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"LO SMEMORATO DI COLLEGNO. Storia italiana di un'identità contesa" (Einaudi) di Lisa Roscioni |
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Rassegna stampa delle recensioni .
Autore: Lisa Roscioni | |||||
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La Stampa - 26/3/2007
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Rivista Frenis Zero
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Maitres
à dispenser
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la repubblica - 4/4/2007 Lo smemorato di Collegno che stregò gli italiani Un saggio ricostruisce il primo caso di giustizia-spettacolo di Piero Citati | |||||
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Tutto cominciò a Torino, nel cimitero israelitico, alle 9.50 del 26 marzo 1926. Il custode del cimitero vide un uomo «d' aspetto miserabile» aggirarsi tra le tombe. Si guardava intorno furtivamente. Il custode lo fermò: l' uomo cercò di fuggire; e, quando fu arrestato, un grosso vaso di rame, rubato da una tomba, gli cadde dal pastrano. Disperato, esclamò in piemontese: «Monsù am ruvina». Venne portato in Questura. | ||||||
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Respirava affannosamente: parlava con fasi prive di senso; lampi di follia
gli attraversavano gli occhi. Quando salì le scale, sbatté violentemente la
testa contro il muro, come per uccidersi. Un poliziotto gli chiese il nome:
l' uomo tracciò qualche segno incomprensibile sulla carta. Non ricordava il
proprio nome. Poi aprì il pastrano e, mostrando gli abiti laceri e
stracciati, esclamò piangendo: «Sono un povero disgraziato. Vede come sono
ridotto! La guerra... la guerra! Ho perso moglie e figli, non so più dove
sono, non so più chi sono». E gridò: «Io desidero che mi si uccida». Così ha
inizio Lo smemorato di Collegno, un libro intelligente, documentatissimo e
divertentissimo, dove Lisa Roscioni ricostruisce il più famoso caso
giudiziario del secolo scorso (Einaudi, p. XXII-294, euro 26,50). Nel
pomeriggio, lo smemorato fu condotto al manicomio di Collegno: il medico
constatò una «sindrome amenziale» e uno «stato depressivo confusionale assai
accentuato». «Sul suo viso sparuto incombeva un' ombra cupa che illividiva
ancor più il suo sguardo trasognato, ma fosco». Ora lo sconosciuto invocava
la morte, domandando di essere ucciso: ora pregava di essere lasciato morire
tranquillo. Non voleva mangiare, perché temeva di venire avvelenato. Dopo
qualche mese, lo smemorato - il numero 44170 - si calmò, e a poco a poco
sembrò adattarsi alla vita monotona del manicomio. Non temeva più la morte:
i lineamenti sconvolti si distesero; ingrassò. «Aveva - scrisse il cronista
della Stampa - i capelli brizzolati di color castano chiaro, i baffi e la
barba tagliati a punta e tenuti con somma cura, il colorito roseo e gli
occhi celesti. Assomigliava a Nicola II, l' ultimo zar di Russia,
assassinato dai comunisti». Leggeva: sembrava possedere «buon gusto
letterario e pittorico» e una certa cultura classica; scrisse un diario
firmato Nullius coloris homo e un saggio su Arturo Graf, pieni di citazioni
preziose e di errori di grammatica. Aveva un lieve accento veneto. Gli
infermieri lo chiamavano «il professore». Continuava a non ricordare il
proprio nome. Nessuno sapeva che aveva detto, ad un ricoverato, di chiamarsi
Mario Bruneri: aveva dunque recuperato segretamente la memoria, sebbene più
tardi molti sospettassero che non l' avesse mai perduta. Quasi un anno dopo,
il direttore del manicomio decise di pubblicare le fotografie dello
smemorato (dello pseudo-smemorato) sulla Domenica del Corriere e L'
illustrazione del popolo, i due principali settimanali dell' epoca. Il 4
febbraio 1927 la fotografia comparve. Lo sconosciuto era ritratto di
profilo: il testo diceva: «Nulla è in condizione di dire sul proprio conto,
sul paese di origine, sulla professione. Parla correntemente l' italiano. Si
rileva persona colta e distinta dell' età apparente di anni 45». Subito
giunsero le prime lettere: circa una quarantina: ognuna delle «sventurate
mamme» di tutte le regioni d' Italia credevano di riconoscere nella
fotografia un marito, un figlio, un fratello, scomparsi di casa o nella
guerra mondiale. Lo sconosciuto scartò, una dopo l' altra, le lettere e le
fotografie. Soltanto una fotografia suscitò in lui «una vaga indeterminata
reminiscenza»: quella di Giulia Canella, una ricca signora trentenne di
Verona. Il marito, Giulio Canella, era un professore di filosofia, laureato
con una tesi su Guglielmo di Occam, che aveva fondato, insieme a padre
Agostino Gemelli, La rivista di filosofia neoscolastica. Nel novembre 1926
era scomparso, durante un violentissimo combattimento in Macedonia. Presto
lo sconosciuto confessò di essere «turbato e emozionato». «Che tortura non
poter ricordare!» *** Qualche giorno dopo, Renzo Canella, il fratello di
Giulia, chiese di incontrare lo sconosciuto nel manicomio di Collegno. Non
sappiamo precisamente come andò il confronto, tanto differiscono i documenti
e i resoconti giornalistici, che dobbiamo filtrare con ogni attenzione
(spesso senza risultato) per cercare di scoprire la verità o la possibile
verità. Qualcuno parla di «confronto molto incerto». Qualcuno di «grande
rassomiglianza fisica, di atteggiamento, di espressione fisionomica e
mimica, di modo d' incedere, di manifestazione di pensieri e di sentimenti»,
come se a Torino, alla fine di febbraio del 1927, il caso si divertisse a
mostrare che la realtà è un gioco di opinioni, di immaginazioni, di
riflessi, di specchi. Giulia Canella arrivò a Collegno il 27 febbraio,
accompagnata da amici del marito. L' incontro avvenne sotto i portici di un
cortile del manicomio. A dieci passi di distanza, lo smemorato notò la
signora: si staccò dagli altri, si fermò diritto, rigido, immobile, con lo
sguardo estatico come davanti ad una visione. Poi si abbatté sopra una
panchina piangendo. Giulia Canella non parlò: arretrò di qualche passo, tirò
fuori dalla borsetta il rosario pregando con gli occhi rivolti verso il
cielo. Lui disse: «Ho troppo sofferto. Quella signora non mi è possibile
riconoscerla, perché non ricordo più nessuno di coloro che ho conosciuto da
giovane, ma appena l' ho vista, ho provato una commozione che non so
descrivere». Pochi minuti dopo, i due entrarono nell' ufficio del direttore
del manicomio. Lui aveva gli occhi bagnati di lacrime, e le posò la testa
sul grembo: lei l' accarezzò dolcemente, dicendogli (forse) «Giulio,
Giulio». La mattina del 2 marzo 1927 Giulia Canella e il marito ritrovato
partirono per Desenzano del Garda, in casa di amici, dove rimasero qualche
giorno. Probabilmente furono felici. Pochi giorni più tardi, Giulia disse a
un giornalista: «Pensi che la sera in cui ci siamo trovati soli abbiamo
parlato nove ore di seguito, di lui, di me, dei nostri bambini, senza che io
abbia detto mai "ricordi"?» Credo che Giulia Canella non abbia mai dubitato
del riconoscimento. Adottò l' uomo che il caso le aveva portato, e versò in
lui tutti i sentimenti, le inclinazioni e gli atteggiamenti dell' uomo amato
quand' era ragazza, quindici anni prima, al quale era rimasta fedele anche
nei pensieri. Lo sconosciuto era un genialissimo simulatore. Il ladro dei
cimiteri, l' uomo dalle vesti lacere, l' uomo torvo e sconvolto, tentato e
timoroso della morte, cercò con tutte le forze di diventare l' altro. All'
improvviso si era trovato di fronte un mondo che non aveva mai conosciuto:
una ricca famiglia cattolica veneta, che credeva in Dio, nella famiglia, nel
denaro, nel benessere, nella virtù, nell' amore per i figli ed i parenti.
Come l' attore, che tutte le sere cambia i ruoli e le parti e per qualche
ora diventa Amleto, Oreste o Macbeth, cercò di educare in sé l' eleganza dei
tratti, la delicatezza dei sentimenti, la fede in Dio, la quiete affettuosa
dell' animo, l' amore per la moglie e i figli. Era un' impresa terribile:
una vertigine, «un gorgo», come disse egli stesso; che richiese da lui
infinita pazienza, attenzione, costanza, e una specie di impegno doloroso,
tanto è difficile varcare le soglie del proprio io. La famiglia Canella era
sicura del riconoscimento: la sorella di Giulio disse: «Noi abbiamo una
sicurezza precisa, matematica, che il ricoverato di Collegno è il professor
Giulio Canella». E un fratello: «C' è il modo di parlare, la voce, gli
atteggiamenti: ogni sua espressione, ogni suo modo ci rivelano il nostro
fratello sparito da dieci anni». Poi il caso si divertì a consacrare il
riconoscimento. Qualche tempo dopo, Renzo Canella chiese al cognato
ritrovato se, quando abitava a Verona prima del matrimonio, aveva amato
qualcosa o qualcuno. L' uomo si strinse la fronte tra le mani, e rimase così
un quarto d' ora: poi, chinando le mani verso terra, rispose: «Un cane». E
disse chi glielo aveva regalato. Ogni particolare corrispondeva. La vicenda
suscitò un' immensa eco in Italia, come se riguardasse ciascuno. Giulio e
Giulia Canella incarnavano un mito. Lui era il Randagio, il Disperso, il
Milite Ignoto: l' uomo che ha combattuto, è stato colpito, ha perso la
memoria: vaga per undici anni attraverso le città e le campagne, coperto di
stracci; e alla fine, per caso, riesce a tornare a casa, ritrovando la
famiglia, i figli, la moglie che non ha mai cessato di amarlo. Era Ulisse:
solo che, malgrado Lotofagi e Circi e Calipso, Ulisse non aveva mai perduto
la propria memoria implacabile. *** La felicità dei coniugi Canella durò
pochissimo. Nei primi giorni di marzo, tre lettere anonime giunsero alla
Questura di Torino, alla Questura di Verona e al Vicario della diocesi di
Verona. «State attenti: la persona che si fa passare per il professor
Canella potrebbe essere il pregiudicato Mario Bruneri». Non era una beffa.
Mario Bruneri esisteva: torinese e socialista, era stato tipografo: da
giovane aveva letto, affannosamente e disordinatamente, molti libri,
lavorando alla Federazione sindacale del Libro: si era sposato; poi aveva
abbandonato la famiglia, cambiando più volte cognome. Soccorso da una
fantasia di megalomane e di mistificatore, progettò libri, piani editoriali
e pubblicitari, finché venne condannato per truffa. Si nascose. Tutti gli
riconoscevano «un' aria aristocratica e un fare signorile»; «si presentava -
qualcuno disse - come una persona molto distinta ed elegante». Nel 1925,
cadde in miseria: lui e l' amante dormivano sulle panchine dei giardini di
Torino, si nutrivano alle mense dei conventi, compivano piccoli furti nei
cimiteri. La macchina fragorosa e polverosa della giustizia italiana si mise
in moto. Per il finto Giulio Canella fu un disastro: le prove si
accumularono alle prove, i riconoscimenti ai riconoscimenti; e talvolta par
di avvertire nella grande macchina un desiderio di vendetta, come se la
verità fosse animata da una nascosta ferocia verso la menzogna. Il 7 marzo
1927, la moglie di Bruneri lo riconobbe: «E' quello lì mio marito». Il finto
Canella rispose: «Signora, io non la conosco, mia moglie è un' altra». La
donna, intimorita, non osò dargli del tu: «Eppure, mio marito è proprio
lei». «E' un errore», rispose l' uomo irritato, battendo il piede per terra:
«Io sono Giulio Canella». Poi lo riconobbero il figlio, la sorella, il
padre, i vecchi amici. Le impronte digitali e le cicatrici del finto Canella
erano quelle di Mario Bruneri. Padre Agostino Gemelli, che aveva fondato
insieme a Giulio Canella La rivista di filosofia neoscolastica, testimoniò
che lo sconosciuto non conosceva il linguaggio filosofico. Mentre il vero
Canella eseguiva con passione e competenza Bach, Beethoven e Schumann, il
vero Bruneri ignorava gli elementi della grammatica musicale. Non ricordava
il più famoso verso di Virgilio: Tytire, tu patulae recubans sub tegmine
fagi: non sapeva il greco, né chi fossero Guido Cavalcanti e Leonardo da
Vinci. Leggendo il piacevolissimo libro di Lisa Roscioni, si ha l'
impressione di ascoltare una enorme farsa, con le gag di esperti attori
comici - i testimoni, gli avvocati, i giudici, i periti, i giornalisti e, in
primo luogo, il grandioso impostore. Poi vennero le perizie: la prima,
quella del professore Alfredo Coppola, fu pubblicata in un volume di 1136
pagine; e le controperizie della difesa, e nuove contro-contro-perizie, e
contro-contro-contro perizie; mentre Bruneri venne di nuovo internato nel
manicomio. Infine, giunsero i processi: uno dopo l' altro, uno sull' altro,
negandosi e contraddicendosi a vicenda. Il primo, nel dicembre 1927, negò
che lo sconosciuto fosse Bruneri. Il secondo, nel novembre 1928, affermò che
era Bruneri. Il terzo, nell' agosto 1929, ripeté che era Bruneri. Nel marzo
1930, la Corte di Cassazione diede ragione ai Canella. L' ultimo processo,
nel marzo 1931, poi confermato dalla Cassazione, stabilì definitivamente che
il finto Canella era Mario Bruneri: il quale venne incarcerato, così da
espiare le condanne per truffa di dieci anni prima. I periti e i giudici
sostenevano che il finto smemorato era un trasformista, «capace di
abbandonare la propria personalità»: oppure un pericolosissimo essere
antisociale», o «un tipico rappresentante della classica degenerazione
psichica»: o «un incallito delinquente»; o un «audacissimo avventuriero che
era riuscito a sfruttare la fede di una famiglia per vivere come un
parassita». In quegli anni, in Italia, non si parlava d' altro: negli
uffici, nelle case, nei caffè, nei teatri, per le strade: nei giornali,
nelle case editrici, tra gli avvocati, nei tribunali, nelle questure, nelle
università, nei manicomi, nelle fabbriche; tra i ministri di Mussolini e
persino al Vaticano, preoccupando L' osservatore romano e due pontefici. Gli
italiani si appassionavano, discutevano, litigavano, si insultavano, si
sfidavano, si provocavano, secondo fossero «bruneristi» o «canellisti». Così
affrontavano i supremi Principi: cosa è l' «io», cosa è la «verità, la
«simulazione» o la «famiglia». Sopra tutti i discorsi planava l' ombra
ispiratrice di Luigi Pirandello, il quale scrisse durante il 1929 un dramma,
Come tu mi vuoi, alludendo al caso Bruneri-Canella. Poi il caso varcò l'
oceano, raggiunse Hollywood e la Metro Goldwin Mayer, Greta Garbo e Eric von
Stroheim, che recitarono insieme, nel 1932, As you desire me, «libero
adattamento» del dramma di Pirandello. *** Giulia Canella era sempre
convinta, con una tenacia che travolse in lei qualsiasi dubbio, che l' uomo
sospettato di essere un volgare truffatore e mistificatore fosse Giulio
Canella, che aveva amato da giovanissima. Insisteva: «Non sono un'
esaltata». Era incinta. Qualche volta, veniva insultata per strada. Quando,
nel novembre 1928, la sua levatrice si presentò allo stato civile di Verona
per denunziare la nascita di Elisa Canella, «figlia della signora Giulia e
del professor Giulio Canella», il funzionario rifiutò di accettare la
dichiarazione. Il giorno dopo Giulia pubblicò una lettera su un giornale:
«Proclamo col più grande orgoglio,... che io ho oggi offerto. .. una nuova
figlia, una figlia del dolore, una figlia del martirio, una figlia di una
madre provata nelle forme più crudeli da una serie di sventure sempre
sopportate con cristiana rassegnazione; di una madre che durante dodici anni
visse e si mantenne fedele allo sposo lontano, con la speranza in cuore che
il padre dei suoi figli sarebbe nuovamente comparso; visse conservandosi
pura persino col pensiero per lo sposo che Dio le aveva dato e che ora
ritornò tra le sue braccia perfettamente, integralmente a lei, in carne ed
ossa». Giulia Canella non poteva che scrivere così, con questa appassionata
e devota retorica. Chiuso prima in manicomio e poi in carcere, Mario Bruneri
riprese la sua lenta opera di autocostruzione: mutò calligrafia, adottando
quella del suo doppio: trasformò i sentimenti, scrisse «versi di squisita
fattura» - così assicurava la forse incompetente famiglia Canella - «con una
soavità d' accenti che tocca il cuore». Nel novembre 1928, in un periodo di
libertà, pubblicò un libro di settecento pagine col nome di Giulio Canella:
Alla ricerca di me stesso, Autodifesa. Il libro è assai meno goffo e gremito
di errori di quanto asserirono i periti del tribunale: racconta la ricerca
di sé stesso che egli aveva compiuto nell' agosto 1928 attraverso le
campagne del Veneto. Dappertutto appare la figura di un uomo magro,
affamato, con una barba incolta e laceri abiti militari, che nel 1922 o 1924
o 1925, veniva accolto nelle case di campagna, e rifocillato con un pezzo di
carne, o di polenta, o una tazza di latte. Era Giulio Canella: il Randagio,
l' eterno Randagio, che cercava invano la casa e la famiglia. «E' tanto
tempo - diceva ai contadini - che cerco e non trovo la mia famiglia. Non so
nulla. Non sono nulla». Col passato ritrovato, certo del suo falso passato e
della sua finta memoria, Mario Bruneri scriveva dal carcere a Giulia Canella:
«Mia amatissima,... sono certo che il Signore, al quale eleverai
fervidissime preghiere, mi avrà esaudito, dando pace al tuo animo
esulcerato... Con l' aiuto di Dio, e con uno sforzo supremo della mia
volontà, mi sono imposto un dovere: sollevare l' animo mio al di sopra dell'
umano nostro dolore. Questo dovere lo chiedo anche a te: per il nostro
affetto per i nostri figli, per la creatura che porti nel tuo puro seno».
Era la stessa lettera che avrebbe potuto scrivere il devoto professor Giulio
Canella, filosofo cattolico e amante di Schumann. Dopo anni di astuzia
sottilissima e di tremenda tensione, Mario Bruneri era diventato
completamente l' altro. Nei primi di marzo del 1933, Mario Bruneri fu
liberato dal carcere, per festeggiare la nascita di una nipote di Vittorio
Emanuele III. Ritornò a Verona. Trovò la famiglia Canella quasi in miseria.
Molti amici l' avevano abbandonata. Giulia viveva «nella colpa». Nell'
autunno, decisero di trasferirsi con i sei figli in Brasile, dove il padre
di Giulia aveva posseduto piantagioni di caffè. Il 19 ottobre 1933 si
imbarcarono, a Genova, nella seconda classe del Conte Biancamano. Mario
Bruneri era «alto, quadrato, vestito irreprensibilmente di scuro, la
capigliatura bianca tagliata all' Umberto, la barba folta, il volto chiaro,
gli occhi celesti, in un atteggiamento di assoluta compostezza, con un'
espressione quasi ieratica». Guardò la folla sulla banchina. Una parte della
folla lo guardò. Chi avrebbe potuto riconoscere in lui lo sventurato che
dormiva sulle panchine e rubava vasi nei cimiteri? In Brasile Mario Bruneri
continuò a sostenere la sua «vera identità», soccorso da nuove perizie. Come
avrebbe fatto il professor Giulio Canella, scrisse articoli «d' indole
sociale e filosofica», e il 15 maggio 1936 tenne una conferenza in
portoghese dal titolo Sociologia cristiana, commemorando l' enciclica Rerum
novarum, fondamento della dottrina sociale cristiana. Aveva fatto sino in
fondo il suo dovere di filosofo cattolico. Nell' agosto del 1939, scrisse
una supplica a Pio XII. Diceva: «Santità! Giulio Canella - autore di questa
supplica - si trova in condizione di salute molto tristi... La morte non gli
fa paura, perché è preparato a comparire davanti al Giudice Supremo delle
sue azioni; ciò che egli teme, ciò che forma la sua angoscia è il pensiero
del trapasso senza aver potuto vedere, almeno, le prime luci del giorno del
trionfo della giustizia. E questa angoscia si accresce, pensando ai propri
figli, pensando alla propria sposa...» Morì due anni dopo, a cinquantacinque
anni, anche di dolore, in una cittadina climatica vicino a Rio de Janeiro.
Non so cosa pensasse, negli ultimi anni di vita. Forse aveva dimenticato la
sua lunga, meravigliosa simulazione, le innumerevoli menzogne e false
testimonianze. Aveva un solo rimpianto: quello di non esser riuscito a
diventare, davanti a tutti, l' uomo nel quale aveva cercato con tanta
passione di trasformarsi. | |||||
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