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"L'unificazione in psicologia: alcuni problemi e questioni" 

 

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 di Nicolò Gaj

 

Novità - News

 

L'autore è Specializzando in Psicologia Clinica, Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano, Italia.


 

 

Rivista Frenis Zero

 

 

    

   

Maitres à dispenser

 

Our discipline had suffered from a gross and systematic understimation of the scope, variety, and import of theoretical work in the scientific enterprise. Most controversally, I tried to persuade my colleagues that there are many important theoretical issues the resolution of which does not call for empirical research: they require nothing but thinking”

(Kukla, A., 2001, p. XI. Methods of Theoretical Psychology. Cambridge, Massachussets: The MIT Press).

 

 

“We contend that science is never divorced from philosophy, and that it would be a paramount mistake to ignore, no matter how complex, the crucial philosophical assumptions that underwrite our scientific practices. [...] Such assumptions have much to do with concrete manner in which a science operates and with the knowledge claims finally generated”

(Yanchar, S. C, & Hill, J. R., 2003, p. 24. What is Psychology About? Toward an Explicit Ontology. Journal of Humanistic Psychology, 43, 11-32).


 
 

 

Il problema dell’unificazione della psicologia, intesa come disciplina dotata di un metodo intersoggettivamente riconosciuto dai suoi praticanti e capace di accumulare un corpus di conoscenze relativamente coerente, emerge a partire da un contesto culturale di stampo neo-positivistico. L’ideale neo-positivista – caratterizzato da una concezione monista in ambito metodologico – stabilisce che tutte le scienze umane debbano conformarsi ad un unico metodo per potersi fregiare del titolo di scienza: ogni disciplina deve basarsi sul dato empirico (“positivo”), spiegando i fenomeni di interesse attraverso la loro riconduzione a leggi generali e alle loro condizioni di applicazione (Castiglioni, Corradini, 2003). A partire dai primi tentativi moderni di sistematizzazione, la più influente prospettiva attraverso cui la “questione” psicologica è stata affrontata ha assunto un carattere oggettivo-naturalistico (Leahey, 1992; Lundin, 1996).

Parimenti, fin dalla sua nascita è stato evidente come all’interno della psicologia moderna fiorissero svariati approcci, tra loro diversi in relazione a molteplici dimensioni: la premesse teoriche adottate (strutturalismo, introspezionismo, comportamentismo, cognitivismo, psicoanalisi, ecc.), l’ambito di applicazione (psicologia sociale, dello sviluppo, clinica, delle organizzazioni, scolastica, ecc.), l’oggetto di indagine privilegiato (psicologia della personalità, delle emozioni, della comunicazione, culturale, ecc.) o la metodologia adottata (psicologia sperimentale, qualitativa, dei test, studi sul campo, ecc.). In altre parole, fino ai nostri giorni la posizione della psicologia scientifica oscilla tra il miraggio di un’auspicata (da alcuni) unificazione (sotto quale egida teorica?) e la realtà dei fatti, caratterizzata dalla frammentazione di prospettive, scuole e tradizioni tra loro anche molto distanti. Di fatto, la psicologia si presenta oggi come “un insieme di modalità diverse di descrivere e interpretare il mondo psichico” (Mecacci, 1992, p. IX), qualunque cosa “mondo psichico” possa significare.

Ma quali sarebbero le evidenze di questa frammentazione? Innanzitutto, non vi è, o vi è scarsissimo, accordo tra gli addetti ai lavori rispetto alla definizione dell’ambito di indagine e dell’oggetto di studio: all’interno dei dipartimenti di psicologia, per esempio, ricercatori che si occupano di aspetti molto specifici della percezione convivono con studiosi interessati allo studio di fenomeni sociali macroscopici.

Inoltre, anche all’interno dello stesso campo, competono svariati paradigmi teorici – spesso tra loro incongruenti – che non di rado danno origine a scuole o tradizioni metodologiche in opposizione; di contro, si assiste alla proliferazione di concetti formalmente differenti ma aventi il medesimo referente oggettuale (Henriques & Sternberg, 2004).

A fronte di tale stato di cose, la frammentazione della psicologia può essere considerata come un problema meritevole di attenzione per diversi ordini di ragione (Sternberg & Grigorenko, 2003):

 

1. La disciplina potrebbe essere organizzata per meglio comprendere i fenomeni psicologici di interesse: uno stesso fenomeno psicologico può (dovrebbe) essere studiato da differenti prospettive integrate (cognitiva, clinica, sociale, ecc.) che rendano conto dei suoi molteplici aspetti, mentre spesso il fenomeno viene studiato secondo un singolo approccio, il quale necessariamente fornisce una visione parziale dell’oggetto di interesse.


 

 

2. L’organizzazione per ambiti di specializzazione può portare all’isolamento (o persino al conflitto) ricercatori che si occupano dello stesso fenomeno psichico, ma da prospettive teoriche o metodologiche differenti.

3. L’organizzazione per ambiti di specializzazione rischia la marginalizzazione di fenomeni psicologici che non rientrano tradizionalmente all’interno degli ambiti esistenti; in tal modo si rischia di perdere l’occasione di studiare fenomeni potenzialmente interessanti semplicemente perché non vi è un contenitore istituzionale entro cui tale studio possa essere realizzato.

4. Il sistema attuale pone i ricercatori nelle condizioni di selezionare i fenomeni di interesse in base agli strumenti metodologici e concettuali a disposizione, piuttosto che orientare la loro ricerca in relazione alle caratteristiche del fenomeno stesso.

Le più recenti e interessanti proposte teoriche di unificazione della psicologia sono quelle di Norman H. Anderson (1996), Gregory A. Kimble (1996), Arthur W. Staats (1996), Robert J. Sternberg & Elena L. Grigorenko (2003) e di Gregg R. Henriques (2003). Non è questa la sede per una trattazione adeguata di queste articolate proposte, rispetto a cui si rimanda il lettore alle note bibliografiche.

Ma che cosa si intende esattamente per unificazione? Paul F. Ballantyne (1992) ritiene che su questo tema poco o nulla sia stato detto. Aiutati dall’autore, si possono distinguere tre significati del termine “unificazione”, quando usato in riferimento alla psicologia:

 

1. Unità della scienza: in questa accezione, “unificazione” si riferisce alla

comprensione della posizione della psicologia rispetto alle altre scienze, come la fisica, la chimica, la biologia, la sociologia.

2. Unità dell’oggetto di studio della psicologia: si tratta della definizione di quali posizioni teoriche e metodologiche siano complementari, in riferimento a un oggetto di studio definito. Un tema correlato è quello dell’unificazione delle varie aree di specializzazione interne alla disciplina.

3. Unificazione delle teorie psicologiche: si tratta del problema di come definire una tassonomia tra teorie psicologiche complementari, circoscrivendone la cornice metateorica che permetta loro di coesistere.


 

 

La questione iniziale da cui acquisiscono senso le altre è quella illustrata nel punto 2: affinché esista un certo ambito di ricerca e applicazione chiamato “psicologia” – che sia in relazione con le altre discipline scientifiche (punto 1) e che abbia una certa congruenza interna (punto 3) – è necessario specificare di che tipo di entità tale disciplina si occupa (Yanchar & Hill, 2003; Robinson, 2007). Il problema della definizione dell’oggetto d’indagine è particolarmente spinoso perché una delle ragioni alla base della frammentazione delle diverse tradizioni psicologiche ha proprio a che vedere con le differenti risposte che gli psicologi hanno tentato di dare di fronte alla domanda: “quali sono i contenuti e i confini della cosiddetta ‘realtà psicologica’?” Il maggior nemico di questo processo di definizione è la reificazione, ossia la tendenza a considerare concetti astratti (costrutti) come entità reali. Questa tendenza, oltre a non fornire reali spiegazioni, spesso ha portato la psicologia a scegliere i suoi oggetti d’indagine direttamente dalla realtà: “si sta ancorando la disciplina non ad oggetti psicologici (cioè a modelli definiti in chiave di costrutto teorico) ma ai fenomeni della realtà, così come essi si configurano sul piano storico; se si vuole: così come si danno pre-scientificamente” (Salvatore, 2006, p. 123). Per esempio, “la psicologia scolastica non è interpretabile come un’area autonoma e specifica della psicologia, in quanto la scuola non costituisce un dominio sistematico di fenomeni dotato di specificità psicologica. Quanto accade entro la scuola è ovviamente di interesse per la psicologia; tuttavia i fenomeni che lo psicologo incontra nella scuola non acquistano significato psicologico per il fatto di occorrere entro tale contesto” (Salvatore, 2006, p. 124).

Oltre a ciò, alcuni autori hanno evidenziato come la psicologia abbia nel tempo privilegiato l’aspetto epistemico dell’impresa scientifica (in che modo si genera conoscenza?), trascurando quello ontologico (che cosa esiste realmente?); ciò ha tradizionalmente enfatizzato l’importanza del metodo, le cui credenziali scientifiche derivano in primo luogo dalla metodologia propria delle scienze naturali. Alla base di questo sfondo vi sono ragioni di carattere storico, legate alla necessità di distacco dalla filosofia e al rifiuto dell’idealismo, e di applicabilità sociale, come “tecnica” utile alla collettività (Leahey, 1992; Mecacci, 1996). In diversi casi, la psicologia si è quindi trovata a mutuare dalle scienze naturali una ontologia implicita collegata alla metodologia prevalentemente adottata, legata a istanze di tipo meccanicistico e positivistico (Yanchar & Hill, 2003). Occorre qui evidenziare che assumere una posizione naturalista in ambito metodologico non implica necessariamente una posizione naturalista a livello ontologico: distinguere tra le due tesi, però, è fondamentale affinché non si confondano i due piani del discorso, pena le conseguenze succitate.

Lo scenario, quindi, può profilarsi ancor più sfavorevole rispetto alla semplice assenza di una seria e critica riflessione su quale è l’oggetto della psicologia: la ricerca psicologica si occupa di qualche cosa, ma questo qualche cosa può appartenere al dominio di altre discipline scientifiche (biologia, chimica, sociologia) e ciò rimane implicito, ben “nascosto” all’interno dell’ossatura metodologica utilizzata.

Il metodo (il come) spesso precede logicamente la definizione dell’oggetto (il che cosa), anziché viceversa.

Una questione connessa alla definizione dell’oggetto di studio e di rilievo per quanto riguarda il problema dell’unificazione è quella inerente alla distinzione tra parti controvertibili e parti incontrovertibili delle teorie psicologiche. Le prime rappresentano il contenuto esplicativo peculiare di ogni specifica teoria; le seconde, invece, fanno riferimento a una sorta di “intelaiatura” concettuale comune alla articolazione di tutte le attività conoscitive umane; riguardo ad esse, non è possibile sostenere punti di vista differenti (Klimovsky, 1986; Meehl, 1987).

 

Un’importante conseguenza istituzionale del problema della definizione dell’oggetto d’indagine comporta che le aree di specializzazione di cui è costituita oggi la disciplina non vengano concepite come strumenti convenzionali di organizzazione accademico-professionale, ma come ambiti disciplinari resisi autonomi in ragione dei propri peculiari metodi e oggetti d’indagine (cfr. precedente esempio relativo alla psicologia scolastica). Si tratta di una di quelle che Sternberg & Grigorenko definiscono “cattive abitudini che sono luoghi comuni presso alcuni psicologi” (2003, pp. 23-24): l’esclusivo, o quasi, affidamento su una singola metodologia nella propria attività di ricerca (per esempio, la misurazione dei tempi di reazione, l’fMRI, ecc.).

Agendo in questo modo, il pericolo in cui possono facilmente cadere tali psicologi è di comportarsi come il cieco nella parabola dell’elefante: ognuno tocca una parte differente del metaforico elefante (la parte di oggetto esplorato tramite il metodo elettivo utilizzato) persuadendosi che la parte toccata costituisca l’intero animale (la Memoria, la Personalità, la Psicologia, ecc.).

E’ evidente dunque che la questione dell’unificazione sia strettamente legata ai percorsi formativi previsti dagli atenei per la costituzione della professionalità dello psicologo e alle modalità con cui essa si articola nella società; al proposito, sembra utile notare che (Sternberg & Grigorenko, 2003; Robinson, 2007):

 

1. I programmi formativi disponibili solitamente investono molto nel formare il futuro psicologo o il professionista a una singola metodologia. Avendo investito molto nella loro formazione, gli psicologi tenderanno a massimizzare questo sforzo, basando abbondantemente la loro attività professionale o di ricerca su tale metodologia.

2. Il sistema accademico tende a premiare la produttività, ovvero, spesso, l’utilizzo efficiente di metodologie già ampiamente utilizzate in quell’ambito, al prezzo di risultati non di rado poco interessanti e generativi.

3. Come già notato, gli specialisti di un ambito disciplinare spesso sono isolati dai colleghi dello stesso dipartimento appartenenti ad un altro ambito disciplinare.

Conseguentemente, la questione dell’unificazione è legata anche al rapporto esistente tra la teoria psicologica (meglio, le teorie psicologiche così come vengono elaborate dalla ricerca di base o applicata) e la pratica professionale. Questi due ambiti presentano caratteristiche differenti che necessitano di essere considerate nel rispetto delle loro peculiarità, ma anche della possibilità di dialogare armonicamente e con frutto. Da una parte, la ricerca procede tramite ipotesi che guidano l’investigazione e che vengono poi confermate o meno dall’esperienza; lo scopo di massimizzare la precisione dell’indagine viene perseguito limitando l’oggetto di studio e cercando di controllare influenze esterne che possano perturbare il rapporto tra variabili dipendenti e indipendenti. Dall’altra parte, la pratica professionale inizia e termina alle condizioni del cliente/committente. Il professionista non ha la possibilità di scegliere la questione da trattare, lo fa per lui il cliente; inoltre, la semplificazione e il controllo, fondamentali nella ricerca, non sono possibilità realizzabili nella pratica, poiché è necessario essere in grado di prendere decisioni basate su evidenze meno cogenti di quelle necessarie in un contesto di ricerca (Meehl, 1987; Peterson, 1991; Henriques & Sternberg, 2004). Laddove la conoscenza è il fine della ricerca, per la pratica professionale essa rappresenta il mezzo: teoria e pratica sono quindi qualitativamente differenti, ma profondamente interconnesse (Henriques & Sternberg, 2004). Per questo motivo è un errore deridere la pratica considerandola come un approssimativo surrogato della teoria; piuttosto, è fondamentale che la ricerca ampli i confini della conoscenza affinché il professionista possa incontrare la domanda del cliente in modo più efficace, all’interno dei vincoli che la pratica professionale necessariamente impone.

 

“La ricerca di base, la ricerca applicata e la pratica professionale sono tutte indispensabili, anche se è assurdo aspettarsi che la stessa persona possa occuparsi di tutto. […] Mi sovviene la metafora di un’onda tonale progressivamente più complessa e l’immagine di un quartetto d’archi. Quando la viola e il violoncello si uniscono ai violini, essi non smettono di suonare. Tutto si fonde in una ricca armonia. Se si sente una dissonanza, non è utile ai musicisti fracassare gli strumenti dei loro colleghi. Se il violoncellista sente la viola calare, un gentile commento al compagno è dovuto. Ma la cosa migliore che ognuno di loro possa fare è accordare il proprio strumento” (Peterson, 1991, p. 429, trad. mia).

 

 

 

 

 

                 Bibliografia

 

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