QUESTIONE MERIDIONALE

Nel linguaggio storico-politico indica il divario economico, civile e culturale tra il Sud e il resto d’Italia.

La percezione dell’arretratezza meridionale si può fare risalire agli illuministi meridionali del Settecento che tracciarono alcune coordinate nell’analisi dei problemi del Mezzogiorno entro le quali si sviluppò un’originale riflessione. Fu soprattutto Gaetano Filangieri a indicare nel predominio sociale ed economico del feudalesimo, con la corrispettiva debolezza della forza etica e istituzionale dello stato, la causa fondamentale del ritardo del Sud, visibile nella diffusione del latifondo scarsamente produttivo, nella miseria delle popolazioni contadine e nella mancanza di un ceto medio imprenditoriale.

La questione meridionale emerse compiutamente dopo l’unità d’Italia nell’analisi condotta da Pasquale Villari (Lettere meridionali, 1861) e nelle inchieste parlamentari di Sonnino e Franchetti sulla Sicilia del 1876. La denuncia delle origini sociali del problema, insieme con la ricerca delle soluzioni, dimostrarono come non fossero sufficienti gli strumenti approntati dallo stato unitario, tanto meno quelli meramente repressivi adottati per sconfiggere il brigantaggio. Da queste analisi scaturiva l’appello a interventi positivi che ripianassero il divario Nord/Sud, spezzando il latifondo, favorendo la piccola proprietà contadina e riducendo il centralismo dello stato. I governi presieduti da Giolitti furono i primi ad approvare leggi straordinarie con cui furono finanziati grandi lavori pubblici per infrastrutture in Puglia, a Napoli e in Basilicata, che, però, non furono del tutto efficaci, mentre l’emigrazione di milioni di contadini si presentava contemporaneamente come la reazione fisiologica alla miseria delle campagne meridionali.

Una successiva corrente di meridionalisti di ispirazione radicale (Giustino Fortunato, Antonio De Viti De Marco, Guido Dorso) e socialista dissidente (Gaetano Salvemini) spostava su un piano generale il dibattito, imprimendogli un carattere di denuncia contro il protezionismo, giudicato lo strumento iniquo con cui lo stato aveva finanziato le industrie al Nord penalizzando il Sud agricolo, e contro la politica di Giolitti, accusato da Salvemini di usare strumenti arcaici e persino illegali per raccogliere i voti controllati dagli agrari.

Nel secondo dopoguerra la questione meridionale tornò al centro della discussione politica. Un gruppo di meridionalisti di formazione laica e radicale (Mario Rossi Doria) trovò convergenze con il meridionalismo tecnocratico cattolico (P. Saraceno), inducendo il governo a nuovi interventi pubblici nel Sud (istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, 1950, riforma agraria, 1950-52). Il movimento comunista sviluppò le intuizioni di Antonio Gramsci, che aveva enucleato un’originale riflessione storica sul rapporto tra lo sviluppo capitalistico del Nord e l’arretratezza delle campagne meridionali, finalizzata a saldare un legame militante tra classe operaia settentrionale e classe contadina meridionale. Negli anni Sessanta prese slancio la seconda fase della politica meridionale collegata ai governi di centrosinistra, che portò alla creazione di alcuni poli industriali a Napoli (Alfa Sud di Pomigliano), a Taranto (siderurgia), a Gela (petrolchimico) e in alcuni centri della Sardegna. Le potenzialità di questi interventi vennero rallentate dalle congiunture internazionali, dalla mancanza di un tessuto industriale diffuso e dall’intreccio tra politica e criminalità organizzata.