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Lo scandalo del crocifisso

Sono ancora vive nel nostro Paese le “accuse” mosse in questi giorni al crocifisso presente nelle aule scolastiche italiane.

«Cadavere in miniatura» è stato definito dal rappresentante di un’altra religione, così lontana eppure così vicina alla nostra, e «un invito al suicidio»: ecco cosa rappresenterebbe l’immagine di Gesù inchiodato ad uno strumento di tortura antico, molto antico, e disumano, troppo disumano.

Si potrebbe chiudere la faccenda considerandola una sparata da parte di persone non particolarmente votate alla tolleranza ed alla convivenza con le tradizioni religiose e civili del paese che li ospita, nulla di più.

Ma noi cristiani dovremmo essere fieri di questa frase, farne tesoro.

Sì, perché significa che ancora oggi, nel 21° secolo, lo scandalo della croce è vivo in chi non crede al Dio che si è fatto inchiodare dai suoi figli su quell’abominevole strumento di supplizio.

Già san Paolo dovette parlare di «stultitiam crucis» (I Cor. 1, 23): la follia, lo scandalo della croce. Lui doveva vedersela con chi (ebrei e gentili) non poteva arrivare a concepire che un Dio si fosse manifestato agli uomini per poi finire giustiziato come un predone qualsiasi.

Ma in questo fatto, che ancora oggi desta scandalo nel cuore dei non credenti, sta la grandezza incommensurabile del cristianesimo: in un Dio che – caso unico nella storia – non resta tra le nuvole a compiacersi delle preghiere dell’umanità, ma scende sulla terra, lascia il paradiso per venire tra di noi, tra la polvere, i parassiti, i rumori, le malattie, e le mille imbecillità della vita quotidiana. E lo fa per amore. Si degrada a parlare con i sordi che lo ritengono una sorta di “burocrate della religione” ( e gli chiedono: quante volte dobbiamo perdonare? Sette? Di più? Di meno?); si umilia guarendo persone che da lui pretendono solo l’atto taumaturgico, mentre rimangono ciechi alla sua dimensione divina.

Invece i miracoli – i segni – compiuti da Gesù sono sempre un tentativo di iniziare un discorso con gli uomini, di dimostrare loro una verità superiore.

Arriva, questo nostro Dio, a circondarsi di discepoli che a volte sapevano essere gretti (“dobbiamo sfamare tutte queste persone? Ma quanto ci costa?” Mc 6,37), meschini (“Dicci, chi è il migliore tra di noi?”), a volte anche violenti (arrivano ad aggredire il servo del sommo sacerdote: eppure avevano bene udito il messaggio del Cristo!). Discepoli così poco eroici, che lo rinnegano e fuggono nel momento della prova, lasciandolo solo.

Dio invia tra noi il Suo Figlio, un figlio che semina scandalo tra i bigotti, poiché ci invita a chiamare Dio «abbà» cioè «papà». Non più il Dio Altissimo dal Nome Ineffabile, come ancora si ostina a chiamarlo qualcuno, chiuso nel suo sancta sanctorum, accessibile solo dal sommo sacerdote: ma un Dio vicino, amorevole, premuroso: il nostro papà.

Un Dio che non fa vivere l’uomo nella paura, né avvalla l’uso del terrore, ma manda Suo Figlio a dirci: «gioite, non abbiate paura» (Mt 28, 9-10)

Gli altri un Dio così, che ama gli uomini anche nelle loro imbecillità, che arriva ad umiliarsi per i propri figli irriconoscenti, non lo hanno mai avuto.

È per questo che dobbiamo essere fieri del nostro Dio inchiodato alla croce, del «disonor del Golgota» (Manzoni, 5 maggio,v.101): quel crocifisso è la prova che Dio ci ama, anche tra le nostre imperfezioni. Dio c’è, e non è una divinità fanatica, da «Grande Fratello»: che ci osserva, che ci giudica seduto in poltrona, che ci fa capitare cose strane, ci punisce, ed alla fine ci “nomina” e ci toglie di mezzo. Ma è un Dio che ci ama e decide di venirci incontro, in quello che è il più grande incontro della Storia.

Il nostro «papà» è il Dio che è padre di tutti i popoli e di tutte le genti, non si limita a qualche etnia, un Dio che ama non solo gli uomini, ma anche le donne (al punto di nascere da una di esse: «che il suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura» Paradiso XXXIII, 4-5…). Un Dio per tutte le genti e per tutti i tempi, che non basa il suo potere su leggi e decreti, su regole alimentari e tabù, ma sull’amore paterno.

Un Dio così, purtroppo, tanti altri se lo sognano; per adesso, come dimostrano le loro parole, ce lo invidiano.

 

Sergio