L'ideologia dell'antiutopia
(...un mondo non troppo lontano dalla realtà)
[sfera: ideologia dei valori dominanti]

La polemica contro la società repressiva, la difesa dell'individuo e delle sue istanze di felicità costituiscono i principali temi di riflessione di Herbert Marcuse, filosofo appartenente alla scuola di Francoforte che abbiamo già condirato nella definizione della teoria critica, che ha fatto nella sua opera una sintesi originale fra marxismo e freudismo. Alla base di "Eros e civiltà", sta la convinzione, mutuata da Freud, che la civiltà ha potuto svilupparsi solo in virtù della repressione degli istinti. La società, infatti, è riuscita ad accrescere la produttività e a mantenere l'ordine solo impedendo all'individuo la libera soddisfazione delle sue pulsioni. A differenza di Freud che riteneva la repressione un costo inevitabile della civiltà, Marcuse ritiene che non sia la civiltà in quanto tale ad essere repressiva, bensì quel tipo particolare di civiltà che è la società di classe. La forma storica richiederebbe un surplus di rimozione degli istinti, in quanto è sopraggiunto il principio di prestazione, ovvero la direttiva di impiegare tutte le energie psico-fisiche dell'individuo per scopi produttivi e lavorativi. Il principio di prestazione, riducendo il singolo ad un entità-per-produrre, ha represso le richieste umane di felicità e di piacere, comportando nello stesso tempo una diserotizzazione del corpo umano e la cosiddetta "tirannide genitale", ossia la riduzione della sessualità ad un puro fatto genitale e procreativo, fatto che Orwell quasi profeticamente (poiché ne scrive negli anni '40) delinea in questo modo: " Nei tempi antichi, pensò, un uomo guardava il corpo di una ragazza, si accorgeva di desiderarlo e tutto finiva lì. Non si sapeva più godere dell'amore puro e della pura libidine, oggidì. Nessuna emozione era più pura, perché ogni cosa era mescolata con la paura e l'odio. Il loro amplesso era stato una battaglia. L'atto di godimento, una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico." 1984, pag.135. Il fine della vita quindi, sembra essere diventato la fatica e la sottomissione all'imposizione del lavoro [che se da un lato certamente serve a vivere, dall'altro lato ci sottomette inevitabilmente alla logica consumistica del procurarci il non-indispensabile] che gli uomini hanno finito per accettare come qualcosa di "naturale", come emblematicamente affermano gli animali di "Animal Farm"La fattoria degli animali: " […] la nostra vita è misera, faticosa e breve. […] Non vi è animale in Inghilterra che, dopo il primo anno di vita, sappia cosa siano la felicità e il riposo. Non vi animale in Inghilterra che sia libero. La vita di un animale è miseria e schiavitù: questa è la cruda verità" Animal Farm, pag. 5. Sembra addirittura che gli uomini abbiano accettato questa situazione come la giusta punizione per qualche colpa commessa, processo che Marcuse chiama "autorepressione dell'individuo represso", fatto che giustificherebbe la loro passività e la non-azione. Tuttavia la civiltà della prestazione non ha potuto fare tacere completamente gli impulsi primordiali verso il piacere, la cui memoria è conservata dall'inconscio e dalle sue fantasie, Winston sembra pienamente d'accordo: "La cosa più terribile che aveva fatto il partito era stata quella di persuadere la gente che i primi impulsi, i puri sentimenti, non avevano valore, proprio mentre toglieva qualsiasi valore al mondo materiale. […] Possono farci dire qualunque cosa, ma non possono farcela anche credere. Non possono entrarci dentro. […] Avrebbero potuto (quelli del Partito) analizzare e mettere su carta, nei minimi particolari, tutto quello che s'era fatto, s'era detto, s'era pensato; ma l'intimità del cuore, il cui lavorio è in gran parte un mistero anche per chi lo possiede, restava imprendibile. 1984, pag. 176,177 In uno scritto successivo, dal titolo "L'uomo a una dimensione" (1964), Marcuse riprende e radicalizza i vari motivi di critica della società tecnologica avanzata. L'uomo a una dimensione è l'individuo alienato della società attuale, è colui per il quale la ragione si è identificata con la realtà e che perciò non scorge più il distacco tra ciò che è e ciò che ci deve essere, sicché per lui, al di fuori del sistema in cui vive, non ci sono altri possibili modi di esistere, ed è quell'ebetismo di massa, quel non rendersi neanche conto della propria condizione di subordinazione al Partito, da cui sono colti tutti i personaggi (tranne Winston) di 1984. Il sistema tecnologico ha, infatti, la capacità di fare apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l'individuo in un frenetico universo consumistico. Anzi il sistema pur identificandosi con "l'amministrazione totale" dell'esistenza, si ammanta di forme pluralistiche e democratiche che sono sempre nelle mani di pochi: "Una confortevole, levigata, ragionevole, democrazia non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico." La stessa tolleranza di cui mena vanto tale società è unicamente a ben riflettere, una tolleranza repressiva, poiché il suo permissivismo funziona soltanto a proposito di ciò che non mette in discussione il sistema stesso. Tuttavia la società tecnologica non riesce ad imbavagliare tutti i problemi, e soprattutto la contraddizione di fondo che la costituisce: quella fra il potenziale possesso dei mezzi atti a soddisfare i bisogni umani e l'indirizzo conservatore di una politica che nega a taluni gruppi l'appagamento dei bisogni primari e stordisce il resto della popolazione con l'esaudimento di bisogni fittizi. Questo è notato anche da Orwell nella "Fattoria degli animali": "Forse questa nostra terra è tanto povera da non poter dare una vita passabile a chi l'abita? No, compagni, mille volte no! Il suolo dell'Inghilterra è fertile, il suo clima è buono, e può dare cibo in abbondanza a un numero d'animali enormemente superiore a quello che ora l'abita". Pag. 6 Tale situazione fa sì - afferma Marcuse - che il soggetto rivoluzionario non sia più quello individuato dal marxismo classico ossia il lavoratore salariato ma bensì quello rappresentato dai gruppi esclusi dalle società opulente, in particolare: "I giovani militanti (che) sanno o sentono che la posta in gioco è né più né meno che la loro vita, la vita di esseri umani che è diventata un balocco nelle mani dei politici, degli alti dirigenti e degli ufficiali. I ribelli (quelli al centro del "saggio sulla liberazione") vogliono toglierla da queste mani e renderla degna di essere vissuta, si rendono conto che ciò, oggi, è ancora possibile, e che per raggiungere questo fine è necessaria una lotta che non può più essere contenuta entro le norme e le regole di una pseudodemocrazia in un "mondo libero" orwelliano" [dalla prefazione al "saggio sulla liberazione"], ciò che bisogna combattere è come sottolinea il testo citato, che l'antiutopia orwelliana si trasformi in realtà.

Utopie e antiutopie nella storia della filosofia

Un dualismo anima costantemente la vita e caratterizza ciascuno di noi, una visione ottimistica o al contrario pessimistica. Su questi due opposti si costituirono due concezioni che proponevano due modi possibili di intendere il futuro: l'utopia e l'antiutopia. Padre dell'utopia può essere considerato Thomas Moore, che pubblica nel 1516 un testo intitolato proprio "Utopia". L'argomentazione mi è sembrata pertinente perché Moro come Orwell, pur vivendo in due periodi storici fra loro lontanissimi, hanno in comune il punto di partenza: la critica delle condizioni sociali dell'Inghilterra (del 1500 Moro, del 1900 Orwell). Dall'analisi della realtà Moro vagheggia una riforma radicale dell'ordinamento sociale, ipotizzando un mondo permeato da principi comunitari (oro e argento non hanno valore, la proprietà privata non esiste), dalla tolleranza, dalla solidarietà umana, da una cultura utile a tutti; pone anche l'accento sull'aspetto lavorativo, che dovrebbe rispettare il riposo umano e il diritto al divertimento (tematica che di certo avrebbe conquistato Marcuse), in sintesi un mondo giusto, dominato dalla libertà di pensiero, parola e azione. Moore ha inventato un genere letterario, tutto un modo di pensare la cui validità è tuttora al centro di ampi dibattiti. Utopia è quindi il nome di una comunità contrapposta polemicamente a quelle esistenti. L'utopia da un lato indica qualcosa che ha il carattere di una costruzione immaginaria, e dall'altro prospetta non un semplice miglioramento o correttivo di questo o quell'aspetto negativo della situazione presente, ma uno stato ottimale della res publica. L'utopia si configura così come alternativa critica rispetto alla realtà presente, esperita, vissuta, e come alternativa totale e ottimale dotata di una sua intrinseca razionalità, rispetto la quale anzi risulta irrazionale, e perfino assurdo il modo effettivo di vivere e di pensare nella realtà storica presente e conosciuta. (*1) Tali sono anche le caratteristiche dell'antiutopia, un'alternativa invece peggiore, che suona quasi come un monito a ciò che la storia potrebbe diventare (tratto in comune con le ucronie), ma che ha in comune con l'utopia di mostrarci l'irrazionalità del presente. Si può allora sottolineare che a differenza delle solite fantasticherie e delle costruzioni romanzesche, con le quali ha indubbiamente in comune il carattere immaginario, l'utopia non si presenta come semplice e gratuito accostamento di aspetti più o meno desiderabili della realtà di casi felici e fortunati toccati a questa o quella comunità, bensì come il risultato di una progettazione sapiente, meditata, dotata, come spesso si è detto, di una logica interna altrettanto e forse anche più rigorosa di quella della realtà comune, rispetto alla quale può figurare addirittura come più vera e persuasiva. Proprio per questo, la portata del concetto di utopia e antiutopia si è di molto ampliata al di là di un semplice genere letterario, ed esso è venuto ad indicare un intero modo di pensare, una ricerca di modelli ottimali o deprecabili, insomma quell'utopismo che ha lasciato testimonianze così importanti di sé soprattutto nel pensiero politico. Si è potuto vedere pertanto la prima grande manifestazione del pensiero utopico nella "Repubblica" di Platone, per il carattere estremamente rigoroso del piano razionale secondo cui viene delineato lo stato perfetto.

Bibliografia:
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