««««««««««« Pagina Precedente

Pagina Successiva  »»»»»»»»»»»

 

HOME

 

 

 

 

La vita nel campo

 

 

§       La routine

 

L’esistenza nei campi di concentramento era scandita da riti ben precisi. Ogni mattina bisognava “fare il letto”, perfettamente liscio e piano; spalmarsi gli zoccoli fangosi con l’apposito grasso da macchina, raschiare via le macchie di fango dagli abiti; alla sera bisognava sottoporsi al controllo dei pidocchi e al controllo della lavatura dei piedi; al sabato farsi radere barba e capelli, rammendarsi o farsi rammendare gli stracci; alla domenica sottoporsi al controllo generale della scabbia, dei bottoni che dovevano essere sempre cinque.

La parte più significativa della giornata, all’interno di un qualsiasi campo di lavoro, cominciava con l’appello del mattino e si concludeva con l’appello della sera.

In taluni campi la cerimonia dell’appello era preceduta da un singolare spettacolo: i detenuti, svegliati in anticipo rispetto la sveglia normale, venivano costretti a svolgere esercizi ginnici frenetici, vincendo i rigori del freddo glaciale e la debolezza cronica dei loro corpi privi della necessaria alimentazione.

L’appello durava generalmente un’ora e i detenuti erano costretti a rimanere in piedi per ore, se all’appello, non si rispondeva.

Un esempio fra tanti, il 14 dicembre 1938, per la fuga di “tre verdi”, i prigionieri furono bloccati sulla piazza dell’appello per 19 ore, mentre il termometro segnava meno 15 gradi.

 

“La vita ad Auschwitz era segnata da rituali ben precisi.

Ogni giorno, si veniva sottoposti allo “zahlappell”, l’ appello,

che aveva luogo all’aperto.

Ci obbligavano, in fila per cinque, a rimanere immobili

Con lo sguardo fisso in avanti per lunghe interminabili ore.

La durata dell’ appello variava a seconda delle stagioni e

delle condizioni climatiche;

se faceva freddo e pioveva, i tempi si allungavano

diversamente diminuivano.

L’impossibilità di muoverci era assoluta

e se qualcuna, cedendo alla stanchezza e agli stenti, crollava

le SS la sottoponevano alle più svariate punizioni,

 coinvolgendo anche chi, eventualmente, le avesse prestato aiuto.”

-Elisa Springer-

 

 

Ossa sporgenti, ventri innaturalmente gonfi, occhiaie dilatate: il passaggio della fame lascia sempre gli stessi segni.

Un deportato generalmente perdeva la terza parte del suo peso corporeo.

Purtroppo con magre razioni si dovevano sfamare persone costrette a un lavoro spietato, e insidiate dalle intemperie. E quindi particolarmente bisognose di calorie.

 

“Al mattino ci veniva dato del surrogato di caffè

 che io utilizzavo per lavarmi gli occhi e sciacquarmi la bocca,

 dal momenti che in quel periodo nel campo l’acqua scarseggiava.

A mezzogiorno veniva distribuita una zuppa grigiastra

a base di rape e di ortiche.

Un pezzo di pane di circa 250 grammi

 fatto di farina di castagne e segatura

doveva bastarci fino al giorno dopo.

Per cena ci veniva distribuito un quadratino di margarina e un pezzetto di carne.”

-Elisa Springer-

 

 

La zuppa spesso era ribollitura di erba e fango.

 

“Una volta vi trovammo dentro un topo,

e un’altra il piede di un cavallo con il ferro ancora attaccato.”

-Andras Garzò, 13 anni-

 

 

Nonostante questo, anche la minima briciola di pane era indispensabile.

 

“Abbiamo appreso il valore degli alimenti;

ora noi raschiamo il fondo della gamella dopo il rancio,

 e la teniamo sotto il mento quando mangiamo il pane

 per non disperdere le briciole.”

-Primo Levi-

 

 

 

 

§       Il lavoro e le attività nel tempo libero

 

 

Durante la selezione, i giovani che restarono nella fila di sinistra, dovettero comportarsi da lavoratori adulti, perché il lavoro era duro.

 

“L’orario di lavoro è variabile con la stagione.

Tutte le ore di luce sono lavorative;

 perciò si va da un orario minimo invernale,

dalle 8 alle 12 e dalle 12,30 alle 16; a un massimo estivo

dalle 6,30 alle 12 e dalle 13 alle 18.”

-Primo Levi-

 

 

I lavori  cui i prigionieri erano adibiti potevano essere i più vari: alcuni stupidi e inutili, escogitati solo per tormentare le povere vittime; altri, invece, legati a una precisa attività di servizio o di produzione. Fra questi la lavorazione della lana, la costruzione di reti ferroviarie, la pulizia di bobine, la produzione di munizioni.

Il lavoro che più di ogni altro suscitava l’orrore ed il terrore dei prigionieri era quello che si svolgeva alle cave di pietra, a cui pochi sopravvivevano più di qualche settimana.

In realtà, a rendere così letale la permanenza alle cave non era soltanto la durezza del lavoro in sé, quanto il trattamento dei sorveglianti.

Le mansioni più meno faticose erano svolte dagli addetti delle cucine, dell’infermeria, della falegnameria, degli orti.

In questo modo, i lager divennero un formidabile mezzo di arricchimento per la finanza pubblica e per l’economia privata della Germania, tanto che grandi imprese nazionali, quali Siemens, Basf, Ford, BMW e Volkswagen, ne approfittarono.

 Ma lo scopo di fondo era sempre il medesimo: lo sterminio di massa mediante il lavoro.

 

 

In un campo di concentramento, il riposo era quasi sconosciuto, eppure, nei pochi minuti dopo il rancio della sera, era generalmente possibile fumare una sigaretta, scambiare qualche parola coi compagni, attendere a piccole occupazioni utili e non sgradevoli, come cucire un bottone, pulire le scarpe.

Tra quelli più comuni vi era la passeggiate tra le strade che dividevano le baracche.

Non mancavano incontri e tornei di calcio, di pallamano, di pallavolo, di baseball e di pugilato.

Fu addirittura attivo un cinema e non si mancava di coltivare la musica.

 

“Una fanfara incomincia suonare, accanto alla porta del campo.

Suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale

E questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l’uno l’altro sogghignando.

Nasce in noi un’ombra di sollievo,

magari tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata

di gusto teutonico.

Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce

ed ecco comparire i drappelli dei nostri compagni,

che ritornano dal lavoro.”

-Primo Levi-

 

 

La più sorprendente attività fu quella della lettura, con vere e proprie biblioteche con alcune migliaia di volumi.

Ciò che nemmeno il tempo libero poteva però offrire, era l’intimità, l’occasione per restare pochi istanti soli con se stessi a pensare, a ricordare, a fantasticare. Ma forse si trattò di un bene, poiché il ricordo della vita precedente, il risorgere degli affetti, la riflessione sul proprio destino avrebbero finito per far impazzire anche le menti più salde.

 

 

“Avevamo deciso di trovarci, noi italiani,

 ogni domenica sera in un angolo del lager.

Ma abbiamo subito smesso,

perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta

 più pochi, e più deformi, e più squallidi.

Ed era così faticoso fare quei passi.

E poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare,

 ed era meglio non farlo.”

-Primo Levi-

 

 

 

 

§       Condizioni igienico-sanitarie

 

Inedia, esposizione alle intemperie, insufficiente protezione data dai vestiti, sovraffollamento, mancanza di igiene e di attrezzature sanitarie, contribuirono al devastante decadimento fisico e alla depressione psichica.

Ammalarsi rappresentava un rischio notevole, e il ricovero in infermeria poteva essere l’anticamera della morte.

La scarsa igiene provocò la diffusione di varie malattie, quali la scabbia, il tifo petecchiale, la dissenteria,  la scarlattina e la pleurite.

 

“Nel 1944 ci fu un’epidemia di scabbia. Mi ammalai anch’io.

Le nostre baracche erano luride e fetide.

L’unica coperta in dotazione era piena di pidocchi e sporca di escrementi.”

-Elisa Springer-

 

 

“Ormai avevamo scoperto che le persone morivano

 come mosche a causa del cemento;

si depositava nei polmoni.

Nessuno resisteva più di due, tre settimane.

Si rinsecchivano, deperivano a vista d’occhio.

O avevano contratto la tubercolosi,

 o i sintomi erano quelli della tubercolosi:

Il naso cominciava a colare,

 i piedi andavano in cancrena,

 si instauravano infezioni.

La gente cadeva morta.”

-Alexander Ehrmann, 11 anni-

 

 

Dopo un cammino di solito lungo e faticoso verso i locali dell’infermeria, i detenuti dovevano superare una prima selezione. Dopo ore di attesa, finalmente giunti davanti al medico, il quale procedeva a una seconda selezione, i cui esiti erano comunicati a suon di calci e pugni. I fortunati che avevano superato anche questa selezione, dovevano spogliarsi e attendere in un gelido corridoio la visita definitiva. I pazienti venivano poi raccolti tutti insieme in una sala e suddivisi per nazionalità, sicché individui ricoverati per una frattura erano costretti a stare a contatto con persone affette da malattie contagiose.

Il personale sanitario operante nelle infermerie dei detenuti, era costituito da dottori tedeschi e gli infermieri erano detenuti stessi.

Il livello professionale era piuttosto modesto. I prigionieri acquisirono progressivamente un’esperienza pratica che li portò a svolgere onorevolmente i propri compiti.

Le prestazioni offerte dal personale militare, invece, non migliorarono le condizione del paziente. Esse furono talvolta caratterizzate da semplice imperizia, ma spesso erano vere e proprie forme di sadismo.

Si ricorda il caso di un caporalmaggiore-dentista che, prima di iniziare rovinose e dolorosissime estrazioni di denti, imponeva ai suoi pazienti di eseguire duri esercizi fisici.

Altrettanto noto è il caso di un suo collega che, completamente privo di nozioni chirurgiche, si divertiva a tagliare le membra dei pazienti.

Le cure vere e proprie erano molto semplici e di limitata efficacia, che nel complesso si ridussero alla somministrazione di due sole medicine: lo iodio per gli interventi sulla pelle, l’aspirina per tutti gli altri.

Il tempo necessario per la guarigione era poco; se si constatava che il paziente era irrecuperabile si mandava a morte con un’iniezione letale, in genere fenolo, praticata direttamente al cuore.