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"IL POTERE PSICHIATRICO" di Michel Foucault

 

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 Riflessioni di Pietro Nigro

 

 




 

Novità - News

Pietro Nigro è Psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'ASL di Brindisi.
 

 

Rivista Frenis Zero

 


 

    

   

Maitres à dispenser

 


 
 

 

 

 

 

 

                

   

Le riflessioni che seguiranno, rispetto al Corso “Il potere psichiatrico”, tenuto da Michel Foucault al Collège de France, nel 1973-74, hanno lo scopo di approcciarsi al testo come ad una sorta di “scatola di utensili”. La “Storia della follia” del 1961, aveva prestato un’attenzione privilegiata a ciò che potremmo chiamare la percezione della follia, si era trattato di un’analisi delle rappresentazioni (Foucault, 1973).

Nel Corso “Il potere psichiatrico”, il punto di partenza dell’indagine non consisterà più intorno al nucleo rappresentativo che rinvia a una storia delle mentalità, del pensiero, ma interesserà il dispositivo di potere. In che misura un dispositivo di potere può essere in grado di produrre un certo numero di enunciati, di discorsi e, di conseguenza, tutte le forme di rappresentazione che possono in seguito formarsi e derivarne? Il dispositivo di potere come istanza produttrice della pratica discorsiva: in che modo una certa organizzazione e disposizione del potere, determinate tattiche e strategie di potere, possono dar luogo a un insieme di affermazioni, negazioni, esperienze, teorie, in breve, a un complesso gioco della verità?

 Il periodo storico, oggetto di studio del Corso, risulterà compreso tra l’epoca di Pinel e quella di Charcot.

Foto: Hieronymus Bosch, "La nave dei folli"(1490)

 

                 

Il potere disciplinare

 

Per iniziare, due scene psichiatriche, in cui ad essere analizzata sarà la trama di potere prima delle organizzazioni istituzionali o dei discorsi di verità.

Scena fondatrice della psichiatria: Pinel che a Bicêtre libera i pazzi furiosi dalle catene.

Scena della guarigione del re Giorgio III: rappresenta la pratica psichiatrica in quanto manipolazione regolata e concertata dei rapporti di potere.

La scena del re Giorgio III è rivelatrice di ciò che viene messo in gioco nella pratica proto-psichiatrica, vale a dire quella che si sviluppa all’incirca tra gli ultimi anni del XVIII secolo e i primi venti o trenta del XIX, prima dell’apparizione del grande edificio istituzionale costituito dal manicomio e che in Francia possiamo collocare nel corso del decennio 1830-40.

Potere disciplinare e potere di sovranità. La proposizione “tu non sei re”, si colloca nel cuore della proto-psichiatria. Il folle è colui che “ si crede al di sopra di tutti gli altri” (Fodéré, 1817).

Per Descartes e sino alla fine del XVIII secolo, la follia era considerata come errore: “prendersi per un re”, “credere di avere un corpo di vetro”, si trattava di due tipi di errore che contraddicevano la sensazione. Con la proto-psichiatria degli inizi dell’Ottocento, ogni follia è una sorta di credenza radicata nel fatto di essere il re del mondo: nel voler imporre come certezza qualsiasi credenza. Per Georget, nel 1820, il problema principale della psichiatria consisteva nel “come riuscire a dissuadere chi si crede re?”.

La scena della liberazione dei folli per opera di Pinel non è propriamente ispirata a principi di carattere umanitario; essa rappresenta il passaggio da un tipo di potere di sovranità, in cui la violenza della costrizione si esercitava sulla violenza selvaggia del corpo, ad un rapporto di assoggettamento, che è essenzialmente un rapporto di disciplina.

Nella scena della guarigione del re Giorgio III, ciò che si manifestava in una simile circonvenzione della follia, ben prima di ogni istituzione, ma anche al di fuori di ogni discorso di verità, era dunque un certo tipo di potere: il “potere di disciplina”.

Il potere disciplinare, a differenza del potere sovrano che interviene di tanto in tanto in modo violento, potrà intervenire ininterrottamente, sin dal primo istante, già dal primo gesto, a partire dal primo accenno. Mentre il rovescio del rapporto di sovranità era la guerra, il rovescio del rapporto disciplinare è la punizione: una pressione punitiva continua.

Si comincia a delineare una pressione continua del potere disciplinare che verte non tanto sull’errore, sulla colpa o sul danno, bensì sulla potenzialità del comportamento. Il potere disciplinare ha carattere panottico: vedere tutto, ininterrottamente.                                              

Per i sistemi disciplinari, che classificano, gerarchizzano, sorvegliano, ciò che ne provoca il blocco deriva dagli elementi che non possono essere classificati. In breve, a fare da ostacolo sarà il residuo, l’irriducibile, l’inclassificabile. Ogni potere disciplinare avrà i suoi margini. Quanto al malato mentale, egli rappresenta il residuo di tutti i residui; il residuo delle discipline di tipo: scolastico, militare, poliziesco. A caratterizzare il potere disciplinare è un perpetuo lavoro della norma all’interno dell’anomia. La disciplina è quella tecnica di potere in virtù della quale la funzione-soggetto arriva a sovrapporsi e ad aderire esattamente alla singolarità somatica.

La disciplina è una tattica, cioè un determinato modo di distribuire le singolarità, secondo uno schema che però non è di tipo classificatorio, ma che consiste nel distribuirle nello spazio, nel consentire accumulazioni  temporali capaci di ottenere la massima efficacia possibile.

Le discipline sono tecniche di distribuzione dei corpi, degli individui, dei tempi, delle forze di lavoro. La disciplina manicomiale rappresenta la forma generale del potere psichiatrico.

Foucault cerca di mostrare, dunque, come, quel che affiorava nella pratica psichiatrica dell’inizio del XIX secolo, fosse un potere che aveva come forma generale la disciplina.

Il Panopticon di Bentham rappresenta la formalizzazione del potere disciplinare: modello di prigione, ospedale, scuola, officina, orfanotrofio. Bentham afferma che si tratta di un meccanismo che dà forza a ogni istituzione, una sorta di congegno per mezzo del quale il potere che funziona o che deve venire esercitato in un’istituzione potrà acquisire il massimo della forza (Bentham, 1787). Panopticon significa due cose: da un lato, che tutto è visto di continuo e, dall’altro, che il potere che viene esercitato non è altro che un effetto ottico.

L’ultimo carattere del Panopticon è rappresentato dal fatto che il potere immateriale che si esercita costantemente  nell’illuminazione è legato a un costante prelevamento di sapere: il centro del potere è al contempo un centro di annotazione ininterrotta, di trascrizione puntuale del comportamento individuale. Apparato di sapere e di potere insieme.

La famiglia è una sorta di cellula all’interno della quale il potere che viene esercitato non è, come si è soliti dire, disciplinare ma, al contrario, è un potere riconducibile al tipo di sovranità.

La famiglia, nella misura in cui obbedisce a un dispositivo di sovranità, costituisce il punto di incastro indispensabile al funzionamento di tutti i sistemi disciplinari. Il ruolo principale della famiglia, rispetto agli apparati disciplinari, consiste dunque nell’imbrigliare gli individui all’interno dell’apparato. Rappresenta, inoltre, il punto di congiunzione e di scambio che assicura il passaggio da un sistema disciplinare all’altro, da un dispositivo all’altro. La famiglia ha dunque un doppio ruolo: quello di fissare gli individui ai sistemi disciplinari, e quello di articolarli e farli circolare da un sistema disciplinare all’altro.

 

Foto: Jeremy Bentham's "Panopticon Letters" (1787)

Famiglia, sovranità e microfisica del potere

 
 

 

 

 

 

La situazione di partenza, con la proto-psichiatria di Pinel, Fodéré ed Esquirol, è quella di rottura del manicomio con la famiglia e si dispiega su due piani:

a) forma giuridica della rottura manicomio-famiglia: la legge del 1838 rappresenta la rottura ed esautorazione dei diritti della famiglia nei confronti del folle.

b)  tattica medica: vale a dire il modo in cui si svolgono le cose all’interno del manicomio. Nel XIX secolo troviamo un principio, o per meglio dire un precetto, una regola relativa al saper-fare, secondo cui non è mai possibile guarire un alienato lasciandolo all’interno della sua famiglia. Dovrà essere salvaguardato il principio della totale estraneità rispetto al mondo: principio dell’isolamento. Rispetto allo spazio famigliare, quello delineato dal potere disciplinare all’interno del manicomio, dovrà essere uno spazio del tutto estraneo. La prima ragione è il principio della distrazione. Un folle per guarire non dovrà mai pensare alla sua follia. Bisogna fare in modo che la follia venga cancellata dal suo discorso, che non sia mai cosciente della sua follia. Dunque, se la famiglia deve essere assente, se si deve collocare il folle all’interno di un mondo assolutamente estraneo, è a causa del principio di distrazione.

Il secondo principio è rappresentato dal fatto che la famiglia viene da subito individuata e indicata come l’occasione dell’alienazione. A far precipitare l’episodio della follia saranno le contrarietà, le preoccupazioni relative al denaro, la gelosia amorosa, i dispiaceri, le separazioni, la rovina, la miseria.

La terza ragione è rappresentata dalla nozione, introdotta da Esquirol, di “sospetto sintomatico”. Esquirol afferma che il malato di mente, e in particolare il maniaco, è affetto da un “sospetto sintomatico”, volendo con ciò sostenere che l’alienazione mentale è un processo nel quale l’individuo cambia umore, le sue sensazioni sono alterate, sente delle voci del tutto prive di un fondamento reale, vede delle immagini che sono allucinazioni. Di tutti questi mutamenti che riguardano il suo corpo, l’alienato non comprende la causa (da un lato, perché non sa di essere folle; dall’altro, perché non conosce i meccanismi della follia). Non riuscendo a comprendere la causa di tutte queste trasformazioni, sarà indotto a cercarne l’origine fuori da se stesso, finendo con l’attribuirne l’origine alla cerchia dei suoi famigliari.

La quarta ragione, per spiegare la necessità della rottura rispetto alla famiglia, è che all’interno di ogni famiglia sussistono dei rapporti di potere (rapporti di sovranità) che in quanto tali sono incompatibili  con la guarigione della follia. Sarà necessario privare gli individui della situazione di potere e dei punti di appoggio di cui dispongono all’interno della loro famiglia.

Il manicomio del XIX secolo ha potuto funzionare sulla base di un modello di micro-potere disciplinare che, di per sé, nel suo funzionamento risulta del tutto eterogeneo rispetto alla famiglia. L’inserimento e la connessione del modello famigliare all’interno del sistema disciplinare avviene verso il 1860-80: a partire da quel momento la famiglia diviene un modello nel funzionamento della disciplina psichiatrica e l’orizzonte e l'oggetto principale della pratica psichiatrica.

  

Foto: Ambroise Tardieu, "Aliéné en démence" (1838)

Potere psichiatrico come intensificatore di realtà

 

In che modo si ritiene che questo spazio disciplinare possa guarire? Su quali presupposti sono basati i procedimenti terapeutici di Pinel o di Mason Cox? Il loro assunto è che il nucleo della follia consista in una falsa credenza, un’illusione o un errore. Inoltre si presuppone che basterà ridurre l’errore in questione perché la malattia scompaia. La procedura volta a ottenere la guarigione consiste nella riduzione dell’errore. C’è un problema, però, dato dal fatto che l’errore di un folle non è un  errore come quello di chiunque altro. Cosa fa sì che l’errore del folle sia tale? A risultare decisivo, per i nostri autori, non è tanto la stravaganza, che è solo l’effetto terminale dell’errore, quanto il modo in cui si può vincere questo errore, o almeno ridurlo. Il folle è colui il cui errore non può essere ridotto da una dimostrazione; il folle è qualcuno per il quale la dimostrazione non produce la verità. Per ridurre l’errore e, dunque, eliminare la follia, non si passerà attraverso la dimostrazione. Anzi, si lascerà che il giudizio falso si affermi come vero, e per contro si farà in modo di trasformare la realtà, così da portarla a conformarsi al giudizio folle, al giudizio erroneo.

Una simile pratica  della guarigione è omogenea a tutta la concezione classica del giudizio e dell’errore. Il medico è colui che arriverà a manipolare la realtà in modo da far sì che l’errore diventi vero. In questo tipo di operazione, il medico è l’intermediario, il personaggio ambivalente che da un lato guarda in direzione della realtà e la manipola, e dall’altro guarda verso la verità e l’errore e si impegna a far sì che la forma della realtà entri nelle secche dell’errore per trasformarlo così in verità.

Successivamente all’epoca di Pinel e Cox, in epoca manicomiale, dunque, lo psichiatra svolgerà il ruolo di 'maître' della realtà in un modo completamente diverso. Lo psichiatra, almeno per come comincia a funzionare nello spazio della disciplina manicomiale, si avvia a non esser più quel genere di individuo che si pone il problema della verità di quel che dice il folle, ma comincia a diventare, una volta per tutte e risolutamente, colui che sta dalla parte della realtà. Lo psichiatra è ormai colui, a differenza di Pinel e Cox, che deve conferire al reale quella forza stringente grazie alla quale il reale potrà impadronirsi della follia. Lo psichiatra dovrà assicurare al reale il supplemento di potere necessario affinché possa imporsi alla follia, ma anche chi, inversamente, dovrà togliere alla follia il potere di sottrarsi al reale. La psichiatria nel XIX secolo non elude la questione della verità, solo che, invece di porre il problema della verità della follia al centro stesso della cura, come ancora avveniva con Pinel e Mason Cox, nel bel mezzo dei rapporti con il folle, il potere psichiatrico pone tale questione unicamente al proprio interno. Il potere psichiatrico la fa emergere, insomma, da subito e una volta per tutte, ma solo nel momento in cui si costituisce come scienza medica e clinica. Il potere psichiatrico è quel supplemento di potere per mezzo del quale il reale è imposto alla follia in nome di una verità detenuta una volta per tutte da quel potere sotto il nome di scienza medica, di psichiatria.

La funzione essenziale del potere psichiatrico è quella di essere una sorta di intensificatore di realtà intorno alla follia.

Intorno al 1840, la cura psichiatrica, ad es. in Leuret, consiste in un certo numero di dispositivi o di manovre.

La prima manovra predisposta dall’operazione psichiatrica è rivolta a ridurre l’onnipotenza della follia attraverso la manifestazione di una volontà del tutto differente, dotata di un potere superiore.

Georget (1820): “anziché rifiutare a un alienato la qualità di re che pretende di possedere, provategli che è privo di qualsivoglia potenza”.

La seconda manovra consiste  nella riutilizzazione del linguaggio. Per Leuret il problema è quello di rendere il malato accessibile a tutti gli usi dell’imperativo. Il problema non è quello di sostituire al falso il vero all’interno di una dialettica che è peculiare del linguaggio e della discussione. Il linguaggio che si insegna di nuovo al malato non è quello attraverso cui egli potrà ritrovare la verità, ma è un linguaggio che deve lasciare trasparire la realtà di un ordine, di una disciplina, di un potere che si impone al malato. Il trattamento morale si basava sul sistema dell’ordine. Il manicomio veniva considerato terapeutico proprio perché obbligava le persone a sottostare a un regolamento, a un impiego determinato del tempo, le costringeva ad obbedire a degli ordini, a stare al proprio posto, a sottomettersi alla regolarità di un certo numero di gesti e di abitudini, a piegarsi a un lavoro: detto in altro modo, l’ordine è la realtà sotto la forma della disciplina.

La terza manovra, all’interno del dispositivo della terapeutica manicomiale, consiste in ciò che potremmo chiamare la regolazione o l’organizzazione dei bisogni. Si tratta di provocare, nel malato, uno stato di carenza che poi dovrà essere accuratamente conservato: occorre mantenere l’esistenza del malato appena al di sotto di una certa soglia media. Il potere psichiatrico, nella forma specifica del manicomio, è dunque in quest’epoca creatore di bisogni, gestore delle carenze che esso stesso fa esistere. Tra le carenze: gli indumenti, l’alimentazione, l’imposizione del lavoro, per sopperire ai bisogni indotti dalle carenze, ed infine la carenza più grande ovvero quella della libertà.

La quarta conseguenza dell’organizzazione della penuria all’interno del manicomio, consiste nel fatto che il folle apprende che, come malato, dovrà provvedere ai propri bisogni mediante il lavoro, perché non sia la società a doverne pagare il prezzo. Da una parte, la follia è qualcosa che si paga, ma anche, da un’altra, la guarigione è a sua volta qualcosa che si compra.

Il quinto dispositivo, infine, è quello costituito dall’enunciato di verità: si deve ottenere dal malato che dica la verità. Non è tanto necessario che qualcosa venga percepito ma che venga detto. Il solo fatto di dire qualcosa che coincide con la verità ha in sé e per sé una funzione; ha un’efficacia maggiore, nella terapeutica, di quanto non ne abbia un’idea adeguata o accompagnata da una percezione esatta, ma che sia inespressa. Nel processo della guarigione, l’enunciato della verità ha un carattere performativo. Intorno agli anni 1825-40, il racconto autobiografico viene introdotto nella pratica psichiatrica, diventa un episodio dell’impresa disciplinare. E’ all’interno del riconoscimento di determinati episodi biografici che il malato dovrà enunciare la verità; l’enunciato della verità che risulterà più efficace, insomma, non sarà tanto quello che riguarda le cose, quanto quello che si riferisce al malato stesso. Si stabilisce un preciso corpus biografico, stabilito dall’esterno e formato da un sistema di cui fan parte la famiglia, l’impiego, lo stato civile, l’osservazione medica.

Leuret, d’altronde, individua nel suo malato un fenomeno che si manifesta in tre diverse forme, ovvero il piacere del manicomio, il piacere di essere malato, il piacere di avere dei sintomi. La follia è legata a un piacere e il  trattamento, attraverso il piacere, rischia di essere incorporato all’interno della stessa follia; l’incidenza della realtà, insomma, potrebbe essere neutralizzata da un meccanismo di piacere intrinseco al trattamento. In ogni sintomo c’è, al contempo, potere e piacere. Tutto ciò che possiamo dire del modo in cui i folli sono stati trattati si riduce dunque a un corpus di tattiche, a un insieme strategico. I supplementi di potere che il manicomio aggiunge alla realtà sono l’asimmetria disciplinare, l’uso imperativo del linguaggio, la regolazione delle privazioni e dei bisogni, l’imposizione di un’identità statutaria nella quale il malato dovrà riconoscersi, l’eliminazione del piacere dalla follia. Cessare di essere folle significa accettare di essere obbediente, significa guadagnarsi da vivere, significa riconoscersi nell’identità biografica che è stata forgiata per noi, vuol dire smettere di trarre piacere dalla follia. A dare corpo alla tautologia manicomiale è, appunto, questo meccanismo del supplemento di potere accordato alla realtà, e che si risolve semplicemente nella riproduzione, all’interno del manicomio, della realtà stessa. La specificità del manicomio consisteva nell’essere esattamente omogeneo a ciò da cui si differenzia, e questo grazie alla linea che separa follia e non-follia. La disciplina manicomiale coincide insomma, al contempo, con la forma e la forza della realtà.

Nel corso del XIX secolo, la follia verrà concepita come volontà in stato di insurrezione, volontà senza limiti. Il potere psichiatrico è dunque dominio, tentativo di soggiogare; la nozione che meglio descrive il suo funzionamento è quella di “direzione”. La nozione origina, ovviamente, in campi diversi dalla psichiatria, derivanti dalla pratica religiosa. La “direzione di coscienza”, nel corso del XV-XVI secolo aveva definito un campo generale comprensivo di tecniche e insieme di oggetti            . Lo scopo essenziale della direzione psichiatrica è quello di conferire alla realtà un potere di costrizione. All’interno del trattamento morale, possiamo identificare come realtà la volontà dell’altro. La realtà con la quale il malato deve essere costretto a confrontarsi, la realtà a cui la sua attenzione, distratta da una volontà in stato d’insurrezione, deve piegarsi, sino a esserne soggiogata, è costituita innanzitutto dall’altro in quanto centro di volontà, fonte di potere. La realtà consiste nell’altro proprio perché questi detiene, e sempre deterrà, un potere superiore a quello del folle. Il secondo aspetto della realtà passa attraverso l’obbligo dell’anamnesi. Come terza realtà, abbiamo quella della malattia stessa: si dovrà sempre mostrare al folle che la sua follia è appunto follia. Ma al contempo, mostrare che nel cuore della follia si nasconde una mancanza di attenzione, una dose di presunzione. Infine come quarta forma di realtà, compare tutto ciò che ha a che fare con il denaro, con il bisogno. I punti su quali si articola il potere manicomiale sono quattro elementi della realtà: volontà dell’altro, definitiva attribuzione all’altro di un sovrapotere; giogo dell’identità, del nome e della biografia; realtà non reale della follia e realtà del desiderio che costituisce la realtà della follia e che, insieme, la annulla come tale; realtà del bisogno, dello scambio e del lavoro. Tali elementi sono importanti, perché attraverso di essi si delineerà ciò che serve a definire l’individuo guarito, il quale sarà appunto colui che avrà accettato il quadruplice giogo della dipendenza, della confessione, dell’inammissibilità del desiderio e del denaro. La guarigione coinciderà con il processo di assoggettamento fisico quotidiano, attuato nel manicomio, e che stabilirà come individuo guarito solo l’individuo che sarà portatore di una quadruplice realtà, costituita dalla legge dell’altro, dall’identità con sé, dall’inammissibilità del desiderio, dall’inserimento del bisogno in un sistema economico.

  Foto: Ambroise Tardieu, "Lypémaniaque", 1838

L’emergere della funzione Psy: Il potere psichiatrico esce dal manicomio

 

 

Il potere proto-psichiatrico è certamente destinato a trasformarsi a partire dagli anni 1850-60. Verso gli anni 1840-60, si assiste a una sorta di diffusione, migrazione di questo potere psichiatrico in altri regimi disciplinari: il potere psichiatrico come tattica di assoggettamento dei corpi all’interno di una certa fisica del potere, come potere di intensificazione della realtà, come costituzione degli individui al contempo destinatari e portatori di realtà, si è disseminato.

La psichiatrizzazione dei bambini anormali, e più precisamente quella degli idioti, ha permesso la disseminazione del potere psichiatrico al di fuori del manicomio.

La diffusione del potere psichiatrico si è operata a partire dalla psichiatrizzazione dell’infanzia.

La categoria dell’anomalia nel corso del XIX secolo non ha interessato l’adulto, ma unicamente il bambino. Nel XIX secolo, è l’uomo a essere folle, e non è possibile concepire, prima di arrivare agli ultimi anni del secolo, l’eventualità reale di un bambino folle (casi studiati da Charcot e dopo Freud). Nel corso del XIX secolo, è l’adulto a essere folle, mentre l’anormalità, per contro, è relativa al bambino. Il bambino è stato portatore di anomalie e, attorno all’idiota, a partire dai problemi pratici che l’esclusione dell’idiota comportava, è stata costituita  tutta la vasta famiglia che va dal bugiardo all’avvelenatore, dal pederasta all’omicida, dall’onanista al piromane, e che forma il campo generale dell’anomalia, al centro del quale compaiono il bambino ritardato, il bambino debole di mente, il bambino idiota. E’ attraverso i problemi pratici posti dal bambino idiota che la psichiatria, da potere che controlla e corregge la follia, si appresta a diventare qualcosa di infinitamente  più generale e più pericoloso. Il potere psichiatrico si avvia cioè a diventare potere sull’anormale, potere di definire quello che è anormale, e dunque di controllarlo e di correggerlo.

La psichiatria potrà ora innestarsi sull’intera serie di regimi disciplinari che esistono tutt’intorno a lei, in funzione del principio per cui in lei sola risiedono al contempo la scienza e il potere dell’anormale. Tutto ciò che è anormale in rapporto alla disciplina scolastica, militare, famigliare e così via, tutte le deviazioni e tutte le anomalie, la psichiatria potrà rivendicarlo come ambito di sua competenza. E’ dunque attraverso questa definizione del bambino anormale che sono state possibili la generalizzazione, la diffusione e la disseminazione del potere psichiatrico nella nostra società.

La psichiatria, in quanto potere sulla follia e potere sull’anomalia, sarà soggetta a definire i rapporti che possono sussistere tra il bambino anormale e l’adulto folle. Nella seconda metà del XIX secolo, verranno elaborati due concetti che permetteranno di stabilire la connessione, vale a dire la nozione di istinto da una parte, e la nozione di degenerazione dall’altra. L’istinto è l’elemento al contempo naturale nella sua esistenza ed anormale nel suo funzionamento anarchico. Un tale istinto, al contempo naturale e anormale, è dunque ciò di cui la psichiatria cercherà a  poco a poco di ricostruire il destino, a partire dall’infanzia fino all’età adulta, dalla natura fino all’anomalia, e dall’anomalia fino alla malattia. La degenerazione, così come la definisce Morel, interviene prima di Darwin, prima dell’evoluzionismo. Verrà definito “degenerato” un bambino sul quale gravano i residui della follia dei suoi genitori o dei suoi ascendenti. La degenerazione è in un certo senso l’effetto dell’anomalia prodotto sul bambino dai suoi genitori. Nello stesso tempo, il bambino degenerato è un bambino anormale la cui anomalia è tale da rischiare di produrre, in un certo numero di circostanze determinate e in seguito a un certo numero di eventi accidentali, la follia. La degenerazione è dunque la predisposizione ad anomalie che, nel bambino, renderà possibile la follia dell’adulto, ma è anche il marchio, impresso sul bambino in forma di anomalie, della follia dei suoi ascendenti.

 

 

 

Il potere psichiatrico e la questione della verità

 

  

A partire dalla proto-psichiatria sino agli anni 1860-70, l’epoca della crisi dell’isteria, una serie di elementi ha concorso a trasformare il potere psichiatrico. Questi punti dispersi, poco numerosi e poco evidenti, sono quelli in cui la questione della verità è stata posta alla follia.

In primo luogo abbiamo la pratica o il rituale dell’interrogatorio e dell’estorsione della confessione. Un secondo procedimento è costituito dal magnetismo e dall’ipnosi. Infine, un terzo elemento, è il ricorso frequente, anche se non costante, a partire dagli anni 1840-45, a droghe. Le droghe più in uso erano essenzialmente l’etere, il cloroformio, l’oppio, il laudano e l’hashish. L’uso delle droghe, insieme all’ipnosi e alla tecnica dell’interrogatorio, rappresenta  il punto a partire dal quale la storia della pratica e del potere psichiatrico ha cominciato a trasformarsi.

E’ vero che queste tre tecniche sono ambigue, nel senso che funzionano a due livelli. Da un lato esse funzionano a livello disciplinare, ma ad un altro livello, tali tecniche hanno suscitato, nonostante fosse in contrasto con ciò che da essi ci si attendeva, una certa questione della verità.

In medicina, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, l’anatomia patologica farà scomparire il ricorso alla nozione di “crisi”. Ciò non avviene per la psichiatria. Per la psichiatria, la diagnosi differenziale ha un rilievo secondario; la vera questione è di stabilire se si tratti di follia oppure no. Per la psichiatria la sola vera questione è quella relativa alla presenza o assenza di follia: funziona sul modello della diagnosi assoluta non su quella di tipo differenziale. Tra il 1822 e il 1826 Bayle fornirà le definizioni della paralisi generale e delle lesioni meningee come conseguenze della sifilide. Nonostante tale correlato organico, la psichiatria in tale epoca continuerà ad essere una medicina senza corpo. La diagnosi assoluta e l’assenza di corpo, hanno fatto sì che per la psichiatria non potesse liquidarsi il concetto di crisi medica. Il problema della psichiatria sarà quello di costituire, instaurare una prova. Una prova tale da consentirle di conferire realtà o irrealtà alla follia. Non si tratterà di una prova di verità, ma di una prova di realtà. Detto in altri termini, la prova di verità si dissocia: da un lato, nella medicina ordinaria, avremo le tecniche della constatazione della verità, dall’altro, in psichiatria, avremo una prova di realtà.

La prova psichiatrica assume tre forme principali  nei primi sessant’anni del XIX secolo. Si tratta di tre tecniche: l’interrogatorio, la droga e l’ipnosi.

L’interrogatorio ha un aspetto disciplinare, nella misura in cui fissa l’individuo alla sua identità (anamnesi, confessione), lo costringe a riconoscersi nel suo passato. Vi sono poi altre funzioni dell’interrogatorio, le quali costituiscono operazioni di realizzazione della follia. L’interrogatorio contribuisce a realizzare la follia in quattro diverse maniere, o attraverso quattro diversi procedimenti:

a)      Un interrogatorio psichiatrico classico (anni 1820-30) comporta sempre la ricerca degli antecedenti. Si ricercano negli ascendenti e nei collaterali diverse malattie; in un periodo in cui non si dispone della nozione di ereditarietà patologica, né di quella di degenerazione (comparirà verso il 1855-60). Dal momento che non si trova nel malato un substrato organico, si supplisce trovando, nell’ambito della famiglia, un certo numero di eventi patologici riferibili ad un sostrato materiale di tipo patologico, una sorta di substrato meta-organico che costituisce il vero corpo della malattia. Nell’interrogatorio della follia, il corpo malato è in realtà il corpo della famiglia tutta intera e dell’ereditarietà familiare. Ricercare l’ereditarietà significa sostituire al corpo dell’anatomia patologica un altro corpo e un certo correlato materiale. Il primo aspetto dell’interrogatorio medico è la ricerca degli antecedenti.

b)      In secondo luogo, troviamo la ricerca dei prodromi, dei contrassegni delle predisposizioni, degli antecedenti individuali. Nell’interrogatorio psichiatrico si prescrive di raccontare i ricordi d’infanzia. Andare alla ricerca di questi antecedenti individuali significa mostrare che la follia esisteva già prima di essere costituita come malattia, ma significa, anche, cercare di mostrare che questi segni non erano ancora la follia come tale, bensì piuttosto solo le sue condizioni di possibilità. Ciò significa ricollocare la follia nel contesto individuale di quel che si può chiamare l’anomalia. L’anomalia è la condizione di possibilità individuale della follia: è quel che risulta necessario stabilire per poter indicare che ciò di cui ci si sta occupando, e di cui si vuol mostrare che si tratta dei sintomi della follia, è effettivamente di ordine patologico. La condizione per trasformare i diversi elementi che fungono da oggetto e motivo della domanda d’internamento in sintomi patologici, sarà di ricollocarli all’interno del tessuto generale dell’anomalia. La seconda operazione dell’interrogatorio comporterà dunque la costituzione di un orizzonte di anomalie.

c)      La terza funzione dell’interrogatorio consisterà nell’organizzare quello che si potrebbe chiamare l’incrociarsi tra la responsabilità e la soggettività. Al fondo di ogni interrogatorio psichiatrico è come se lo psichiatra dicesse a chi gli sta di fronte: posso far sì che i motivi per cui tu sei qui non gravino più su di te con il marchio della responsabilità giuridica o morale, ma potrò liberarti da questo peso che incombe su di te solo a condizione che tu mi fornisca tali motivi come sintomi. Dammi dei sintomi, e io ti libererò dalla colpa.

d)      La sua quarta funzione è quella della confessione centrale. Si tratta di ottenere che il soggetto interrogato non solo riconosca l’esistenza di questo nucleo delirante, ma lo attualizzi di fatto all’interno dell’interrogatorio. In due modi: in primo luogo con la confessione “sì sento le voci, sì sono Napoleone”, oppure ottenendo nel corso dell’interrogatorio la crisi stessa, suscitare l’allucinazione, provocare la crisi isterica. In breve, sia che avvenga nella forma della confessione, sia in quella dell’attualizzazione del sintomo centrale, in ogni caso bisogna porre il soggetto nella condizione di dire “io sono folle”. Una simile confessione estrema viene strappata sulla base del presupposto secondo cui dichiarare la follia significa liberarsene.

L’interrogatorio può essere decifrato a tre livelli: in primo luogo il livello disciplinare; poi quello che costituisce l’analogo  di uno schema medico (l’interrogatorio costituisce un corpo per mezzo del sistema che attribuisce una certa ereditarietà, costituisce un campo di anomalie, fabbrica dei sintomi ed infine isola un nucleo patologico che attualizza nella confessione) ed infine il livello nel quale si determina tra lo psichiatra e il malato una triplice realizzazione: innanzitutto, quella di un certo tipo di condotta come follia; in secondo luogo, quella della follia come malattia; e, infine, quella del custode del folle, come medico.

Vi è stato un uso disciplinare di un certo numero di droghe a partire dal XVIII secolo: laudano, oppiacei. Successivamente, per i primi ottant’anni del XIX secolo vi è stata una pratica ampia e diffusa di droga all’interno degli ospedali psichiatrici: oppio, nitrato di amile, cloroformio, etere. L’episodio più importante è stato rappresentato dal libro e la pratica di Moreau de Tours che nel 1845 pubblicò: "Du haschisch et de l’aliénation mentale".

Moreau de Tours, dopo aver assunto dell’hashish, descriverà un certo numero di fasi che conseguono a tale intossicazione. Gli effetti della droga saranno ricondotti da Moreau de Tours ai processi della malattia mentale. Abbiamo a che fare con una riproduzione indotta e al contempo autentica della malattia. Mentre una psichiatria, come quella di Pinel o Esquirol, cercava di vedere quale fosse la facoltà lesa nelle diverse malattie mentali, si arriva ora a sostenere che in fondo non ci sia che un’unica follia; tale follia unica potrà in alcuni casi arrestarsi, fissarsi ad uno stadio, proprio come avviene nell’intossicazione da hashish. Questa droga permetterà di scoprire quella sorta di fondo unico a partire dal quale tutti i sintomi della follia potranno dispiegarsi. Grazie all’hashish potremo riprodurre e in verità attualizzare, questo fondo essenziale di ogni follia. Si potrà comunicare con la follia attraverso l’esperienza, vissuta soggettivamente dal medico, degli effetti dell’intossicazione da hashish. Di qui la possibilità di far coincidere l’esperienza dello psichiatra con l’esperienza del folle. A partire dall’esperienza con l’hashish, lo psichiatra potrà dire: io so qual è la legge della tua follia, la riconosco, poiché sono in grado, per l’appunto, di ricostituirla in me stesso. Si trova così fondata quella famosa nuova presa della psichiatria sulla follia che avrà la forma della comprensione. La comprensione come legge dello psichiatra in quanto incarnazione della norma sul movimento stesso della follia trova qui il suo principio d’origine.

Il fondo primordiale, omogeneo alla follia, è il sogno. A essere dischiuso, grazie all’esperienza dell’hashish, è il sogno in quanto meccanismo  che possiamo ritrovare anche nell’individuo normale e che potrà appunto servire come principio di intelligibilità rispetto alla follia. E’ insomma l’irruzione dei meccanismi del sogno nella veglia a provocare la follia. Il sogno viene così fissato, come il punto a partire dal quale la comprensione dello psichiatra potrà imporre la sua legge ai fenomeni della follia. La droga, dunque, è il sogno iniettato nella veglia, è l’effettuazione stessa della follia. Per Moreau de Tours somministrare hashish ai malati significherà riattualizzare la vecchia tecnica della crisi medica, ovvero rendere più rapido il decorso della malattia portandola a guarigione.

Il terzo sistema di prove nella pratica psichiatrica dei primi due terzi del XIX secolo sarà quello del magnetismo e dell’ipnosi. L’ipnosi è ciò che consentirà di intervenire sul corpo, ma non semplicemente al livello disciplinare dei comportamenti manifesti, bensì al livello dei muscoli, dei nervi, delle funzioni elementari. Con l’ipnosi si dispone di un tipo di prova della malattia che si avvicina alla droga per l’effetto disciplinare e per quello di riproduzione della realtà patologica; ma, al contempo, se ne distingue e, in un certo senso, risulta privilegiata rispetto alla droga, perché è del tutto conforme alla volontà del medico, fare quel che si vuole del malato, e perché rende possibile, o almeno è quanto ci si aspetta che accada, l’annullamento, uno per uno, dei sintomi, dal momento che consente una presa diretta sul corpo.

Negli anni 1850-60 si scopre il corpo neurologico, un corpo con delle funzioni. Si avrà il tentativo di inscrizione della follia all’interno di una sintomatologia medica di carattere generale. Il fallimento del tentativo di Charcot, il fatto che il corpo neurologico sia destinato a sfuggire allo psichiatra, come il corpo dell’anatomia patologica, lascerà al potere psichiatrico i tre strumenti di potere messi a punto nella prima parte del XIX secolo: l’interrogatorio (il linguaggio), l’ipnosi e la droga.

 

Per delle riflessioni

 

“ Il soggetto, non preesistendo alle pratiche sociali nelle quali è inserito, si costituisce in e attraverso i giochi di verità e le relazioni di potere, che attraversano un dato campo sociale. La questione del soggetto diviene, per Foucault, la questione del processo di soggettivazione e assoggettamento dell’individuo a delle regole e a delle costruzioni del rapporto del sé al sé secondo diverse modalità pratiche” (Roberto Nigro, 2006).

“Quando si definiscono gli effetti di potere attraverso la repressione ci si dà una concezione puramente giuridica di questo stesso potere; lo si identifica a una legge che dice no; avrebbe soprattutto la potenza dell’interdizione. In realtà io credo che questa sia una concezione del tutto negativa, ristretta, scheletrica del potere che è stata curiosamente condivisa da tutti. Se non fosse altro che repressivo, se non facesse mai nient’altro che dire no, credete veramente che si arriverebbe a obbedirgli? Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, ebbene, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce dei discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere” (Foucault, 1977).

Questi due enunciati hanno rappresentato la mia chiave di lettura al testo proposto. Certo,  ho dovuto sacrificare molto materiale: per tutti, “il fronte di resistenza al gradiente demenziale costituito dal ruolo incrociato del potere psichiatrico e della disciplina manicomiale”, rappresentato dalle isteriche.

Nelle nostre teorie e pratiche dovremmo molto ripensare i processi di soggettivazione e assoggettamento, o per dirlo con un linguaggio un po’ meno filosofico e più “psy”, prestare attenzione ai meccanismi produttori di identità.

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

M. Foucault  Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974). Feltrinelli, Milano 2004

M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), tr. it di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1976

M. Foucault  Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Einaudi, Torino, 1976

M. Foucault  Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975). Feltrinelli, Milano 2000

Roberto Nigro Assoggettamento/Soggettivazione.  Lessico di Biopolitica. Manifestolibri, Roma, 2006

M. Colucci Isteriche, internati, uomini infami: M. Foucault e la resistenza al potere. Aut aut n. 323/2004