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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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     "IN TREATMENT AL TEMPO DELLA CRISI"

 

 

 

 di Nicole Janigro

 


Questa recensione è stata pubblicata sulla "Rivista di Psicologia Analitica" (Nuova Serie n.29, Volume 81/2010) (url: www.rivistapsicologianalitica.it ). Si ringrazia, oltre che Nicole Janigro, la redazione della rivista per il permesso accordato alla pubblicazione su Frenis Zero.   

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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EDIZIONI FRENIS ZERO

 "Psicologia dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

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Lunedì arriva Laura, anestesista trentenne in dubbio sull’uomo da sposare, martedì Alex, pilota afro-americano che in Iraq ha bombardato una scuola con dentro i bambini, mercoledì è il turno di Sophie, adolescente ginnasta che ha avuto uno strano incidente automobilistico, giovedì tocca a Jake e Amy alla ricerca di un figlio con cure per la fertilità. Entrano, si siedono sulla poltrona: parlano. Di fronte trovano Paul Weston, analista di origine irlandese. Lo studio in casa, nel Maryland, dove vive con la moglie Kate e i tre figli. La scena che si ripete è sempre la stessa: un dialogo tra due persone che cercano di afferrare i fili della vita. Le parole oscillano tra toni alti e bassi, sono intramezzate da lacrime e silenzi, risate e scoppi d’ira. Dopo un tempo stabilito l’ospite se ne va, ritorna, rimpannucciato, nel mondo là fuori. Paul rimane solo nell’aria pregna. Venerdì il copione si ripete, ma questa volta è Paul a sedersi sulla poltrona vis-à-vis alla sua analista e didatta, Gina.

In Treatment, serie televisiva statunitense della Hbo, prodotta da Rodrigo Garcia nel 2008, liberamente ispirata all’israeliana Be’Tipul creata da Hagai Levi – i cambiamenti sono minimi, l’originale ha qualche riferimento ai sopravvissuti all’Olocausto –  ha sorpreso per il successo riscosso da una trama di soli dialoghi. Alla sceneggiatura ha partecipato Ari Folman, che ha sperimentato nel film animato, Valzer con Bashir, un montaggio psicoanalitico per raccontare la lunga durata del trauma bellico da lui vissuto durante la guerra in Libano. Anche in Italia, trasmesse dal canale satellitare Cult, le sedute di Paul hanno avuto un audience altissima, hanno catturato chi frequenta uno studio - e dunque può confrontare lo stile di Paul con quello del proprio terapeuta! -,  sono diventate materiale di formazione in diverse scuole di specializzazione. In treatment infatti riesce a mettere in scena le “conversazioni particolari”  in modo realistico: primi piani, stacchi regolari rappresentano quel Kammerspiel quale l’analisi è. Si interrompe così la sfilata sullo schermo di situazioni altamente improbabili– terapeuti con la bocca sempre tappata, zitti anche con i propri parenti, oppure tipacci violenti e isterici, o perlomeno sospetti, avidi al punto di esser più esosi dei commercialisti, inaffidabili sempre. E Paul Weston (l’attore Gabriel Byrne) è finalmente un terapeuta dal volto umano: soffre e suda, si coinvolge e sdolora. Ha guai in famiglia e la sua esistenza e i suoi umori oscillano insieme a quelli dei suoi compagni d’analisi (1) – come l’acqua nel passatempo, l’oggetto sulla scrivania che evoca il moto perpetuo.

Psicoanalista che si identifica ed empatizza, che non si sottrae alle trappole emotive del controtransfert, e spinge il suo investimento fino all’innamoramento. Ma soprattutto dubita – di se stesso e del suo mestiere. Alla posizione ortodossa di Gina che riconduce ogni mossa ad agiti dovuti alla sua storia personale, Paul risponde citando Kohut, Mitchell e Yalom. Il confronto maestra/allievo riproduce le insidie della formazione didattica, un’altalena di ruoli e di poteri, che esalta la differenza di caratteri e di idee – di posizione. Perché qui ad essere un po’ innamorata è lei, mentre l’inconsapevole è Paul. “What’s left for me now?” le chiede, e la prima serie finisce con il rimando di lei: “We’ll have to talk about that”.

Nella seconda serie Paul ha traslocato a Brooklyn, appare invecchiato e smagrito, lo spazio dello studio si è rimpicciolito insieme a quello della casa che ora è quella di un single – dopo la separazione con Kate, è diventato un padre part-time.

E si ricomincia. Lunedì arriva Mia, l’avvocatessa in carriera che non riesce ad avere una relazione d’amore, martedì April, studentessa di architettura che non vuole curare il cancro che ha scoperto di avere, mercoledì Oliver con Bess e Luke che faticano a fare i genitori, giovedì Walter, l’imprenditore che ha sempre salvato tutti e ora non riesce a salvare se stesso, venerdì è di nuovo Paul a cercare risposte su se stesso tornando da Gina.

Ora le sue parole sono più dirette e le loro tonalità più accorate, come se le sue vicende personali, (la separazione, la morte del padre), si traducessero in un mutamento del ritmo dei moti ondosi esistenziali che traboccano nella sua stanza. Come se l’irripetibilità di ogni incontro, là dove l’analisi tocca l’unicità della vita, lo costringesse ad accelerare, a rompere gli indugi, a guidare i suoi compagni verso scelte in grado di cambiare la loro esistenza nel qui e ora.

Il susseguirsi delle puntate-sedute risulta efficace proprio nella raffigurazione della partitura dei tempi: tempo cronologico, tempo dell’esistenza, tempo vissuto, tempo di vita del terapeuta e dell’analizzante. Nello scorrere contemporaneo di tutti questi tempi l’ora (che non raggiunge mai l’intero, nelle puntate è intorno ai trenta minuti) è un intervallo, una sospensione, la possibilità di una pausa – di un respiro lungo. E per lo spettatore  il racconto della quotidianità assume valore, la normalità dell’esistenza di ognuno si stacca, diventa dramma capace di produrre, senza la necessità del reality, suspense e narrazione. L’analisi sullo schermo è come il romanzo: rende più trasparente ciò che appare confuso nella vita. Il ping-pong che va in onda tra Paul e i suoi compagni piace e appassiona perché indica la potenza dell’arte dell’ascolto – e anche lo spettatore ascolta le “due persone che parlano in una stanza”. Diventa il terzo, testimone delle scosse telluriche di chi cerca nell’incontro con l’altro il proprio bisogno insopprimibile di riconoscimento.

In Treatment mette in scena un’analisi attuale, che registra il cambiamento sociale (la guerra, la crisi economica), un setting 

decisamente orientato al lavoro sull’Io e poco attento alle tematiche inconsce, più incline a suggerire interventi considerati parte del processo in corso. Il fatto che sia stata prodotta in Israele pare significativo non solo perché evoca le sue origini ebraiche, ma perché dice quanto in quel luogo di conflitto (2) la talking cure sia importante oggi – tra l’altro proprio a Gerusalemme nel 1997 viene istituita la prima cattedra di psicoanalisi del mondo. E molti dei suoi sviluppi contemporanei (a partire dai lavori sul concetto di trauma) appaiono derivati dall’impatto della realtà sulla realtà psichica in quelle zone del mondo dove inesorabile e quotidiano è il confronto con la distruttività umana. La teoria e la pratica analitica procedono  intrecciate al mutare dell’ambiente storico e sociale, nel mondo esterno e nel mondo interno l’uomo vive un’altra dimensione, il loro rapporto appare contorto e spesso incoerente, ma proprio qui si manifesta e si rinnova la funzione culturale dell’”avvenire di un’illusione” (3).

L’evento bellico, presente tanto nella serie israeliana quanto in quella americana di In Treatment, sta dietro le quinte della psiche. Nella lontananza geopolitica la guerra si espande in libri e filmati,

si trasmette attraverso la visione: è l’immaginario che registra l’inquietante prossimità. E al cratere di Ground Zero, ormai conficcato nella psiche collettiva, si aggiungono ogni giorno impressioni di violenza i cui effetti sono tutti da approfondire.

Che creano però risonanze per il terapeuta italiano che segue le puntate senza riuscire a perderne una, e ritrova il dolore del lutto, la lotta con il cancro, le aporie relazionali, le difficoltà genitoriali, l’adolescente disperato ma perfetto. I suoi interrogativi etici, le loro mutazioni antropologiche. E si chiede che cosa farebbe Paul oggi, in questo momento di crisi economica e di passaggio d’epoca, con le professioni che svaniscono e le identità che fluttuano. Mentre il lavoro diventa un bene di scarsità, la sua mancanza diffonde smarrimento, l’abbassamento del potere d’acquisto investe la cornice del senso.

E’ proprio il “secondo sesso”, che nella stanza d’analisi non ha bisogno né di quote né di leggi perché le donne vi siedono tuttora in maggioranza, che subisce in diretta l’impatto della crisi. Sono loro che varcano la soglia con i tacchi a spillo, il casco in una mano la borsa da ginnastica nell’altra, in equilibrio precario, dilaniate dai bisogni interiori e le performance perfettive, sollecitate a indossare sempre insieme il femminile e il virile. Nella bacheca in azienda, compaiono una serie di nomi. Al posto della firma: Good luck. L’augurio fa parte del messaggio di licenziamento: l’esubero è italiano, la comunicazione inglese perché la crisi è internazionale, come l’invito, work to drop, per il fortunato che resta. Ogni settimana inizia così, le teste si sentono già tagliate ossessionate dal dubbio su chi sarà il prossimo. La madre di tre figli che aveva ottenuto il part-time, la broker in carriera che al lavoro ha sacrificato il resto e adesso a quarant’anni fa sogni dove culla bambini, la collaboratrice esterna che aveva barattato soldi in cambio dell’autonomia, l’organizzatrice di eventi che non dorme più e legge testi che spiegano come mollare tutto e ritornare alla madre terra. Le donne ai tempi della crisi sono creature costrette a scelte estreme: tornare in case dove non stavano quasi mai, lavorare giorno e notte per poterlo continuare a fare, cambiare città e nazione – l’unica forma possibile di mobilità.

La stanchezza pare depressione – o è viceversa? L’ansia è il nome comune del malessere che attanaglia le più giovani e quelle che non possono ammettere di sentirsi vecchie. L’ansia è il pieno che accompagna la giornata, che la notte impedisce di riposare e di sognare: ancora ansia che anticipa lo stress dell’incontro dell’indomani, ansia da prestazione, ansia che non si allenta nemmeno al bar dove ci si guarda male perché dappertutto i rapporti di lavori si sono inaspriti – e tra donne non si modera la rivalità. Le donne senza figli concentrano sul proprio corpo le preoccupazioni per l’altro che non ci sarà: l’ipocondria sembra un adattamento ulteriore di un narcisismo frutto di involuzione - quel che accade all’utero dopo il parto qui segna l’implosione del possibile contenitore. Chi invece affronta l’imprevisto di una gravidanza teme di essere in perdita, avanza immediato il timore che la nascita di un altro sia incompatibile con le esigenze della propria esistenza. Dopo aver accompagnato e sostenuto per decenni la sofferenza femminile nel suo desiderio di realizzazione e di emancipazione nel mondo, lo spazio analitico diventa ora il luogo dove è possibile immaginare la creatività generativa, allentare la morsa masochista e la “passività fallica” che dalle pareti domestiche ha traslocato negli ambienti di lavoro.

Non è l’unico rovesciamento al quale assiste il terapeuta cresciuto negli anni sessanta e settanta. Sempre più spesso varca la soglia  l’adolescente, con le cuffie da dee-jay che paiono le orecchie di Minnie e il casco del suo motorino. Ma il suo motto non è il kafkiano “lontano da qui, questa è la mia meta” della generazione dei suoi genitori, la sua richiesta non è quella di essere aiutato a fuggire casa e famiglia. La sua crescita è una transizione di lunga durata, il tempo là fuori corre troppo veloce, il futuro un orizzonte vuoto, l’attaccamento all’infanzia ferma il tempo. Il maschile e il femminile sembrano appartenenze troppo labili, la bisessualità un modo di rimanere nell’indeterminatezza, un ritorno alla latenza dopo una sessualità precoce. Il loro mito è Dioniso l’androgino, “il dio ibrido” (4). L’omosessualità può segnare una tappa, il rispecchiamento in un doppio un rafforzamento necessario prima di scegliere - diventare uomo o donna. Il tatuaggio un segno visibile per non sentirsi prodotti interscambiali, ma esemplari unici con un’identità. L’energia è tanta, nel continuo restyling di se stessi il timore è sprecarsi. L’ansia è quella di vivere.

Se a condurre un uomo sulla soglia è ancora spesso la spinta di un suggerimento femminile, sempre di più l’analisi diventa uno spazio che contiene il dolore maschile. Di chi è figlio della crisi del patriarcato e si sente uno strumento – per fare soldi e carriera, per fare sesso, solo un inseminatore. Che entra ed esce dai siti porno, intreccia su Facebook i giochi della gelosia, convinto di essere sterile senza avere nemmeno provato. In fuga perenne dalla partner attuale, alla ricerca di quella nuova capace di prolungare la vita, all’uomo colpevole succede l’uomo narciso che vorrebbe essere statua, una figura da ammirare e non toccare. Malati d’amore, poco amati, troppo amati, mal amati, gli uomini seducono per sparire, mentre il caos dell’amore fatica a diventare relazione con l’altro.

 

La crisi che ha colpito i diversi settori di mercato si riflette nell’agenda del terapeuta, crea vuoti dove c’erano architetti,  informatici, quelli della moda, allunga la giornata in attesa di chi inizia all’alba e finisce molto più in là del tramonto. Il tempo e i soldi, cornice del setting, si contraggono e si dilazionano - dentro e fuori. Le sedute incontrano difficoltà a conservare l’andamento prestabilito, l’insicurezza alimenta il senso di urgenza, i repentini cambi di lavoro e di vita portano lontano, richiedono sedute uniche ma doppie, appuntamenti diradati ma fissi che assumono il ruolo di una consultazione. Il terapeuta cerca adeguamenti, propone tariffe differenziate, eppure si sente un esattore un po’ predatore mentre riceve somme più leggere ma dalle monete  pesanti perché frutto di infinite acrobazie. Difficile pensare che la realtà psichica non abbia nulla a che fare con questa realtà: l’analisi rimane un lusso sempre più essenziale. In un’epoca di scarsità – di tempo e di denaro – rappresenta una pratica critica che prova a curare l’universale senso di inadeguatezza, un esercizio autobiografico che, forse, rende possibile capitalizzare l’invisibile.

E quando esce dalla sua stanza il terapeuta che fa? Si mette davanti allo schermo, rivede le puntate di In Treatment come fossero una supervisione, oppure va al cinema a vedere A single man (5). Perché sa che, dentro e fuori, oggi single sono tutti.

 

                                            

 

 

 

 

 

 

 

 

      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Note:

 

(1) Secondo la bella definizione di Paolo Aite.

(2) Si pensi all’ormai lunga esperienza di gruppi misti di terapeuti israeliani e palestinesi.

(3) E. Zaretsky (2004), I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi, trad. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano, 2006.

(4) M. Fusillo, Il dio ibrido. Dioniso e le <<Baccanti>> nel Novecento, il Mulino, Bologna, 2006.

(5) A single man (2009) è il film diretto da Tom Ford tratto dal romanzo di C. Isherwood (1964), Un uomo solo, trad. di D. Villa, Guanda, Parma, 1981.

 

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

 

 

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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