di Fernanda Pivano, tratto dal "Corriere della Sera", venerdì 11 marzo 1994
BUKOWSKI
Il santo bevitore
Ribelli. E' morto a 73 anni l'autore di "Storie di ordinaria follia". Girovago, alcolista, rifiutato dalla società americana, conobbe la gloria in Europa. E divenne una leggenda.
Charles Bukowski è morto l'altro ieri in
un ospedale di San Pedro (California), dov'era ricoverato per leucemia. Aveva 73
anni. Dai suoi libri sono stati tratti due film famosi: "Storie di
ordinaria follia" di Marco Ferreri e "Barfly" di Barbet Schroeder.
E' morto Charles-Henry-Hank Bukowski, sposato con la dolcissima Linda Lee
Beighale, padre di una figlia ormai adulta avuta dalla prima moglie: è morto di
leucemia o di polmonite o delle orribili cose di cui si muore a conferma che la
vita non è così bella come cercavamo di fargli credere, circondato dai fiori
coltivati da Linda e dai tre gatti raccolti qua e là perché non morissero di
fame.
Ora arriveranno le cronache, i soliti pettegolezzi, li dovremo anche raccontare
ma c'è una cosa che vorrei dire per prima: che Bukowski era un grandissimo
scrittore, uno scrittore nato, un narratore della levature forse di un Hemingway,
certo di Norman Mailer (e con l'ambizione di entrambi), uno scrittore nato che
si metteva lì, con gli occhi socchiusi da animale braccato e quel sorriso alla
Mickey Rourke, a rispondere sottovoce, lentamente a una domanda finché la
risposta non prendeva forma e diventava intensa.
Così, presto, ci accorgevamo di ascoltare un racconto, di quelli che poteva
benissimo pubblicare, intensi, disperati come tutto quello che scriveva, senza
futuro, sempre intrisi di dolore, senza speranza e senza sorriso: solo in
compagnia del vuoto di chi ha conosciuto la sabbia portata dal vento tra le
immondizie e gli scarafaggi su pareti senza colore.
Passavo giornate intere con lui, dal tramonto quando tornava dalle corse, felice
se guadagnava 25 dollari molto più se gli avevano stampato 500 mila copie di un
libro. "Che cosa racconterai ora che hai raccontato tutto anche della tua
infanzia?", gli chiedevo. "Non ti preoccupare", mi diceva
sornione.
Avrà pubblicato anche la storia della sua morte? Da mesi non riuscivo a
parlargli; rispondeva al telefono una voce femminile, forse era una governante,
o un'infermiera, mai quella di Linda. Quando fecero a Venice un manifesto per la
guerra del Golfo, Silvia Bizio, nostra comune amica, mi disse che Bukowski non
andò, ma per la prima volta scrisse tre poesie contro la guerra. Le recapitò a
Linda e Linda le lesse forte per lui. "Non stava bene", disse; e a
Natale mandò a Silvia un biglietto di auguri, spiegando che Hank non era ancora
guarito.
Voleva essere chiamato Hank; Henry non lo voleva perché glielo avevano dato i
genitori, Charles era troppo solenne e poi quello preferito dagli editori.
Questi erano Barbara e John Martin della Black Sparrow di Los Angeles, una
piccolissima casa editrice di Santa Barbara nata nel 1966 quando Martin, allora
capo di una ditta di forniture per uffici, vendette la sua collezione di
"prime edizioni" e pubblicò il primo libro di un bevitore famoso, di
quelli che bevono nei bar dei marinai, si azzuffano con tutti e finiscono a bere
da soli distesi sul pavimento: era poesia esplicita e la prosa ricordava lo
stile di Henry Miller. Martin gli offrì 100 dollari al mese perché lasciasse
il suo lavoro di fattorino alle poste e lavorasse soltanto a un romanzo.
Bukowski lo ascoltò e abbandonò l'impiego: alla fine di un gennaio telefonò
dicendo che il romanzo era finito.
Con quella telefonata iniziò la sua carriera di scrittore e anche la fortuna
dell'editore. John Martin così sintetizzò il loro incontro: "Il signor
Rolls incontra il signor Royce". Intanto Bukowski si conquistò un pubblico
facendo uscire qua e là frammenti e racconti sulle riviste che allora si
chiamavano underground. La collaborazione più regolare fu quella con Open city,
dopo quella al Los Angeles Free Press; su quel giornale tenne una rubrica
chiamata Note di un vecchio sporcaccione che segnò il suo ingresso (1969) nella
galleria di letterati della casa editrice di Lawrence Ferlinghetti, la City
Lights Books. Il libro fu accolto con disprezzo dalla critica dell'establishment
ma Bukowski aveva ormai un suo pubblico che lo andava ad ascoltare ai readings
di poesia e non cercava soltanto in lui il "poeta" ma il "poeta
maledetto".
Nel 1971 uscì Post Office, il suo primo romanzo, scritto in diciannove giorni,
che racconta le sue avventure di postino con donne per lo più mitomani
incontrate nelle ore di lavoro e rivela uno stile già molto scaltro nell'uso
sia del linguaggio vernacolare sia di un'autoironia non ancora intrisa di
cinismo ma già abbastanza densa da sfiorare una personalissima denuncia sociale
mescolata ad un forte individualismo anarchico.
Nel 1980, quando facemmo un'intervista di 150 pagine, la sua adolescenza, la sua
infanzia, la sua giovinezza, risultarono con una chiarezza ormai priva di dubbi;
e intanto Bukowski continuava a regalarci storie su storie e due film dei quali
chiacchieravamo nella sua stanza di soggiorno, dove un anno gli riempirono il
camino di 51 bottiglie di birra (una di scorta) per festeggiare il cinquantesimo
compleanno. Mi faceva cucinare da Linda un minuscolo pesce arrosto e beveva a
tavola acqua di Perrier al sapore di cilegia. Poi ritornava a bere nel suo
studio del primo piano dove da grande ubriaco si metteva a correggere con
minuzia da stilista le pagine scritte la notte precedente.
Quando uscivo mi baciava la mano come uno studente inglese dell'800 e mi porgeva
una rosa della sua siepe, lì sulla porta d'ingresso. Un giornalista italiano
non ci credette; gli chiese se era vero. Bukowski insaccò il collo da King Kong
come faceva quando gli giravano le scatole e disse: "Certo che è vero.
Viene qui questa gentile signora che ha passato la vita ad aiutare i nostri
libri in Italia: cosa volete che faccia, che la supri?".
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