Copertina Llibre Poesies

Prefazione al volume

Poesies

 di Antonio Canu

        Questo libro è una antologia delle poesie di Antonio Canu. Un’antologia, dunque una  scelta, credo operata dallo stesso autore, di una produzione molto più vasta, che io ho avuto l’onore di conoscere nella sua interezza. 

        A questo proposito, mi sia concessa una notazione di carattere personale. Nel 1990, a coronamento di una conferenza tenuta da Giuseppe Tavani in questo stesso luogo, fummo invitati ad una festa nelle campagne di Alghero dagli allievi della scuola Pasqual Scanu. Arrivammo, accompagnati dall’amico Antoni Nughes, quando già la gioiosa compagnia era tutta riunita. Vidi venirmi incontro un gentile signore che mi accolse offrendomi un rametto di un magnifico geranio rosso. Stupita del singolare omaggio floreale (non era il primo omaggio floreale che ricevevo nella mia vita, ma era la prima volta che mi si offriva un geranio) e incuriosita dalla verve del personaggio, parlai a lungo con lui quella sera e il giorno seguente, quando con raffinata generosità si mise a nostra disposizione per mostrarci le meraviglie marine e campestri delle vicinanze di Alghero. Fu allora che mi confessò timidamente di “far poesia” e mi chiese se ero disposta a leggere qualche suo verso per dargli un mio parere. Cominciava così la nostra complice intesa: da quel giorno e fino ad oggi, Antonio Canu mi ha inviato, a mano a mano che li componeva, tutti i suoi versi nella duplice versione italiana e algherese. Per questo dicevo poc’anzi che ho il pregio di conoscere la produzione nella sua interezza, anche quella larga parte non pubblicata.  

       Un libro che è frutto di una selezione, dicevo, ma che tuttavia dà modo al lettore di formarsi, della poesia e della personalità di Canu, un’idea globale e al tempo stesso articolata, poiché la scelta non ne frantuma la compattezza lirica in quanto tiene costantemente conto dell’unitarietà di una scrittura.  

       Che cosa voglio dire, in definitiva? Che questa selezione è davvero felice, poiché ci offre della poesia di Canu i momenti più significativi, le note più sonore, ma ci porge anche il filo di un discorso ininterrotto, lirico, tenero, spesso appannato da una profonda malinconia.  

       Il libro appare come un montaggio di evocazioni, di forme, di memorie di un percorso esistenziale che incontra il suo nucleo essenzialmente nell’infanzia. Un percorso fatto di persone, di oggetti, di sensazioni che si rivela come un’esperienza d’amore. Saldando liricamente le parole alle cose, Antonio Canu cerca di dare fisionomia compiuta ai frammenti di questa esperienza interiore per comunicare il proprio evento eccezionale e irripetibile, per uscire da sé e leggersi dentro il mistero del mondo:  

       Non voglio i miei versi / chiusi in un cassetto./ Voglio che vadano /per le strade, / nei cortili,/ tra i panni / stesi al sole/ a sciogliere il gelo/ nel cuore della gente.// M’han fatto rinascere / e voglio vivere, / godere anche i giorni / di pioggia,/ il tedio dell’inverno/ quando la luce/ si fa più avara/ e sapere che verrà/ ancora il sole/ e altri versi/ saliranno dagli abissi/ che ribollono di parole.// Quando le mie ossa/ saranno radici nascoste/ i miei canti/ saranno ancora per le strade./ Qualcuno li ascolterà, / altri no,/ Ma vivranno con la mia anima.  

       Un tentativo, dunque, di arginare la caducità della vita combinando le schegge di ricordi nel trionfo di una immagine: un progetto poetico esplicitamente dichiarato, che lo porta ad aprirsi uno spazio vitale nella precarietà del tempo e ad addentrarvisi e percorrerlo oltre i limiti di una realtà effimera e spesso negativa:

Cogliere  

nei prati 

di luce 

le sillabe 

più luminose 

e piegarle 

alle forme 

del mio canto. 

  Per dire appunto, riscattate e depurate da ogni volgarità e definite nella loro essenza, le piccole grandi cose della sua vita – della Vita – in un segno preciso ed insieme lieve ed arioso. 

 La sua arte dell’evocazione – una evocazione sommessa e commossa – nel trasferire in parola poetica sentimenti e figure, ne potenzia – anche attraverso l’asciuttezza del ritmo –, il vigore, lo spirito, come se, lettore segreto dell’esistenza, Canu compendiasse tutte le possibilità evocative in un tratto unico, autonomo, folgorante, che si propaga in onde suggestive fino a ricoprire di sé il senso dell’esistere.  

       La materia narrativa si appunta su piccole tessere del visibile, su sprazzi del sensibile, ma la pietas di cui questi frammenti vengono caricati ne ingrandisce il significato fino ad ipostatizzarlo. Le poesie allora più che come figurazioni di un momento, vanno lette come rappresentazioni di una illimitata ciclicità, attimi emergenti da una continuità che in certo qual modo viene confermata e sottolineata proprio dalla provvisoria interruzione, dal temporaneo intacco, attimi da iscriversi nel mitico libro del mondo piuttosto che in una esperienza diretta e circoscritta nel tempo. E il rapporto tra l’emozione frammentaria e istantanea e la continuità del mondo viene acutamente percepito dall’autore, o meglio dalla sua ispirazione, che dà voce ad un poetica che è una sorta di “arte del vivere”, nel senso che interpreta immaginosamente e musicalmente la Vita.

       Canu resta entro la cinta del suo mondo domestico, un microcosmo umile e maestoso, e lo canta con nitide e trepidanti immagini evocatrici di innocenza: la cristallina reminiscenza di un aprile dell’infanzia, in cui la nostalgia viene assorbita ed assolta nel ritmo vorticoso di profumi, di suoni, di luci, dell’amore; la festosità trionfante dell’affresco di una mietitura lontana negli anni (“Dalle bocche aperte delle torri / usciva l’alito giallo del frumento”); il respiro fluttuante del mare, delle onde “muri di schiuma”; il vasto scenario dei crepuscoli e delle albe, che l’aggettivazione distende in speculazione di colori; i luoghi della fanciullezza, dilatati dal movimento della memoria in oggetti poetici di imprestata bellezza. Si sa che durante l’infanzia si possono vivere grandi e terribili infelicità, ma anche grandi e meravigliose felicità, da cui non ci si libera mai “lontananze di teneri anni - dice Canu, dove visse la gioia”.  Nella poesia di Canu ci sono tutti o quasi i mitici luoghi della fanciullezza, sui quali sarà indubbiamente passata la ruspa del progresso, la società dell’automobile e tutto il resto, ma che materializzati nei versi riconquistano intatta la suggestione di un tempo: la casa natale, sulla cui porta si appendeva, alla vendemmia, l’alloro segnale del vino maturo, le scale di Ozieri “gradini di speranza / che salgono al cielo, arrampicandosi alle colline” e dove “i miei occhi/ si sono aperti al sole/ e hanno visto/ andare e venire la vita”, i campi azzurri del Logudoro, radici della infanzia contadina del poeta, il treno dell’infanzia :

       Sbuffando/ nuvole amare/ inseguivi/ la sinuosa/ e aspra salita/ trainando/ a fatica/ il tuo peso./ Col cuore/ tempestato/ di fiamme,/ salivi lento/ l’arco delle stelle,/lanciando un grido/ che forava/ il silenzio/ della notte/ come un lamento errante./ I tuoi occhi grandi/ cercavano la luna/ e dall’anima/ salivano sogni/ d’immense pianure / silenziose.

       Perfino le evocazioni di momenti dolorosi vengono sublimate in raffigurazioni che ne mitigano la drammaticità con toni di serena compostezza, quando addirittura non li invertono di segno: gli anni della vecchiaia “canuti / e fragili / come colombe di vetro”; la morte assurda dei due giovani innamorati di Sarajevo, che se ne vanno “abbracciati nell’amore / col sogno ... / di essere rondini”; la miseria delle favelas di Bahia riscattata da una visione di magica freschezza che ne attenua le ingiurie e ne redime la desolazione “la musica è un fiume / che scorre, / colma le strade, le piazze / e le rive dell’oceano, / dove Angeli Neri / lavano la malinconia”.

       Un’opera attenta, nella sua essenzialità, al mondo dell’infanzia e al patrimonio delle memorie naturali, di cui sono testimonianza di alta e commossa partecipazione le liriche per il padre e per la madre e tutto il registro dei suoi luoghi d’origine e d’abitudine. Si veda la poesia intitolata “Il Padre”, intrisa di una struggente nostalgia della figura paterna, nostalgia da intendersi in questo caso nel suo valore etimologico, “nostos algia”, dolore di un’origine perduta, desiderio pungente, rimpianto malinconico di un’assenza, che non è mai stata presenza, poiché egli non ha conosciuto il padre:

       La tua presenza/ è rimasta un sogno./ Solo foto sbiadite,/ solo parole/ dei testimoni / del tuo tempo./ T’ho cercato/tu eri lontano/ tra nubi quiete./ Ho chiesto alla luna/ e alle stelle/ di sentire la tua voce./ Era tenera come la rugiada/ / o forte come il vento?/Tu che hai domato cavalli,/ dominato fiumi,/ non m’hai atteso/ per insegnarmi la canzone/ del sole e delle spighe./ Ma io ti canto/ per il seme/ del tuo sangue che porto,/ per quanto/ non m’hai potuto dare./ Canto la malinconia/ per il ricordo che non ho./ E questa pena/ ancora mi brucia dentro.

       O ancora l’inno di assoluto amore per il nonno, vicario di un padre non goduto :

       Come potrei vivere/ senza pensarti,/ padre della mia infanzia./ Io porto le radici/ del tuo sangue/ e il ricordo/ del tuo pane povero,/ diviso con le tue mani aspre./ Vorrei lasciare/ in questo foglio/ tutto il mio cuore/ per le stagioni/ di pianto e di luce/ vissute insieme./ Per la tua saggezza/ versata dentro le mie orecchie,/ per i giorni maturi di sole/ e le secche primavere,/ quando le tue avemarie/ come api d’argento/ salivano al cielo/ con ali di speranza/ e sognavi piogge silenziose/ per nutrire l’arida terra./ Ho negli occhi/ il tuo viso stanco/ tra mari di spighe/ e il canto delle cicale,/ i tuoi occhi chiari,/ e il tuo riposo mai sazio.

       E un  canto di acuto rammarico, di impetuoso accoramento si leva a ricordo della madre scomparsa, un canto in cui lo stesso ritmo breve e spezzato sembra evocare un pianto pudicamente trattenuto :

       Sola,/ in quest’ora/ silenziosa / del vespro/ che muore,/ pallida/ e dolente/ sei andata / lontana/ dalla terra/ e dal mare, / vicino/ alle stelle,/ vicino/ al tuo Dio.// Madre, / tu vedi/ il mondo/ e il fluire/ della vita, / dammi/ nuvole di speranza/ e placa/ il mio canto/ inquieto/ per non averti saputo/ amare. // Cerco la tua voce/ sapendo/ che m’hai perdonato.

       L’intensità del ricordo delle persone amate scomparse trasferisce con tale forza il sentimento nella rappresentazione, che essa diviene un gesto di scongiuro dell’annientante nulla, quasi un imperativo di resurrezione :   

                               Alzati, Padre,

                               che è già autunno,

                               è tempo di semina,

                               gli uccelli

                               sono carichi di speranza.

                               Sopra i campi

                               scendono piogge verdi

                               e gli aratri

                               aprono la terra.

                               Alzati, Padre,

                               lascia il tuo giardino

                               di pena.

                               Va nei campi

                               a seminare il grano

                               della vita.

       Egli canta insomma le cose che conosce giorno per giorno, senza inventare nulla, senza nulla mutuare dal libro dei pretesti culturali. È nella scrittura quel che è nella vita, e immette nella sua ispirazione le occasioni che la vita gli offre. Le cose quotidiane lo nutrono, lo alimentano, lo stimolano alla poesia – che è in definitiva  un modo per verificare il suo grado di adesione, di partecipazione all’ esistenza, un lavoro di conoscenza o di riconoscimento degli uomini e delle cose, condotto con pazienza ed amore.

       La  poesia di Antonio Canu nuda, salvata e liberata da inutili sovrastrutture, rivela, anche nel ritmo di assoluta semplicità, chiare suggestioni culturali della poesia italiana del Novecento (penso ad un Ceccardo, ad un Mario Novaro, ma anche ad un Bartolini e a un Betocchi, per non citarne che alcuni), e tuttavia inserisce in questo tessuto tradizionale elementi di una percettività nuova, che gli derivano sì da un personale sentire, ma anche dal fatto che la sua è una posizione di bipolarità culturale. Egli infatti compone, in perfetta sincronia, su due registri linguistici, il catalano-algherese e l’italiano letterario. La consuetudine colloquiale bilingue, così come si nutre di memorie culturali italiane, affonda le proprie radici nella ricchezza espressiva di un algherese che con Canu si fa da dialetto lingua letteraria alta, dando voce ad un canto interno verticale, in cui confluisce anche la lezione dei maestri catalani, Espriu in primo luogo, dal quale il nostro poeta mutua soprattutto l’agilità di una forma lirica piegata peraltro a manifestare, come si è detto, una visione del mondo fondamentalmente positiva.

       Un libro bello dentro e bello fuori. Non si può non lodare il progetto tipografico, con i suggestivi disegni di Manlio Masu, che accompagnano preziosamente, senza mai sovrapporsi, anzi puntualizzando e sottolineando, il percorso poetico di Antonio Canu. Un plauso dunque globale a questa felice impresa, che arricchisce Alghero e la cultura catalana e italiana di una tessera importante del suo mosaico artistico.

 


 
Miquel Canu 2000 - 2008

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Darrera revisió  03.01.2008

Ultima revisione 03.01.2008