G. Pascoli

wpe5.jpg (8038 byte)Giovanni Pascoli (1855-1912)
In Pascoli è evidente il ripiegamento verso il passato. La poesia sembra quindi un modo per ritrovare il mondo dell'infanzia: ma proprio le immagini dell'infanzia richiamano la morte e le figure dei morti, espresse con un linguaggio pregrammaticale che tende a evocare queste presenze che non sono più, appaiono vicinissime e allo stesso tempo fissate in un'irraggiungibile distanza.

Nebbia

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura c'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i savi lor mieli
pel nero mio pane.
nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

Ormai nascosto a Castelvecchio, Pascoli prega la nebbia di nascondere le cose lontane: l'infanzia e la sua giovinezza sono ebbre di pianto, fonti di dolori mai spenti, il cui ricordo lacera ancora profondamente.
Accanto ai ricordi emergono le immagini quotidiane, i meli, i peschi. Proprio queste cose presenti diventano un appiglio a cui il Pascoli tenta di aggrapparsi, per sottrarsi ai ricordi, all'indeterminatezza che proviene dai fantasmi della sua memoria.
Il quadro di
indeterminatezza che presenta la nebbia diventa funzionale all'apparire dei ricordi. La siepe diventa perciò lo sbarramento, la barriera che separa il mondo determinato del poeta da quello indeterminato dei ricordi. La siepe pascoliana assume un significato profondamente diverso  da quella leopardiana: per Leopardi la siepe rappresenta un ostacolo che blocca la visione del poeta; per Pascoli la siepe è invece un muro profondo, con cui separare il mondo esterno e in cui racchiudersi, per formare quel nido familiare da cui era stato strappato in giovnissima eta.
L'adesione del linguaggio alla realtà, l'uso di parole tecniche per descrivere il presente, creano un panorama determinato, in cui il Pascoli tenta di sottrarsi ai ricordi.
Nei voli indefiniti del suo pensiero, Pascoli si trova a pensare alla
morte, che si mostra accompagnata da un suono stanco di campane: la morte dunque si configura come un porto quiete, dove riposare per l'eternità.
La presenza del cane nella casa di Pascoli sembra richiamarlo ancora una volta alla determinatezza della vita quotidiana. Non solo, ma il cane che sonnecchia dà l'idea di un posto poco disturbato, tranquillo, in cui il poeta si sente totalmente al sicuro. Forse è anche questa tranquillità ricercata ossessivamente a favorire il ricordo del passato e con questo le immagini negative che il poeta si porta con sé.

G. Leopardi

wpe3.jpg (7182 byte)La dimensione del tempo è evidente nella poesia del Pascoli nelle concezioni di passato e futuro.
Nei Grandi idilli, composti dal poeta recanatese dopo il 1828, si può notare un ripiegamento del poeta su se stesso, che ritrova innata nella memoria la favola della giovinezza, la sua sete d'infinito, le sue speranze e l'ansia struggente con cui le  concepiva.
Giacomo Leopardi (1798-1837)

A Silvia

        Silvia, rimembri ancora
        quel tempo della tua vita mortale
        quando beltà splendea
        negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
        e tu, lieta e pensosa, il limitare
        di gioventù salivi?
        Sonavan le quiete
        stanze, e le vie dintorno,
        al tuo perpetuo canto,
        allora che all'opre femminili intenta
        sedevi, assai contenta
        di quel vago avvenire che in mente avevi.
        Era il maggio odoroso: e tu solevi
        così menare il giorno.
        Io gli studi leggiadri
        talor lasciando e le sudate carte,
        ove il tempo mio primo
        e di me si spendea la miglior parte,
        d'in su i veroni del paterno ostello
        porgea gli occhi al suon della tua voce,
        ed alla man veloce
        che percorrea la faticosa tela.
        Mirava il ciel sereno,
        le vie dorate e gli orti,
        e quinci il mar la lungi, e quindi il monte.
        Lingua mortal non dice
        quel ch'io sentiva in seno.
        Che pensieri soavi,
        che speranze, che cori o Silvia mia!
        Quale allor ci apparia
        la vita umana e il fato!
        Quando sovviemmi di cotanta speme
        un affetto mi preme
        acerbo e sconsolato,
        e tornami a doler di mia sventura.
        O natura, o natura,
        perché non rendi poi
        quel che prometti allor? perché di tanto
        inganni i figli tuoi?
        Tu pria che l'erba inaridisse il verno,
        da chiuso morbo combattuta e vinta,
        perivi, o tenerella. E non vedevi
        il fior degli anni tuoi;
        e non ti molceva il core
        La dolce lode or delle negre chiome,
        or degli sguardi innamorati e schivi;
        né teco le compagne ai dì festivi
        ragionavan d'amore.
        Anche peria fra poco
        la speranza mia dolce: agli anni miei
        anche negaro i fati
        la giovinezza. Ahi come,
        come passata sei,
        cara compagna dell'età mia nova,
        mia lacrimata speme!
        Questo è quel mondo? questi
        i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
        onde cotanto ragionammo insieme?
        questa è la sorte delle umane genti?
        All'apparir del vero
        tu, misera, cadesti: e con la mano
        la fredda morte ed una tomba ignuda
        mostravi di lontano.

La poesia che risorge è quella dei ricordi, del ricordo, soprattutto, delle illusioni della giovinezza perduta, della sua attesa, della sua speranza. Sembra che soltanto ora che il suo pensiero ha definitivamente scoperto la vanità totale di esse, il poeta avverta un fascino ancora più intenso, scopre in essa l'unica ricchezza del cuore. Da questo anno infatti nasce una fase della poesia leopardiana che è contraddistinta da un ripiegamento interiore.
Proprio nella figura di Silvia il poeta ritrova il dono più bello dell'adolescenza: l'attesa trepida e suggestiva dell'amore. Il canto di Silvia si diffonde nel maggio odoroso, e appare come una promessa di felicità. Questa felicità e gioia della giovinezza, sono anche tali per la presenza di un destino "vago". Questa indeterminatezza diventa positiva, non negativa come in Pascoli perché ebbra di pianto. L'indeterminatezza, la vaghezza rappresentano l'inconsapevolezza della gioventù, e con questa anche la portata ampia di sogni e visioni.
Sarà la natura a disilludere l'uomo, natura che non manietene quello che promette, che anzi porta sconforto e sventure.
Lo stesso atteggiamento verso la giovinezza lo si può rintracciare nell'ultima parte del sabato nel villaggio.

[...]
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran le ore, ed al travaglio usato
ciascun in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi fanciullo mio: stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave

Nelle parole di leopardi è evidente la triste consapevolezza del disinganno: la festa, domani, non porterà la gioia sognata, ma solo tristezza e noia. Eppure il tono della conclusione non è così amaro, ma sfuma nell'affettuosa malinconia con cui il poeta esorta l'adolescente a godere il sabato della sua vita, cioé la propria età di speranze indefinite e radiose.


In queste parole di Giulio Ferroni si può comprendere in cosa consista la ricordanza.


"... la poesia, nel dare voce nel mondo più immediato al sentimento dell'anima nel presente, deve esprimere il volgersi di questo sentimento verso la rimembranza, verso il recupero di immagini che sono state e non sono più. Gli oggetti interessano la poesia per i ricordi che riescono ad evocare; e il più profondo carattere della poesia sta nel vago. Questa vaghezza si esprime in tutta la poesia di Leopardi è legata alla cosiddetta doppia vista, che fa vedere continuamente il mondo e gli oggetti come "doppi". La sensibilità poetica attribuirà  così alle cose un valore più forte di quello che esse hanno realmente, un valore che si richiama a qualcosa di lontano, che ci rivela il consumarsi della vita. La capacità di provare emozioni, di guardare agli aspetti del mondo, non consente di recuperare l'autentico contatto con la natura cercato nella prima  poesia leopardiana, ma induce piuttosto a scoprire nelle cose e nella vita il segno struggente di quanto è andato perduto; non si cerca più una consolazione vitale, ma si approfondisce il rimpianto per una giovinezza e una gioia visibili ormai come qualcosa di consumato e distrutto"

Leopardi non si ferma al rimpianto per il passato. Nella Ginestra emerge la figura di un Leopardi progressivo, aperto al futuro.

La ginestra o il fiore del deserto

        Qui su l'arida schiena
        del formidabil monte
        sterminator Vèsevo,
        la qual null'altro allegra arbor né fiore,
        tuoi cespi solitari intorno spargi,
        odorata ginestra,
        contenta dei deserti. Anco ti vidi
        de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
        che cingon la cittade
        la qual fu donna de' mortali un tempo,
        e del perduto impero
        par che col grave e taciturno aspetto
        faccian fede e ricordo al passeggero.
        Or ti riveggo in questo suol, di tristi
        lochi, e dal mondo abbandonati amante,
        e d'afflitte fortune ognor compagna
        Questi campi cosparsi
        di ceneri infeconde, e ricoperti
        dell'impietrata lava
        che sotto i passi al peregrin risona;
        dove s'annida e si contorce al sole
        la serpe, e dove al noto
        cavernoso covil torna il coniglio
        Fur liete ville e colti,
        e biondeggiàr di spiche, e risonaro
        di muggito d'armenti;
        fur giardini e palagi
        agli ozi de' potenti
        gradito ospizio; e fur città famose,
        che coi torrenti suoi l'altero monte
        dall'ignea bocca fulminando oppresse
        con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
        una ruina involve,
        dove tu siedi, o fior gentile, e quasi,
        i danni altrui commiserando, al cielo
        di dolcissimo odor mandi un profumo,
        che il deserto consola. A queste piagge
        venga colui che d'esaltar con lode
        il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
        è il gener nostro in cura
        all'amante natura. E la possanza
        qui con la giusta misura
        anco estimar potrà dell'uman seme,
        con lieve moto in un momento annulla
        in parte, e può con moti
        poco men lievi ancor subitamente
        annichilare in tutto.
        Dipinte in queste rive
        son dell'umana gente
        le magnifiche sorti e progressive.
        Qui mira e qui ti specchia,
        secol superbo e sciocco,
        che il calle insino allora
        del risorto pensier segnato innanti
        abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
        del ritornar ti vanti,
        e procedere li chiami.
        Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
        di cui lor sorte rea padre ti fece,
        vanno adulando, ancora
        ch'a ludibrio talora
        t'abbian fra sé. Non io
        con tal vergogna scenderò sottoterra;
        ma il disprezzo piuttosto che si serra
        di te nel petto mio,
        mostrato avrò quanto si possa aperto:
        ben ch'io sappia che obblio
        preme chi troppo all'età propria increbbe.
        Di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido.
        Libertà vai sognando, e servo ad un tempo
        vuoi di novo il pensiero,
        sol per cui risorgemmo
        della barbarie in parte, e per cui solo
        si cresce in civiltà, che sola in meglio
        guida i pubblici fati.
        Così ti spiacque il vero
        dell'aspra sorte e del depresso loco
        che natura ci dié. Per questo il tergo
        vigliaccamente rivolgesti al lume
        che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
        vil chi lui segue, e solo
        magnanimo colui
        che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
        fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
        Uom di povero stato e membra inferme
        che sia dell'alma generoso ed alto,
        non chiama sé ne stima
        ricco d'or né gagliardo,
        e di splendida vita o di valente
        persona infra la gente
        non fa risibil mostra;
        ma sé di forza e di tesor mendìco
        lascia parer senza vergogna, e noma
        parlando, apertamente, e di sue cose
        fa stima al vero uguale.
        Magnanimo animale
        non credo io già, ma stolto
        quel nati a perir, nutrito in pene,
        dice, a goder son fatto,
        e di fetido orgoglio
        empie le carte, eccelsi fati e nove
        felicità, quali il ciel tutto ignora,
        non pur quest'orbe, promettendo in terra
        a popoli che un'onda
        di mar commosso, un fiato
        d'aura maligna, un sotterraneo crollo
        distrugge sì, che avanza
        a gran pena di lor la rimembranza.
        Nobil natura è quella
        che a sollevar s'ardisce
        gli occhi mortali incontra
        al comun fato, e che con franca lingua,
        nulla al ver detraendo,
        confessa il mal che ci fu dato in sorte,
        e il basso stato e frale;
        quella che grande e forte
        mostra sè nel soffrir, né gli odii e l'ire
        fraterne, ancor più gravi
        d'ogni altro danno, accresce
        alle miserie sue, l'uomo incolpando
        del suo dolor, ma dà la colpa a quella
        che veramente è rea, che de' mortali
        madre è di parto e di voler matrigna.
        Costei chiama inimica; e incontro a questa
        congiunta esser pensando,
        siccome è il vero, ed ordinata in pria
        l'umana compagnia,
        tutti fra sé confederati estima
        gli uomini, e tutti abbraccia
        con vero amor, porgendo
        valida e pronta ed aspettando aita
        negli alterni perigli e nelle angosce
        della guerra comune. Ed alle offese
        dell'uomo armar la destra, e laccio porre
        al vicino ed inciampo,
        stolto crede così qual fora in campo
        cinto d'oste contraria, in sul più vivo
        incalzar degli assalti,
        gli inimici obbliando, acerbe gare
        imprender con gli amici,
        e sparger fuga e fulminar col brando
        infra i propri guerrieri.


La figura della ginestra emerge da una natura desolata, fredda e infeconda. Il contrasto che ne nasce sottolinea con ancor più forza che la ribellione della ginestra non è violenta, né superba: un piccolo fiore che diffonde il suo odore. Un fiore, simbolo della fragilità umana, della precarietà della vita, che la natura "può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto". La ribellione della ginestra contro la natura diventa la ribellione dell'uomo. L'uomo deve ribellarsi alle "mirabili sorti e progressive", perché Leopardi si rende conto che l'ottimismo è ingiustificato. L'invettiva contro il secolo "superbo e sciocco" viene condotta con forza dal poeta, con un linguaggio diretto e energico, senza mezze misure. A questa critica, Leopardi aggiunge quella agli uomini che non vanno alla ricerca del vero, indispensabile per capire le cause dell'infelicità umana.
L'unica soluzione prospettata da Leopardi è la resistenza alla natura. Gli uomini devono essere pronti alla compassione (cum-patire: soffrire insieme) e alla solidarietà con gli altri uomini.
L'uomo deve unirsi agli altri uomini per la lotta contro questo comune nemico. La battaglia non è certo facile, ma gli uomini, "fratelli" perché accomunati dallo stesso destino, devono abbandonare "gli odii e le ire" reciproci.
Da questa poesia viene alla luce la cosmicità del pensiero leopardiano nella sua completezza. Un Leopardi eroico, che non rinnega il pessimismo passato, ma che comunque vede nel futuro una possibilità di riscatto per l'umanità.

E. Montale

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare,
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

In questa poesia di Montale si può notare il congelamento della dimensione temporale.
Innanzitutto nella poesia mancano quasi completamente verbi di movimento. Fanno da padrone i venti di percezione, che non permettono la visualizzazione di un'azione, perciò tendono a fermare il tempo.
Non solo i verbi, ma anche il gioco di colori e aggettivi delinea un'atmosfera ferma e immobile. Il meriggiare è pallido e assorto, il muro rovente. Il mare stesso scintilla sotto il sole implacabile e sembra formato da lamine metalliche. il suo non è un vero movimento, ma un trascolorare nel sole che abbaglia.
La natura che emerge da questa descrizione è una natura sofferta, che sembra generare un certo fastidio all'autore. Le onomatopee, come schiocchi e frusci  contribuiscono a creare un clima di disagio, di sofferenza dell'uomo. La stessa sofferenza viene sottolineata da De Chirico, che non a caso dipinge paesaggi statici, con l'uso di colori caldi e di una cappa di afa che rende il cielo offuscato, poco terso.
Nella poesia dunque la monotonia del verso dà il senso di totale assenza di vita. L'uso di suoni aspri, sottolineati dalle allitterazioni, come in scricchi di cicale dai calvi picchi, delle parole e delle rime contribuiscono a suggerire il senso di una vita scheletrita, innaturalmente ferma e statica.
L'attesa di una rivelazione che offra un significato alla vita, che è il punto di partenza di gran parte delle poesie degli Ossi di seppia si risolve nella rappresentazione di una muraglia, sulla cui cima cocci aguzzi di bottiglia impediscono di valicarla, e di trovare al di là di essa un significato che la giustifichi.
Consideriamo questo brano tratto dalla raccolta Le occasioni

La casa dei doganieri
   
    Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò inquieto.
    Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.
    Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.
    Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

Un ricordo d'amore perduto, l'elegia del passato che non ritorna: questo è il primo tema della lirica. Rivedendo (poco importa se nella realtà o nel ricordo) la casa dei doganieri, sul mare, il poeta pensa a una sera lontana in cui vi sostò con l'amata. Vorrebbe rivivere quel tempo, ma è impossibile: un "altro" tempo occupa la mente di lei, ed egli può solo protendersi verso quella sera lontana con nostalgia.
L'incapacità dell'individuo di recuperare le immagini del passato, di ritrovare le proprie ragioni, rivela l'alterità dell'io passato: lo stesso passato si deforma, perché non può prolungarsi nel presente.
Se negli Ossi di seppia emozioni e stati d'animo divenivano il supporto di rari momenti di rivelazione, il silenzio totale sull'occasione lascia il campo all'oggetto, come fonte di verità nascosta. Tramite una personale interpretazione del correlativo oggettivo di T.S.Eliot, Montale lascia il campo all'oggetto come fonte di verità nascosta. Le rivelazioni sono comunque inquiete, che mostrano l'insufficienza di questi momenti di improvvisa "ebbrezza" come li definisce il Contini.
È il "male che tarla il mondo", come ammette Montale stesso in una sua lirica, ad impedire di capire, di carpire un significato alla vita, male che è perciò evidente, in quanto universale,  in tutte le produzioni artistiche e letterarie di questo secolo.

I. Svevo

La coscienza di Zeno
Il romanzo di Svevo ha un struttura originale: s'impernia su una trama narrativa che procede per episodi, senza curarsi della loro successione temporale, ma presentandoli come momenti di una coscienza che il protagonista viene assumendo lentamente; o meglio, crede di assumere, anche se, alla fine, si ritrova fondamentalmente, e inconfessatamente, in un'insuperabile perplessità esistenziale. Il libro dovrebbe rappresentare la storia d'una guarigione; è anzi una sorta di "compito" scritto, imposto dal dottor S., psicoanalista, che dovrebbe consentire al paziente di vedere meglio in se stesso, essere il momento culminante d'una terapia psicoanalitica, di cui conserva la libera successione connessa al fluire dei ricordi e al flusso di coscienza. Protagonista dunque come anche ricorda il titolo, è la coscienza, o meglio il suo tentativo di costruirsi nel flusso travolgente della vita.
La coscienza è il centro attorno a cui ruota gran parte delle discussioni nel novecento. Questa indagine nella coscienza può essere trovata in Joyce, che non a caso lanciò Svevo e il suo romanzo in Europa, decretandone il successo. Non solo Joyce, ma anche in ambito artistico ritroviamo questo interesse per la coscienza. È proprio il
concetto tradizionale di coscienza ad entrare in crisi, e il romanzo è il racconto di questa crisi. La coscienza di Zeno è infatti un'opera sul tempo, una sottile indagine tra tempo della scrittura e tempo della vita, tra il flusso del presente (in cui la coscienza interroga se stessa e propri ricordi) e il flusso dell'esistenza percorsa e perduta. È la stessa cura psicoanalitica a imporre un ritorno all'infanzia, a situazioni e a traumi originari, un riassorbimento di tutto il vissuto nella coscienza del presente, una continua attenzione ai ricordi e ai sogni. Ma Zeno si accorge che non è possibile nessun rapporto sicuro e lineare come il tempo: da una parte esso si ripete e si riavvolge su se stesso; dall'altra il suo tornare lo trasforma, ne lascia solo frantumi eterogenei, lo muove e lo deforma. I ricordi diventano un'altra cosa, creano nuove realtà che non è possibile identificare con quelle originarie.
Dunque non solo l'ordine della narrazione è completamente sconvolto, ma anche la rievocazione dei fatti è continuamente riportata alla "
coscienza attuale" del narratore, in una dimensione temporale che, mutando una definizione dello stesso Svevo, potremmo anche noi chiamare tempo misto. Ma il testo parla meglio di ogni commento.
cap. III "Il fumo"

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Montale: il tempo statico e immutabile
Svevo: il tempo come coordinata della coscienza
Leopardi: l'importanza del passato e la proiezione nel futuro
Pascoli: il passato che non passa