Home page 

Biblioteca on-line

Chronology

LA PROTEZIONE DELLO INFERMO DI MENTE ALLA LUCE DELLE RECENTI MODIFICHE NORMATIVE

di Massimo Marra.

 

Recensioni bibliografiche 2003 Questo contributo è tratto dalla Tesi di Specializzazione in Criminologia Clinica e Psichiatria Forense (relatore: Prof. Oronzo Greco) che l'autore ha conseguito nel 2004 presso l'Università degli Studi di Bari.
    News del 2003              Massimo Marra è Dirigente Medico Neurologo presso la Div. di Neurologia dell'Ospedale "Ferrari" di Casarano (Lecce).
Recensioni dalla stampa 2003   

 

                      Rivista Frenis Zero

 

INTRODUZIONE

 

 

L’interdizione e l’inabilitazione sono comunemente definiti istituti di protezione o di tutela per le persone che, pur avendo raggiunto la maggiore età, risultano in tutto (interdizione) o in parte (inabilitazione) incapaci di provvedere ai propri interessi. La tutela in questione si estrinseca nella pratica attraverso due livelli di privazione della capacità d’agire legale.

L’interdizione implica la perdita del maggior numero delle capacità civili: l’interdetto non può compiere atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, non può donare, non puo’ sposarsi, non può fare testamento. Per sostituirlo nei suoi atti giuridici viene nominato un tutore.

L’inabilitazione si accompagna alla perdita di un numero minore di capacità: l’inabilitato può ancora compiere atti di ordinaria amministrazione, può contrarre matrimonio, può disporre per testamento. Per assisterlo negli atti che non può compiere da solo (straordinaria amministrazione) viene nominato un curatore. Ad entrambi, con la legge 180/78, è stata restituita la capacità  elettorale.

-L’incapacità di provvedere ai propri interessi, che derivi da abituale infermità di mente, è regolata dall’art. 414 c.c. e dal 1° comma dell’art. 415 c.c..

   Art. 414 c.c. : «Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti ».

    Art. 415 c.c. : «Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all’interdizione, può essere inabilitato».

I due requisiti infermità di mente e incapacità devono essere accertati dal giudice che può, in questo esame, farsi assistere da un consulente tecnico (art. 419, 1° e 2° comma, c.c.).

I commentatori più attenti si sono ben presto resi conto della «grave difficoltà di stabilire i limiti tra piena capacità e inabilitazione dall’una parte e tra inabilitazione ed interdizione dall’altra parte»(1). Il codice non specifica quanta «incapacità» occorra per pronunciare l’una e quanta l’altra.

      Come chiave di soluzione di questo problema, è stato classicamente individuato il principio che la capacità dell’interdicendo/inabilitando debba essere commisurata in concreto, cioè «in relazione alla natura e all’entità degli interessi» coinvolti (2). Come chiarisce Franchini, «quando gli interessi sono semplici, un deterioramento mentale dovrà essere enorme, mentre, per interessi rilevanti e complessi, si potrà giungere alla interdizione, anche sulla base dell’accertamento di una abituale infermità di mente di grado più modesto» (3).

 In altre parole, come l’«incapacità» costituisce la misura di rilevanza dell’«infermità», così gli interessi costituiscono il parametro di commisurazione per l’«incapacità». Sembra perciò opportuno prendere spunto, nel considerare il concetto di «incapacità di provvedere ai propri interessi (per infermità di mente)», dal parametro che apparentemente si prospetta come il più agevole da accertare: i concreti interessi del soggetto.

 

   

 

 GLI INTERESSI TUTELATI

 

L’ipotetica semplicità di riscontro del dato costituito dagli interessi si rivela ben presto ingannevole. Il primo problema che si incontra, nell’esaminare il tema, è che non risulta affatto chiaro che cosa si debba intendere per «interessi» o meglio quali debbano essere gli interessi da considerare. Non è infatti mai stata risolta la questione se si debbano prendere in esame solo quelli economici o anche quelli «morali». Per «interessi morali» si devono intendere in realtà alcuni doveri, come sarebbero l’educazione dei figli, l’assistenza al coniuge infermo, il decoro della famiglia, ecc.

Ma pur ammettendo di poter rimanere sul più concreto terreno degli interessi patrimoniali, rimane irrisolto il problema della fondatezza dei criteri di giudizio.

Il tipo di valutazione richiesta contempla necessariamente parametri del tutto extraclinici (economici, merceologici, finanziari). Lo psichiatra, per poter fare una valutazione obiettiva, dovrebbe essere in grado di decidere se, ad es., costituisce un compito più complesso e richiede maggior capacità dover gestire una bottega artigiana o un’azienda agricola, 20.000.000 in BOT o 10.000.000 in Azioni, un introito risicato ed incostante o uno più congruo ma regolare; questioni su cui, come tecnico, si presume del tutto incompetente.

 

 

 

 

DAL CONCETTO DI INCAPACITA’ AL CONCETTO DI HANDICAP

 

 

 

La situazione umana che dovrebbe corrispondere all’astratto concetto di «incapacità di provvedere ai propri interessi per infermità di mente» si configura se il ricorso di interdizione/inabilitazione aveva qualche fondamento come un quadro, si suppone consistente, di disabilità/handicap psichiatrico.

L’attenzione scientifica per il complesso fenomeno della disabilità è di sviluppo relativamente recente. Nell’impostazione sistematica proposta dall’OMS nel 1980 la disabilità è qualsiasi diminuzione o impossibilità di compiere una specifica azione finalizzata e l’handicap ogni limitazione o impedimento allo svolgimento del o dei ruoli sociali adeguati al soggetto (4). Questi due concetti (spesso condensati nel solo termine «disabilità») configurano le globali attitudini mostrate dall’individuo nel suo ambiente (ovvero la «capacità» rilevabile dall’osservatore in un determinato contesto).

La disabilità del paziente psichiatrico si rivela essere qualcosa di più e molto diverso da un semplice deficit (5).

 Il grado (ed in parte il tipo) di incompetenza mostrata da una persona risulta essere il prodotto di molteplici variabili interne (ad es. tipo di malattia) ed esterne, sia materiali (ad es. disponibilità di strumenti e risorse) che psicosociali (ad es. grado di competitività ambientale, tendenze discriminatorie, attribuzioni di ruolo) (6).Traducendo questi concetti nei termini del nostro tema, si può dire che «l’incapacità», quali che ne siano le cause, non è mai solo un «dato naturale», ma sempre, almeno in parte, un prodotto sociale.

Da un punto di vista valutativo, queste considerazioni evidenziano il problema dell’inadeguatezza delle classiche metodologie medico – legali ai fini di quantificare il grado e il tipo di disabilità – handicap presentato dalla persona esaminata. Nel settore della valutazione della disabilità sono stati elaborati specifici strumenti di misurazione, genericamente definiti «Scale di Valutazione della Disabilità» o «Disability Scales», comprendenti rilievi di tipo sociale oltre che criteri strettamente medici.

Tuttavia, in quest’ambito, anche una valutazione così accurata e globale, essendo prevista solo una tantum, risulterebbe comunque inadeguata a fronte di un provvedimento tendenzialmente così definitivo.

Per un’equa applicazione delle misure dell’interdizione ed inabilitazione, occorrerebbe avere una qualche certezza che le condizioni del soggetto, anche se fosse sottoposto ad un adeguato trattamento, non sono destinate a migliorare in tempi ragionevoli.

Ma questa aspettativa così pessimistica è tendenzialmente smentita dalla natura stessa della disabilità psichiatrica, che è un processo dinamico. Questo processo (non riconosce un rapporto lineare con la sintomatologia clinica) si realizza attraverso un andamento progressivo, potenzialmente, almeno in parte, reversibile.

Un ruolo determinante nello sviluppo dell’emarginazione è assunto, come descrive Spivak, dall’innescarsi fra l’individuo con un disturbo mentale e le persone significative con cui interagisce, di una «spirale perversa» di reciproca, progressiva, frustrazione e incompetenza che ha, come risultato, la stabilizzazione del «paziente» in una posizione regredita (7). Un altro importante fattore, in grado di incidere sull’evoluzione della disabilità/handicap, risulta essere il tipo e qualità del trattamento instaurato da parte dei servizi socio – sanitari.

L’influenza dei servizi sull’entità del fenomeno «interdizione per infermità» può rilevarsi, talvolta, determinante.L’influenza dei servizi (oltre naturalmente all’efficienza nell’utilizzo della triade: terapia farmacologica – psicoterapica – riabilitazione) è legata a numerose variabili. Incidono ad es. la dotazione di strutture adeguate, il tipo di intervento operativo (fondato prevalentemente sul modello medico o interessato anche alla vita materiale del «malato»), l’esistenza o meno di un costruttivo rapporto fra i servizi e l’apparato giudiziario (8).

 

Una volta esplorata nella sua concreta realtà, l’incapacità ( = disabilità/handicap) si manifesta come un fenomeno di consistenza e natura molto più complesse di quelle implicate dal ristretto quadro difettivo previsto dal codice e concretizzato nei tribunali.

Se è vero che il grado di autonomia di ciascuno di noi dipende in gran parte dalle caratteristiche dell’ambiente fisico o sociale in cui viviamo, allora una strutturale incapacità personale è identificabile solo dopo aver rimosso i più importanti fra i fattori negativi modificabili (sia individuali che ambientali) (9).

Lo stesso concetto di «incapacità» viene concepito e quantificato anche come incapacità del contesto (di rispondere ai bisogni della persona).

E’ evidente che si tratta di orizzonti piuttosto lontani dal ristretto punto di vista adottabile nel corso di un esame per interdizione. Ed è proprio questo il problema: anche l’esame più accurato, condotto nell’ottica, nei tempi e nei modi consentiti dalla perizia, non sarà di certo in grado, il più delle volte, di identificare né la vera capacità del soggetto né la reale incidenza dell’«infermità».

 

RELAZIONE INFERMITA’ – INCAPACITA’

 

Passando ora a considerare la relazione fra «incapacità» ed«infermità», bisogna notare che i criteri a cui deve soggiacere l’«incapacità», per poter rendere applicabili gli artt. 414 e 415 c.c., operano una doppia distinzione: 1) l’infermità rileva solo se è causa di un’incapacità che, attualmente ed abitualmente, sia di gravità sufficiente a costituire un pregiudizio per gli interessi coinvolti (consideratane l’entità); 2) l’incapacità, a sua volta, rileva solo se ed in quanto deriva dall’infermità. Sono queste specificazioni che, definendone i rapporti, impediscono di sinonimizzare «infermità» ed«incapacità»; che permettono di affermare che il nostro ordinamento civile esclude ogni automatismo fra le due condizioni.

La tassativa necessità di queste relazioni è specularmente confermata dall’ammissione dell’esistenza di varie tipologie di condizioni, diverse dall’«infermità», che possono, a loro volta, essere causa di «incapacità». Bruscuglia e Giusti definiscono queste condizioni «situazioni sottratte al procedimento di interdizione», in quanto è parere unanime che non si possa dichiarare un’interdizione o un’inabilitazione se l’incapacità è dovuta ad una o più di esse.

Dai vari pronunciamenti, sia di Corti di Merito che della Cassazione, si può ricostruire tutta una serie di queste «altre cause» che potremmo definire «giustificative»: «scarsa oculatezza, errori di giudizio, semplice difetto di memoria, semplice vecchiaia, intelligenza rude, ignoranza, mancanza di cultura o di esperienza, difetto di preparazione professionale, inaccortezza, disinteresse o inettitudine all’amministrazione o agli affari, strutture anomali di personalità, semplice pervertimento morale, patologie organiche diverse da cecità o sordomutismo, particolare vastità e complessità degli interessi, (etc.)».

Ma, come abbiamo visto, l’incapacità prevede una causalità multipla. I diversi fattori elencati possono sovrapporsi all’«infermità» ed incidere quanto e più di questa (si pensi, ad es., alla «mancanza di esperienza» nella «sindrome da istituzionalizzazione»). Il soggetto incapace non lo è per infermità o per altre cause, bensì per l’infermità e per altre cause. All’atto pratico si rivela pressocchè impossibile, nel contesto del procedimento di interdizione, «scorporare» ciò che, nell’«incapacità», deriva da queste «altre cause», da ciò che deriva dall’«infermità».

 

CRITICA DEGLI ISTITUTI

 

Gli obiettivi di una riforma della normativa privatistica dell’infermità di mente scaturivano dalla necessità di: «introdurre nuove linee di equilibrio fra le opposte esigenze di libertà e di protezione della persona disabile, in modo da assicurare all’infermo la libertà che è possibile e, quanto a protezione, dargli in più quella che è necessaria eliminando la superflua e dannosa» ( Cendon, Venchiarutti, 1996).

Le principali critiche al sistema accolto nel codice civile del 1942 possono essere così espresse:

a)     L’interdizione costituisce una risposta eccessivamente severa, frutto di concezioni ormai superate in sede psichiatrica, funzionale prevalentemente agli interessi dei familiari o dei terzi; finisce per comprimere o annullare alcuni tra i diritti fondamentali della persona, risultando sicuramente sproporzionata rispetto alla necessità di salvaguardia della grande maggioranza dei sofferenti psichici e non appare in sintonia con i modelli attuali di patologia psichiatrica ispirati ai principi della riabilitazione;

b)    L’inabilitazione rappresenta anch’essa un istituto di stampo punitivo, e appare di scarsa utilità soprattutto perché il suo intervento non risolve i problemi che si pongono nell’ipotesi in cui sia necessario assicurare in favore del disabile il compimento di atti che quest’ultimo non possa o non voglia effettuare;

c)     Il contenuto dell’art. 428 c.c.(10)  ha un’intonazione del tutto passiva e puramente reattiva (inutilizzabile in progetti riabilitativi che per definizione mirano ad ampliare l’autonomia del soggetto);

d)    Nella disciplina di tutte e tre le figure su esposte sussiste il rischio del cosiddetto «effetto ingessamento»: il rischio cioè che l’eccessiva ampiezza con cui è ammessa l’annullabilità degli atti si traduca, in misura maggiore o minore, in una ulteriore fonte di discriminazione sociale per la persona «protetta» (non pochi fra i contraenti potenziali dell’infermo psichico potrebbero rifiutarsi di accordarsi con qualcuno che, all’indomani stesso della stipulazione, potrebbe ottenere sic et simpliciter l’invalidazione dell’atto);

e)     La mancanza nella codicistica di un regime di protezione che sia tale da comprimere al minimo i diritti e le possibilità di iniziativa della persona disabile, e che offra però, attraverso una previsione legislativa improntata ad una ragionevole elasticità, tutti gli strumenti di assistenza o di sostituzione che possono occorrere di volta in volta per colmare momenti più o meno lunghi di crisi o di inettitudine del disabile;

   

f)      Alcune fra le regole codicistiche attuali prospettano un trattamento apparentemente di favore per il sofferente psichico, e in particolare le disposizioni sui fatti illeciti e danni cagionati a terzi,risultando in contrasto, sia con le ragioni di tutela per la vittima del danno, che con i suggerimenti della psichiatria moderna, improntata per quanto riguarda il malato psichico al raggiungimento di maggior autonomia e responsabilità mediante specifiche tecniche riabilitative e psicoterapiche.

 Il giudizio complessivo della psichiatria attuale sugli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione non può quindi che essere nettamente negativo.

Da un punto di vista teorico essi si situano in un’ottica psichiatrica che non solo è completamente superata, ma risulta diametralmente opposta rispetto alle moderne acquisizioni nel campo dell’handicap e della riabilitazione.

 

 

PROPOSTE DI RIFORMA

 

 

Anche in ambito giuridico – dottrinale, la maggior parte degli interpreti è giunta da tempo alla conclusione che gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione siano ormai inadeguati alla salvaguardia delle persone con difficoltà di ordine psichico. Le critiche dei giuristi riguardano numerosi aspetti dei due provvedimenti: oltre all’incoerenza rispetto a delle finalità autenticamente protettive, se ne riconoscono sia l’inefficacia, in quanto essi esplicano la loro azione in maniera eccessivamente rigida e limitativa, sia l’insufficienza, in quanto trascurano tutti quegli «incapaci» che non sono «infermi di mente», oppure che sono «infermi» ma non rientrano nello schema gravità/abitualità.

Questa diffusa insoddisfazione ha prodotto varie proposte di riforma, ad esempio quella  avanzata, (in collaborazione con altri studiosi e metabolizzando anche esperienze giuridiche già maturate all’estero), da Paolo Cendon nel 1987. Il cuore di questo progetto, all’interno di un più complessivo disegno di riforma della disciplina privatistica riguardante l’infermità di mente, consisteva nell’introduzione del nuovo istituto dell’«amministrazione di sostegno» (11).

   

Dal 1993, l’introduzione di questa nuova forma di tutela è stato oggetto di un disegno di legge (in cui si ritrovano alcuni dei contenuti della bozza di Cendon) che è stato bloccato nel suo iter parlamentare dai sussulti politici di questi ultimi anni(12). Tale forma di tutela ha trovato attuazione solo recentemente nella Legge n° 6 del 9 gennaio 2004 (vedi Appendice).

L’innovazione prevista dal legislatore si incardina su due punti nodali: 1) viene superato il binomio infermità di mente/incapacità. Infatti l’«amministratore di sostegno» è nominabile ogni qualvolta si riscontra la necessità di un sostegno gestionario, a prescindere dalle cause per cui si è determinata («infermità o menomazione fisica o psichica»).

Art 404 – ( Amministrazione di sostegno) – La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.

2) viene coniugato il massimo di tutela con il minimo di pregiudizio per la libertà del soggetto.

 

Il provvedimento è duttile, potendo variare, a discrezione del giudice, sia l’entità della rappresentanza (dalla semplice assistenza per il compimento di alcuni atti alla pressoché totale sostituzione negoziale) sia la durata della delega affidata all’amministratore (che può essere disposta a tempo determinato o a tempo indeterminato). Nelle intenzioni dei legislatori, l’innovazione vuole costituire un sistema di tutela così graduabile, elastica ed efficace da potersi rivolgere a «chiunque abbia bisogno di essere protetto nel compimento degli atti della vita civile».

Il nuovo provvedimento sembra allora concepibile come uno strumento potenzialmente adeguato anche a rispondere alle situazioni di «incapacità» a cui attualmente si applicano l’interdizione o l’inabilitazione. Anche le condizioni più gravi possono trovare un trattamento proporzionato (tramite, eventualmente, un’«amministrazione di sostegno costituita da una supplenza completa a tempo indeterminato»).La legge oltre a prevedere un aumento degli elementi garantistici e l’ammorbidimento di alcune preclusioni negoziali, abolisce l’obbligatorietà del procedimento di interdizione (la parola «devono» [essere interdetti] diventa «possono»); prevede la possibilità di trasformare un eventuale procedimento di interdizione/inabilitazione già iniziato in un procedimento di «amministrazione di sostegno»; legittima anche l’interdetto e l’inabilitato a proporre, per la propria tutela, quest’ultimo più versatile provvedimento.

Con questi aggiustamenti risulta che il vecchio apparato di risposte verrebbe ridotto ad applicazioni marginali o residuali.

 

LE MODIFICHE FONDAMENTALI INTRODOTTE DALLA  LEGGE

9 GENNAIO 2004, N° 6

   

a)     Il titolo XII del primo libro del codice civile (“Dell’infermità di mente, della interdizione e della inabilitazione”) viene modificato in quello «Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia». Il titolo, poi, si presenta diviso al suo interno in tre capi distinti.

         Il primo capo s’intitola “Dell’amministrazione di sostegno”, e comprende gli artt. dal 404 al 413 (ossia gli articoli lasciati liberi dalle modifiche dell’adozione, disposte dal legislatore del 1983).

      Il secondo capo s’intitola «Della interdizione e della inabilitazione» e continua ad abbracciare gli artt. dal 414 al 432, parzialmente modificati: l’Art. 428 viene tuttavia abrogato e lasciato vuoto. Al secondo capo del libro quarto del cod. di procedura civile, le parole: “e dell’inabilitazione sono sostituite con le altre , dell’inabilitazione e dell’amministrazione di sostegno”. Il terzo capo s’intitola “Norme di attuazione, di coordinamanto e finali”, nel quale sostituisce l’Art. 44 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, approvate con regio decreto 30 marzo 1942, con il nuovo Art. 44, che stabilisce con le norme il potere del giudice di intervenire ogni qualvolta è necessario o richiesto dall’interessato per giungere alla finalità di interesse del beneficiario.

 

 

b)    L’innovazione della legge consiste nella formulazione del nuovo istituto (l’«Amministrazione di sostegno») che si pone come modello generale per la soluzione dei problemi civilistico/patrimoniali della grande maggioranza delle persone disabili.

 Le modifiche proposte possono così compendiarsi:

-Possibilità, non più obbligatorietà, della pronuncia di interdizione (modifica art. 414 c.c.: «i soggetti versanti in condizioni di abituale infermità di mente……possono  essere interdetti» e non più, come nella versione vigente “devono”);

-Legittimazione a promuovere l’istanza. Si è ritenuto di attribuire anche all’infermo di mente la facoltà di promuovere l’istanza di apertura al procedimento. Nell’elenco già contemplato, inoltre, è stato inserito il convivente che dal registro dello stato civile risulti avere la medesima residenza dell’interdicendo o dell’inabilitando.

-Scelta del tutore (o del curatore): viene resa possibile per il giudice la preventiva consulenza dei responsabili e dei coordinatori socio – sanitari. Nel ventaglio delle persone indicate, oltre alle figure classiche, compaiono il convivente che risiede con l’infermo.

-Revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione: si aggiungono all’elenco previsto dall’art. 429 c.c. gli operatori dei servizi socio – sanitari. Il convivente residente con l’infermo, lo stesso interdetto o inabilitato;

-Atti compiuti dall’interdetto e dall’inabilitato: le modifiche nel testo dell’art. 427 c.c. mirano a ridurre la portata della “incapacitazione”. Si prevede che «l’interdetto e l’inabilitato possano compiere personalmente gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana»;

-Matrimonio: vi può essere ammissione giudiziale al matrimonio dell’interdetto, ove il giudice ravvisi «che le condizioni dell’interdetto non sono tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale»;

-Testamento e donazione: il giudice, su istanza dell’interdetto o del tutore, sentito il parere di un consulente, può ammettere l’interdetto a fare testamento o a compiere una donazione con l’assistenza del tutore o di un curatore appositamente nominato.

 CONCLUSIONI

 

La preferenza di operatori sociali, psichiatri e congiunti dei disabili per l’amministrazione di sostegno deriva dalla sua perfetta aderenza agli specifici bisogni della persona: infatti, mentre l’interdizione priva in generale un soggetto di tutti i diritti, l’amministrazione di sostegno riduce o attenua la capacità del “beneficiario” solo in relazione ad alcuni atti, quelli stabiliti nel provvedimento dal giudice, mentre per tutto il resto egli conserva intatta la sua capacità. La immediatezza della sua pronuncia ( senza percorrere l’itinerario lungo, doloroso e costoso del processo di interdizione avanti al tribunale) e l’assenza di effetti stigmatizzanti fanno sì che essa sia applicata con assoluta preferenza a infermi di mente innanzitutto, ma anche anziani cronici, portatori di handicap fisici, alcoolisti, lungodegenti, carcerati, internati in manicomio giudiziario, tossicodipendenti e, in generale, chiunque abbia bisogno di essere protetto nel compimento degli atti della vita civile o non sia in condizione di gestirsi personalmente o di incaricare lui stesso altri di una attività sostitutiva; per le situazioni cioè in cui una persona è inabile a fare certe cose e non incapace in generale oppure è incapace in generale per un breve periodo o per un tratto finale della sua vita o in relazione a atti così limitati che pare inutile iniziare un procedimento di interdizione o di inabilitazione.

Il vecchio apparato di risposte (interdizione e inabilitazione) risulterebbe in tal modo riservato solo alle situazioni più sfortunate e disperate. Da quanto esposto risulta evidente l’utilità di un simile istituto per disabili psichici che usufruiscono di progetti riabilitativi. L’amministrazione di sostegno concretizzandosi in un ausilio per alcune aree del funzionamento del soggetto non limita le abilità sociali già acquisite, funge, se si consente l’analogia, da Io ausiliario per il paziente (i classici strumenti dell’interdizione ed inabilitazione viceversa risultavano meno duttili rispondendo ad una logica del tutto o nulla e non potendosi dunque utilizzare come strumenti per incrementare l’autonomia). L’ amministrazione di sostegno si presenterebbe, in definitiva, come un «contenitore» suscettibile di essere riempito dei provvedimenti e degli assetti organizzativi più svariati. E’ il giudice tutelare che decide se ammettere e fino a che punto estendere il sostegno richiesto (e per il quale lui stesso può procedere anche d’ufficio), plasmando volta a volta la risposta secondo le specifiche necessità della persona da proteggere. In alcuni casi potrà stabilirsi che, per il compimento di determinati atti, il beneficiario potrà appoggiarsi di lì in avanti sull’assistenza- consulenza dell’amministratore, oppure in altri casi si riserverà all’amministratore, in veste di rappresentante legale, il compimento esclusivo di determinati negozi. L’amministrazione di sostegno può essere disposta d’ufficio o su richiesta del disabile, oppure di altri soggetti, nel suo interesse. Risultano legittimati a chiedere l’amministrazione di sostegno i responsabili e coordinatori dei servizi sociali e sanitari impegnati direttamente nella cura ed assistenza del paziente ma non possono ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno gli operatori di servizi pubblici e privati che hanno in cura o in carico il beneficiario. Per i soggetti legittimati a chiedere l’amministrazione di sostegno esiste un vero e proprio obbligo di segnalare al giudice tutelare la situazione del disabile in ottemperanza a principi solidaristici previsti nella Costituzione (art 2) salvo i casi in cui il soggetto risulti nelle capacità di ricorrere autonomamente al giudizio tutelare. Nella legge e nella prassi si dovrebbe trovare il complesso punto di equilibrio tra le esigenze e le potenzialità del paziente (obiettivo di cura, riabilitazione, inclusione sociale) e quello della sua tutela, cioè un obiettivo di protezione da situazioni che non sa fronteggiare, che potrebbero procurare a lui un danno o a terzi un ingiusto profitto; in definitiva sono stati introdotti ulteriori elementi “garantistici” per l’infermo psichico alla vigente disciplina dei due tradizionali istituti [13, 14].

   

Note bibliografiche:

(1)Redazione della Giurisprudenza Italiana, nota a: App. Torino, 26 ottobre 1956, Giur. It., I, 2, 107, 1957.

(2) Trib. Napoli, 12 aprile 1983 Giur. It., I, 2, 449, 1983.

(3) FRANCHINI A., Medicina Legale, CEDAM, Padova 1985, p. 519.

(4) WORLD HEALTH ORGANIZATION, International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps,  Author, Geneve 1980.

(5) FERRARA M., GERMANO S. e ARCHI G., Manuale della riabilitazione in psichiatria, Il Pensiero Scientifico, Roma 1990, p. 14.

(6) PALTRINIERI E.  e DE GIROLAMO G., La riabilitazione Psichiatrica oggi: verso una pratica «evidence - based», NOOS Aggiornamenti in Psichiatria, II, 201, 1996.

(7)SPIVAK M., Introduzione alla riabilitazione sociale, Riv. Sperim. Freniatr.,  CXI, 522, 1987.

(8) COGLIATI M. G., DELL’ACQUA G. e MEZZINA R., Riflessioni su una esperienza di perizie psichiatriche, Questione di Giustizia, 552, 1985.

(9) BELLAK A.S. e HERSEN M. (editors), Research and Practice in Social Skills Training, Plenum, New York 1979.

(10).L’art. 428 c.c. recita: Atti compiuti da persona incapace d’intendere o di volere – Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore.

(11) CENDON P., Infermi di mente e altri «disabili» in una proposta di riforma del codice civile, nonché, Bozza  di proposta di legge, pol. Dir., XVIII, 621 nonché 653, 1987.

 (12) notiamo che in Austria ed in Germania gli istituti (analoghi a quelli) dell’interdizione ed inabilitazione sono stati soppressi. Il disegno di legge n. 2571, presentato alla Camera dei Deputati il 23 aprile 1993, è stato bloccato nel suo iter parlamentare dallo scioglimento delle Camere. Lo stesso testo è stato poi ripresentato, ampliato (art. 1) da una notazione di incompatibilità del nuovo provvedimento con preesistenti pronunce di interdizione o inabilità o nomine di tutore o curatore provvisorio, come disegno di legge n. 776, al Senato, il 10 agosto 1994.

(13) Carrieri, Greco, Catanesi. Malattia mentale e interdizione: rilievi psichiatrico – forensi. Riv. It. di Medicina Legale X 1988

(14) Greco – Catanesi. La responsabilità professionale dello psichiatra, ed. Piccin, 1989.

 

 

                       Maitres à dispenser

 

 

 

 

 

Copyright- 2003 A.S.S.E.Psi.- Ce.Psi.Di.

Editor del sito web e responsabile editoriale: Giuseppe Leo