Arthur Rimbaud

Jean - Nicolas - Arthur Rimbaud è un caso limite nel mondo della letteratura. Dopo aver fermamente, allucinatamente creduto nel potere magico della poesia, nella possibilità del poeta di farsi inventore, creatore di nuovi mondi, di diventare, attraverso un "lungo immenso e ragionato disordine di tutti i sensi un veggente … il grande Inferno, il grande Criminale, il grande maledetto - e il sommo Sapiente" per conquistare l'ignoto; dopo aver scritto fra i sedici e diciannove anni l'opera più originale, rivoluzionaria e illuminata della letteratura francese, abbandona improvvisamente e per sempre la poesia. Si dà a una vita di viaggi e commerci. Rinuncia all'avventura spirituale e si butta in quella materiale.
"L' angelo dannato" di Verlaine nasce il 24 ottobre 1854, in una piccola cittadina di provincia, Charleville. Fanciullo fantasioso e sensibile, Arthur scrive già a dieci anni brevi prose e componimenti poetici in latino che gli valgono l'ammirazione dei compagni e professori, oltre a un primo premio al Concours Acadèmique del 1869 per la poesia in latino Jugurtha. Ma nell'animo del fanciullo fermentano oscuri sentimenti di rivolta: il 1870 è l'anno delle evasioni e della definitiva conversione alla poesia. Meta della prima fuga, Parigi, per assistere alla caduta di Napoleone III. La grande avventura si conclude ingloriosamente in carcere: il precoce poeta è stato sorpreso in treno senza biglietto. Liberato grazie all'intervento dell'amico professor Izambard, Rimbaud ritenta il colpo dieci giorni dopo: va a piedi fino a Bruxelles, dove spera di trovare lavoro come redattore. Fiasco e rientro immediato a Charleville. Terza fuga nel febbraio 1871, a Parigi. Dopo quindici giorni di allucinato girovagare per la città sconvolta dall'assedio, Arthur è costretto a tornarsene a casa a piedi. Nel settembre 1871, la fuga definitiva. Meta, la solita Parigi: Charleville lo soffoca nella sua mediocrità. Il poeta Verlaine, al quale ha spedito alcuni suoi versi e una lettera di disperata invocazione, lo ha chiamato a sé: "Venite cara grande anima". E lui sbarca immediatamente a casa sua. I due poeti cominciano a vivere insieme una esaltante bohème: anormale intimità, follie, discussioni letterarie e, soprattutto, Poesia. E' tra il 1869 e il 1872 che Rimbaud scrive quasi tutti i brani poetici poi raccolti sotto il titolo Poesie (Poèmes). Durante un temporaneo ravvicinamento tra Verlaine e sua moglie, Rimbaud se ne va in Belgio; ma l'amico, che non può fere a meno di lui, del suo stimolo intellettuale, lo raggiunge. I due passano in Inghilterra, dove cercano di sbarcare il lunario dando lezioni di francese e facendo traduzioni. Ma la miseria, l'estrosa irrequietezza di Rimbaud, l'eterno senso di colpa e le continue geremiadi di Verlaine corrodono presto il loro rapporto. E' il dicembre 1872: Rimbaud rientra a Charleville; in pochi mesi scrive le illuminazioni(Illuminations). poi raggiunge ancora una volta Verlaine che è solo e ammalato a Londra. Breve periodo di tranquillità, poi nuova rottura. Rimbaud raggiunge la sua famiglia a Roche e comincia a comporre Una stagione all' inferno (Une saison a l'enfer, 1873). La rottura definitiva con Verlaine viene consumata in Belgio, dove i due amici si sono ritrovati per un ennesimo incontro: Verlaine, "vergine folle"abbandonata dal "demone" Rimbaud, spara all'amico (lieve ferita alla mano) e viene condannato a due anni di carcere. Arthur torna a Roche, si rinchiude nel granaio di casa e porta a termine Una stagione all' inferno. Dopo, non scriverà più niente. Abbandona le letteratura. Perché ? E' un mistero che nessuno riuscirà mai a chiarire. E' come se si fosse esaurito, in un disastroso fallimento, il suo tentativo di farsi "veggente", di andare "al di là" del noto, e questo fallimento avesse provocato i lui il disgusto per la poesia che non riesce a fargli "superare i limiti" Fa lunghi viaggi a piedi per l'Europa. Arriva sino a Brindisi da dove viene rimpatriato perché colpito da insolazione (1875). La sua vita si fa frenetica: nel 1876 si arruola nell'armata coloniale olandese; dopo tre settimane di guarnigione a Batavia, diserta. Rientra in Francia e riparte quasi subito per Vienna; poi si reca in Olanda, passa in Svezia percorre la Danimarca, si imbarca per Cipro e poi per l'Africa. Viaggia e commercia (caffè, armi e schiavi) nel paese dei Galla e nell'Ogadèn. Colpito da una cancrena alla gamba in seguito a un incidente di caccia, affronta un dolorosissimo calvario per rientrare in patria. Ma non c'è più nulla da fare. Si spegne dopo atroci sofferenze il 10 novembre 1891.

 

Arthur Rimbaud
l'uomo dalle suole di vento

Arthur Rimbaud

 

IL BATTELLO EBBRO

Poiché andavò scendendo lungo i Fiumi impassibili,
Senti che bardotti non mi guidavan più:
Ignudi ed inchiodati ai pali variopinti,
I pellerossa striduli li avevan bersagliati.
Col mio cotone inglese, col mio grano fiammingo,
non mi curavo più di avere un equipaggio.
Quando, assieme ai bardotti, si spensero i clamori,
I fiumi mi lasciarono scendere liberamente.
Dentro lo sciabordare aspro delle maree,
L'altro inverno, più sordo di una mente infantile,
Io corsi ! E le Penisole strappate dagli ormeggi
Non subirono mai sconquasso più trionfante.
La tempesta ha sorriso ai miei risvegli in mare.
Più lieve d'un turacciolo ho danzato sui flutti
Che eternamente spingono i corpi delle vittime,
Dieci notti, e irridevo l'occhio insulso dei fari !
Più dolce che ai fanciulli qualche acida polpa,
L'acqua verde filtrò nel mio scafo di abete
E dalle macchie rosse di vomito e di vino
Mi lavò, disperdendo il timone e i ramponi.
Da allora sono immerso nel Poema del mare
Che, lattescente e invaso dalla luce degli astri,
Morde l'acqua turchese, dentro cui, fluttuando,
Scende estatico un morto pensoso e illividito;
Dove, tingendo a un tratto l'azzurrità, deliri
E ritmi prolungati nel giorno rutilante,
Più stordenti dell'alcool, più vasti delle lire,
Fermentano i rossori amari dell'amore !
Io so i cieli che scoppiano in lampi, so le trombe,
Le correnti e i riflussi: io so la sera e l'Alba
Che si esalta nel cielo come colombe a stormo;
E qualche volta ho visto quel che l'uomo ha sognato !
Ho visto il sole basso, fosco di orrori mistici,
Che illuminava lunghi coaguli violacei,
Somiglianti ad attori di antichi drammi, i flutti
Che fluivan con tremito di persiane lontano !
Sognai la notte verde dalle nevi abbagliate,
Bacio che sale lento agli occhi degli Oceani,
La circolazione delle linfe inaudite,
E, giallo e blu, il destarsi dei fosfori canori !
Ho seguito, per mesi, i marosi che assaltano
Gli scogli, come mandrie di isterici bovini,
stupito che lucenti piedi delle Marie
potessero forzare i musi degli Oceani !
Ho cozzato in Floride incredibili: fiori
Sbocciavano fra gli occhi di pantere con pelli
D'uomo! in arcobaleni come redini tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte dei mari !
Ho visto fermentare gli stagni enormi, masse
Dove frammezzo ai giunchi marcisce un Leviatano!
Frane d'acqua scuotevano le immobili bonacce,
Cateratte lontano crollavano nei baratri !
Ghiacciai, soli d'argento, flutti madreperlacei,
Cieli ardenti ! Incagliavo in fondo a golfi bruni
Dove immensi serpenti mangiati dalle cimici
Cadon, da piante torte, con oscuri profumi!
Ai bimbi, avrei voluto mostrare le dorate
Dell'onda cupa e azzurra, o quei pesci canori.
- Schiume di fiori, mentre salpavo, m'han cullato,
E talvolta ineffabili venti m'han dato l'ali.
Martire affaticato dai poli e dalle zone,
Il mare che piangendo mi addolciva il rullio
Faceva salir fiori d'ombra, gialle ventose,
Ed io restavo, simile ad una donna in ginocchio,
Quasi isola, scuotendo su miei bordi i litigi
E lo sterco degli uccelli dagli occhi biondi, e urlanti.
Vogavo ed attraverso i miei legami fragili
Gli affogati a ritroso scendevano a dormire!
Io, battello perduto nei crini delle cale,
Spinto dall'uragano nell'etra senza uccelli,
- Né i velieri anseatici, né i Monitori avrebbero
Ripescato il mio scafo ubriacato d'acqua,
Libero, fumigante, di brume viola carico;
Io che foravo il cielo rossastro come un muro
Che porti, leccornie per i buoni poeti,
Dei licheni di sole e dei mocci d'azzurro;
Io che andavo chiazzato delle lunule elettriche,
Folle trave, scortato dagli ippocampi neri,
Quando il luglio faceva crollare a scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;
Io che tremavo udendo gemere a cento leghe
I Behemot in foia ed i densi Maèlstrom,
Filando eternamente sull'acque azzurre e immobili,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi !
Ho visto gli arcipelaghi siderei e delle isole
Dai cieli deliranti aperti al vogatore:
- E' in queste notti immense che tu dormi e t'esili
Stuolo d'uccelli d'oro, o Vigore Futuro ?
Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro:
L'acre amore mi gonfia di stordenti torpori.
Che la mia chiglia scoppi! Che vada in fondo al mare!
Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Nera e gelida, quando nell'ora del crepuscolo,
Un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
Un battello leggero come farfalla a maggio.
Non posso più, bagnato da quei languori, onde,
Filare nella scia di chi porta cotone,
Né fendere l'orgoglio dei pavesi e dei labari,
Né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni.

VOCALI

A nera, E bianca, I rossa, O verde, O blu: vocali;
Lo dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
Che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,
Golfi d'ombra; E, candori di vapori e di tende,
Lance di ghiaccio, brividi di umbelle, bianchi re;
I, porpore, rigurgito di collera, di ebbrezza penitente;
Ü, cicli, vibrazioni sacre dei mari viridi,
Quiete di bestie al pascolo, quiete dell'ampie rughe
Che alle fronti studiose imprime l'alchimia.
O, la suprema Tuba piena di stridi strani,
Silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
- O, l'Omega ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

MA BOHÈME

Andavo, i pugni stretti nelle tasche sfondate,
Ed anche il mio pastrano diventa ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il fido;
Quanti splendidi amori ho mai sognato allora!
Negli ultimi calzoni avevo un largo squarcio.
- Pollicino sognante, spargevo nel mio errare
Rime. L'Orsa Maggiore mi faceva da ostello.
- Le mie stelle nel cielo dolcemente frusciavano;
Le ascoltavano, seduto ai lati delle strade,
In quelle sere miti di settembre e sul viso
Le gocce di rugiada m'eran vino gagliardo;
E, rimando nel cuore di fantastiche tenebre,
Tiravo, come fossero delle lire, gli elastici
Delle scarpe ferite, col piede accanto al cuore!

DALLA LETTERA A PAUL DEMENY

15 maggio 1871

… Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, - e il sommo Sapiente! - Egli giunge infatti all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e quand'anche, smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l'altro si è abbattuto!

 

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