Le
opportunità di salvezza
Nel Lager parole come diritto, amore, amicizia,
rispetto, umanità non avevano cittadinanza.
In una Babele di lingue, fra le grida
rabbiose dei guardiani, i lamenti dei puniti, con lo spettacolo quotidiano dei
cadaveri ammucchiati in ogni dove, capire gli ordini, le regole, le
consuetudini era difficile, ma essenziale.
“La prima parola pronunciata dai piccoli
non ancora in grado di parlare era “Nachtwache”,
che significava “sorvegliante notturna”.
Non “mamma”.
Nessuno dei bambini conosceva i termini “mamma” o “papà”;
solo “Nachtwache”.
Questo perché di notte quando avevano bisogno di andare in bagno,
se non fossero stati in grado di chiamare la “Nachtwache”
o di dire “ ho bisogno di andare al gabinetto”,
avrebbero cessato di vivere.
Se urinavano a letto, venivano mandati a forni crematori.
Per questo motivo, bambini di un anno, un anno e mezzo
sapevano già dire “Nachtwache, devo far pipì.”
-Magda Somogyi, 16 anni-
Spesso la partita decisiva si giocava
nelle prime settimane, allorché si evidenziava la capacità o l’incapacità di
assimilare il nuovo tipo di esistenza. Era in quel periodo che il prigioniero
doveva riuscire, con uno sforzo mentale e fisico supremo, a realizzare la
“normalizzazione dell’anormale” . Chi non riusciva a mettere in atto questo
processo, periva.
La possibilità di conquistare la
salvezza non fu dovuta soltanto a meriti personali, ma fu spesso determinata
della sorte. Molti internati si salvarono perché furono destinati a mansioni al
coperto, meno faticose.
“Fui scelta per un lavoro che si svolgeva per fortuna al coperto.
Dico sempre che son viva per quello.
Rimasi un anno nella fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens.”
-Liliana Segre, 13 anni-
La stragrande maggioranza della
popolazione dei lager, non ci fu nulla da fare. Non sempre la morte giungeva
rapida a porre fine a un’esistenza intollerabile; accadeva purtroppo che spesso
la vittima fosse costretta a percorrere le tappe del “processo di degradazione”
, fino a diventare una di quelle figure spettrali che nei campi venivano
denominate “musulmani”, ridotta a uno stadio quasi vegetale. Il termine non si riferiva a una appartenenza
religiosa, ma voleva sottolineare una rassegnazione fatalistica di tipo
orientale.
Agli antipodi, rispetto costoro, vi furono
quei prigionieri che seppero comportarsi dignitosamente, mantenendo integra la
loro dignità, la propria coscienza, e non rinunciando a offrire ai loro
compagni il loro aiuto, opponendo al contempo una sotterranea resistenza al
sistema dei Lager.
Innumerevoli furono i gesti di umanità.
Le possibilità di aiutare i compagni minacciati erano molte: bastava
falsificare una cartella clinica per favorire il ricovero in infermeria, oppure
depennare un nome dell’elenco delle persone destinate a un lavoro probabilmente
mortale.
Nella grande maggioranza, i giovani
ebrei nei campi di lavoro forzato, attribuirono grande importanza ai rapporti
affettivi e di solidarietà.
Questi rapporti erano importanti per due
essenziali motivi: primo, quelle persone rappresentavano l’ultimo brandello
della loro vita come esseri umani liberi, il residuo dell’esistenza precedente
allo stato di schiavi numerati. Attraverso queste intime relazioni, i giovani
mantennero un sé interiore per il quale esisteva qualcosa oltre che al pane.
Il secondo motivo che spiega perché i
rapporti furono così importanti nella vita dei giovani prigionieri è, sul piano
puramente pratico, che essi diedero loro ulteriori risorse per far fronte alle circostanze.
“Hella ed io eravamo inseparabili.
Dormivamo nello stesso letto per
tenerci caldo.
Ella si preoccupava per me. Sì, si preoccupava.
Facevamo sempre in modo di
lavorare insieme ed essere molto vicine.
Ogni briciola di pane la dividevamo, ce la spartivamo.
Era molto importante avere qualcuno vicino,
se non una sorella, un’amica o qualcun altro.
Credo sia stato un sentimento
assolutamente umano.
Fu un rapporto sono certa, di vera amicizia,
assolutamente prezioso, e essenziale.”