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«GLI EDITORI SONO FIGLIUOLI DI FAMIGLIA». FASCISMO E CIRCOLAZIONE DEL LIBRO NEGLI ANNI TRENTA*

Adolfo Scotto di Luzio

Una premessa. L'avvento del fascismo al potere accompagnò, in parte assecondandoli, processi di trasformazione che, nel campo della comunicazione culturale e della produzione del libro, segnarono il passaggio da un'organizzazione ancora largamente artigianale ad un assetto piú marcatamente industriale del settore. Nella ricostruzione di questa vicenda, la ricerca storiografica si è rivolta, per lo piú, agli aspetti culturali. Attenta alla nuova dimensione del rapporto tra il «letterato e le istituzioni» inaugurata dalla costruzione dello Stato totalitario, l'indagine ha evidenziato da un lato, la messa a punto della macchina propagandistica e di cultura di massa, cui gli editori contribuirono in maniera rilevante e da cui ricavarono notevoli benefici, almeno i piú forti, come dimostrò la vicenda del libro di Stato1, dall'altro, la mobilitazione degli intellettuali come, ad esempio, nel tentativo di «appropriazione culturale» rappresentato dal progetto gentiliano dell'Enciclopedia2. Collocata nell'ambito di una riconsiderazione piú ampia della storia politica, culturale e sociale dell'Italia della prima metà del Novecento, l'attenzione alla vicenda editoriale ha potuto derivare la sua legittimazione da un contesto storiografico che ha privilegiato, per l'epoca fascista, quei luoghi, in parte di nuova costituzione in parte derivati dal passato, nei quali l'incontro tra politica e intellettuali aveva rivelato il carattere non neutro, rispetto all'ideologia del potere, di temi ed indirizzi della ricerca culturale3. L'ampliamento del campo di indagine che ne è derivato e nel quale ha trovato posto questa storia particolare si è realizzato per lo piú, attraverso la revisione della tradizione storiografica antifascista, che aveva visto nel regime essenzialmente un fenomeno «anticulturale»4, ed ha ricavato la sua giustificazione sul piano teorico dalla critica radicale della fondazione idealistica della cultura come separata e autonoma rispetto al potere. I concetti stessi di cultura e di intellettuale sono stati riformulati, adeguandoli ai nuovi parametri della società della comunicazione di massa, con il fascismo in costruzione.

Negli ultimi anni, il panorama degli studi si è venuto arricchendo, con il saggio di Giovanni Ragone per la Letteratura italiana di Alberto Asor Rosa, di un nuovo contributo che ha proposto un approccio alla storia dell'editoria nei termini della semiotica della cultura di Jurij Lotman e Boris Uspenskij5. Secondo le categorie della linguistica strutturale, il fascismo si costituí già a partire dagli anni Venti come una vera e propria «lingua» che, nell'organizzazione dello spazio letterario circostante, realizzava la sua «vocazione egemonica»6. La comunicazione culturale attraverso l'uso della parola stampata viene descritta da Ragone come un campo organizzato secondo una precisa gerarchia di generi editoriali, ognuno dei quali costituisce, o può «essere considerato», al tempo stesso un medium e un sistema linguistico contrassegnato da precise regole che presiedono all'organizzazione dei testi. Queste regole sono funzione del codice, della «lingua» appunto che struttura il sistema7. Al centro di questo spazio, e in una significativa mediazione tra linguaggi industriali dei nuovi generi di consumo e linguaggi del codice politico, si collocarono, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, alcuni prodotti editoriali, come i libri evento politico-giornalistici, quelli delle grandi imprese, le biografie mussoliniane, chiamati a tradurre sul piano dell'immaginario di massa, attraverso la figura dell'eroe, guerriero e costruttore, le norme del metalinguaggio fascista, «estensivo, industriale, mitologico»8. A partire da questa descrizione dello spazio della comunicazione culturale, la prossimità degli editori al regime è misurata sulla base dei generi, dei sistemi linguistici integrati dalla loro produzione9. Tuttavia, il codice fascista non fu l'unica lingua del sistema. A partire almeno dagli anni Trenta, ad esso si oppose un altro principio semiotico, che si espresse nel romanzo di massa, generalmente straniero, e nel giallo10. Questo principio si incarnò nel modello editoriale mondadoriano e fu caratterizzato dall'idea della traducibilità di qualsiasi «esperienza in un testo leggibile da un lettore medio»11. Superata ogni distinzione e separazione di linguaggi, propria della struttura editoriale ottocentesca organizzata secondo funzioni articolate su destinatari socialmente differenziati, Mondadori sviluppò un tipo di comunicazione culturale fondata sull'omogeneità della parola stampata e sull'unificazione dei lettori. Come tale, questo modello comunicativo integrava il codice politico fascista, riversandolo però tra i «segmenti tra loro traducibili» del nuovo sistema, mettendone implicitamente in discussione la pretesa egemonica12. Questi due poli nel corso del ventennio sperimentarono diverse possibilità di mediazione e di composizione, ma restarono tendenzialmente divergenti, come dimostrano le ricorrenti richieste di arginare le traduzioni dalle letterature straniere e gli interventi censori del regime13. A partire da questa conflittualità latente tra sistemi linguistici in competizione per l'egemonia, la descrizione dello spazio della comunicazione culturale diventa in Ragone un vero e proprio modello di relazioni tra editoria e fascismo, in quanto la tensione tra linguaggi industriali e linguaggi del codice politico rimanda a quella tra potere e «logica d'impresa», la cui «autonomia» gli editori sarebbero impegnati a difendere dalle ingerenze e dai tentativi di controllo dell'apparato statale e di regime14. Si tratta allora di verificare il valore di questa autonomia e soprattutto la sua consistenza come paradigma interpretativo.

L'approccio consentito dalla semiotica della cultura permette di leggere la vicenda editoriale del periodo fascista come uno spazio nel quale si manifestano «dinamiche testuali ma anche scientifiche, politiche, ideologiche, economiche, sociali»15 nelle loro complesse relazioni. L'angolo visuale scelto per quanto ampio resta tuttavia interno ad una ricostruzione in chiave culturale, ribadendo la scarsa considerazione per gli aspetti materiali di questa vicenda propria della storiografia sull'editoria. La trama di rapporti quotidiani che ha legato gli editori, soprattutto i piú grandi, agli apparati dello Stato fascista vi è del tutto ignorata, mentre gli archivi delle case editrici, grandi e piccole, conservano un'ampia traccia di queste relazioni. Si tratta, spesso, di cose assolutamente banali come piccole raccomandazioni o favori, richieste sorte dalla prossimità stessa dell'editore al potere politico, e viceversa, in grado tuttavia di creare degli obblighi e dei vincoli tanto dall'una che dall'altra parte. Accanto ad esse la rete di rapporti personali, una sorta di capitale in moneta di relazioni sociali, intrecciate e coltivate nei luoghi e nelle occasioni piú diverse, che si rivela estremamente prezioso per l'editore.

La stessa scarsa attenzione è rivolta alle modalità di costituzione del mercato librario, in particolare al ruolo che in essa giocarono gli organismi burocratici dello Stato e del partito come acquirenti. Veri e propri apparati sostitutivi di circolazione del libro, essi costituirono, invece, durante il ventennio occasioni di commercializzazione fortemente ricercate dagli editori in una situazione in cui le capacità di assorbimento del mercato nazionale erano estremamente modeste e la stessa rete della distribuzione affatto inadeguata. Quest'ultima, poi, era resa ancora piú inefficiente, dal punto di vista degli interessi editoriali, dal particolare sistema di allocazione dei libri che prevedeva la loro cessione ai librai in conto deposito e non in conto assoluto, tale da determinare forti giacenze nei magazzini delle case editrici. Accanto alle grandi iniziative politiche e culturali dove fascismo ed editoria si incontrarono sul terreno dell'acculturazione di massa e delle grandi tirature, meno visibili, queste modalità costituirono larga parte dei rapporti tra potere politico ed editoria libraria. Negli anni della costruzione dello Stato totalitario inaugurarono, consegnandola al successivo periodo repubblicano, una nuova dimensione del «pubblico» che, nelle accresciute funzioni e nelle infinite ramificazioni dell'apparato statale, venne a costituire una fonte generosa di sovvenzioni e finanziamenti indiretti. L'adesione al fascismo avvenne all'interno di un complesso rapporto di scambio e nel quadro fissato dalle condizioni oggettive del mercato del libro, della sua produzione e della sua distribuzione. È su questo terreno allora che conviene affrontare la verifica dei rapporti tra editori e potere politico e soprattutto di quell'autonomia della logica d'impresa di cui prima si diceva.

* Innocenzo Domenico Giusti in una lettera a Giulio Ferrario del 4 settembre 1802 a proposito della necessità di ricorrere ad un ulteriore finanziamento del governo napoleonico per le edizioni della «Società dei classici italiani», cit. in M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980, p. 15.

Il lavoro che qui presento è parte di una piú ampia ricerca dedicata a editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, in corso di pubblicazione presso l'editore Il Mulino, che ringrazio per aver autorizzato questa pubblicazione.


Adolfo Scotto di Luzio, Gli editori son figliuoli di famiglia; fascismo e circolazione del libro negli anni trenta


1 Per gli effetti dell'istituzione del libro di Stato sui bilanci aziendali della Mondadori e sul «persistente squilibrio fra spese ed entrate» si veda E. Decleva, Mondadori, Torino, Utet, 1993, pp. 127-131. Decleva parla di «tracollo» del '28-29 e lo attribuisce in particolare al libro di Stato che rappresentò un «ulteriore e anche piú grave fattore di deprezzamento del magazzino e del patrimonio editoriale» (ivi, p. 127); nei fatti la situazione aziendale risentiva soprattutto della «disastrosa gestione del "Secolo"» i cui debiti residui ammontavano a 5 milioni con la Banca d'Italia e 2 milioni con la Cassa di risparmio delle province lombarde e non vennero risanati con la ricapitalizzazione del giugno 1929, 18 milioni di cui 14.880.000 lire forniti da Borletti e i restanti 3 dalla Banca nazionale di credito. Per quanto riguarda le due pendenze relative al «Secolo» decisivo fu l'intervento di Mussolini che favorí il piano di ammortamento chiesto da Mondadori (ivi, p. 129).

2 G. Turi, Ideologia e cultura del fascismo: l'«Enciclopedia italiana», in Id., Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 13-150. Per una discussione delle tendenze della storiografia italiana sull'editoria si veda Id., presentazione a «La Fabbrica del libro. Bollettino di storia dell'editoria in Italia», 1/95, pp. 2-4.

3 Per un esempio di questo approccio si veda Turi, Ideologia e cultura, cit., p. 15, che giustifica lo studio dell'Enciclopedia con la necessità di «chiarire non solo l'utilizzazione ideologica di diverse correnti culturali da parte del regime in vista della creazione del consenso, ma anche in che misura e perché mutarono nel ventennio i contenuti culturali di varie discipline, accolti o tenuti ai margini o respinti dal fascismo». Luciano Canfora individua la radice di questo approccio alle questioni culturali in epoca fascista nel rinnovamento della storiografia all'inizio degli anni Sessanta scaturito da una radicale critica politica dell'«unità antifascista» uscita dalla guerra. In Le ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980, pp. 104-132 cosí formula la questione degli «orientamenti della ricerca» in epoca fascista, in particolare p. 105: «Del resto la contrapposizione al fascismo - maturatasi anche nella coscienza comune con la guerra e l'esperienza repubblichina - non deve impedire di comprendere lucidamente che la cultura borghese nel periodo fascista è impregnata non solo delle direttive e delle spinte, ma degli orizzonti culturali e sin dello stile di un movimento, di un esperimento politico (il fascismo appunto) che ha segnato davvero un momento di unificazione politica della cultura borghese [...] L'indagine moderna ha spesso evitato di attingere il problema in questi termini, stretta tra l'ammirazione per la grande cultura borghese e il timore di dare a tale cultura una connotazione politica imbarazzante: una posizione sterile che poi ripiega sul puntiglioso "salvataggio" di questo o quell'altro personaggio [...] che fa perdere di vista il fenomeno piú rilevante: cioè il successo della politica culturale fascista non solo sul piano della "politicizzazione" della cultura, ma anche della prevalenza delle "direttive" culturali del fascismo». Per una discussione piú recente di questi temi si veda ancora G. Turi, L'intellettuale Giovanni Gentile, in «Belfagor», 49, n. 2, 31 marzo 1994, pp. 129-147, e Id., Fascismo e cultura ieri e oggi, ivi, n. 5, pp. 551-569.

4 Cfr. M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979.

5 Cfr. G. Ragone, Editoria, letteratura e comunicazione, in Letteratura italiana. Storia e geografia, III, L'età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 1047-1105.

6 Ivi, p. 1066.

7 Ivi, p. 1079.

8 Ivi, pp. 1063-1064. Il riferimento è alla produzione mondadoriana, che in questa fase rappresenta l'editore che piú e meglio risponde alle esigenze di acculturazione di massa del regime.

9 Ivi, p. 1061.

10 Si veda P. Albonetti, Non c'è tutto nei romanzi, Milano, Fondazione Mondadori, 1995.

11 G. Ragone, Editoria, cit., p. 1052.

12 Ivi, p. 1066.

13 Ibidem.

14 Ivi, p. 1061.

15 Ivi, p. 1078.