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Albertina Vittoria, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia

2. Il diario piú importante Federzoni lo scrisse durante l'occupazione tedesca, mentre si trovava nascosto - come s'è detto - nell'ambasciata portoghese presso la Santa Sede: sono una settantina di capitoli, ognuno con titolo e data, dal settembre 1943 al giugno 1944, che, prendendo spunto dagli avvenimenti di quei mesi - i bombardamenti della capitale, la liberazione di Mussolini ad opera dei tedeschi, la Repubblica di Salò, i rastrellamenti nazisti, il processo di Verona -, li intrecciano con ricordi e commenti di avvenimenti del passato18.

Questo diario, o alcune parti di esso, avrebbe dovuto esser stampato dall'editore romano Donatello De Luigi, con il titolo Le memorie di un condannato a morte, ma ne furono pubblicate solo alcune puntate sul giornale romano «L'Indipendente» e sulla «Nuova Stampa» di Torino nel giugno-luglio 194619. La pubblicazione del libro tardò, probabilmente anche a causa di difficoltà finanziarie dell'editore, fin quando lo stesso Federzoni - che si trovava in Brasile - decise nel giugno del '47 di sospenderla per non compromettere l'azione intrapresa per la revisione del processo20.

Da una rielaborazione di questo testo, portata avanti nel corso degli anni, nacque il libro Italia di ieri per la storia di domani21.

Il filo conduttore del diario del 1943-44 (soprannominato, con riferimento al personaggio di un racconto di Campanile, Celestino), è rappresentato dalla riflessione di Federzoni sul ruolo svolto nel corso del ventennio fascista, laddove per Mussolini egli - come gli altri 18 membri del Gran consiglio che avevano votato l'ordine del giorno Grandi - rappresentava il «traditore», mentre per Federzoni era Mussolini che, con la sua politica demagogica e con l'aver trascinato l'Italia nell'avventura bellica, aveva tradito i presupposti su cui era nato il fascismo e nei quali lo stesso Federzoni aveva creduto:

[...] il fascismo non attuò, bensí sciupò, travisò e infirmò, con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un'essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale.

Dal canto mio, alla vigilia della Marcia su Roma, l'8 ottobre 1922, parlando al «Lirico» di Milano in nome dei miei amici, avevo francamente indicato a quali condizioni i nazionalisti avrebbero assecondato un'eventuale azione di governo dei fascisti: rafforzamento dell'autorità dello Stato sopra i partiti; impero assoluto della legge; riconoscimento della monarchia come presidio fondamentale dell'unità e continuità della Nazione; tutela dei valori religiosi ed etici; elevazione materiale e morale dei lavoratori, accompagnata a ferma difesa dell'ordine sociale; indirizzo economico e finanziario antidemagogico. Avrò torto; ma io sono rimasto ligio a quei principi, nei quali allora pareva che tutti convenissimo22.

Era stato Mussolini, «il Dittatore perpetuo, l'onnipotente padrone d'Italia per ventun anno, colui che aveva di fatto e ormai anche formalmente instaurato al posto della Monarchia una "Diarchia"», ad aver «contribuito per il 90 per cento al collasso dell'Esercito, con la sua opera incompetente e incoerente di ministro delle forze armate per oltre quattordici anni e poi di comandante supremo in guerra»23 e ad aver portato il paese alla disfatta. Ed era proprio questo che non gli veniva perdonato e che aveva portato i 19 membri del Gran consiglio ad esautorarlo e molti altri a negargli la fiducia che gli avevano dato per vent'anni. In questa posizione Federzoni riassume in sé l'atteggiamento di quella classe politica e intellettuale, di origine nazionalista, che aveva creduto nel fascismo per il bene della «nazione», orianamente costituitasi attraverso la sua «lotta politica»: a Mussolini infatti non veniva perdonato «l'aver dilapidato follemente il patrimonio dell'unità, dell'indipendenza e della potenza d'Italia, formato con lo sforzo secolare della Nazione; il patrimonio che egli stesso, nei primi anni del suo governo aveva accresciuto e perfezionato»24.

Un patrimonio che era stato talmente disperso dalla disastrosa condotta della guerra da portare gli italiani - e Federzoni in prima persona - addirittura a «sperare salute se non da altri stranieri»25 e a provare ammirazione per «l'attività dei guerriglieri» nell'Italia occupata che «tengono impegnate, oltre le fluide milizie del fascismo repubblicano, ben sei divisioni germaniche: compito magnifico, magnificamente assolto»26.

La «voce incalzante del cannone che ripete a Roma incessantemente di giorno e di notte l'annuncio dell'avvenimento che essa aspetta con impaziente ansietà»27, oltre alla speranza della liberazione pone al paese il problema del domani. Mentre Mussolini finiva «la sua carriera come mercante di schiavi», lasciando che i tedeschi rastrellassero ragazzi per il loro esercito e lanciassero bandi contro «gli sbandati»28, si poneva all'Italia il problema di risorgere:

Bisogna che gli italiani, senza dipartirsi dalla loro silenziosa discrezione, si facciano nuovamente conoscere e stimare, ossia dimostrino di essere - come possono essere - un popolo serio, un popolo che sa ancora vigorosamente combattere per una giusta causa: il popolo del Piave e di Vittorio Veneto29.

Testimonianza del passaggio nella storia del paese dal fascismo alla democrazia, questo diario esprime il travaglio di una generazione che aveva visto crollare definitivamente i propri ideali e che ora si interrogava sul proprio futuro. Da questo punto di vista, Federzoni sembrerebbe apprezzare le mosse dei partiti antifascisti e dei comunisti, a cominciare da Togliatti e dal suo appello affinché si cessasse di rivendicare l'abdicazione del re: con questa richiesta si poneva «termine e rimedio alle inconcludenti diatribe dei vecchi antifascisti ed ex-fuorusciti, esasperati dai loro asti settari, inchiodati alle loro negative posizioni dottrinarie»30. Federzoni intuiva che una politica di pacificazione e «ogni cooperazione», «compresa questa dei comunisti», potevano essere una soluzione per il futuro del paese: questo perché ad esso, all'indomani della guerra, si sarebbero poste due alternative:

O l'Italia avrà ritrovato nei nuovi cimenti il vigore spirituale che essa destò in sé venticinque anni or sono, e vincerà anche la minaccia del sovvertimento interno; o avrà fallito pure quest'altra prova, e dovrà correre l'alea di diventare, come la nascente Jugoslavia, un pianeta un po' piú grosso di quella nel sistema di cui Mosca è il sole31.

Le vicende personali dell'ex ministro fascista, condannato all'ergastolo dall'Alta Corte di giustizia nel maggio 1945, avrebbero tuttavia esasperato l'astio nei confronti dei nuovi partiti al governo del paese e annullato ogni sentimento di «conciliazione»: il fatto di aver subito due condanne antitetiche - la condanna a morte al processo di Verona per aver partecipato al rovesciamento del fascismo e quella all'ergastolo dell'Alta Corte per aver contribuito con «atti rilevanti» al mantenimento del regime fascista -, lo «specialissimo accanimento di autorevoli antifascisti, succeduto immediatamente alla spietata persecuzione mussoliniana», lo portavano a vedere nel proprio caso personale «un riflesso sia pur minimo dell'atroce marasma di questa Italia che non trova pace neppure con se stessa, avendo ricevuto in eredità dalla guerra maledetta la discordia, che oggi pare insanabile, dei suoi figli»32. Che erano i motivi per i quali, all'indomani del comunicato del mandato di cattura contro di sé e altri gerarchi del settembre 1944, aveva deciso di non costituirsi: «non ho alcuna fiducia - scriveva in una lettera «non spedita» a Bonomi - nell'imparzialità del giudizio che dovrei affrontare», dato «il preconcetto della mia reità, proclamata prima e all'in fuori d'ogni conoscenza dei dati di fatto»33.

Il processo di «autocoscienza» rappresentato da Celestino costituisce anche il filo conduttore delle carte personali di Federzoni ora conservate presso l'Archivio storico dell'Istituto della Enciclopedia italiana: la ricostruzione dell'esperienza - attraverso la memoria e la documentazione - di un uomo politico che era stato protagonista del ventennio e che riteneva di appartenere a una categoria di fascisti non ascrivibile né a quella dei gerarchi né a quella dei «moltissimi che avevano preso la tessera, indossato l'orbace e obbedito alle cartoline di precettazione per le adunate, a scopo di pane quotidiano, di avanzamento nella carriera o di quieto vivere», ma alla «terza numerosa categoria di fascisti - come scriveva in un Memoriale difensivo del luglio 1944 -: quella degli uomini di buona fede»:

di coloro che, sia pure, sbagliarono, ma sbagliarono credendo di far bene, per un sentimento di reazione patriottica al tanto male fatto dai partiti nell'altro dopoguerra, e perché da principio si illusero su le intenzioni e su le capacità politiche di Mussolini. Poi, quando cominciarono i dubbi e le inquietudini, sperarono ancora di non aver sbagliato; e d'altronde si sentivano ormai politicamente e moralmente impegnati. Non pochi si immaginarono altresí, e non sempre a torto, che il peso stesso della loro presenza di uomini d'ordine, di probi cittadini, di sinceri patrioti nel regime potesse giovare a limitare gli arbitri e le violenze e a scongiurare un irreparabile rovina del Paese [...] Liberarsi dalle strettoie del regime, una volta che per disgrazia ci si era entrati, era praticamente difficilissimo; e per taluni, impossibile. Gli uomini di buona fede, dei quali ho parlato, desiderarono - per uscirne - che la tragica farsa di Mussolini e che tutta la macchinosa impalcatura del fascismo precipitasse; e non mancarono quelli che agirono a tale intento, pur comprendendo che la caduta del regime avrebbe importato, oltre la loro esclusione da qualsiasi attività politica, ciò che neanche per essi sarebbe stato un gran male, la perdita di ogni tranquillità e di ogni benessere materiale per le loro famiglie34.

Il memoriale preparato a sua difesa ripercorre le tappe della propria esperienza politica a partire dal 1922, con il presupposto di rivendicare la propria «buona fede» e di sostenere che il suo fu un errore «di parecchi milioni d'Italiani»: «Mussolini fu, se non da tutti acclamato, da quasi tutti accettato come liberatore che veniva a sottrarre l'Italia alla baraonda dei partiti frazionati e paralizzati dalla "proporzionale" e alla carenza cronica dei poteri pubblici dinanzi alle fazioni armate che si combattevano nel paese» (pp. 10-11). Il ruolo e gli incarichi politici di Federzoni vi sono ricostruiti - in maniera sintetica - con le stesse argomentazioni e attraverso gli stessi episodi che saranno riportati nel libro di memorie nella sua versione definitiva - anche se qui sono naturalmente tesi in primo luogo alla propria difesa processuale: rivendicando la propria natura di «uomo d'ordine» e la funzione svolta dai nazionalisti come «forza di riserva per la salvezza delle Istituzioni» (p. 7), Federzoni insisteva soprattutto sulla sua opera mediatrice e di argine nei confronti del fascismo estremista e intransigente, sia nei momenti piú oscuri e difficili, a cominciare dal delitto Matteotti, sia con la sua attività di ministro dell'Interno tesa a cercare di difendere la legalità, anche attraverso le leggi «liberticide», sia con la presidenza del Senato dove si propose «come principale intento mantenere alti il credito e il decoro dell'Assemblea» e di difenderla «contro la tendenza totalitaria, ormai rappresentata apertamente dal Governo oltre che dal partito» (p. 43). Anche nel Gran consiglio, «unica sede in cui fu possibile discutere di alcuni problemi», Federzoni cercò «di sostenere le ragioni del buon senso e dell'interesse del Paese contro le frenesie dell'estremismo» (pp. 67 sgg.): in occasione dei provvedimenti demografici; del ripristino della pena di morte, del quale fu «l'unico ma irriducibile oppositore»; dei «provvedimenti razzistici», contro i quali si pronunciarono solo, oltre a Federzoni, De Bono, Balbo e Acerbo35; della stessa legge di costituzionalizzazione del Gran consiglio, «autentico aborto giuridico e politico».

Federzoni era stato portato al giudizio dell'Alta Corte di giustizia, su richiesta dell'Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, assieme a Bottai, Rossoni e Acerbo (unico non latitante), con l'accusa di «aver concorso ad annullare le garanzie costituzionali, a distruggere le libertà popolari, a creare il regime fascista, a compromettere e tradire le sorti del paese conducendolo all'attuale catastrofe». In particolare, per la sua attività di ministro delle Colonie, «svolgendo azione imperialista ed oppressiva»; di ministro dell'Interno, dopo il delitto Matteotti, «preparando, presentando e sostenendo in Parlamento le leggi con cui il fascismo modificò l'ordinamento dello Stato»; di membro del Gran consiglio, «partecipando attivamente a tutte le riforme costituzionali del regime [...] contro le istituzioni democratiche»; di presidente del Senato, «contribuendo ad asservire l'assemblea del regime»; di presidente dell'Accademia d'Italia, «svolgendo opera di propaganda culturale per la guerra contro le N.U., e deleteria per la cultura nazionale ed il buon nome dell'Italia; promuovendo, fra l'altro, l'assorbimento dell'Accademia stessa della gloriosa Accademia dei Lincei». Fu inoltre accusato di aver contribuito a mantenere in vigore «con atti rilevanti» il regime fascista e di aver organizzato, «quale capo del partito nazionalista, le squadre dei "sempre pronti", che fiancheggiarono l'opera di quelle fasciste»; nonché di peculato continuato, «per avere, dal 1938 al 1943, distratto a proprio profitto la somma annuale di l. 400 mila, appartenente alla pubblica amministrazione, somma che sul bilancio del Ministero dell'Educazione Nazionale era iscritta come contributo al funzionamento delle Accademie, e di cui aveva il possesso per ragioni del proprio ufficio di Presidente dell'Accademia Italia» (accusa per la quale furono sequestrati i suoi beni)36.

Processato nel maggio del 1945 e condannato all'ergastolo (pena tramutata a trent'anni a seguito dell'amnistia del giugno 1946), fu amnistiato nel dicembre 1947, assieme a Bottai e Rossoni, avendo la Corte di Cassazione annullato la sentenza dell'Alta Corte di giustizia con la motivazione che i delitti di cui era imputato rientravano nel precedente decreto di amnistia37. Federzoni sarebbe stato assolto dalla commissione inquisitrice sui profitti di regime nel 195538.

Scritti in un momento particolare, il memoriale per la difesa e i memoriali preparati per il ricorso alla Corte di Cassazione39, risentono naturalmente della situazione politica contingente, della vicinanza con gli avvenimenti narrati e dello stato d'animo che li caratterizzò (che saranno piú sfumati nelle memorie uscite venti anni dopo), e calcano sui dati a propria discolpa e sugli effetti positivi della propria opera: giustificando il proprio «errore» perché comune a molti e commesso in «buona fede», Federzoni tuttavia non riconosceva, se non di passaggio, che alla sua base vi fu la scarsa considerazione «che un'onesta libertà era e doveva restare un elemento essenziale nella sognata grandezza della Patria» (p. 3). Anche per il fatto di non essersi concretamente opposto a Mussolini prima del 25 luglio, Federzoni, oltre a insistere sulla difficoltà di tirarsi indietro40, non adduceva altra giustificazione se non quella che «prima non era stato possibile» (p. 73), dato che il Gran consiglio aveva cessato «concretamente di funzionare dopo il 1937» - tranne per «due o tre convocazioni puramente formali», l'ultima delle quali ebbe luogo il 7 dicembre 1939 -, tanto che i suoi componenti appresero la notizia della dichiarazione di guerra dell'Italia «insieme col grosso pubblico, la sera del 10 giugno 1940» (pp. 69-70). A questo proposito, in una memoria tesa a chiarire La verità sul 25 luglio 1943, cosí sintetizzava come erano maturati gli eventi in quel contesto:

[...] il crollo di Mussolini e del fascismo è avvenuto per il voto del Gran consiglio. Contrariamente a quanto è stato piú volte raccontato [...] Dino Grandi e io, promotori del voto, agimmo di nostra spontanea iniziativa, all'infuori di qualsiasi inspirazione della Corte o dello Stato maggiore [...] Per parecchi anni il compianto Italo Balbo, io e - compatibilmente con la sua continua assenza dall'Italia - Dino Grandi eravamo stati chiamati i «frondeurs» del Gran consiglio, chiaramente avversi all'indirizzo totalitario della politica interna e a quello filonazista della politica estera [...] nel luglio 1943 un certo rinnovamento apportato di recente alla composizione del Governo e, per riflesso, in quella del Gran consiglio, mediante l'immissione di elementi ottimi, come De Marsico, Pareschi, Bastianini, Albini ecc., e principalmente l'impressione di sgomento prodotta dai disastri della guerra, autorizzava la speranza che un voto di biasimo dei funesti errori politici e militari che li avevano causati potesse finalmente raccogliere una maggioranza. E cosí, infatti, avvenne41.


Albertina Vittoria, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia


18 FLF, fasc. 43 e fasc. 44; altri capitoli in fasc. 32, sf. 6, 33, 41, 42, 74, sf. 2. Si tratta di stesure dattiloscritte, quindi evidentemente successive, con correzioni manoscritte. Alcuni testi sembrerebbero preparati per la stampa in tipografia. Tra le carte non è conservato l'originale manoscritto.

19 Sull'«Indipendente» le Memorie di un condannato a morte apparvero il 28, 30, 31 maggio, 1°, 2, 4, 9, 11, 14, 16, 18, 20, 22, 23, 26, 28 giugno, 3, 7, 10, 12, 14, 16, 26 luglio 1946 (questa puntata termina con la solita dicitura «continua», ma la pubblicazione si interrompe). Sulla «Nuova Stampa» fu pubblicato un minor numero di puntate, con titolazione diversa: 1°, 2, 4, 6, 9, 11, 13, 16, 18, 20, 23, 25, 30 giugno, 4, 7, 11 luglio 1946. Giunto alla XIII puntata, il quotidiano torinese antepose questo corsivo redazionale: «Abbiamo pubblicato e pubblicheremo i memoriali dei grandi capi del fascismo perché danno la piú esauriente prova della loro incapacità intellettuale, della loro immoralità politica e della loro incoscienza. In queste puntate il Federzoni afferma che ha combattuto per l'idea: la verità è che combatteva assieme a tanti altri per la greppia. Quando Mussolini era potente, avallavano tutti i soprusi, tutte le porcherie, tutte le infamie. Si limitavano, come protesta, a mutare greppia [...]» (30 giugno 1946). In entrambi i quotidiani era pubblicata l'avvertenza del copyright dell'editore De Luigi. In FLF sono conservati i ritagli di quasi tutte le puntate dell'«Indipendente» (fasc. 38; alcune anche in fasc. 74, sf. 3), ma non quelli della «Nuova Stampa».

20 Le notizie su questa edizione sono tratte dal diario che Federzoni scrisse quando fuggí dall'Italia (di cui si parlerà piú avanti; cfr. nota 42), dal quale si deduce che egli non fosse a conoscenza delle anticipazioni sui due quotidiani: lo venne a sapere da Dino Grandi e da una lettera della moglie, mentre si trovava a Lisbona, in attesa di potersi imbarcare per il Sud America (diario del 17 e 20 giugno 1946, quaderno I). Per la mancata stampa del libro, Federzoni ebbe il sospetto che, seppure «non corrotto», De Luigi poteva «esser stato intimidito e coartato a non pubblicare e insieme a tenere impegnato il libro perché altri non lo pubblichino» (IX, 31 maggio 1947). Era il consuocero di Federzoni, Crisostomo Sciacca, a seguire la vicenda, inviando anche una diffida all'editore affinché stampasse il volume (VII, 29 gennaio 1947). In FLF sono conservate solo le bozze di un capitolo del libro (fasc. 71), anche se Federzoni aveva ricevuto e corretto gran parte delle bozze, per la revisione delle quali si sarebbe impegnato anche Antonio Baldini (VIII, 17 febbraio 1947), amico di antica data, particolarmente nel periodo in cui Federzoni fu direttore della «Nuova antologia», della quale Baldini era redattore capo.

21 Il volume - per la cui stesura fu aiutato dal genero Benedetto Argentieri - uscí presso Mondadori nel 1967, poco dopo la scomparsa di Federzoni. In FLF, il dattiloscritto dell'Italia di ieri (fasc. 39), la corrispondenza con il genero relativa alla pubblicazione (fasc. 60, 61), le anticipazioni sul «Messaggero» del febbraio-marzo 1967 (fasc. 40).

22 FLF, fasc. 43, sf. 5, Siamo «traditori», 21 settembre. Questo capitolo è riprodotto in «L'Indipendente», 31 maggio 1946, con il titolo Non tradimmo salvammo il paese.

23 FLF, fasc. 43, sf. 4, Fuga e resurrezione di Mussolini, 19 settembre 1943.

24 Cosí la rivoluzione è finita!, in «L'Indipendente», 9 giugno 1946.

25 FLF, fasc. 44, sf. 8, Caccia grossa nelle vie di Roma, 2 febbraio.

26 FLF, fasc. 44, sf. 37, Si sferra l'offensiva sul fronte orientale, 12 maggio.

27 FLF, fasc. 44, sf. 42, Truppe italiane in linea, 2 giugno.

28 FLF, fasc. 44, sf. 39, I ladri di fanciulli, 20 maggio.

29 Truppe italiane in linea, cit.

30 FLF, fasc. 44, sf. 27, La lezione del comunista, 2 aprile 1944.

31 Ibidem.

32 Parla un morto, in «L'Indipendente», 28 maggio 1946: come avverte un corsivo redazionale si tratta della prefazione al libro di memorie dell'editore De Luigi.

33 FLF, fasc. 31, minuta di lettera, non spedita, a S.E. Bonomi, Riservatissima personale, 25 settembre 1944; copia anche in Carte Sciacca. Il mandato di cattura era stato emesso nei confronti oltre che di Federzoni, di Giuseppe Bottai, Edmondo Rossoni, Zenone Benini, Guido Cristini, Gaetano Lemaitre; precedentemente, ai primi di agosto, Federzoni era stato deferito all'Alta Corte assieme ad oltre 300 senatori. Per gli attacchi sui giornali cui si riferisce in questa e altra occasione, cfr. il corsivo non firmato Un consiglio, in «Italia libera», 5 giugno 1944.

34 FLF, Carte Sciacca, Memoriale difensivo (Luglio 1944), manoscritto, datato in calce 18 luglio 1944, pp. 2-3. Di questo manoscritto è conservata anche una versione dattiloscritta delle prime 13 pagine, senza titolo, con la dicitura «riservatissimo» (apposta anche sulla versione manoscritta). Il memoriale è di pochi giorni precedente il decreto luogotenenziale del 27 luglio 1944 che - dopo i decreti di aprile e maggio - costituí la prima legge organica per le sanzioni contro il fascismo. Sui decreti relativi all'epurazione e l'attività dell'Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, cfr. M. Flores, L'epurazione, in Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, L'Italia dalla Liberazione alla repubblica, atti del convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 413-467. Cfr. anche G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, X, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 312 sgg.; XI, ivi, 1986, pp. 49 sgg.

35 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993 (I ed. 1961), pp. 302 sgg.; Id., Mussolini il duce, II, Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, pp. 497 sgg. La sola testimonianza di Federzoni in proposito, oltre a brevi accenni nei memoriali e nelle memorie, venne sollecitata dall'uscita del libro di De Felice e apparve sotto forma di lettera in «Gazzettino di Venezia», 26 gennaio 1962 (FLF, fasc. 74, sf. 6). Tra le carte, una lettera di Alberto De Stefani in cui apprezzava «il tuo intervento contro i provvedimenti razziali che ha cosí efficacemente rappresentato il nostro pensiero ed ha servito, se non altro, a contenere i piú pericolosi sviluppi» (ivi, fasc. 33, lettera manoscritta in xerocopia, 8 ottobre 1938).

36 Archivio centrale dello Stato, Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, titolo X, fasc. 175, «Federzoni Luigi», Alta Corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo-Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, Richiesta e decreto di citazione per giudizio davanti all'Alta Corte di giustizia, firmata per l'alto commissario aggiunto L. Bianchi d'Espinosa, Roma 29 marzo 1945. A proposito dell'accusa di peculato, nella Memoria per Luigi Federzoni, curata dagli avvocati difensori, Arturo Carlo Jemolo e Domenico D'Amico (ivi, documento stampato, datato Roma 20 aprile 1945), si faceva notare che l'indennità di rappresentanza fu voluta da Mussolini e disposta con lettera del ministro delle Finanze del 16 settembre 1938. Per questa accusa si veda anche ivi, titolo III, 20-10, «Accademia d'Italia». Altra documentazione ivi, titolo I, 25-23, «Mandato di cattura emesso contro Federzoni Luigi di Giovanni»; il fascicolo relativo ai senatori del Regno (titolo IX, 2) è invece vuoto.

37 Notizie ricavate dal diario dell'esilio dove sono riportati anche ritagli di giornali italiani e sudamericani (XV, 8, 9, 10, 12 dicembre 1947). La sentenza di condanna di Giacomo Acerbo, detenuto a Procida, era stata annullata dalla Cassazione alla fine di luglio (XI, 8 agosto 1947). Fu alla fine di giugno che venne emanato il provvedimento che estendeva ai condannati dell'Alta Corte il beneficio del ricorso in Cassazione, riconosciuto ai condannati dalle Corti d'assise straordinarie (X, 23 luglio 1947). Avevano patrocinato il ricorso di Federzoni gli avvocati Germano Mastellari e Domenico D'Amico.

38 Cfr. in proposito la minuta di una lettera ad A. Frassati del 15 giugno 1958 (FLF, fasc. 11), in cui cosí riassumeva la conclusione delle proprie vicende giudiziarie: «Annullata senza rinvio dalla Cassazione la condanna dell'Alta Corte di giustizia, revocata la confisca dei cosí detti beni, conclusa con una decisione unanime di non luogo a procedere la minuziosa indagine della Commissione dei "profitti di regime" [...]». In una lettera a Umberto di Savoia del 17 ottobre 1955 (fasc. 30, su cui cfr. piú avanti, par. 5), cosí comunicava gli esiti di queste vicende: «Poiché la lettera oggi ricevuta dimostra il costante Augusto interessamento alle sorti mie e dei miei cari, mi permetto informare Vostra Maestà di alcune novità che ci riguardano. Con decisione unanime, passata in giudicato, la Commissione inquisitrice sui cosí detti profitti di regime, dopo appena otto anni di minutissima istruttoria, ha riconosciuto la piena, totale, limpida e indiscutibile legittimità delle mie modeste proprietà e di quelle di mia Moglie, dichiarando che noi non dobbiamo allo Stato né un centesimo né un palmo di terra».

39 Nelle Carte Sciacca sono conservati anche: Riassunto per la difesa, manoscritto, 15 pp., datato marzo 1945; Note su la presidenza della Reale Accademia d'Italia (1938-1943), manoscritto, 17 pp., datato 20 novembre 1944, allegato a un biglietto di pugno di Federzoni in cui è scritto che le note erano state mandate a V.E. Orlando - con il quale Federzoni era in rapporto di amicizia (cfr. minuta lettera a mons. Montini del 28 luglio 1944, cit., in cui scrive che «negli anni della mia vita parlamentare» Orlando «mi dimostrò sempre benevolenza») -, e agli avvocati A.C. Jemolo e D. D'Amico; Memoriale, dattiloscritto, 6 pp., s.d., ma scritto per il ricorso dell'autunno 1947. In questi memoriali si ripercorrono le stesse motivazioni del Memoriale difensivo, citando eventuali testi a difesa e rimarcando gli episodi che potessero scagionarlo dai diversi capi d'accusa. In altri appunti manoscritti sono segnalati le persone da sentire per le diverse attività di Federzoni e gli episodi da citare. Altre memorie sono finalizzate al ricorso alla Corte di Cassazione. Queste carte erano conservate dal genero di Federzoni, Ferdinando Sciacca, marito della figlia Annalena, perché fu lui - assieme a suo padre, Crisostomo - a seguirlo e ad aiutarlo nella difesa e a fare da tramite con i personaggi con cui Federzoni era in contatto durante la latitanza. Devo alla cortesia del figlio, Giovanni Sciacca, l'aver potuto consultare questa documentazione, che egli ha donato in fotocopia all'Archivio storico dell'Istituto della Enciclopedia italiana (Carte Sciacca, cit.). Altri memoriali in fasc. 31, sf. 8, Alcuni dati precisi sul voto del Gran Consiglio, dattiloscritto, 6 pp., s.d. [1944]; fasc. 69, sf. 2, Memoriale, dattiloscritto, 2 pp., s.d. (per il ricorso), sui provvedimenti relativi alla stampa e al confino di polizia.

40 A proposito del suo passaggio dalla presidenza del Senato a quella dell'Accademia d'Italia, scriveva: «In verità mi credevo inadatto a quel nuovo compito, e principalmente ero stanco e sfiduciato per tutto ciò che vedevo intorno. Mi preoccupava l'oscura fase in cui era entrata la vita del Paese. La parabola di Mussolini aveva toccato l'acme nel 1929, con la Conciliazione. Sotto l'influsso malefico del contagio hitleriano, il processo involutivo si accelerava. La soluzione piú desiderabile per me sarebbe stata il mio ritiro a vita privata; sennonché questo non corrispondeva alle vedute di Mussolini, che, ripetendo il suo vecchio giuoco, tendeva nello stesso tempo a mettermi fuori della politica militante e a trattenermi nell'orbita ufficiale del regime. Vi fu un momento in cui, se la mia compianta Madre, già in assai tarda età, non fosse stata colpita dal male di cui poi morí nel 1940, sarei partito con la famiglia per stabilirmi all'estero» (Memoriale difensivo, cit., pp. 58-59).

41 FLF, fasc. 31, sf. 8, manoscritto di 13 pp., senza titolo (a p. 2, paragrafo La verità sul 25 luglio 1943), s.d. [1944], pp. 2, 3-4; cfr. anche ivi, Alcuni dati precisi sul voto del Gran Consiglio, cit. Cfr. Italia di ieri, cit., pp. 192 sgg. (cap. XIV, Favole e verità sul Gran Consiglio).