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    "LE NUOVE FRONTIERE DEL TRANSGENERAZIONALE: GENETICA E PREDITTIVITA'"

 

di Roberto Cheloni

 

 Il presente testo è stato letto dall'autore nel corso di una conferenza tenuta il 30 maggio nella sede dell'Ateneo di Treviso.

 

 

 

 


 

 

 

 

        

Scrivevo anni or sono (più alla luce della prudenza che su cogenza del pessimismo) di essere costretto “a ‘mettere la sordina’ alla genetica” se desideravo far comprendere “ come si trasmettono le situazioni traumatiche da una generazione all’altra” (Cheloni 2004).

Non potrei validare oggi (2008) tale opinione, alla luce non tanto dei miei successivi studî, quanto delle conferme giuntemi dalla clinica dei disturbi gravi e da altre fonti (che citerò qui sotto forma di obiter dicta). Nel corso di un decennio il mio impegno si è volto nel portare a termine gli studî sulla teoria transgenerazionale, raccogliendo i disiecta membra in unità, giacché tale teoria si avvale degli apporti di paradigmi scientifici i più diversi. Gli studî antropologici e gli apporti dell’etnopsichiatria hanno mostrato efficacemente come le credenze culturali siano paragonabili al sistema immunitario, assieme ai contatti originarî, agli odori, ai suoni, ai colori (cfr. infra), vero habitat psichico dove l’apparato per pensare organizza “la propria autonomia funzionale (op. cit., p. 304); ho cercato di provare e contrario che il perpetuarsi dell’abuso , essendo ‘fonte limite’, costituisce un vertice osservativo “dal quale si può ricavare una visione onnicomprensiva della trasmissione della patologia del legame”.(Ivi, p.307)

Incapaci di modulare l’arousal (stato di eccitabilità), i bambini vittime di abuso e trascuratezza sono costretti ad attivare il sistema degli oppioidi endogeni, per cercare sedazione.

Nel corso del tempo (poiché l’abuso si ripete) il bisogno di dissociarsi dalle esperienze traumatiche porta ad uno stato di frammentazione del Sé: è questo un meccanismo di difesa fondamentale nell’uomo. Le interazioni tra l’emisfero dominante e l’emisfero cerebrale destro tendono a preservare il senso di coerenza, la consapevolezza soggettiva, propria della specie umana; la disconnessione, la frammentazione, permettono al soggetto di isolarsi dalla realtà traumatica, ma il dolore inconscio e la rabbia ad esso associata rendono l’individuo evitante più violento (potenzialmente) rispetto al bambino con attaccamento sicuro.

La reazione all’abuso, durante la crescita, favorisce l’indipendenza, a patto che il soggetto si dissocî reattivamente dai proprî bisogni e dalle dolorose esperienze di rifiuto. Allorché l’evento scatenante (e, sovra tutto, la sua ripetizione) forma una serie di ricordi, il recupero delle informazioni dipende dalla ricostruzione del contesto cerebrale attivo e presente allorché il trauma viene codificato e “stipato” in una delle molte “banche della memoria” presenti nel cervello.

Grazie alla “disconnessione”, possono coesistere serie non congruenti di ricordi, associati alle indispensabili componenti affettive; tali serie sono composte di elementi tra loro indisponibili, perché inconscî. Ciò spiega perché spesso (se non sempre) l’abuso si ripeta da una generazione alla successiva (per la rassegna di studî a tal proposito, cfr. Cheloni 2004, cit.).

La moderna tecnica di imaging dell’amigdala è in grado di testare come si costituisca e si evolva l’angoscia segnale nel PSTD (disturbo post traumatico da stress); nel luogo ove trova espressione la memoria implicita (l’agire attraverso coazioni la cui natura è inconscia) la ripetizione delle angosce traumatiche (non soltanto gli abusi, ma trascuratezza che induce intollerabili angosce di separazione) causa danni localizzabili nell’ippocampo1 . In questo habitat inconscio cresce la flora degli aspetti legati alla norma (le procedure sensomotorie esitano in quelle relazionali), che si trasmettono attraverso le generazioni sotto forma di aspettative e credenze; la memoria esplicita (o dichiarativa) può essere quindi danneggiata (la sua sede ha a che fare con i lobi temporali e, soprattutto con l’ippocampo); essa è disponibile all’Io cosciente, ma cresce sul terreno delle strutture subcorticali (amigdala, gangli di base, cervelletto).

Scriveva Bateson che l’acquisizione di abitudini patologiche (a livello sociale, ad esempio  in famiglia) stabilisce senza dubbio il contesto per la selezione di propensioni genetiche che finiscono per risultare letali (Bateson 1979).

Bessel van der Kolk (1996) si è occupato dei rapporti tra trauma e memoria nel trattamento di pazienti gravemente traumatizzati nelle fasi precoci dello sviluppo: costoro manifestano i cosiddetti “ricordi corporei”, creando nel setting analitico un “ambiente non umano” ( a dirla con Searles) in cui l’analista è vissuto come una forza inanimata che sovrintende al massiccio ingresso in seduta di ricordi di profumi, di associazioni con suoni uditi, di percezioni di immagini non altrimenti (cioè: attraverso le parole) accessibili (van der Kolk 1996).

Michael Stone, studioso del disturbo borderline, occupandosi dei pazienti vittime di incesto, nota che i soggetti possono evocare l’evento, ma non associare ad esso le parole che accompagnano il trauma: il parente abusante, benché defunto, potrebbe “sentire” e certo, propalando il segreto, il bambino-paziente potrebbe venir assassinato.

Questo procedere così comune nelle analisi dei pazienti gravi (che possono giungere in seduta immediatamente dopo essersi auto-mutilati) ci porta, a ben vedere, nel cuore del problema: cosa accade a coloro che scelgono di non curarsi e, nel corso del tempo, danno vita a nuove famiglie?

La teoria transgenerazionale si occupa degli esiti del “segreto” (anche nel semplice non detto traumatico) che transita attraverso le generazioni.

Ci si può stupire del fatto di “dipendere” dal trauma; esaminiamo ancora brevemente uno degli agiti più sconvolgenti dei pazienti con organizzazione borderline di personalità o affetti da DBP (disturbo borderline di personalità, giusta la distinzione del DSM-IV - Text Revision - 2000): quello che li spinge alle mutilazioni di parti del proprio corpo.

 

Nella loro storia è spesso presente l’abuso psichico2 ; il loro farsi del male produce rilascio di endorfine, con immediato effetto sedante; d’altra parte (paradossalmente, ma vedi supra) il corpo torturato può fare emergere un senso del più coerente (Cheloni 2002).

Tale meccanismo dissociativo non solo segrega il dolore, ma ne dà una motivazione ( nei casi in cui il ricordo del trauma sia rievocato): la specializzazione emisferica assicura che di tanta crudeltà <<una ragione deve pur esserci>> (Gazzaniga e Le Doux parlavano di un “ostinato bisogno” dell’emisfero sinistro di dar conto di azioni <<tratte da ognuno della moltitudine di sistemi mentali che in noi dimorano>>).

Dunque, il trauma “persiste”; in qualche modo l’'arousal' resta immodificato ed i ricordi vengono “depositati” durante i tempi in cui lo stato di eccitabilità generale è al suo apice. Quando Freud parlava di “dispendio energetico” allora forse diceva qualcosa che non è oggi “superato” dal progresso delle neuroscienze: l’esposizione al pericolo (trauma) fa reagire il sistema ormonale (asse ipotalamo – ipofisi - corticosurrenale) ed il sistema immunitario, i quali, per rispondere rapidamente, sono costretti a consumare sorte di ormoni e di neurotrasmettitori : ha dimostrato Perry che il cervello si modifica, producendo una “memoria di stato” (Perry 1999).

Per poter risultare un corrispondente della formazione della memoria (un “engramma”) qualsiasi tipo di mutamento biologico cellulare deve soddisfare un insieme di criterî, uno dei quali (il più importante, a mio avviso) è che un corrispondente non deve essere prodotto da stress (o da alcun elemento predisponente necessario ma non sufficiente per l’apprendimento) in assenza di apprendimento. L’“educazione all’abuso” (fisico e/o psichico) è uno dei fenomeni più noti della criminologia, che si occupa dei “delitti intrafamiliari” (esaustivi resoconti nel Convegno di Psichiatria forense – Treviso 24 maggio 1997); gli effetti sulla terza generazione (che ignora gli accadimenti traumatici della “generazione n-2”) sono stati da me studiati ed approfonditi negli anni (cfr. Bibliografia finale) e sembrano dar fiato –come è logico dal “salto” generazionale – ad una sorta di “Lamarck revival”.

Anthony Ryle, che a fondo ha studiato il disturbo borderline, asserisce che <<in individui geneticamente predisposti ed esposti a gravi abusi, l’esperienza o l’anticipazione di queste emozioni inimmaginabili provoca la dissociazione>> (Ryle 2004, corsivi miei).

La trasmissione della predisposizione all’abuso (sia come abusanti, ma -si badi- anche come possibile vittima) ci permette di arguire che tra la memoria dichiarativa (substrato: lobi temporali e ippocampo) e quella procedurale (substrato: cervelletto e putamen) non vi è scissione, né tanto meno indipendenza; così si soddisfa il postulato della co-presenza dell’apprendimento nella fase di stress: quelle che Rita Carter chiama memorie di paura sono conservate nell’amigdala, ma possono venir trasmesse al lobo frontale, il quale recupera fatti privi di coloritura emozionale codificati nel lobo temporale (aree corticali): questi accadimenti sono conosciuti come “memoria semantica” (Carter 1998).

La Spaltung ha quindi natura bifronte: meccanismo “automatico” (inconscio) e attivazione volontaria, a seconda del “cablaggio” cerebrale (come simpaticamente si esprime Michael Stone).

L’ “apprendimento” della patologia mostra bene quanto la “base” genetica influenzi le caratteristiche fenotipiche.

Se è facile subire il fascino della metafora che vede la natura “piena di ingegno” nel guidare gli adattamenti delle varie specie, non si dimentichi che in natura la specie più adattata è spesso quella che, in quanto favorita, distruggerà la propria enclave ecologica per eccesso di sfruttamento.

Ciò risulta perspicuo nelle famiglie “rigide”, dove un certo habitus paranoide esordisce nell’impressionante psicosi conclamata soltanto dopo alcune (due) generazioni “silenti” (si veda un esempio paradigmatico nel caso da me trattato in Cheloni 2004: caso Oscar→Mario→Ménego).

Consentiamo con Eric Kandel il quale riassume icasticamente i risultati sistematizzandoli in cinque principî:

1)      I processi mentali traggono origine da operazioni del cervello

2)      le combinazioni di geni sono determinanti per il funzionamento cerebrale

3)      l’apprendimento produce mutamenti nell’espressione genica

4)      l’individualità si costituisce sul presupposto di una plasticità biologica

5)      la psicoanalisi e le teorie ambientali possono determinare modificazioni anatomiche e funzioni del cervello (Kandel 1998).

Un primo passo per noi è già compiuto; potremmo anticipare (parafrasando una recentissima scoperta sulla memoria genetica intergenerazionale su cui diremo in epilogo) la nostra tesi affermando che è possibile “passare” alla successiva generazione un’accresciuta tendenza a mutare: una “flessibilità” genetica .

Un “avviso” che la generazione esposta alla patologia “intima” alla generazione successiva (L’ordine della generazione): qualcuno pagherà, certo, ma affinché gli altri si salvino.

L’eco di Lamarck si fa ormai chiara: <<Ciò che è stato acquisito nell’organizzazione degli individui nel corso della loro esistenza va conservato e trasmesso alla discendenza>> (è la c.d. “quarta legge” di Lamarck).

Il richiamo a Lamarck – per altro – solleva una serie di aporie alle quali è opportuno accennare.

Un’ereditarietà senza selezione porterebbe all’esaustione della “flessibilità” somatica; per tacitare Lamarck, si è fatto (da tempo) ricorso ad una particolare argomentazione: un’ereditarietà dei caratteri acquisiti comporterebbe la cancellazione della libertà di modificare il corpo dell’individuo (quale risposta alle richieste dell’ambiente od al consolidarsi dell’abitudine). In altri termini: se l’ereditarietà lamarckiana fosse la regola , il procedere dell’evoluzione verrebbe coartato dalla rigidità del deterioramento genetico. Ancora: l’ambiente e l’esperienza hanno la capacità di indurre un cambiamento somatico, ma non sono in grado d’ influire sui geni dell’individuo .

Modificazione del corpo, mutamento somatico

Sono applicabili tali perni dell’argomentazione ai fini della “tenuta” di una teoria transgenerazionale o intergenerazionale della patologia psichica?

Dovemmo richiamare la questione centrale dell’effetto dell’ambiente attraverso le generazioni.

Per una definizione di ambiente psichico ci permettiamo così di rimandare al nostro lavoro  (Cheloni 2006).

Si tenga a mente un altro paradosso delle scienze psichiatriche: non soltanto la disconnessione (cfr. supra) gioca in favore della sopravvivenza, ma anche l’assunzione di una patologia. Ciò che Freud denomina tornaconto secondario della malattia, spesso consiste nel ricreare l’ambiente patogeno da cui proviene. Ambiente è anche “l’involucro identitario fatto di contatti primarî, di suoni, di colori, i luoghi ed odori” (cfr. Cheloni 2006 e Cheloni 2007).

La LTM (memoria a lungo termine) implica un mutamento duraturo nella biologia cellulare del cervello; questione tutta empirica quella che riguarda il cambiamento stabile nella biochimica globale di una regione particolare.

Mi permetto di rinviare all’uopo al mio: "Lateralità emisferica e correlati psicopatologici" (Cheloni 2000). Fatto sta che trasmissione e LTM costituiscono un punto di partenza insostituibile, specialmente se si vuol sfuggire allo spietato atto d’accusa che Jean Brun formula nei confronti dell’evoluzionismo:

<<Il est, en effet, tout à fait remarquable de constater que toutes les théories évolutionnistes se prolongent dans des messianismes du progrès où les généalogies de l’espace humain s’achévent dans une sotériologie qui fait de l’homme le seul être capable de prendre sa destinée en mains (...) l’évolutionisme posséde toutes les dimensions d’un mysticisme de l’initiation et d’un gnosticisme politique exprimant le désir de l’homme de transformer e malheur de la conscience en victoire sur le temps >>(Brun 1994, corsivo mio).

Non si presuma a questo punto che sia soltanto la Filosofia ad etichettare come “misticismo dell’iniziazione” o a comparare (come fa lo stesso Brun) genetica e chiromanzia (Brun, op. cit.,p. 41: << (…) l’evolutionisme lit dans la main le passé de l’espèce pour prévoir le futur, la chiromancie lit dans la main le passé de l’individu pour prédire son avenir>> ( op. cit., p. 41):

Eva Jablonka e Marion J. Lamb, due biologhe la cui teoria ha prodotto in genetica quella che è stata etichettata come la “rivoluzione di questo inizio di secolo”, così si sono recentemente espresse:

<<Pochi genetisti professionisti (quanto meno nei loro momenti di maggior lucidità) credono (…) in un’astrologia genetica (…) nonostante gli strombazzamenti dei media sull’isolamento del gene relativo all’omosessualità,alla timidezza, all’avventurosità, alla religiosità o a qualche altro tratto mentale o spirituale. I genetisti sono, di solito, molto più cauti sul conto del loro lavoro>> (Jablonka & Lamb, 2005)

Nel novero delle cosiddette patologie “genetiche” per il 98% dei casi la presenza (o l’assenza) della patologia ed il suo carattere di “severità” sono influenzati non solo dalla qualità dei geni, ma anche dalle condizioni in cui l’individuo si trova a vivere; non è quindi possibile generalizzare appiattendosi sulle patologie monogenetiche semplici (che costituiscono il 2%!) come l’anemia falciforme, in cui l’individuo portatore dei geni difettosi palesa sempre i sintomi della patologia, a prescindere dalle proprie condizioni di vita o dal suo restante patrimonio genetico.

Passa ai mass-media perciò la fola per cui i geni determinerebbero in maniera discreta e diretta l’aspetto e il comportamento di un individuo (cfr. Jablonka e Lamb, op. cit., soprattutto nella Parte prima).

Attualmente (2008) nessun ricercatore sostiene la tesi che l’ereditarietà dipenda esclusivamente dal DNA; è ormai incontestabile che l’informazione venga trasferita da molteplici sistemi ereditarî tra loro in interazione.

Ancora un esempio che riguarda un violento disturbo dell’epigenesi (le cellule, nell’epigenesi, trasmettono alla progenie le informazioni acquisite tramite E.I.S. – epigenetic inheritance systems ): vennero sperimentalmente prodotte fenocopie degli effetti  indotti sulla Drosophila (il moscerino della frutta) da un gene, il Bithorax. L’effetto consisteva in una mutazione delle ali rudimentali dal terzo segmento: rivedeva la luce una morfologia arcaica (un moscerino a quattro ali) ora inibita.

Orbene, il medesimo effetto fu ottenuto intossicando le pupe con etere etilico. Alla schiusa, i moscerini adulti palesavano l’aspetto bithorax; dopo circa trenta generazioni la forma bithorax si presentava nel gruppo di controllo non trattato.

Da un articolo su “Nature” del 1942 (“Canalization of Development and the Inheritance of Acquired Characters") in poi, Conrad Waddington ha dimostrato che i caratteri acquisiti possono svolgere un’influenza massiccia sul percorso evolutivo (è il concetto di “assimilazione genetica” “genetic assimilation of an acquired character”).

Nel campo della patologia psichica ipotizziamo un “avviso” (un ordine) che la generazione n -1 riceve dalla generazione stressata/traumatizzata n-2.

La “flessibilità” che passa alla generazione n (la terza) è però corrispondente ad un’accresciuta tendenza a mutare: ciò che non venne detto (l’ indicibile) dalla generazione n-2 alla n-1 (per farla “sopravvivere”) non può essere “immaginato”, ma fantasticato (l’inimmaginabile). Giunti alla generazione n, l’effetto patologico esordisce come agito e non pensato (l’impensabile); la patologia grave fa qui irruzione sotto forma di un rapporto alterato con l’ Umwelt.

Laddove l’azione (ossia; lo scaricarsi, immediato, dell’impensato nel mondo) ha sostituito la riflessione consequenziale, capace di esordire da premesse vere (non è il caso del disturbo persecutorio, dove la concatenazione logica esordisce dall’impensato) il danno si produce al momento in cui è la sola memoria implicita ad essere attiva (mentre ad esempio, in seguito alla ripetizione dell’angoscia di separazione, il danno diviene visibile nell’ippocampo).

La memoria implicita non ha accesso alla coscienza soltanto mercé procedure senso-motorie; essa si esprime sovra tutto nella corrispondenza alle aspettative dell’altro, attraverso procedure cioè di tipo relazionale. Nella psicosi essa si scarica nell’azione; la pratica clinica ci ha mostrato che persino i contenuti onirici, rimasi silenti nella generazione n-1, possono essere agiti nella generazione n.

Gli studiosi americani di criminologia hanno spesso annotato, dall’anamnesi degli psicopatici e dei serial killer, quanto andiamo sostenendo, senza tuttavia riuscire a collocarlo in una compiuta teoria. Vorrei dunque prescegliere un caso estremo, altamente indicativo: Jeffrey Dahmer, il quale fu riconosciuto colpevole di orribili omicidî. La giuria di Milwaukee respinse la tesi dell’infermità psichica, condannandolo a quindici ergastoli (Dahmer venne picchiato a morte nel bagno del carcere il 28 novembre 1994). Nei colloqui psichiatrici l’imputato aveva collocato nel tempo le sue fantasie omicide: l’esordio era stato caratterizzato da un onanismo compulsivo (a 14 anni) supportato in seguito dalle fantasie di squartare la vittima delle sue fantasie, per porne allo scoperto i visceri. Come avviene per le fantasie perverse non omicide, Dahmer lottò contro i proprî impulsi: al primo omicidio rato e poi consumato fece seguito un intervallo di sette anni, durante i quali l’imputato si astenne dal passaggio all’atto omicida (per una disamina degli atti processuali, cfr. Schwartz, 1992).

Vi è un motivo della nostra insistenza sulle fantasie di Dahmer e sui resoconti dell’indagine criminologica desunta dagli interrogatorî di garanzia3.  Dagli atti processuali emerse che, dopo aver portato a termine atti sessuali con le vittime, Dahmer infieriva sui cadaveri, per poi smembrarli, frantumare (con una mazza) loro le ossa; faceva bollire le teste, per ricavarne teschi, che poi dipingeva.

Si cibava saltuariamente dei loro organi (bicipiti od organi interni); ma i desiderî del “mostro di Milwaukee” erano primitivi: voleva accanto a sé un corpo maschile caldo, desiderava sentire i rumori che provenivano dal corpo, il battito del suo cuore, il suo calore. Dopo l’omicidio il cannibalismo acquistava una coloritura rituale: avrebbe tratto forza dal divorare le loro carni (il cuore, il bicipite) e le vittime sarebbero vissute attraverso di lui; veri schiavi sessuali, come gli “zombies” dei film ‘anni quaranta’; la natura pseudo scientifica dei suoi esperimenti sulle vittime  deve far riflettere: quando erano ancora vive , con un piccolo trapano praticava lobotomie frontali, iniettando acido muriatico, che provocava convulsioni ed esitava nel decesso.

Quando Dahmer fu ucciso a botte dai suoi compagni nei bagni del penitenziario, qualcosa “scattò” nella psiche di suo padre, Lionel Dahmer (Dahmer 1994). Nella sua biografia, “Storia di un padre”, ci offre una ragionevole illustrazione del nostro assunto; narrando dei particolari sulla prima vittima di suo figlio, la cui uccisione Jeffrey aveva totalmente forcluso dalla sua mente, scrive:

<<Si era svegliato come a volte mi succedeva quand’ero io ragazzo:con la terribile certezza di aver commesso un omicidio. L’unica differenza era che Jeff l’aveva fatto per davvero aveva compiuto ciò che io avevo soltanto temuto di poter fare. Se io mi svegliavo in preda all’angoscia, il panico si dissolveva al mio completo risveglio. Jeffrey, invece, si era svegliato nel bel mezzo di un incubo che non sarebbe terminato mai>>. (Dahmer L., op. cit.)

Anni or sono parlavo dello “shining”, come avevo battezzato quella “accensione” tipica delle psicosi maniaco-depressive (Cheloni 1995); il viraggio che conduce dalla depressione all’eccitabilità, la sensazione che interviene dopo il passaggio all’atto, gli esiti (spesso letali) della fase maniacale, portano ad un’accelerazione del ciclo non soltanto peculiare della rabbia maniacale (tipica del disturbo bipolare);  si tratta di un fenomeno pressoché ubiquitario nella genesi e nell’ideazione degli omicidi seriali. La storia di Lionel Dahmer offre un’indicazione preziosa: gli impulsi omicidî non agiti del padre del “mostro del Milwaukee” furono senz’altro generati dal dispiegarsi degli effetti dell’interazione tra Lionel ed i nonni di Jeffrey.

Di padre in figlio non viene tramandato alcun “meme” ( a dirla con il linguaggio di Dawkin nel ‘Gene egoista’ - 1976) relativo all’impulso omicida, che nasce in Jeffrey, come si evince dalla ricostruzione del processo, dall’incapacità del giovane di porsi in relazione con le persone che addormentava aggiungendo sonnifero al “Bacardi-Cola”: quando dormivano, Dahmer ascoltava i rumori del loro corpo; egli desiderava stare abbracciato col partner per molte ore, durante le quali i due si sarebbero masturbati.

Ma i partners non erano acquiescenti: così l’eccitazione rabbiosa di Jeffrey toccava il suo limite ed egli uccideva.   Riguardo alla trasmissionediretta” è stato autorevolmente scritto in relazione alla sindrome di evitamento  grave:

<<Esiste una forma di grave malattia mentale per cui, tra le altre cose, le madri che ne sono affette non toccano i loro bebè. Questa privazione precoce ha a lungo termine effetti devastanti sui bambini che, una volta adulti, evidenziano la stessa psicopatologia (…). Tale comportamento si trasmette, così, di generazione in generazione lungo la linea di discendenza femminile (…) non può venire isolato come un “meme” trasmesso in maniera autonoma, bensì fa parte di un sistema psicofisiologico di interazioni >>(Jablonka- Lamb, op. cit., p.261 della tr. it.)

La teoria transgenerazionale (della quale ho offerto una puntuale esposizione in Cheloni 2004, cit. e –prima ancora- in Cheloni 2002), come si sarà compreso, si colloca sulla linea di una novellata teoria lamarckiana: vi sono sistemi evoluti interni che generano tentativi “intelligenti” di mutazione, il cui fine (si ponga attenzione) nell’uomo non è la “sopravvivenza” del miglior fenotipo, ma la stabilità.

L’eredità che per comodità denominiamo “comportamento”, comprende nell’uomo la trasmissione degli effetti (decisivi) delle cure parentali. Le quattro “tipologie” di eredità troveranno forse un giorno un quadro unificante in cui comporsi, ma si è sostenuto che la pluralità dei paradigmi sia preferibile alla creazione di un modello formale.

E’ arduo (e paradossale) cercare un vantaggio per l’individuo (psicologia evoluzionista) od individuare nel beneficiario l’attività culturale o le entità (memetismo).

Gli interrogativi che si pone oggi un “ lamarckiano “ sono altri: quali sono i meccanismi generatori? In quale modo si sviluppano? In quali circostanze ed a che punto?4

Le “predizioni” di Lodish apparse su “Science”nel 1995, per cui la sequenza del D.N.A. si estenderà a coprire geni “Rilevanti per caratteri quali la parola” e le “doti musicali”, la madre potrà sentir “parlare o cantare l’embrione” come se fosse già una persona adulta, sono appunto pronostici tipici della concezione popolare della genetica. C’è piuttosto da chiedersi se il lamarckismo, di cui sosteniamo l’evidenza per la trasmissione nelle patologie psichiatriche, abbia trovato (nella sua rinnovata formulazione teorica) anche conferme negli organi vegetali, quali ad esempio l’Arabidopsis Thaliana, equivalente botanico della Drosophila (cfr.supra); nel 2002 tre ricercatori si occuparono su “Nature” della riduzione dell' Hsp90 in questo vegetale (Queitsch C. – Sangster T.A. – Lindquist S. 2002).

Non è questa tuttavia, la scoperta che conforta la nostra teoria; espliciteremo quanto promesso in esordio (cfr. supra) circa la trasmissione alla discendenza di quanto acquisito (la c.d. “flessibilità genetica”): alcuni ricercatori guidati da Barbara Hohn (Jean Molinier, Gerard Ries, Cyril Zipfel) lavorando nel laboratorio di Biologia presso il Friedrich Miescher Institut di Basilea, sulla base della scoperta attribuibile a Barbara McClintoc (‘anni cinquanta’ del xx secolo) dopo aver infettato l’Arabidipsis Thaliana ed aver assistito alla sostituzione di frammenti del D.N.A. in certuni geni delle cellule somatiche, si trovarono di fronte ad un evento formidabile, prodottosi nelle generazioni successive: la capacità di resistere ad infezioni o all’impatto di radiazioni erano peculiari delle piante-figlie (le quali avevano per di più ereditato la “ricombinazione omologa” -Barbara McClintock).  Il vero stupore, per i ricercatori dell’Istituto di Biomedicina, fu appurare che le mutazioni nelle piante-figlie avevano luogo nonostante esse fossero nate da gameti (i “semi”, cellule non somatiche) nei quali quei particolari geni non erano mutati!

L’effetto epigenetico persisteva attraverso le generazioni: <<increased tendency to mutate is handed down to newt generation>> (Hohn e Coll. 2006). Ciò si verificava anche qualora la seconda e la terza generazione non fossero infettate o irradiate: la quarta generazione era in grado di resistere allo stress.

Al di là di un’opinabile conclusione circa la “validità” della c.d. “quarta legge” di Lamarck, ciò che emerge in conclusione è l’impossibilità di negare che le variazioni epigenetiche (e per noi anche simbolico-culturali) non siano tramandabili; vieppiù sostenibile appare la affermazione della non casualità di molteplici differenze epigenetiche .

Anche sorvolando sul complesso “meccanismo” di trasmissione alla terza generazione della patologia psichica, per il quale rimando ai miei studî sul transgenerazionale (in Bibliografia), nessuno è oggidì (2008) in grado di negare che il mutamento trasmissibile5  sia la conseguenza di processi di istruzione durante lo sviluppo e di incidenti; la mutazione non ha da attendere le variazioni genetiche, poiché la regola è che le prime a manifestarsi siano le modificazioni del fenotipo (per le mie ricerche sul mancinismo rimando nuovamente a Cheloni, 2000). D’altronde le epimutazioni ed il percorso verso l’assimilazione genetica di tratti comportamentali è visibile sotto i nostri occhi di “amici” degli animali: è il percorso evolutivo che ha portato alla sopravvivenza di quei lupi che imparavano a comportarsi “da cani domestici” vivendo a contatto con l’uomo.  Il “fumus theologiae” che fa arricciare il naso ad alcuni biologi (oggi in minoranza) è dovuto alla difficoltà accettare una qualche “finalità” all’interno delle variazioni insorte. La storia della biochimica appalesa un’uguale diffidenza ad essa rivolta quando tale disciplina intervenne in campo scientifico per integrare i meri principî della meccanica attraverso i quali, in tempo neppure tanto remoto, si cercava di dar notizia del “funzionamento” di un animale rivolgendosi soltanto all’assemblaggio delle parti della sua anatomia.

Nel 1920 (in "Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile", O.S.F., vol. 9, p.154) Freud dichiarava che il “metodo della esposizione lineare” risultava “scarsamente adatto” alla descrizione di livelli psichici “intricati” e che <<si svolgono a diversi livelli della psiche>>. Anche l’analisi transgenerazionale esibisce patterns accomunati (in vario grado) da imprevedibilità: la dinamica evolutiva del sistema sul quale si fonda, è rappresentata dalle traiettorie del punto rappresentativo del sistema medesimo, all’interno di uno “spazio delle fasi” caratterizzato da gradi di libertà. All’interno di tale 'enclave' si ritagliano attrattori complessi (c.d. attrattori “strani”) verso i quali si dirige la traiettoria del sistema, nel momento in cui esso diviene instabile. Jake Jacobs e Lynn  Nadel ipotizzano che quantunque i traumi precoci non possano essere resi espliciti - poiché l'ippocampo, il perno del sistema limbico, abbisogna di un lungo periodo di maturazione -, tuttavia essi rivestono una duratura e dannosa influenza sulla vita mentale (vi sarebbe un “sistema” formatore dei ricordi inconsci degli eventi traumatici [ Jacobs &Nadel, 1985]).

A livello della generazione dell’innominabile (n-1) la trasmissione dl trauma e dell’abuso si fa (se non agita nella ripetizione) “silente”; essa però si attiva nel pensiero onirico attraverso la modalità funzionale dell’emisfero cerebrale destro (le cui prerogative sono: approccio globale, sincretico, simultaneo).

Lo “shining”nella terza generazione (cfr.supra) è la risposta incongrua ad un “ordine della generazione”; l’esordio della psicosi produce il noto effetto “ricompattante” nella famiglia, che si chiude “a riccio” per proteggere il suo membro più debole.

Tragici destini familiari si ripetono (a volte) tramite la scelta di un partner la cui patologia collude con quella dell’altro; a volte, in donne psicotiche, la storia di promiscuità sessuale, che si ripalesa attraverso le generazioni, si arresta mercé ablazione delle ovaie resa necessaria da gravi disturbi ginecologici; altre volte, ancora, i figli di un genitore affetto da disturbo paranoide di personalità, precocemente separati dalla famiglia per l’intervento del tribunale dei minori, interrompono “la linea persecutoria” che <<aveva contrassegnato storie cliniche ripercorribili (attraverso la relativa documentazione negli archivî dei reparti dove furono ricoverati) per tre generazioni>> (Cheloni, 2004; Collica, 2007).

Lo psicoanalista transgenerazionale è oggi in grado di fornire apporti decisivi alla comprensione di casi sottoposti all’esame del Tribunale di sorveglianza: l’opzione per una misura cautelare  –non restrittiva-  della libertà, ha spesso (e molto di recente) sortito esiti drammatici, laddove una consulenza tecnica di un analista transgenerazionale avrebbe potuto agilmente prevedere l'esito infausto degli agiti del detenuto , una volta scarcerato.

La paventata chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari ( una nuova “legge 180”, che aspira ad essere più devastante di quella varata nel 1978) renderà cogente il problema della predittività del degrado di talune patologie , quesito al quale, per ora, soltanto la nostra scienza è in grado di offrire una risposta convincente, nel rispetto della svolta (in materia di trattamento sanzionatorio applicabile agli infermi di mente autori di reato) attuatasi con le sentenze della Corte Costituzionale n. 253 del 2003 e n. 376 del 2004, le quali, riconoscendo al principio di colpevolezza rango costituzionale, hanno elevato a fattore decisivo (all’interno del principio medesimo) l’imputabilità, nella figura  della <<condizione dell’autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto (..) non essendovi colpevolezza senza imputabilità>>, come si esprime la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 9163 dell’8 marzo 2005 (c.d. “sentenza Raso”) con la quale si legittima il processo di estensione del concetto di infermità mentale ai disturbi della personalità.

Nella discussione del caso Oscar/Mario/Ménego (cfr. supra) evidenziai che, nonostante fosse da escludere nell’imputato il vizio totale di mente, la capacità di controllo relativa alla propria condotta era talmente scarsa da rendere assolutamente prevedibile un rischio di recidiva nel breve periodo (pur all’interno di una capacità di autodeterminarsi che la psichiatria oggi riconosce allo psicotico: la c.d. “quota di responsabilità”). Il Magistrato di Sorveglianza optò per l’applicazione della libertà vigilata, misura più “elastica” rispetto ad un’opzione segregante ed idonea a permettere la prosecuzione della cura psicoanalitica del reo (sulla visione antropologica d’insieme di questo caso paradigmatico ho ancora scritto in  "Trabanten des Todes", Cheloni, 2007).

Giudici e giuristi da tempo sono messi in guardia: occorre diffidare “delle perizie che individuano un solo tipo di disturbo” (Collica  2007, p. 181 nota); spesso l’etichetta borderline viene apposta ad imputati dalle personalità le più varie.  Il manuale diagnostico più in uso, il DSM IV-TR (ma è prossima l’uscita del DSM V), palesa la sua inapplicabilità all’eterogeneità dei soggetti presunti infermi di mente, prevedendo 151 items differenti atti a rispondere al criterio del disturbo borderline, che risulta così attribuibile a soggetti dalle personalità completamente differenti (la “rabbia” e la “violenza” non sono certo criterî sussumibili eminentemente sotto l’ampio spettro sintomatico di tale sindrome). Maria Teresa Collica auspica una progressiva centralità della psicoanalisi nel futuro della perizia psichiatrica:

                <<(..)un ruolo determinante dovrebbero avere gli orientamenti psichiatrici

                di tipo psicoanalitico e antropofenomenologico, oltre che la criminologia

               e la medicina legale>> (Collica 2007, p.196).

 

La giunzione tra il volto psicopatologico e l’aspetto normativo del giudizio di imputabilità è costituita sia dalla ricostruzione criminodinamica del fatto di reato, sia dallo studio criminogenetico. La valutazione complessiva della personalità dell’imputato permette al perito di non compromettersi su concetti intuitivi quali la “pericolosità sociale”6 .

Se è errato asserire che la tendenza a delinquere dell’infermo di mente è maggiore rispetto a quella della popolazione in genere, è tuttavia pericoloso ignorare che la predicibilità a breve termine offre sicurezze che le statistiche 'long term' ben difficilmente possono mettere in dubbio7 . Il giudice, quale peritus peritorum, quando anche fosse in possesso di una frequenza di eventi indizianti relativi ai parametri offerti dall’art. 133 c.p.(Gravità del reato : valutazione degli effetti della pena), non disporrebbe di un parametro oggettivo atto a “misurare” il rapporto tra le frequenze di eventi riferibile ad una popolazione generale e l’imputato che gli sta innanzi. Occorrerà (ancora  M.T.Collica, op.cit , p208) <<consentire all’esperto di emettere un giudizio prognostico tenendo in considerazione, ad esempio, la suscettibilità al trattamento del sofferente psichico, o la sua situazione familiare, esistenziale, lavorativa, sociale, l’esistenza di altre condizioni aggiuntive (..)>>.

Vanno quindi coniugate la necessità delle esigenze di cura dell’infermo di mente autore di reato con quelle del controllo della possibilità di una recidiva; di ciò rinveniamo una conferma nella sentenza 253 del 2003 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 222 c.p. (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario) nella parte in cui non consentiva al giudice di adottare una differente misura di sicurezza nei riguardi del reo prosciolto per infermità mentale giudicato “socialmente pericoloso”. Il rimedio extrapenale, che interverrebbe una volta scaduta la cogenza di una risposta sanzionatoria (bilanciata rispetto alla gravità del reato commesso) non potrà –a nostro avviso- che essere affidato ad esperti clinici in grado di seguire, passo dopo passo,  le vicende dell’autore del reato. Tutto ciò senza abolire, anzi arricchendo i luoghi di cura (da scartare recisamente la possibilità della “cura” in carcere), la cui gestione, affidata ai sanitarî, sarà affiancata dalla custodia attuata dal personale dipendente dal Ministero di Grazia e Giustizia. La predittività, in campo psicopatologico, si sposa con la capacità di evitare una recidiva futura; il lavoro è lungo, ma consente di ripristinare l’ “ordine della generazione”, unica condizione per parlare di “riabilitazione”.

                                                                                                        

                                

 Note:

(1) Ricordiamo che la memoria implicita è l’unico tipo di “trattamento” degli eventi registrabili nei primi anni di vita; è il luogo di coltura della corrispondenza alle aspettative dell’altro: colui che dovrebbe prendersi cura di noi.

 (2) L’assenza di abuso fisico - come si sa –e la presenza di abuso psichico rileva ai sensi dell’art.571 c.p., ma la pena è blanda.

 (3) In Italia si tratta degli artt. 294-co1° e 294-co1° bis c .p .p..

(4) A dirla con Jablonka e Lamb: produzione, acquisizione, sviluppo e selezione delle varianti.

(5) Secondo la terminologia di Jablonka e Lamb): genetico, epigenetico, comportamentale e simbolico.

(6) Cfr. le opinioni di criminologi e penalisti quali Padovani, Petrini, Mangioni, Marinucci e Dolcini, Manna et alii.

(7) Cfr. almeno  AA.VV. " Considerazioni sulla predicibilità del comportamento violento", In “Ind. Pen.”, 1992, pp. 154-sgg..

 

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