di Enrico Franceshini, tratto da Shakespeare non l'ha mai fatto, Feltrinelli,1966

Are you Charles Bukowski?

    Suonai il campanello con trepidazione. Passò un minuto. Ne passò un altro. Le cicale cantavano, il sole picchiava, dalla casa non veniva alcun segno di vita. Poi, quando stavamo per andarcene, si sentì un rumore. Un istante dopo la porta si aprì, apparve un uomo di circa sessant'anni, in calzoncini da bagno. Apparte quelli, era nudo dalla testa ai piedi. Non disse niente: si limitava a guardarci con diffidenza. La mia fu una domanda ridicola, poiché non avevo il minimo dubbio sulla sua identità.

    "Are you Charles Bukowski?"

    Rispose a sua volta con una domanda.

    "Why?"

    Era l'agosto del 1979. Un mese prima eravamo partiti per l'America, Gionata, Piero ed io. Bologna-Bruxelles in treno, con un biglietto da 10 mila lire, acquistato presso i falsari del movimento che aveva portato indiani metropolitani, cani sciolti e Autonomia Operaia all'onore delle cronache. Bruxelles-New York in un volo charter, su una carretta con le ali della Capitol Airlines. New York-San Francisco in Greyhound, il leggendario autobus con il levriero sulle fiancate, che trasportava milioni di americani squattrinati da un capo all'altro degli Stati Uniti. San Francisco-Los Angeles in autostop lungo la costa del Pacifico, in omaggio al mito "On the road". Sul rudimentale cartello che tenevamo fra le mani, invece di LOS ANGELES avevamo scritto WHY NOT?: gli automobilisti cominciavano a ridere passandoci accanto e subito dopo frenavano per darci un passaggio.

    Oltre a Kerouac, c'era un altro mito americano nel nostro gruppo: Charles Bukowski. Che cosa c'entrasse  uno scrittore sporcaccione, ubriacone e nichilista con la protesta degli studenti non mi è immediatamente comprensibile a vent'anni di distanza da '77. O forse si, tenuto conto delle eresie ideologiche di un movimento che aveva tra i suoi slogan un comunismo "libero e felice". Fatto sta che da quando alla libreria Feltrinelli sotto le Due Torri apparve il primo romanzo di Bukowski, tra noi e lo scrittore sporcaccione sbocciò un amore a prima vista. La copertina de libro, in cui l'autore era ritratto in compagnia di una battona e di una bottiglia, divenne il poster ufficioso della combriccola. Di giorno, passavamo ore in assemblee scoppiettanti come un teatrino dell'assurdo a discutere di esami collettivi e grande disordine sotto il cielo. Ma la sera ci ritrovavamo in un bar fuori porta dall'insegna al neon, dall'atmosfera vagamente americana, e con una barista oggetto dei nostri desideri, per bere "whisky con acqua" come faceva Bukowski, in alternativa alla birra, nei suoi romanzi apertamente autobiografici. A quel punto, nessuno di noi lo chiamava più Bukowski, bensì "il vecchi Buk". Cose che succedono quando hai vent'anni. Dopo non succedono più.

    Fu così che nell'estate del '79, presa la decisione di vedere da vicino il Sogno Americano, un terzetto di amici inseparabili incluse tra gli obbiettivi del viaggio. Una visita al vecchi Buk. Lo facevano in tanti, tra i sui lettori: lui stesso lo raccontava nei romanzi. Raccontava anche di non gradire quelle adoranti intrusioni, talvolta le bersagliava con spietati sarcasmi. Ma venendo da lontano, ci augurammo di essere bene accolti.

    Per essere accolti, bene o male, c'era tutta via da superare un primo ostacolo: scoprire dove abitava i nostro eroe. In quanto giornalista alle prime armi, le indagini toccarono a me. Riuscii a procurarmi il telefono do Fernanda Pivano, l'americanista italiana per eccellenza, la madre di tutti gli scrittori beat e non beat. Già che c'ero le domandai anche l'indirizzo di Henry Miller. "Miller viveva in una delle ultime case prima dell'oceano, su Sunset Boulevard a Pacific Palisades a Los Angeles, di più non so dirti", rispose Fernanda. Quanto a Bukowski non era in grado di aiutarmi, ma venne in nostro soccorso un articolo su "Repubblica", dedicato al successo dello scrittore sporcaccione: veniva citata la via di Los Angeles in cui si era appena trasferito, grazie ai sostanziosi diritti d'autore ottenuti in Europa, con i sui libri noti soltanto ad un ristretto pubblico negli USA. Avevamo la strada, non il numero civico: andammo a bussare di casa in casa, forze con un po' di fortuna avremmo trovato il nostro uomo.

    Dunque: treno, aereo, Greyhound, autostop ed eccoci a Los Angeles. Compriamo una mappa della megalopoli californiana. La via di Bukowski è a San Pedro, un quartiere nelle vicinanze del porto commerciale. Decidiamo di risparmiare sulle spese di alloggio, dormendo in un sacco a pelo sulla spiaggia, per prendere un'automobile a noleggio. Con quella, iniziamo le ricerche. Arriviamo all'obiettivo verso le tre di un assolato pomeriggio. San Pedro sembra un quartiere della middle-class, della classe medio-bassa: casette di legno a uno o due piani, giardini ben tenuti, ma anche panni stesi alle finestre e utilitarie parcheggiate nei cortili. Suoniamo un campanello a caso, da qualche parte bisogna cominciare. Apre una donna in vestaglia. Nel nostro stentato inglese, chiediamo: "Buon giorno sa per caso dove...dove...dove...".

    Già, che cos chiedere? Sa dove abita il vecchi Buk? Charles Bukowski. lo Scrittore. L'autore di tanti bei romanzi con titoli come "Taccuino di un vecchio sozzone", oppure "Erezioni, eiaculazioni, esibizioni e altre storie di ordinaria follia"?

    No, così non funziona. Proviamo. "Buon giorno, qui vicino dovrebbe vivere uno scrittore, ha più o meno sessant'anni, si chiama Bukowski, vive con una giovane donna (Linda, la sua ragazza: era scritto su "Repubblica"), per caso lo conosce?" La signora in vestaglia non lo conosce. Nella casa a fianco, un uomo non l'ha mai sentito nominare. Nella successiva, un ragazzo neppure. Una donna non ci apre nemmeno la porta. Un uomo grida alla finestra che sicuramente non ci sono scrittore, a San Pedro. Una ragazza, divertita dalla nostra richiesta, non sa niente di Bukowski, ma è disposta a offrirci da bere. E così via.

    Finché, dopo un'ora di ricerche infruttuose, un messicano si liscia i baffi e ci da un barlume di speranza: "Sentite, non so un bel niente si scrittori sessantenni, non credo che ce ne sia uno così nel mio quartiere. Ma qui di fronte vive un vecchiaccio orrendo con la casa sempre piena di ragazze niente male. Anzi, se andate a trovarlo chiedetegli qual'è il suo segreto, poi me lo riferite".

Noi tre ci guardiamo negli occhi. Che sia il vecchi Buk? Quello che nei romanzi passa il tempo a bere e scopare, scopare e bere , esclusi i pomeriggi alle corse dei cavalli e le serate in cui batte sui tasti di una macchina per scrivere ascoltando musica classica alla radio?

    Attraversiamo la strada c'è un vialetto cinto da alberi da frutta; mele, pere, susine, cadute dai rami, marciscono al sole, nessuno si è preoccupato di raccoglierle. Buon indizio, Buk non è il tipo con l'hobby dell'agricoltura. L'erba del giardino è alta, nessuno deve averla mai tagliata:vuoi vedere che abbiamo fatto centro? Si, ci siamo proprio, in garage è parcheggiata un Bmw nera: abbandonando la sua vecchi Volkswagen, Buk l'ha comprata grazie alla recentemente acquisita ricchezza, anche questo era scritto sul giornale. La casa è a due piani, né grande, né piccola. Da una finestra al pianterreno si intravede un manifesto affisso alla parete: è una gigantografia di Bukowski! Non ci resta che suonare il campanello.

    "Sei Charles Bukowski?"

    "Perché?"

    "Perché siamo venuti dall'Italia per conoscere il nostro scrittore preferito."

    Pausa

    Sorriso.

    Un gran bel sorriso.

    "Allora siete i benvenuti."

    Altra pausa.

    "Ma prima di entrare, perché non andate a comprare un po' di birra? Io sono rimasto a secco." 

    Così, proprio come nei suoi romanzi. Lo svegliamo alle quattro del pomeriggio, ci apre in mutande, e per prima cosa ci chiede della birra. La nostra macchina a noleggio sfreccia per le vie di San Pedro, fino a un supermarket: compriamo due confezioni da sei birre l'una, torniamo a razzo, suoniamo di nuovo il campanello sperando di non aver sognato e che la birra non fosse una scusa di Buk per svignarsela. Non è un sogno e non è sfuggito. Apre, ci fa accomodare. Ha indossato una maglietta a mezze maniche sopra il costume da bagno, che contiene a fatica il celebre stomaco dilatato dall'alcol. E' proprio lui, il vecchio Buk, il ciccione butterato dagli occhi azzurri e dalle zampe d'elefante.

    L'arredamento è confortevole senza essere elegante. Ci sistemiamo sui divani. Buk distribuisce le birre, ne prende una per se e svuota mezza bottiglia con un sorso. Ci offre da fumare delle sigarettine avvolte in carta colorata. Hanno uno strano sapore. "Qualcuno le piglia per marijuana, invece è roba indiana, si chiamano sher bidi," dice ridendo. Alle sue spalle una grande libreria: ma sugli scaffali ci sono soltanto copie dei suoi romanzi e dei sui libri di poesia, anche le traduzioni, comprese quelle italiane. Ai suoi piedi, ronfano un paio di grossi gatti. Lo sapevamo, a Buk, sono simpatici, mentre non sopporta i cani. 

    E' tranquillo, cordiale, ospitale. Non gioca a recitare il personaggio del grande scrittore. Non cerca di piacere. Non ci delude. E' esattamente come ci aspettavamo.  La fama è arrivata così tardi che deve essergli passata perfino la voglia di vendicarsi. Stiamo tutti e quattro zitti per un po'. "Scusate", dice Buk, "non so cosa dire." Ride, e attacca la seconda birra. 

    Gli chiediamo come vive, se ha molti amici. "Amici non ne ho e non ne ho mai avuti, mai saputo che significa questa parola. Di notte lavoro, scrivo, sto facendo una cosa per il cinema, pensate che ad un certo punto volevano farmi fare anche l'attore. Poi per fortuna mia e loro hanno rinunciato. Di giorno dormo, al massimo faccio una gita fino all'oceano con Linda, la mia ragazza." E le donne? Gli raccontiamo come lo abbiamo trovato, che cosa ci ha detto il suo dirimpettaio. Ride di nuovo. Una bella risata. Buona. 

    "Si, qualche donna viene a trovarmi di tanto in tanto, ma sapete che gran casino le donne, vero?" Annuiamo, cercando di assumere un'aria vissuta; ma lui, generosamente, non ci fa caso. 

    Perché scrive? Per che cosa? "Scrivo perché è facile, ormai, ci ho preso la mano. E poi perché mi pagano bene, adesso." A New York non avevamo trovato i suoi libri. Invece alla "City Lights", la storica libreria di Lawrence Ferlinghetti, a San Francisco al confine tra il red-lights district, il quartiere del sesso, e Chnatown, il suo ultimo romanzo, Women, aveva posto d'onore in vetrina.

    Sul coffee-table su cui sono posate le bottiglie di birra (ora quasi tutte vuote, grazie a Buk), c'è in libro di fotografie di Hemingway. Gli domandiamo che cosa ne pensa. Apre il volume, lo sfoglia, come riflettendo. "In certe pagine mi piace. In altre no. Però sapeva scrivere. Era onesto."Gli diciamo del nostro tentativo, fallito, di incontrare Henry Miller a Pacific Palisades. "Miller l'ho letto quasi tutto. Mi piace quando scrive di sesso, di avventure con le donne. Ma quando si mette a filosofeggiare diventa terribilmente noioso, insopportabile. Forse perché io non capisco niente di filosofia."

    Il nostro inglese è poco più che scolastico, decisamente approssimato. Ogni tanto ci fa cadere in equivoci imbarazzanti (per noi: lui sembra uno che non si imbarazza davanti a niente). Quando Buk racconta che ogni tanto va con Linda, il mio amico Gionata crede di aver capito la parola "swim", e gli chiese se gli piace nuotare. "Io?" risponde sorpreso. "Per nulla. Detesto ogni forma di sport. Tranne le corse dei cavalli."

    Ma le nostre domandine, ingenue e certo già ascoltate mille volte, non lo irritano. Le aspetta pigramente, paziente. Poi è così gentile da farci lui qualche domanda. "Che cosa fate nella vita?" Gionata e piero rispondono che studiano per diventare avvocati. Io dico che studio, sì, studio legge, ma faccio anche il giornalista, e un giorno vorrei scrivere..."Scrivere di che cosa?" incalza Buk, spiazzandomi. Mah. Non so. Della vita? Arrossisco per la mia imperdonabile banalità, ma Buk si limita a sorridere, senza tracce d'ironia. E' proprio buono, il nostro eroe.

    Gli diciamo che dovrebbe venire in Italia. E che nel nostro paese i giovani impazziscono per i suoi libri. "Ci verrò", annuncia. "Ho un appuntamento con la signora Inge Feltrinelli." Squilla il telefono. Breve conversazione. "Era Linda", ci informa Buk. L'interruzione arriva in proposito. La visita è durata abbastanza. Ce lo fa capire diplomaticamente, non rimettendosi subito a sedere. "E dunque," dice sulla porta di casa "ora dove andrete?" A New York. E di lì in Italia. Ci accompagna in giardino, ci stringiamo la mano, ci abbracciamo. "Comprate tutti i mie libri, mi raccomando" dice, sempre sorridendo. "Ma non date a nessuno il mio indirizzo." Promettiamo solennemente di mantenere il segreto, e dopo un ultimo saluto montiamo in auto. Ci fermiamo quasi subito, due isolati più in là. Scendiamo, balliamo attorno alla macchina. Siamo ubriachi: non di birra, però.

 

    L'anno seguente tornai in America, questa volta da solo, per provare a restarci facendo il giornalista. Partii con una borsa, una macchina per scrivere portatile, e due libri, Il giovane Holden di Salinger e Donne  di Bukowski. Dopo qualche settimana, scovai in libreria una nuova opera di Buk: Shakespeare never did this, resoconto di un viaggio che lui e Linda avevano fatto in Europa su invito dei suoi editori francese e tedesco. Ne tradussi come potevo un paio di pagine e le inviai a "Il male", settimanale si satira e d'altro, dove lavorava un amico. Quando fu pubblicato il mio servizio, andai a festeggiare in un bar di Brodway. Non avevo scritto un articolo, solo una traduzione zoppicante, ma la consideravo lo stesso la mia prima "corrispondenza" dall'America. Ordinai whisky con acqua, e brindai alla salute del vecchi Buk. 


 

Articolo precedente

 

Home - Biografia - Bibliografia - Foto - Disegni - Novità - Varie - Link - Mail