevamo procedere speditamente.

Intanto la situazione dell'Italia in guerra andava peggiorando e la tensione politica all'interno si faceva sentire sempre piú acuta. Il potere fascista cominciava a dare segno di qualche scricchiolio, e il governo rispondeva moltiplicando gli arresti degli antifascisti. Su Perugia si ripercossero gli arresti eseguiti a Firenze per colpire il gruppo antifascista di Enriques Agnoletti. Vennero arrestati Capitini, Granata e Ottavio Prosciutti (che dopo la Liberazione fu il primo sindaco di Perugia), oltre a molti studenti e altri cittadini. Tutta l'atmosfera cambiò: si temeva un'altra ondata di arresti, che vennero, infatti, nell'estate del '43. Ma la sezione aveva un calendario fitto di sedute da svolgere con oratori tutti di valore. Mancavano Capitini e Granata che erano le colonne dell'Istituto, ma il lavoro organizzativo fatto precedentemente dava i suoi frutti, e il 1943-44, che fu il terzo e ultimo della nostra attività, fu anche il piú denso di lavoro.

Granata ebbe una parte di rilievo in tutta l'attività scientifica dell'Istituto specialmente nel campo della filosofia. Due sono i principali suoi contributi: un ampio intervento, letto il 2 febbraio del 1941, su Le contrastanti posizioni teoretiche di Allmayer e Calogero sul problema della persona e un contributo originale su L'antinomicità dello spirito ed il valore32, presentato attraverso la lettura di un suo allievo nell'ultima seduta della sezione. I due testi, pur strettamente collegati nell'intrinseco, hanno ciascuno una struttura molto diversa dall'altro. Cercheremo di farne un'esposizione sintetica.

La vita morale di Fazio Allmayer - scrive Granata - «come nelle ormai lontane lezioni del 1920» continua perciò ad essere «la sola vera dimostrazione che il pensiero può dare della sua verità». (Sia detto tra parentesi, è questo - credo - l'unico ricordo diretto dell'insegnamento ricevuto nell'Università di Palermo da parte di Granata). Ben diverso è l'«atto» di Calogero, che si presenta come l'egoità della micro-esperienza personale che non mi consente di uscire in alcun modo da me stesso. La conclusione di Calogero è il punto terminale del processo speculativo che ebbe inizio con la kantiana sintesi a priori. Il processo ora è concluso, e la speculazione occidentale non potrà proseguire se non avanzando per altre vie, che non possono essere quelle del neo-realismo, o dell'esistenzialismo, che altro non sono che antistorici compromessi tra l'immanenza e la trascendenza. «La via nuova - dice a chiare note Granata - non può essere che un'antica via, ormai piena di sterpi che avrà bisogno di molto paziente lavoro per essere riaperta»: il materialismo. E qui ironizza sulle persone che arricceranno il naso solo a sentire questa parola. Ma continua nella sua confutazione non tanto del pensiero di Fazio Allmayer, che non oltrepassa i limiti dell'idealismo, quanto di quello di Calogero che «risolve» le difficoltà dell'idealismo, ma inevitabilmente va ad incontrarne altre. Nei libri di Calogero - dice Granata - non si accenna neppure fugacemente alla «subcoscienza», che già Varisco aveva trattato come uno dei problemi piú seri della filosofia del conoscere. Per Varisco, secondo Granata,

La subcoscienza è ineliminabile, perché è un costitutivo essenziale del pensiero del singolo che dimentica e ricorda, e ricordare ci si può di ciò che è accaduto nella subcoscienza. D'altra parte la subcoscienza è inammissibile, perché il pensiero non esiste che in quanto si pensa, e pensare senza sapere di pensare non è possibile. Sembra d'essere in presenza di due proposizioni contraddittorie, ma la contraddizione per il Varisco svanisce ponendo al di sopra di ogni soggetto singolo il Soggetto universale. E allora quel pensiero che nel singolo è subconscio sarà perfettamente consapevole e il problema è risolto33.

Se Granata invece di ricordare Varisco e il limite della sua scoperta della «subcoscienza» avesse conosciuto Freud, avrebbe scoperto con lui l'Inconscio reale, cioè il concreto e ineliminabile deposito di tutte le conoscenze vissute e sofferte dall'unico essere pensante a noi noto: l'uomo, tutti gli uomini ed ogni singolo uomo, perché ogni singolo uomo è portatore di un Inconscio, che è passibile di essere portato alla luce della coscienza. Granata nella conclusione di questo suo primo contributo alla ricerca sollecitata dall'Istituto torna sull'avvenire del materialismo, dal quale aveva preso le mosse, ma è una conclusione, la sua, venata di pessimismo. Nella previsione del mondo a venire il comunista Granata non vede che un mondo in cui il pessimismo subentrerà all'ottimistica concezione della vita dell'idealismo.

Il materialismo, o come diversamente si chiamerà la nuova filosofia, quando essa finalmente sorgerà, ci darà della persona una concezione che non potrà non apparire alquanto grossolana a chi è abituato a considerare tutto sotto la specie idealistica. La persona non sarà tutta luce di consapevolezza, tutta chiarità autocosciente, ma anche, essenzialmente, nera ombra in cui si stacca il piccolo foro della coscienza. E il passato, nell'idealismo lieve fardello sempre superato dall'atto e nell'atto di porre il futuro, sarà il pesante fardello che grava sull'individuo e dal quale nulla mai potrà liberarlo.

Alla fondamentalmente ottimistica concezione della vita dell'idealismo subentrerà il pessimismo che è del resto la nota comune del modo di concepire la vita di immense moltitudini umane. Solo nella luce della conoscenza, non della morale, cercheranno gli uomini la pace con se stessi. E in un mondo in cui si parlerà meno di morale e di dovere, forse regnerà una morale piú alta che in questo34.

Conclusione pessimistica, dunque, del primo contributo di Granata alla ricerca organizzata dall'Istituto. Il secondo contributo Granata lo forní nell'estate del '43. Era ritornato da poco dal secondo periodo di prigionia fiorentina, e si può pensare che il testo che ci sottopose ricorrendo all'espediente di presentarlo come opera di un suo giovanissimo allievo che lo lesse in sua vece, fosse frutto delle sue meditazioni carcerarie. Il testo è molto piú freddo del precedente e sembra, almeno a prima lettura piú coerente, ma poi ad una piú meditata riflessione il contenuto appare non diverso e non meno pessimistico di quello del primo contributo. Il titolo, L'antinomia dello spirito ed il valore, è redazionale, cioè dei redattori del volume. Ma l'apertura è chiarissima, e vuol significare che sin dall'inizio della sua attività la sezione ha preso coscienza che la crisi è giunta al suo scioglimento.

L'antinomia fondamentale nella quale si dibatte lo spirito è quella dell'essere e del divenire. La concezione del divenire conquista la coscienza degli uomini nei momenti di crisi della civiltà, quando quelle che si credevano le verità vengono dislocate, spostate, sovvertite, quando si assiste al tramonto di determinati valori contro i quali si ergono altri valori, altre fedi. Allora diventa certo per tutti che la fissità e la permanenza delle cose sono soltanto, come dice Nietzsche «il lampeggiare o lo sfavillare delle spade impugnate, i punti luminosi della vittoria nella lotta delle qualità contrastanti»35.

E ancora chiarisce che questa antinomia del reale e del razionale è

cosí essenziale alla vita dello spirito che ne resta investito colui che vuol vivere la sua vita come arte se dà e non può non dare al suo volere il valore di un'azione doverosa. È il conflitto tra due atteggiamenti, opposti ma entrambi necessari, dello spirito: il contemplativo o storico e l'attivo o pratico. Se fosse dato all'uomo di vivere solo come essere contemplante o solo come essere agente, il conflitto tra il relativo e l'assoluto, tra il reale e l'ideale non insorgerebbe; ma non è dato; e cosí quando si narra la storia si sente il bisogno di formulare giudizi valutativi, e quando si agisce non ci si può anche non ripiegare in un atteggiamento storico36.

Ma aggiungerà poi anche che

Le cause perdute e i profeti vinti, perché disarmati, hanno diritto di cittadinanza nel regno del valore quanto le cause che non furono perdute e i profeti che furono ascoltati37.

Granata parte dalla constatazione, non nuova nella storia, dell'inconcludenza del pensiero filosofico e, movendo da questa negazione della validità del pensiero umano ai fini della scoperta della verità oggettiva, di un punto d'arrivo, cioè, che sarebbe la fine del pensiero stesso, conclude che è assurdo pensare che un nuovo filosofo un giorno possa trovare la verità assoluta e immutabile. La storia del pensiero umano dimostra che esso non è giunto mai ad un risultato definitivo: i sistemi sono succeduti ai sistemi, ogni filosofo si è illuso di aver finalmente raggiunto la verità assoluta. Di qui la conclusione scettica.

Ci troviamo di fronte ad una vera antinomia: l'essere e il dommatismo, il divenire e lo scetticismo ne sono rispettivamente i termini38.

Granata (e occorre tener presente il suo preannuncio di voler riaprire la vecchia via del materialismo) sembra avvicinarsi a una soluzione materialistica del problema, ma le scienze naturali non erano ancora giunte al punto di fornirgliene una base sicura. Oggi, però, il problema della conoscenza, nel mezzo secolo abbondante trascorso da queste dispute, è stato abbandonato per dimostrata sterilità o, se si preferisce, per evidente inconcludenza. La battaglia del conoscere è stata infatti vinta nel corso del secolo XX dalle scienze fisiche e in particolare dalla fisica. Il pensiero umano nasce nel cervello, e le conoscenze del funzionamento del cervello hanno avuto sviluppi imprevedibili: è questa la sola via per trovare una risposta oggettiva e non romanzata al problema della conoscenza. Lo studio del cervello umano, con tutto ciò che esso comporta, è la sola via scientifica per superare l'antitesi paralizzante tra materia e spirito39. Perciò non seguiremo Granata, nel suo pur acuto e generoso tentativo di fondare le basi della conoscenza nella legge etica del «dover superare», che è la chiave di tutto il suo discorso, apprezzabile, certamente, ma solo per aver posto ancora una volta il problema della conoscenza come irrinunciabile, con la consapevolezza, però, che tutto il panorama del sapere è mutato nei suoi fondamenti durante il secolo XX e che tutta la ricerca precedente, per le sue basi esclusivamente speculative, ha ormai un valore soltanto storico.

La fine dell'attività dell'Istituto di studi filosofici di Perugia coincide con il crollo del fascismo. Il gruppo si disperde, e per Granata si apre un periodo turbinoso. Reduce, come sappiamo, dal secondo arresto legato alle vicende degli antifascisti fiorentini, il 23 maggio del 1943 viene arrestato «per attività antinazionale»40 per ordine del questore di Perugia, e deferito al Tribunale speciale. Il prefetto di Perugia ne dà comunicazione al ministro dell'Interno con lettera del 9 giugno 1943. In calce al foglio c'è una postilla in penna: una domanda ironica del funzionario al ministro, o viceversa, che suona cosí: «lo riattiviamo?». E Granata venne infatti «riattivato» con l'apertura di un nuovo fascicolo a suo nome nel Casellario politico centrale, quel casellario dal quale quindici anni prima era stato radiato per buona condotta. Torna, dunque, ad essere un vigilato speciale, ma in seguito ai fatti del 25 luglio 1943 e all'avvento del governo Badoglio viene sollecitamente messo in libertà il 31 luglio. Seguirono i noti avvenimenti: la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, la fuga di Vittorio Emanuele III e Badoglio da Roma e la proclamazione della Repubblica sociale. Granata, a quanto pare, non cercò di mettersi in salvo da un possibile se non prevedibile arresto. E cosí il 18 ottobre 1943 venne arrestato, e questa volta naturalmente dal comando provinciale della Milizia repubblicana di Perugia che dieci giorni dopo lo consegnò al campo di raccolta per prigionieri di Passignano sul Trasimeno, donde il 4 novembre successivo venne spedito in Germania ed assegnato come lavoratore ad un'industria di guerra in Baviera. Da questo momento il suo status è quello di libero lavoratore (Freiarbeiter), non di prigioniero. A quanto asserisce il fratello di Giuseppe, Diego, che molto si adoperò per salvarlo, la polizia italiana, per quanto la famiglia avesse «piú volte, ma inutilmente insistito»41, non lo aveva nemmeno interrogato, né aveva preso in considerazione il suo stato di salute: sofferente com'era di enfisema polmonare perché fumatore accanito, le sue condizioni fisiche non erano certo delle migliori per affrontare il clima del Nord e un lavoro pesante, che nulla aveva a che vedere con la sua qualità di insegnante. L'impressione è che tutta questa vicenda si sia svolta quasi per caso, da una parte anche con una certa passività di Granata che, messo in guardia dal precedente arresto e da tutti gli avvenimenti che si svolgevano intorno a lui, avrebbe forse potuto cercare qualche via d'uscita prima di farsi arrestare dal governo della Repubblica sociale. Ma in questo periodo egli sembra non aver piú contatti assidui col partito comunista e ancor meno con quei gruppi che cominciavano appena ad organizzarsi per la resistenza armata. Non c'è traccia di contatti di questo genere in tutti gli anni della guerra da parte di Granata. D'altra parte il comando di polizia della Repubblica sociale, estraneo alle vicende politiche perugine, non si era curato neppure di informarsi sulla sua persona. Diego Granata conclude la sua istanza chiedendo al questore e al prefetto repubblicano di Perugia che si adoperino per il rientro di suo fratello in Italia, e il prefetto si espone in questo senso42, ma il ministero degli Esteri della Repubblica sociale, interessato dal ministero dell'Interno perché intervenisse, per competenza, presso i comandi tedeschi risponde con durezza pari alla chiarezza:

dati i precedenti del Prof. Granata Giuseppe, questo Ministero non ritiene di svolgere alcun interessamento in suo favore43.

L'istanza del buon Diego riceve miglior accoglienza da parte del capo della Provincia di Perugia che la trasmette al ministero dell'Interno accompagnandola con un parere nettamente favorevole al rientro di Giuseppe in Italia. Il capo della Provincia propone che a parziale accoglimento della supplica del fratello Diego, «il prof. Granata sia fatto rientrare in Italia e accompagnato a Perugia, onde a di lui carico, esperiti i normali e necessari accertamenti, si possano adottare i provvedimenti di conseguenza». E questa è una apertura notevole, perché in quel contesto il problema prioritario era togliere Granata dalle mani dei tedeschi e riportarlo in Italia. Non era cosa facile, ma per buona sorte, oltre al fratello Diego c'era qualcun altro che era interessato al suo rientro in Italia, e non per sentimento ma per ragioni di tutt'altro genere. Dal novembre del '43 l'Ovra aveva preso contatto con la questura di Perugia attraverso una fitta corrispondenza che puntava in particolare sulla possibilità di utilizzare Giuseppe Granata come «esperto» delle cose di Sicilia per raccogliere informazioni sui comunisti siciliani44. Perciò i corrispondenti dell'Ovra premevano per far rientrare in Italia Granata perché volevano servirsi di lui per spiare i comunisti siciliani, e per questo trovavano solidarietà nelle forze di polizia e del ministero dell'Interno. Da parte loro i datori di lavoro presso i quali prestava la sua opera Granata in Baviera, non dovevano essere entusiasti del suo rendimento, quindi accolsero la richiesta senza altri ritardi oltre quelli burocratici, normali in queste faccende, e rinviarono Granata in Italia insieme con un altro «lavoratore», di cui non conosciamo neppure il nome ma sappiamo per certo che era ridotto in condizioni di salute peggiori di quelle di Granata, tanto è vero che morí appena ebbe raggiunto Bolzano.

La permanenza in Germania di Granata, iniziata ai primi di novembre del 1943 era durata quasi un anno. Ed ora l'Italia era divisa in due dalla linea gotica: non poteva raggiungere dal Veneto, dove si trovava, la famiglia rimasta a Perugia.


Gastone Manacorda, Storia di un antifascista. Giuseppe Granata


29 G. Granata, Nicodemismo antifascista, cit.

30 Si veda per tutta la vicenda dell'Istituto di studi filosofici a Perugia il volume Filosofi nel dissenso. Il «Reale Istituto Studi Filosofici» a Perugia dal 1941 al 1943, a cura di E. Mirri e L. Conti, introduzione di A. Montesperelli, Foligno, Editoriale Umbra, 1986. La citazione è tolta dall'introduzione di Averardo Montesperelli, p. 7 del volume.

31 Il testo è riportato in Introduzione, cit., di Montesperelli a p. 13. Si veda la risposta di Montesperelli, ivi.

32 Il primo contributo si trova alle pp. 49-58 del volume Filosofi nel dissenso, cit. Il secondo alle pp. 223-237 dello stesso.

33 Op. cit., p. 53.

34 Op. cit., p. 58.

35 Op. cit., p. 223.

36 Op. cit., p. 226.

37 Op. cit., p. 229.

38 Op. cit., p. 225.

39 Non è questa la sede per affrontare l'argomento in tutta la sua portata. Voglio semplicemente dire che il modo di affrontare il problema della conoscenza non può essere oggi quello di cinquanta anni fa, quando la filosofia idealistica ancora dominante in Italia, era già vecchia e inutile ogni volta che veniva a contatto con il progresso della fisica. Oggi non si può non tener conto della distanza enorme che ci separa dal modo di pensare nel quale siamo stati allevati noi cultori delle «scienze umane». Ma proprio per questo lascio parlare chi ha le carte in regola, con poche citazioni che traggo da un noto libro: G. M. Edelman, Sulla materia della mente, traduzione di S. Frediani, Milano, Adelphi, 1993. Ho scelto alcuni passi significativi delle tematiche relative all'«enigma della coscienza». «L'obiettivo è confutare l'opinione che sia possibile comprendere la mente prescindendo dalla biologia» (p. 328). «L'attribuzione della mente al corpo e gli apparenti misteri della coscienza pongono un dilemma che si può risolvere considerando la mente e la coscienza come proprietà dirette della materia» (p. 328). «La maggior parte dei fisici non si affida di certo a idee di panpsichismo o di spiriti disincarnati; ciò nonostante, alcuni fisici di grande valore si sono spinti al di là dei dati di fatto della biologia e hanno ipotizzato che sarà una nuova teoria fisica, come una teoria quantistica della gravitazione, a risolvere l'enigma della coscienza» (p. 330).

40 Un'altra lettera del capo della Provincia (cosí furono ribattezzati i prefetti in regime repubblicano) di Perugia, del 13 maggio 1944, che citiamo piú avanti, precisa, invece, che Granata fu arrestato «dai militi della 4ª zona dell'OVRA perché facente parte del movimento antifascista "Italia Libera" organizzato da professionisti liberi, professori e studenti».

41 Copia dell'istanza di Diego Granata, fratello di Giuseppe, inviata a diverse personalità.

42 Il capo della Provincia di Perugia al ministero dell'Interno, 13 maggio 1944. Questa lettera si trova nel fascicolo intestato a Granata del rinnovato Casellario. Tutti i documenti che non portano altra indicazione, vengono da questa fonte.

43 Ivi, il ministero degli Esteri al ministero dell'Interno, 21 luglio 1944.

44 La corrispondenza tra l'Ovra e la questura di Perugia consta di un gruppo di lettere, aventi per oggetto «Granata Giuseppe di Luigi. Attività comunista», datate 6 novembre 1942; 15 dicembre 1942; 24 gennaio 1943; e una lettera all'oggetto «Tenerini Riccardo». Questa corrispondenza fa parte di un gruppo di carte relative a Giuseppe Granata, conservate presso l'avvocato Luigi Ficarra, che sentitamente ringrazio per averle messe a mia disposizione.