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"LA
PERSONA DELL'ANALISTA NEI PASSAGGI ISTITUZIONALI"
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di Laura Montani
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Questo
testo scritto da Laura Montani, psicoanalista di Roma, membro
ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, vuole arricchire
uno spazio di riflessione, curato dalla stessa Montani, che la
rivista di psicoanalisi Frenis Zero ha aperto sul
"femminile" alle prese con la psicoanalisi nella sua
duplice dimensione di ricerca teorica e di cura da una parte, ma
anche di istituzione dall'altra. Ringraziamo di cuore la dott.ssa
Montani per aver voluto permettere l'apertura della nostra rivista a
tale nuovo ambito di riflessione e di studio.
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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
Edizioni
"Frenis Zero"
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"Il
mio nome è una domanda e la mia libertà è nella mia propensione
alle domande"
Edmond Jabès
Il libro delle interrogazioni
La
passione dell'istituzione
Una
breve premessa di metodo: considero qui l'Istituzione come un
soggetto, dotato di un corpo, il "corpus istituzionale", formato
dalle persone che la compongono e la fanno esistere, e tuttavia dotata
di una valenza transindividuale che ne fa un apparato mitico per chi
coopera alla sua esistenza. Partirò da una considerazione assai
semplice: l'analista è un essere umano che svolge un lavoro molto
particolare, definito, nel corso del tempo, pratica dell'inconscio.
Questo lavoro venne però rubricato, da chi lo inventò, sotto il
titolo delle professioni impossibili, insieme a quella del governare e
dell'insegnare. Impossibilità che sembrerebbe per certi versi
smentita dall'esistenza storica di istituzioni che attesterebbero, al
contrario, di una sua possibilità.
Del
lavoro dell'analista, quando l'analista fa capo ad un'istituzione che
lo istituisce come tale, fanno parte anche vari passaggi che egli, 'in
persona', deve affrontare, per essere un membro della istituzione che
lo istituisce analista. Il campo che mi propongo brevemente di
indagare qui è quello che si apre tra i due termini della coppia
possibile-impossibile come il luogo semantico dove si muove la
dialettica dell'analista al lavoro 'come persona', da una parte,
e l'istituzione come soggetto dall'altra. I passaggi
istituzionali che l'analista incontra nella sua formazione, visti alla
luce di questa dialettica tra possibile e impossibile, mi daranno modo
di riflettere sul resto inconscio che tali passaggi inevitabilmente
comportano. Penso inoltre che entrambi, sia l'analista 'come persona'
che l'istituzione come 'soggetto', siano in debito l'uno con l'altro
per quanto riguarda il loro essere possibili. La possibilità di
entrambi è pensabile però soltanto all¹interno del paradosso, messo
in luce dalla svolta epistemica psicoanalitica, che ha indicato una
volta per tutte alla scienza l'impossibilità di pensare il soggetto
all'interno dell'orizzonte della ragione classica. Una seconda
considerazione, meno semplice forse della prima, è la seguente: il
mestiere dell'analista, che continua ad essere esercitato da più di
cento anni, proprio per la sua impossibilità originaria,
fatidica - ricordo qui che 'fatum' e destino sono omologabili, -
si svolge in un assetto paradossale, che
impone una torsione continua non solo al narcisismo (essendo
che tale lavoro si
esercita appunto nell'impossibilità), ma alla ragione, e rende
pertanto obsolete attrezzature metodiche come quelle che stanno alla
base dell'intersoggettivismo o del cognitivismo, organizzando il
fronte della cura all'interno stesso del paradosso. Lavorare
come analista ha comportato per me, pertanto, come per tutti quelli
che hanno scelto di svolgere questo lavoro, l'accettazione e la
sopportazione del paradosso fondamentale su cui si regge la
costruzione teorico-pratica della nostra disciplina: rendere conscio
l'inconscio. Accettare dunque di lavorare nell'impossibilità.
L'obbiettivo pratico e la sfida etica su cui si fonda il processo
della cura si articolano dunque non solo all'interno della ferita
narcisistica della propria impossibilità, ma a ridosso di un'esposizione
continua e costante ai dispositivi profondi, pulsionali, passionali,
affettivi, che fondano la tramatura
della nostra persona e quella delle persone che curiamo, in un
rimando costante a qualche cosa che
all¹interno e come da un altrove per-suona. Alla luce del
paradosso che fonda la nostra pratica, che privilegia, cerca, tallona
questo altrove all'interno del soggetto, anche la nozione di
'persona' risulta radicalmente differente rispetto a quella
delle varie formulazioni filosofiche che ne sono state date nel corso
del tempo. L'orizzonte psicoanalitico accoglie la nozione di persona
per decostruirla, mostrandone la profonda attinenza con quello di
maschera dell'antichità. Non sostanza, dunque, ma
luogo di attraversamento del desiderio che caratterizza ma
anche attenta l'identità di ciascuno di noi. La persona
psicoanalitica si mantiene nello statuto paradossale della teoria che
la fonda. Impossibile, eppure costantemente
viva e presente come conato, tentativo, istanza[1].
L'analista sa, perché la sua pratica glielo ha insegnato, che la sua
persona stessa è un luogo continuamente attraversato da un ignoto,
tuttavia, come i suoi pazienti, non può non illudersi che essa non sia
reale. E inoltre la sua persona è tutto quel che possiede e può
mettere in gioco per giocare la partita della cura. Infatti si dice
per esempio: "ci e' andato di persona", per significare una
presenza piena, totale. Ma, per il pensiero psicoanalitico, questa
presenza ha la stessa valenza dell'essere
"hunted"[2].
Questa
condizione della cura e della persona psicoanalitiche, in bilico
costante tra possibilità e impossibilità, non può non avere
ricadute passionali sulla storia e sul processo di formazione dell'analista.
Le esplorerò dal versante della mia personale esperienza di
persona-soggetto.
Sono
un membro associato della SPI dal 1994. Da circa otto anni desidero
effettuare il passaggio a
membro ordinario. In tutti questi
anni mi sono confrontata con una costante esitazione ad effettuare
questo passaggio, esitazione e su cui mi sono a lungo interrogata e su
cui i pensieri che seguono sono una prima, appena abbozzata messa in
forma.
Non
chiamerei la mia,
resistenza, ma esitazione.
'Esitare'
ha tre sensi, almeno secondo il Devoto:
1-
Essere o mostrarsi incerto nell'affrontare circostanze
impegnative. 2 - Risolversi in un certo modo (linguaggio medico). 3 -
Vendere, smerciare. Rispetto al primo senso, il mio impegno nell'istituzione
in questi anni testimonia una volontà costante di confronto, con
"circostanze impegnative", e
tanto più dunque mi stupisce la mia esitazione a effettuare il
passaggio all'ordinariato.
Il
secondo significato, quello del linguaggio medico esitare, mi permette
di coglier meglio la
valenza di questo mio stato d'animo.
Propongo di considerare la mia esitazione come un effetto di
senso prodotto, indotto, o per dirla con Aulagnier, una sorta di
impregnazione che vado subendo nel mio rapporto con l'Istituzione o,
per rimanere nella suggestione del significato medico, l'esito di una
malattia che chiamerei 'la passione dell¹istituzione'. Per
attraversare questo passaggio l'Istituzione mi chiede un curriculum
personale molto ampio, una specie di biografia, e il racconto di una
analisi condotta autonomamente, senza supervisione. Questa richiesta
da parte dell'Istituzione non va da sé e non può non creare
risonanze plurime nella mia 'persona'. Come infatti, da analisti, non
possiamo riferirci ingenuamente alla
nozione di persona, così l'Istituzione, formata in definitiva da un
corpus di analisti, non può
riferirsi ingenuamente alla questione della scrittura. Perché lo fa?
Freud stesso
diceva della sua scrittura: <<I miei casi clinici si leggono come
romanzi>> misurandosi con il problema cruciale della non
osservabilità dei dati psicoanalitici. Mi interrogo dunque sullo
statuto passionale che produce nell'Istituzione come 'soggetto'
questo diniego e specularmente produce in me l'esitazione al
passaggio. Qual è il desiderio che sottende il diniego dell'Istituzione
che mi sollecita, se voglio attraversare il passaggio all'ordinariato,
a una operazione di diniego altrettanto forte? Una prima, parziale e
provvisoria risposta la trovo nel constatare che l'Istituzione come
soggetto (come ogni soggetto dunque) ha bisogno di rimanere nel
proprio mito personale. Questo mito riguarda l'oggettività delle
istituzioni di cura e tutto l'armamentario dei giudizi e delle
valutazioni, che, se letto con un metodo strettamente psicoanalitico,
si sgretola. Non ci rimane altro in mano allora che il modello della
famiglia istituzionale, interna ed esterna. Alla luce di questo
modello, messo ormai ampiamente in luce da tantissimi studiosi, tra
cui spiccano Kaes, Enriquez, Fornari, potremmo dunque dire che il
passaggio all'ordinariato è un momento in cui la passione dell'Istituzione
subisce, dopo la benevola e liberale assistenza dell'associatura
(rito di passaggio dove l'analista persona entra a fare parte della
famiglia analitica a tutto titolo, insomma viene accolto),
una torsione che svela il bisogno profondo del controllo sui
figli, mascherato dalla veste dell'autonomia e libertà.
"Se vuoi diventare ordinario, raccontami tutto della tua
vita"
dice l'Istituzione sapendo bene che è impossibile.
"Parlami
del tuo modo di lavorare - dice ancora l'Istituzione, se mi va bene
sarai ordinario".
Il
passaggio da membro associato a membro ordinario sembrerebbe essere
dunque quello su cui maggiormente si condensa una forte incertezza
statutaria da parte della
Istituzione; anche essa soggetta, come tutti i soggetti al proprio
inconscio che esita nel ripristino di un principio di autorità che
nella scienza è da Galilei in poi rigettato ed escluso.
L'Istituzione,
per uscire dalla sua astrattezza di soggetto, ha bisogno delle persone
in carne ed ossa degli analisti. Questo apre una dinamica di desiderio
tra le persone degli
analisti e l'Istituzione che assume valenze diverse nei vari
passaggi.
Per
esistere l'Istituzione non ha bisogno degli ordinari; ne ha però
molto bisogno per difendere la propria esistenza, a cui candidati e
associati hanno già ampiamente
provveduto. Diverso è dunque il patto passionale che l'istituzione
stipula con candidati e associati da quello che stipula con gli
ordinari che, nonostante il nome, sono comunque rari.
Nel
passaggio all'ordinariato l'analista e l'Istituzione sono soli, uno
di fronte all'altro, e
reciprocamente si temono: nel passaggio si gioca infatti la posta
della trasmissione, tra due soggetti attivi. I Padri si confrontano
sullo scenario della possibile paternità dei figli, che, lo sappiamo
da "Totem e Tabù", non va da sé.
Ci
si imbatte dunque in un giudizio profondamente passionale, che ha a
che fare con l'angoscia di castrazione, l'accettazione del limite e
della morte, da una parte, il desiderio di clonare identici dall'altra.
Quale è il criterio oggettivo, infatti, secondo il quale la mia vita
narrata nel curriculum, il mio modo di lavorare narrato nel racconto
di un'analisi condotta autonomamente, verranno giudicati e
considerati idonei a che io effettui questo passaggio? Temo che sia un
giudizio 'tracciato' profondamente da resti inconsci tanto più
forti quanto più esso pretende l'oggettività. Questi resti
sono, a mio avviso, il deposito calcinato delle teorie nelle
correnti di pensiero e nelle
scuole istituzionali. Lascio però in sospeso l¹interrogativo e torno
al mio esitare.
Dunque,
come dicevo, desidero effettuare il passaggio a membro
ordinario. Questa enunciazione, apparentemente
semplice e chiara, proprio per la sua chiarezza - ricordiamo
che "una candela accesa
nel buio non fa che aumentare lo spessore delle tenebre che gli stanno
intorno" interroga quel
punto
di me dove il
desiderio, attraversandomi, incrocia
due precise figure:
quella
di me come 'persona-soggetto' e quella del
'soggetto 'istituzione'.
Sulla
scorta di quanto la psicoanalisi ci ha insegnato intorno al rapporto
originario con l'istituzione originaria, la famiglia, la persona è un
luogo simbolico dove si assemblano molteplici aspetti dell'umano
rapportarsi all'istituzione, qualunque essa sia. Ne sceglierò tre: il
desiderare, il temere, lo sperare.
Ribadendo
una precisazione di metodo, vale a dire che come analista è comunque
indubbio che non posso qui rifermi con ingenuità alla mia persona, mi
proverò a raccontare quanto, come persona, mi è parso di incontrare,
a livello di esperienza di sentimento, vivendo e pensando la questione
dei passaggi istituzionali. A questo fine, per dire cosa ho
desiderato, cosa ho
sperato, e cosa temo, per dire cosa mi fa così esitare a percorrere
un'altro segmento dei passaggi istituzionali, l¹ordinariato, mi
servirò di un sogno[3].
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Un
sogno
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Nel
sogno mi trovo in una piazzetta del centro di Roma. Probabilmente in
Trastevere. E' una mattina assolata e chiara. C'é uno dei
precedenti presidenti della SPI, molti bambini tra cui spicca mio
nipote Sebastiano, di cinque anni, vestito da piccolo mago, con un
abito di raso rosso che ne fa risaltare i capelli biondi. E' un
ritrovo gioioso in un giorno di festa. Io e il bambino ci teniamo per
mano e ci troviamo ai bordi del quadro del sogno, come se stessimo per
uscire di scena.
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Desiderare,
Sperare, Temere |
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Lo
sperare, il temere sono movimenti dell'anima, come il desiderio. Ma il
desiderio è un movimento più forte, più radicale. Convoca tutte le
forze dell'essere, e come tale, travolge lo stesso timore e lo
cancella. Potremmo dire che sperare e temere
sono sottovoci del desiderio, là dove il desiderio puro ha
trovato già forme e assetti rappresentazionali. Accogliere il
desiderio e la sua forza originaria non va da sé. Come mostra il
sogno, infatti il bambino
vestito di raso rosso, biondo e splendente, sta un po' in disparte,
anzi sembra quasi che stia uscendo di scena. Il cartello del sogno è certamente caratterizzato dalla figura centrale, costituita da un
principio paterno organizzante, che tiene insieme le mie numerose
parti (rappresentate in immagine
e che il sogno indica come 'gruppo psicoanalitico'). La mia
persona, me stessa rappresentata tale e quale sono, non sono la stessa
cosa del mio desiderio, come il sogno mostra bene. "La mia
persona in stretto contatto con
il suo ES" (ci teniamo infatti per mano io e il bambino)
certamente non si oppone
al padre, partecipa all'incontro nella piazza assolata,
ma come se si
tenesse in posizione defilata. Il bambino vestito di raso rosso porta
un cappello da mago: un modo concreto di rappresentare
la valenza magica del pensiero desiderante, che non può
allinearsi con quello del padre, pur mantenendo con esso una
relazione. Dal punto di vista del puro desiderare il sogno quindi
mantiene intatti connessioni e legami, pur riservando all'individualità
un luogo privilegiato insieme alla possibilità di giocare con il
bambino interno, e volendo, uscire di scena. Dal punto di vista dello
sperare, nel sogno, pur nella non centralità della coppia formata
da me e dal bambino, le connessioni e i contatti vengono come
segnalati da fili invisibili, che sono il senso di appartenenza che
ricordo di avere provato durante
questa esperienza onirica: mi sentivo legata al gruppo dei fratelli e
al padre, ma non VINCOLATA. Questa speranza di una storia familiare
che lega ma non VINCOLA è uno dei possibili organizzatori del sogno,
come del resto credo sia un organizzatore cardine della mia attuale permanenza nell'istituzione. Non
si tratta di immaginario, si tratta di quella spinta forte alla trasformazione e al cambiamento che è attuabile
solo sulla scorta della speranza. L'immaginario è la forma
rappresentativa che in questo caso prende la speranza: allora vediamo
nel sogno una scena chiara, composta, solare: la famiglia analitica
convive nelle sue complesse componenti. Ma dal punto di vista del
temere la scena onirica può perdere le sue caratteristiche di
luce solare ed essere
vista invece come un
bassorilievo che ferma e
fissa i personaggi sulla scena in ruoli congelati, in maschere da
tragedia. C'è infatti il coro (il gruppo psicoanalitico), il
tiranno (ricordo che in greco 'turanòs' significa re, capo), la coppia
formata da me e dal bambino in rosso, la cui posizione quasi fuori
scena può stare a significare lo scontro individuale e sempre tragico
della creatività con il potere. Raccogliendo sinteticamente, per
ragioni di tempo evidenti, le suggestioni fornitemi fin qui dalla
scena del sogno per comprendere più a fondo la mia esitazione a
varcare il passaggio che porta all'ordinariato, potrei a questo punto
dire, seguendo le suggestioni lanciate da Freud in "Introduzione al
narcisismo", che l'ordinariato potrebbe corrispondere, nella
dinamica dei passaggi istituzionali, a quel momento della vicenda
umana in cui, spinto dalla pulsione di CONSERVAZIONE DELLA SPECIE, l'individuo
si trova, senza sapere perché, costretto a generare. Il che, come
sappiamo comporta la limitazione delle pulsioni dell'Io, quindi una
rinuncia forte al proprio narcisismo.
Ma
come dice Green, - e mi sembra un'osservazione preziosa, da non
dimenticare - il narcisismo gode di cattiva stampa e cattiva fama. La
genitorialità, la genitalità gli vengono contrapposti come si
contrappone il bene al male. Tutte le sue manifestazioni e le sue
componenti vitali vengono quasi sempre scotomizzate in favore di una
sua, per certi versi, lettura patologica:
raramente in psicoanalisi si parla di narcisismo di vita, che è la
parte più ricca ed interessante del pensiero di Green, privilegiando
di questo pensiero il narcisismo di morte e la figura della madre
morta di cui si fa uso corrente e abuso. Ma Green stesso conviene
e sottolinea fortemente che accanto al narcisismo di morte,
quello più esplorato dalla clinica psicoanalitica, è pensabile un
narcisismo di vita, in stretta connessione con l'Essere. Questo
narcisismo sta al fondamento
stesso della vita individuale e della creatività, al di là della
riproduzione, generazione, trasmissione. Se la conservazione della
specie umana spinge alla procreazione, così come la conservazione
della specie analisti spinge all'ordinariato, e se l'istituzione
familiare trascende l'individuo
e lo cancella, come sappiamo da Hegel prima e da Lacan, che ne sviluppa
il pensiero, poi, potremmo convenire che nel passaggio all'ordinariato
qualche cosa della persona dell'analista, della sua individualità si
perde ed egli si mette, per certi versi, al servizio dell'istituzione
perché sopravviva, correndo il rischio che le sue personali parole possano diventare parole d'ordine. Questo è,
lo confesso, il mio timore. Ma dal momento che l'Istituzione,
nonostante lo statuto di Moloch che detiene nell'immaginario
individuale e collettivo, e quindi nel suo stesso immaginario, è in
definitiva formata da 'persone',
su queste si appunta il mio desiderio e la speranza che i miei timori
possano, a contatto con l'esperienza, essere fugati. Per fare questo
dunque, o perché questo accada, non mi resta che effettuare il
passaggio.
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Per concludere |
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Sappiamo che
tra Freud e Einstein ci fu un carteggio drammatico a proposito dell'
insolubilità dell¹enigma della guerra: entrambi, lo scienziato dell¹anima e il
genio della fisica, arretravano di fronte all'orrore storico che il
secolo XX stava mettendo in scena. Tuttavia nei suoi
'Pensieri sugli anni difficili', Einstein, pur mostrandosi
sconsolatamente stupefatto rispetto al carattere degradato che tutte
le istituzioni andavano assumendo, nessuna esclusa, tuttavia non si
vietava di esprimere la speranza che, a fronte di una verità
incontrovertibile come la seguente: "La tecnologia, o scienza
applicata, ha posto l¹uomo di fronte a problemi di estrema gravità e
la sopravvivenza stessa dell'umanità dipende da una soddisfacente
soluzione di tali problemi", potessero
"... sorgere
nuove istituzioni e tradizioni sociali senza le quali i nuovi
strumenti porteranno inevitabilmente a un disastro della peggior
specie". A fronte di queste considerazioni credo che si possa
assumere, rispetto ai passaggi istituzionali e a quello dell'ordinariato
in particolare, una apertura analoga a quella del grande fisico; egli del resto non ignorava di certo
quanto e come le scoperte da lui stesso fatte potessero essere
lesive per l¹umanità, ma tuttavia ne ventilava incessantemente la
possibilità di impiego in senso opposto. L'Istituzione
psicoanalitica è depositaria di una scoperta, la psicoanalisi, che
può essere usata, proprio come quella
dell'energia atomica, pro o contro l¹umanità. I fantasmi che si
addensano infatti intorno all'uso autoritario e ritorsivo di questa
forma di sapere, esplosivo e
lesivo per la dignità della persona se usato senza giudizio, sono
molti e già Freud li denunciava
citando il famoso lamento
di un paziente:<<Croce vinco io, testa perdi tu>>, che li condensa
tutti. Ma, utilizzando un'apertura
einsteiniana, è possibile pensare che quello che, nell'ordinariato,
dal versante del TEMERE può risuonare nella parola stessa come un
mettersi al servizio del congelamento della ricerca espletando una
sorta di servizio d'ordine della dottrina, andando così a garantire
un'omeostasi che, per molti autori, è il senso
pulsionale profondo delle istituzioni soprattutto di quelle
di cura può di contro, dal versante dello SPERARE, mettere in
gioco, come mi è accaduto e mi accade, quella parte di me che nella
famiglia, nella scuola, nella formazione, ha interrogato lo status quo
di queste istituzioni, cercando di portare in quegli ambiti la spina,
- forse a volte irritativa
- della domanda: qui forse la mia
'persona', prima bambina, poi donna, poi moglie, poi madre, poi
analista , è marcata da un tema di destino. LA MIA ANALISI MI HA
INSEGNATO A RICONOSCERLO, MA NON A CONOSCERLO, mi ha insegnato ad
interrogare ciò che via via andavo riconoscendo e a non considerarlo
un patrimonio di sapere acquisito. Mi ha insegnato in definitiva che l¹enigma
della persona, come quello delle istituzioni che essa fonda e
di cui ha bisogno per esistere, non si scioglie, e che il DESIDERIO,
come la sfinge, continua a porre domande ma, a differenza di quella
del mito, non accetta risposte.
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Note: [1]
Il
lavoro di risentimatizzazione della nozione di persona dal versante
psicoanalitico, come è emerso dal recente congresso di Sorrento, è
oggi come oggi più che
mai necessario. Che vuole infatti
dire questo ritorno controverso a una nozione, quella di persona, che
viene da lontano, e ha attraversato tutta la cultura occidentale? Da
quello di persona come maschera
infatti, che incontriamo nella latinità,
via via attraverso una
significazione che, dal tomismo in poi, ne accentua sempre più il
carattere di sostanza, arriviamo alla critica spietata operata da
Locke e Hume alla sostanza e quindi alla persona. come tale. La
nozione di persona esce
profondamente trasformata dalla riflessione kantiana, dopo
la quale non é più possibile pensarla come sostanza metafisica, ma
come un'istanza
trascendentale implicita in ogni agire umano che si voglia considerare
tale. Dall'ormai famoso 'come
se' della terza Critica kantiana (dove l'essere umano è posto
come originariamente destinato all'attribuzione di senso) inizia
inoltre una svolta epistemica che articola lo scarto tra significato e
senso e attraversa tutta
la cultura contemporanea. Questa ci restituisce una nozione di
persona estremamente articolata e complessa che deve alla scoperta
freudiana la messa in questione sia della versione della persona dei 'filosofi
analitici' (Quine, Kripe, Wiggins, Nussbaum, Putnam), sia
dei 'filosofi continentali'. Infatti, i primi ritornano
rivisitandola, nel senso di una imprescindibile dignità accordatale,
alla nozione aristotelica di sostanza, ma le negano nel contempo la
sua fondamentale e autentica problematicità. I secondi, pur
riconoscendo alla soggettività, per sua struttura, un'intima
e interna alterità, tuttavia
risolvono lo scarto che attraversa il 'sé come altro' in
un'infinita possibilità di attribuzione di senso (Ricoeur, Heidegger,
Gadamer).
La scoperta
freudiana si situa là dove essa, non essendo riducibile ad
un'ermeneutica, come mostra esemplarmente il testo di Costruzione in
analisi, rimanda ad un'alterità che non può essere infinitamente
percorsa ed interpretata. Si
scontra, questa alterità,
come mostra 'L'Interpretazione dei sogni', in un 'ombelico', un
punto di chiusura, un limite, oltre il quale non ci si può spingere.
L'illusione ermeneutica o interpretante cade a ridosso di questo 'onfalos'.
[2] Come dice Emily
Dickinson: <<Per essere
abitati dai fantasmi non
c'è
bisogno di corridoi, non
c'è
bisogno di una casa, basta un Io>>.
[3] Pensieri onirici e contenuto manifesto stanno
davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due
lingue diverse. Il contenuto del sogno è dato in forma geroglifica,
scrittura di cui dobbiamo imparare a conoscere caratteri e regole
sintattiche: i segni non vanno letti secondo il loro valore di
immagini, ma secondo la loro relazione simbolica (esempio dell¹indovinello
a figure ).
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