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"LO SMEMORATO DI COLLEGNO. Storia italiana di un'identità contesa" (Einaudi) di Lisa Roscioni

 

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 Rassegna stampa delle recensioni .

 

 

Autore: Lisa Roscioni
Titolo: Lo smemorato di
Collegno. Storia italiana di un'identità contesa
Edizioni: Einaudi
Pagine: XXII-294
Prezzo: 26,50 euro

 

Novità - News

 

 La Stampa - 26/3/2007

A ciascuno il suo smemorato
Agli esordi del fascismo due partiti si affrontano sostituendo con la cronaca la lotta politica

di Giovanni De Luna
 

 

Rivista Frenis Zero

 

Ma lo smemorato di Collegno era Bruneri o Canella? Mario Bruneri, torinese, nato nel 1886, era un ex tipografo, latitante dal 1922, inseguito da tre ordini di cattura, con moglie, un figlio, un'amante chiamata Milly, abituato a vivere di espedienti, pronto a inventarsi mille mestieri e mille nomi per la sua poco fortunata attività truffaldina. Giulio Canella, veronese, nato nel 1882, era un professore emerito di filosofia, un uomo austero, profondamente cattolico, appartenente a una famiglia facoltosa e influente, disperso in guerra sul fronte macedone nel 1916. Al posto dello smemorato di Collegno, voi avreste scelto di essere Bruneri o Canella? "Lo smemorato" scelse (ovviamente?) Canella. A condividere quella scelta ci fu, però, solo la moglie di Canella, Giulia, che - spalleggiata dai suoi familiari - lo riconobbe e lo volle come il proprio marito redivivo; di diverso avviso furono invece i magistrati che la giudicarono una squallida impostura e sentenziarono che "lo smemorato" era e restava solo il tipografo truffatore Mario Bruneri.
Questa vicenda, che giusto ottant'anni fa, proprio a partire dal 1927, spaccò l'opinione pubblica tra "canelliani" e "bruneriani", è entrata da tempo nella storia del nostro costume nazionale, sollecitando il talento narrativo e la passione investigativa di Leonardo Sciascia, ma soprattutto coinvolgendo già subito i grandi e i grandissimi del nostro teatro (Luigi Pirandello, Eduardo De Filippo) che vi ritrovarono gli elementi più intriganti di alcune delle loro opere meglio riuscite. Come tu mi vuoi andò in scena proprio nel maggio del 1930.
Tocca ora agli storici cimentarsi con quel caso giudiziario attraverso un libro, riuscitissimo, di Lisa Roscioni, Lo smemorato di Collegno. Storia italiana di un'identità contesa (in uscita da Einaudi, pp. XXII-294, e26,50). Un libro che, detto con franchezza, restituisce alla storia il primato sulla cronaca, alla consapevolezza critica del lungo periodo il primato sull'emotività scatenata dall'evento, alle ricerche sugli archivi e sui documenti il primato sulle testimonianze raccolte "a caldo". Il suo racconto si può leggere come attraversando una serie di cerchi concentrici.
Il primo, il più stretto, ripercorre e costeggia la cronaca. Lo smemorato fu arrestato nel 1926 nel cimitero di Torino mentre cercava di rubare un vaso di rame. Portato in Questura diede in smanie e fu ricoverato nel manicomio di Collegno. Dopo un anno la sua fotografia fu pubblicata sulla Domenica del Corriere e Giulia Canella vi riconobbe le fattezze del marito. Grandi emozioni, incontro tra i due coniugi, liberazione dello "smemorato". I giornali si precipitarono sul caso dell'eroe di guerra redivivo e sul lieto fine della vicenda ("Un grido, un tremito, un abbraccio, la luce!", titolò La Stampa). Pochi giorno dopo, però, si fece avanti la signora Rosa Negro che invece riconobbe nello smemorato il marito da cui era stata abbandonata qualche anno prima ("Signora io non la conosco", sibilò lo pseudo Canella nell'incontrarla).
Cominciò così una lunga vertenza giudiziaria per accertare l'identità del marito conteso tra le due donne che si concluse quattro anni dopo, nel maggio 1931, con la sentenza definitiva della Corte d'Appello di Firenze. Lo smemorato era Bruneri. Ma Giulia non si diede per vinta; per lei - e per i suoi familiari- quell'uomo restava suo marito e, anzi, nel frattempo era diventato anche padre del suo nuovo figlio. La coppia, per sottrarsi alla curiosità morbosa di un pubblico assetato di particolari piccanti o sinceramente appassionato a una storia così complicata e intrigante, emigrò in Sudamerica dove lo "smemorato" morì nel 1941.
Nel secondo cerchio incontriamo la cultura e la società dell'Italia di allora. Intorno al caso Bruneri-Canella Torino mise in campo il fior fiore della sua scienza positivista e della sua psichiatria (da Mario Carrara, genero di Lombroso e suo successore sulla cattedra di Medicina legale, a Alfredo Coppola e Ernesto Lugaro). Tutti erano "bruneriani" (sostenevano cioè che lo smemorato era Bruneri), così come gran parte dei giudici che si occuparono del caso. Ma "la fede" (quella di Giulia Canella) "contro la scienza" era uno slogan molto seducente e nei giornali e nell'opinione pubblica il partito dei "canelliani" era fortissimo. Nacque addirittura un Movimento canellista italiano con il proposito di rilanciare in modo un po' grottesco lo scontro tra gli interventisti (in questo caso i canelliani) e i neutralisti (i bruneriani) che aveva infiammato la vigilia politica della prima guerra mondiale.
Proprio la politica occupa il terzo cerchio della costruzione narrativa del libro. Oggi lo possiamo dire. Bruneri-Canella fu il surrogato di quel confronto libero e aperto che un regime totalitario non poteva permettersi; la cronaca si sostituì alla lotta politica e questo spiega l'interesse bruciante sollevato dal caso. Ma non era solo questo. Si era alla vigilia del Concordato tra il fascismo e la Santa Sede. Tutte le opposizioni erano state strangolate da tempo e restava solo lo spazio di un potenziale dissenso, quello delle organizzazioni cattoliche in concorrenza con il regime soprattutto per quanto riguardava l'educazione dei giovani. Bene, nel partito dei "bruneriani" militavano in modo fragoroso personaggi di spicco degli ambienti vaticani come padre Agostino Gemelli e il direttore dell’Osservatore Romano, Giuseppe Della Torre, entrambi antichi amici del "vero" professore Canella. Tra i "canelliani" figurava invece un gerarca del calibro di Roberto Farinacci che non esitò ad assumere la difesa anche legale della famiglia Canella, affiancandosi a un "principe del foro" come Carnelutti. Lo stesso Mussolini seguì con preoccupazione gli sviluppi della vicenda, ordinando ai giornali di non parlarne più per impedire che si potessero acuire antiche tensioni anticlericali.
C'è poi un quarto cerchio ed è quello in cui solo la bravura e la sensibilità dell'autrice poteva accompagnarci. Si tratta dell'eredità fisica ed emotiva dell'immane carneficina di quella guerra mondiale le cui ferite non erano state ancora metabolizzate. Dai campi di battaglia era rotolata una valanga di corpi caduti, dispersi, martoriati, mutilati. Troppi lutti erano rimasti sospesi nell'assenza di un corpo su cui piangere. Giulia riconobbe il marito dal corpo. Era impossibile. Una cicatrice che avrebbe dovuto segnarne le carni non c'era. Ma non importava. Un corpo esisteva; che fosse di Bruneri o di Canella, era un corpo da amare.
 

    

   

Maitres à dispenser

 

la repubblica - 4/4/2007

Lo smemorato di Collegno che stregò gli italiani
Un saggio ricostruisce il primo caso di giustizia-spettacolo

di Piero Citati
 
 

 

 

 

 

 

                 Tutto cominciò a Torino, nel cimitero israelitico, alle 9.50 del 26 marzo 1926. Il custode del cimitero vide un uomo «d' aspetto miserabile» aggirarsi tra le tombe. Si guardava intorno furtivamente. Il custode lo fermò: l' uomo cercò di fuggire; e, quando fu arrestato, un grosso vaso di rame, rubato da una tomba, gli cadde dal pastrano. Disperato, esclamò in piemontese: «Monsù am ruvina». Venne portato in Questura.
                   
 
 
 

 

 

 

 

Respirava affannosamente: parlava con fasi prive di senso; lampi di follia gli attraversavano gli occhi. Quando salì le scale, sbatté violentemente la testa contro il muro, come per uccidersi. Un poliziotto gli chiese il nome: l' uomo tracciò qualche segno incomprensibile sulla carta. Non ricordava il proprio nome. Poi aprì il pastrano e, mostrando gli abiti laceri e stracciati, esclamò piangendo: «Sono un povero disgraziato. Vede come sono ridotto! La guerra... la guerra! Ho perso moglie e figli, non so più dove sono, non so più chi sono». E gridò: «Io desidero che mi si uccida». Così ha inizio Lo smemorato di Collegno, un libro intelligente, documentatissimo e divertentissimo, dove Lisa Roscioni ricostruisce il più famoso caso giudiziario del secolo scorso (Einaudi, p. XXII-294, euro 26,50). Nel pomeriggio, lo smemorato fu condotto al manicomio di Collegno: il medico constatò una «sindrome amenziale» e uno «stato depressivo confusionale assai accentuato». «Sul suo viso sparuto incombeva un' ombra cupa che illividiva ancor più il suo sguardo trasognato, ma fosco». Ora lo sconosciuto invocava la morte, domandando di essere ucciso: ora pregava di essere lasciato morire tranquillo. Non voleva mangiare, perché temeva di venire avvelenato. Dopo qualche mese, lo smemorato - il numero 44170 - si calmò, e a poco a poco sembrò adattarsi alla vita monotona del manicomio. Non temeva più la morte: i lineamenti sconvolti si distesero; ingrassò. «Aveva - scrisse il cronista della Stampa - i capelli brizzolati di color castano chiaro, i baffi e la barba tagliati a punta e tenuti con somma cura, il colorito roseo e gli occhi celesti. Assomigliava a Nicola II, l' ultimo zar di Russia, assassinato dai comunisti». Leggeva: sembrava possedere «buon gusto letterario e pittorico» e una certa cultura classica; scrisse un diario firmato Nullius coloris homo e un saggio su Arturo Graf, pieni di citazioni preziose e di errori di grammatica. Aveva un lieve accento veneto. Gli infermieri lo chiamavano «il professore». Continuava a non ricordare il proprio nome. Nessuno sapeva che aveva detto, ad un ricoverato, di chiamarsi Mario Bruneri: aveva dunque recuperato segretamente la memoria, sebbene più tardi molti sospettassero che non l' avesse mai perduta. Quasi un anno dopo, il direttore del manicomio decise di pubblicare le fotografie dello smemorato (dello pseudo-smemorato) sulla Domenica del Corriere e L' illustrazione del popolo, i due principali settimanali dell' epoca. Il 4 febbraio 1927 la fotografia comparve. Lo sconosciuto era ritratto di profilo: il testo diceva: «Nulla è in condizione di dire sul proprio conto, sul paese di origine, sulla professione. Parla correntemente l' italiano. Si rileva persona colta e distinta dell' età apparente di anni 45». Subito giunsero le prime lettere: circa una quarantina: ognuna delle «sventurate mamme» di tutte le regioni d' Italia credevano di riconoscere nella fotografia un marito, un figlio, un fratello, scomparsi di casa o nella guerra mondiale. Lo sconosciuto scartò, una dopo l' altra, le lettere e le fotografie. Soltanto una fotografia suscitò in lui «una vaga indeterminata reminiscenza»: quella di Giulia Canella, una ricca signora trentenne di Verona. Il marito, Giulio Canella, era un professore di filosofia, laureato con una tesi su Guglielmo di Occam, che aveva fondato, insieme a padre Agostino Gemelli, La rivista di filosofia neoscolastica. Nel novembre 1926 era scomparso, durante un violentissimo combattimento in Macedonia. Presto lo sconosciuto confessò di essere «turbato e emozionato». «Che tortura non poter ricordare!» *** Qualche giorno dopo, Renzo Canella, il fratello di Giulia, chiese di incontrare lo sconosciuto nel manicomio di Collegno. Non sappiamo precisamente come andò il confronto, tanto differiscono i documenti e i resoconti giornalistici, che dobbiamo filtrare con ogni attenzione (spesso senza risultato) per cercare di scoprire la verità o la possibile verità. Qualcuno parla di «confronto molto incerto». Qualcuno di «grande rassomiglianza fisica, di atteggiamento, di espressione fisionomica e mimica, di modo d' incedere, di manifestazione di pensieri e di sentimenti», come se a Torino, alla fine di febbraio del 1927, il caso si divertisse a mostrare che la realtà è un gioco di opinioni, di immaginazioni, di riflessi, di specchi. Giulia Canella arrivò a Collegno il 27 febbraio, accompagnata da amici del marito. L' incontro avvenne sotto i portici di un cortile del manicomio. A dieci passi di distanza, lo smemorato notò la signora: si staccò dagli altri, si fermò diritto, rigido, immobile, con lo sguardo estatico come davanti ad una visione. Poi si abbatté sopra una panchina piangendo. Giulia Canella non parlò: arretrò di qualche passo, tirò fuori dalla borsetta il rosario pregando con gli occhi rivolti verso il cielo. Lui disse: «Ho troppo sofferto. Quella signora non mi è possibile riconoscerla, perché non ricordo più nessuno di coloro che ho conosciuto da giovane, ma appena l' ho vista, ho provato una commozione che non so descrivere». Pochi minuti dopo, i due entrarono nell' ufficio del direttore del manicomio. Lui aveva gli occhi bagnati di lacrime, e le posò la testa sul grembo: lei l' accarezzò dolcemente, dicendogli (forse) «Giulio, Giulio». La mattina del 2 marzo 1927 Giulia Canella e il marito ritrovato partirono per Desenzano del Garda, in casa di amici, dove rimasero qualche giorno. Probabilmente furono felici. Pochi giorni più tardi, Giulia disse a un giornalista: «Pensi che la sera in cui ci siamo trovati soli abbiamo parlato nove ore di seguito, di lui, di me, dei nostri bambini, senza che io abbia detto mai "ricordi"?» Credo che Giulia Canella non abbia mai dubitato del riconoscimento. Adottò l' uomo che il caso le aveva portato, e versò in lui tutti i sentimenti, le inclinazioni e gli atteggiamenti dell' uomo amato quand' era ragazza, quindici anni prima, al quale era rimasta fedele anche nei pensieri. Lo sconosciuto era un genialissimo simulatore. Il ladro dei cimiteri, l' uomo dalle vesti lacere, l' uomo torvo e sconvolto, tentato e timoroso della morte, cercò con tutte le forze di diventare l' altro. All' improvviso si era trovato di fronte un mondo che non aveva mai conosciuto: una ricca famiglia cattolica veneta, che credeva in Dio, nella famiglia, nel denaro, nel benessere, nella virtù, nell' amore per i figli ed i parenti. Come l' attore, che tutte le sere cambia i ruoli e le parti e per qualche ora diventa Amleto, Oreste o Macbeth, cercò di educare in sé l' eleganza dei tratti, la delicatezza dei sentimenti, la fede in Dio, la quiete affettuosa dell' animo, l' amore per la moglie e i figli. Era un' impresa terribile: una vertigine, «un gorgo», come disse egli stesso; che richiese da lui infinita pazienza, attenzione, costanza, e una specie di impegno doloroso, tanto è difficile varcare le soglie del proprio io. La famiglia Canella era sicura del riconoscimento: la sorella di Giulio disse: «Noi abbiamo una sicurezza precisa, matematica, che il ricoverato di Collegno è il professor Giulio Canella». E un fratello: «C' è il modo di parlare, la voce, gli atteggiamenti: ogni sua espressione, ogni suo modo ci rivelano il nostro fratello sparito da dieci anni». Poi il caso si divertì a consacrare il riconoscimento. Qualche tempo dopo, Renzo Canella chiese al cognato ritrovato se, quando abitava a Verona prima del matrimonio, aveva amato qualcosa o qualcuno. L' uomo si strinse la fronte tra le mani, e rimase così un quarto d' ora: poi, chinando le mani verso terra, rispose: «Un cane». E disse chi glielo aveva regalato. Ogni particolare corrispondeva. La vicenda suscitò un' immensa eco in Italia, come se riguardasse ciascuno. Giulio e Giulia Canella incarnavano un mito. Lui era il Randagio, il Disperso, il Milite Ignoto: l' uomo che ha combattuto, è stato colpito, ha perso la memoria: vaga per undici anni attraverso le città e le campagne, coperto di stracci; e alla fine, per caso, riesce a tornare a casa, ritrovando la famiglia, i figli, la moglie che non ha mai cessato di amarlo. Era Ulisse: solo che, malgrado Lotofagi e Circi e Calipso, Ulisse non aveva mai perduto la propria memoria implacabile. *** La felicità dei coniugi Canella durò pochissimo. Nei primi giorni di marzo, tre lettere anonime giunsero alla Questura di Torino, alla Questura di Verona e al Vicario della diocesi di Verona. «State attenti: la persona che si fa passare per il professor Canella potrebbe essere il pregiudicato Mario Bruneri». Non era una beffa. Mario Bruneri esisteva: torinese e socialista, era stato tipografo: da giovane aveva letto, affannosamente e disordinatamente, molti libri, lavorando alla Federazione sindacale del Libro: si era sposato; poi aveva abbandonato la famiglia, cambiando più volte cognome. Soccorso da una fantasia di megalomane e di mistificatore, progettò libri, piani editoriali e pubblicitari, finché venne condannato per truffa. Si nascose. Tutti gli riconoscevano «un' aria aristocratica e un fare signorile»; «si presentava - qualcuno disse - come una persona molto distinta ed elegante». Nel 1925, cadde in miseria: lui e l' amante dormivano sulle panchine dei giardini di Torino, si nutrivano alle mense dei conventi, compivano piccoli furti nei cimiteri. La macchina fragorosa e polverosa della giustizia italiana si mise in moto. Per il finto Giulio Canella fu un disastro: le prove si accumularono alle prove, i riconoscimenti ai riconoscimenti; e talvolta par di avvertire nella grande macchina un desiderio di vendetta, come se la verità fosse animata da una nascosta ferocia verso la menzogna. Il 7 marzo 1927, la moglie di Bruneri lo riconobbe: «E' quello lì mio marito». Il finto Canella rispose: «Signora, io non la conosco, mia moglie è un' altra». La donna, intimorita, non osò dargli del tu: «Eppure, mio marito è proprio lei». «E' un errore», rispose l' uomo irritato, battendo il piede per terra: «Io sono Giulio Canella». Poi lo riconobbero il figlio, la sorella, il padre, i vecchi amici. Le impronte digitali e le cicatrici del finto Canella erano quelle di Mario Bruneri. Padre Agostino Gemelli, che aveva fondato insieme a Giulio Canella La rivista di filosofia neoscolastica, testimoniò che lo sconosciuto non conosceva il linguaggio filosofico. Mentre il vero Canella eseguiva con passione e competenza Bach, Beethoven e Schumann, il vero Bruneri ignorava gli elementi della grammatica musicale. Non ricordava il più famoso verso di Virgilio: Tytire, tu patulae recubans sub tegmine fagi: non sapeva il greco, né chi fossero Guido Cavalcanti e Leonardo da Vinci. Leggendo il piacevolissimo libro di Lisa Roscioni, si ha l' impressione di ascoltare una enorme farsa, con le gag di esperti attori comici - i testimoni, gli avvocati, i giudici, i periti, i giornalisti e, in primo luogo, il grandioso impostore. Poi vennero le perizie: la prima, quella del professore Alfredo Coppola, fu pubblicata in un volume di 1136 pagine; e le controperizie della difesa, e nuove contro-contro-perizie, e contro-contro-contro perizie; mentre Bruneri venne di nuovo internato nel manicomio. Infine, giunsero i processi: uno dopo l' altro, uno sull' altro, negandosi e contraddicendosi a vicenda. Il primo, nel dicembre 1927, negò che lo sconosciuto fosse Bruneri. Il secondo, nel novembre 1928, affermò che era Bruneri. Il terzo, nell' agosto 1929, ripeté che era Bruneri. Nel marzo 1930, la Corte di Cassazione diede ragione ai Canella. L' ultimo processo, nel marzo 1931, poi confermato dalla Cassazione, stabilì definitivamente che il finto Canella era Mario Bruneri: il quale venne incarcerato, così da espiare le condanne per truffa di dieci anni prima. I periti e i giudici sostenevano che il finto smemorato era un trasformista, «capace di abbandonare la propria personalità»: oppure un pericolosissimo essere antisociale», o «un tipico rappresentante della classica degenerazione psichica»: o «un incallito delinquente»; o un «audacissimo avventuriero che era riuscito a sfruttare la fede di una famiglia per vivere come un parassita». In quegli anni, in Italia, non si parlava d' altro: negli uffici, nelle case, nei caffè, nei teatri, per le strade: nei giornali, nelle case editrici, tra gli avvocati, nei tribunali, nelle questure, nelle università, nei manicomi, nelle fabbriche; tra i ministri di Mussolini e persino al Vaticano, preoccupando L' osservatore romano e due pontefici. Gli italiani si appassionavano, discutevano, litigavano, si insultavano, si sfidavano, si provocavano, secondo fossero «bruneristi» o «canellisti». Così affrontavano i supremi Principi: cosa è l' «io», cosa è la «verità, la «simulazione» o la «famiglia». Sopra tutti i discorsi planava l' ombra ispiratrice di Luigi Pirandello, il quale scrisse durante il 1929 un dramma, Come tu mi vuoi, alludendo al caso Bruneri-Canella. Poi il caso varcò l' oceano, raggiunse Hollywood e la Metro Goldwin Mayer, Greta Garbo e Eric von Stroheim, che recitarono insieme, nel 1932, As you desire me, «libero adattamento» del dramma di Pirandello. *** Giulia Canella era sempre convinta, con una tenacia che travolse in lei qualsiasi dubbio, che l' uomo sospettato di essere un volgare truffatore e mistificatore fosse Giulio Canella, che aveva amato da giovanissima. Insisteva: «Non sono un' esaltata». Era incinta. Qualche volta, veniva insultata per strada. Quando, nel novembre 1928, la sua levatrice si presentò allo stato civile di Verona per denunziare la nascita di Elisa Canella, «figlia della signora Giulia e del professor Giulio Canella», il funzionario rifiutò di accettare la dichiarazione. Il giorno dopo Giulia pubblicò una lettera su un giornale: «Proclamo col più grande orgoglio,... che io ho oggi offerto. .. una nuova figlia, una figlia del dolore, una figlia del martirio, una figlia di una madre provata nelle forme più crudeli da una serie di sventure sempre sopportate con cristiana rassegnazione; di una madre che durante dodici anni visse e si mantenne fedele allo sposo lontano, con la speranza in cuore che il padre dei suoi figli sarebbe nuovamente comparso; visse conservandosi pura persino col pensiero per lo sposo che Dio le aveva dato e che ora ritornò tra le sue braccia perfettamente, integralmente a lei, in carne ed ossa». Giulia Canella non poteva che scrivere così, con questa appassionata e devota retorica. Chiuso prima in manicomio e poi in carcere, Mario Bruneri riprese la sua lenta opera di autocostruzione: mutò calligrafia, adottando quella del suo doppio: trasformò i sentimenti, scrisse «versi di squisita fattura» - così assicurava la forse incompetente famiglia Canella - «con una soavità d' accenti che tocca il cuore». Nel novembre 1928, in un periodo di libertà, pubblicò un libro di settecento pagine col nome di Giulio Canella: Alla ricerca di me stesso, Autodifesa. Il libro è assai meno goffo e gremito di errori di quanto asserirono i periti del tribunale: racconta la ricerca di sé stesso che egli aveva compiuto nell' agosto 1928 attraverso le campagne del Veneto. Dappertutto appare la figura di un uomo magro, affamato, con una barba incolta e laceri abiti militari, che nel 1922 o 1924 o 1925, veniva accolto nelle case di campagna, e rifocillato con un pezzo di carne, o di polenta, o una tazza di latte. Era Giulio Canella: il Randagio, l' eterno Randagio, che cercava invano la casa e la famiglia. «E' tanto tempo - diceva ai contadini - che cerco e non trovo la mia famiglia. Non so nulla. Non sono nulla». Col passato ritrovato, certo del suo falso passato e della sua finta memoria, Mario Bruneri scriveva dal carcere a Giulia Canella: «Mia amatissima,... sono certo che il Signore, al quale eleverai fervidissime preghiere, mi avrà esaudito, dando pace al tuo animo esulcerato... Con l' aiuto di Dio, e con uno sforzo supremo della mia volontà, mi sono imposto un dovere: sollevare l' animo mio al di sopra dell' umano nostro dolore. Questo dovere lo chiedo anche a te: per il nostro affetto per i nostri figli, per la creatura che porti nel tuo puro seno». Era la stessa lettera che avrebbe potuto scrivere il devoto professor Giulio Canella, filosofo cattolico e amante di Schumann. Dopo anni di astuzia sottilissima e di tremenda tensione, Mario Bruneri era diventato completamente l' altro. Nei primi di marzo del 1933, Mario Bruneri fu liberato dal carcere, per festeggiare la nascita di una nipote di Vittorio Emanuele III. Ritornò a Verona. Trovò la famiglia Canella quasi in miseria. Molti amici l' avevano abbandonata. Giulia viveva «nella colpa». Nell' autunno, decisero di trasferirsi con i sei figli in Brasile, dove il padre di Giulia aveva posseduto piantagioni di caffè. Il 19 ottobre 1933 si imbarcarono, a Genova, nella seconda classe del Conte Biancamano. Mario Bruneri era «alto, quadrato, vestito irreprensibilmente di scuro, la capigliatura bianca tagliata all' Umberto, la barba folta, il volto chiaro, gli occhi celesti, in un atteggiamento di assoluta compostezza, con un' espressione quasi ieratica». Guardò la folla sulla banchina. Una parte della folla lo guardò. Chi avrebbe potuto riconoscere in lui lo sventurato che dormiva sulle panchine e rubava vasi nei cimiteri? In Brasile Mario Bruneri continuò a sostenere la sua «vera identità», soccorso da nuove perizie. Come avrebbe fatto il professor Giulio Canella, scrisse articoli «d' indole sociale e filosofica», e il 15 maggio 1936 tenne una conferenza in portoghese dal titolo Sociologia cristiana, commemorando l' enciclica Rerum novarum, fondamento della dottrina sociale cristiana. Aveva fatto sino in fondo il suo dovere di filosofo cattolico. Nell' agosto del 1939, scrisse una supplica a Pio XII. Diceva: «Santità! Giulio Canella - autore di questa supplica - si trova in condizione di salute molto tristi... La morte non gli fa paura, perché è preparato a comparire davanti al Giudice Supremo delle sue azioni; ciò che egli teme, ciò che forma la sua angoscia è il pensiero del trapasso senza aver potuto vedere, almeno, le prime luci del giorno del trionfo della giustizia. E questa angoscia si accresce, pensando ai propri figli, pensando alla propria sposa...» Morì due anni dopo, a cinquantacinque anni, anche di dolore, in una cittadina climatica vicino a Rio de Janeiro. Non so cosa pensasse, negli ultimi anni di vita. Forse aveva dimenticato la sua lunga, meravigliosa simulazione, le innumerevoli menzogne e false testimonianze. Aveva un solo rimpianto: quello di non esser riuscito a diventare, davanti a tutti, l' uomo nel quale aveva cercato con tanta passione di trasformarsi.