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"Nuove Lettere" (rivista internazionale di poesia e letteratura dell'Istituto Italiano di Cultura di Napoli)
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Articoli ed interventi dalle liste di discussione (vd. sotto)
(Articles, communications and messages from mailing lists) (see below)

 


L'Istituto Italiano di Cultura di Napoli

Ente di rilievo della Regione Campania (L.R. 49/85), riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (L. 534/96, art. 8)

L’Istituto Italiano di Cultura di Napoli (I.C.I.) esiste dal gennaio del ‘90 ed è attualmente diretto da Roberto Pasanisi.
Sin dall’inizio, in tempi non ancóra sospetti, l’Istituto ha concepito la cultura nel suo senso più ampio, vivificata cioè da profonde implicazioni civili e sociali: ha denunciato, nell’àmbito del programma del suo anno accademico ed attraverso la sua rivista “Nuove Lettere”, la corruzione e l’inefficienza del sistema, il malaffare e la collusione fra politici, mafiosi e camorristi, la gestione clientelare del potere; rimarcando, nel contempo, la necessità imprescindibile d’un ritorno alla legalità e ad una vita politica e sociale fondata sui sacri valori dell’etica, della cultura e della giustizia.
In effetti, una delle cause di quello che è successo e sta succedendo risiede certo nell’abisso che si è progressivamente scavato fra cultura (intesa nella sua accezione più ampia, e quindi anche etica) e politica: così la politica è divenuta una pura tecnica, e di lì il passo a farne il più bieco degli affari non poteva essere che breve.
La battaglia per la politica del futuro si giocherà — dovrà giocarsi — sulla cultura.
L’Istituto, nel corso della sua attività, ha assunto sempre di più, accanto a quella primaria (letteraria e culturale), una funzione civile, di luogo di dibattito e di aggregazione di quella che oggi viene chiamata la ‘società civile’; di laboratorio politico, nel senso etimologico del termine (idest come ‘scienza del cittadino’), ma sempre super partes (anzi: contra partes).
In effetti, l’Istituto opera, diversamente da altre pur prestigiose strutture cittadine, non dall’alto, ma in diretto contatto con la città, con la gente, cercando di dare una risposta, dal punto di vista culturale, alle loro esigenze ed al loro bisogno di punti di riferimento civili e sociali. A tale scopo, esso si pone da un punto di vista di reciproca e proficua collaborazione con le altre associazioni ed enti culturali e sociali.
L’Istituto, improntato ai criterî di un’autentica ed incondizionata democrazia e vicino, sul piano ideologico, alla Scuola filosofica di Francoforte (Adorno, Marcuse, Löwenthal, Horkheimer), è caratterizzato dalla più grande ed indiscriminata apertura, al di là e al di fuori di ogni barriera ideologica, tranne due: quelle dell’onestà — intellettuale e morale — e della buona volontà.
L’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, talvolta in collaborazione con altri enti culturali, organizza per tutto il corso dell’anno, nell’àmbito del proprio anno accedemico, una continuativa ed altamente qualitativa attività culturale, esplicantesi in una serie di convegni, conferenze, incontri, lezioni, presentazioni e tavole rotonde, su tematiche politiche e culturali; un Corso di Lingua e Letteratura napoletana ed un Laboratorio permanente di poesia contemporanea; pubblica la Rivista internazionale di poesia e letteratura “Nuove Lettere” e quattro collane editoriali (di poesia, di narrativa e di saggistica); organizza un Premio Internazionale di Poesia e Letteratura “Nuove Lettere”. Dell’I.C.I. fanno inoltre parte il CISAT (Centro Italiano Studî Arte-Terapia), che organizza un Corso teorico-esperienziale di Psicologia (training di formazione in Arte-Terapia e Training Autogeno), e il Libero Istituto Universitario per Stranieri "Fancesco De Sanctis" (LIUPS).
Il Comitato scientifico dell’Istituto è composto da: Alberto Bevilacqua (scrittore), Constantin Frosin (docente di Lingua e Letteratura francese all’ Università Statale “Il Basso Danubio” di Galati; scrittore), Antonio Illiano (ordinario di Lingua e Letteratura italiana alla University of North Carolina at Chapel Hill), Roberto Pasanisi (direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e di “Nuove Lettere”; Visiting Professor di Lingua e Letteratura italiana presso l’Università Statale di New York, Nassau (U.S.A.) e presso l’Università “Dunarea de Jos” di Galati (Romania),  Visiting Professorof Literary Studies alla Pan American University; Rettore e professore ordinario di Psicologia dell’arte e della letteratura al Libero Istituto Universitario per Stranieri “Francesco De Sanctis”, LIUPS; scrittore), Vittorio Pellegrino (già presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo di Napoli; neuropsichiatra, Direttore del Servizio d’Igiene Mentale e docente all’Università di Napoli “Federico II”), Maria Luisa Spaziani (già ordianrio di Lingua e letteratura francese all'Università di Messina; scrittrice), Násos Vaghenás (ordinario di Teoria e critica letteraria all’Università di Atene; scrittore) e Nguyen Van Hoan (ordinario di Letteratura italiana e di Letteratura vietnamita all’Università di Hanoi). Ne hanno fatto parte dall’inizio fino alla prematura scomparsa gli scrittori Dario Bellezza, Franco Fortini (già ordinario di Storia della critica all’Università di Siena) e Giorgio Saviane. Assistente ordinario: carica vacante. Coordinatore generale: Maria Peruzzini. Segreteria: Ernesto L'Arab, Maria Peruzzini (Capo Ufficio).


I cittadini onesti e di buona volontà sono invitati a mettersi in contatto con l’Istituto.

 

 

Italian Culture Institute of Naples

A Prominent Institution of Campania Region (L.R. 49/85), recognized by the Ministery of the Cultural Goods and Activities (L. 534/96, art. 8)

The Italian Culture Institute of Naples (I.C.I.) has lived since 1990 and is at present directed by Roberto Pasanisi.
From the beginning, in no suspicious times yet, the Institute has conceived culture in its broader sense, encouraged by deep and social implications: it has denounced, during the programme of its academic year and through its review “Nuove Lettere”, the corruption and inefficiency of the Establishment, the shadiness and secret arrangement among politicians, members of the Mafia and Camorra, the client-management of power; emphasizing again, in the meantime, the strong need for a return to lawfulness and a political and social life based on the solemn values of ethics, culture, justice.
As a matter of fact, one of the causes of what has happened and is happening depends upon the gap which is progressively produced between culture (seen in its broader meaning, and consequently ethically, too) and politics: in this way politics has become a plain technique and from there it has become the most wicked business of all.
The fight for the future politics shall be played on culture.
The Institute, during its working, has put on more and more, a civil role (as well as literary and cultural), as a meeting place of what people call now ‘civil society’; a political lab, in its ethimological term ( that is ‘citizen’s learning’) but always above super partes.
In fact, the Institute works, contrary to other prestigious city structures, in direct contact with the town, people, looking for an answer, from a cultural point of view, to their demands and needs for civil and social reference points. For this reason, it works in a mutual and profitable collaboration with other associations and cultural-social organizations.
The Institute, based on democratic principles and ideologically very close to the Frankfurt Philosophy School (Adorno, Marcuse, Löwenthal, Fromm, Horkheimer), is characterized by the most indiscriminate opening, against all ideological bars, but two: intellectual and moral honesty and goodwill.
The Italian Culture Institute in Naples, sometimes in collaboration with other cultural associations, arranges for, during the course of the year, inside its own academic one, a constant and very qualitative cultural activity, such as meetings, conferences, lectures, introductions to and about political and cultural subjects; a course in Neapolitan Language and Literature and a Standing Lab on Contemporary Poetry; it publishes the international poetry and literature Review “Nuove Lettere” and three garlands (poetry, fiction, essay); it sets up an International Poetry and Literature Award “Nuove Lettere”. The I.C.I. comprises the CISAT (Italian Art-Therapy Study Centre) which organinizes a theoretic-practical course in Psychology (Art-Therapy and Autogenous Training) and the Foreigners’ Free University "Francesco De Sanctis" (LIUPS).
The Scientific Committee of this Institute is composed of: Alberto Bevilacqua (one of the most famous Italian contemporary writers and intellectual men), Constantin Frosin (Professor of French Language and Literature at State University “Dunarea de Jos” at Galati; writer), Antonio Illiano (Full Professor of Italian Language and Literature at University of North Carolina at Chapel Hill), Roberto Pasanisi (Head of the Italian Culture Institute in Naples and of “Nuove Lettere”; Visiting Professor of Italian Language and Literature at the State University of New York, Nassau (U.S.A.) and at the State University “Dunarea de Jos” of Galati (Ramania), Visiting Professor of Literary Studies at the Pan American University, Rector and full professor of Art and Literature Psychology at the Free University for Foreigners “Francesco De Sanctis”, LIUPS; Visiting Professor of Literary Studies at the Pan American University; writer), Vittorio Pellegrino (already Chairman of Naples Tourist Authority; neuropsychiatrist, Head of Mental Health Department and Professor at Naples University “Federico II”), Maria Luisa Spaziani (formerly Full Professor of Fanch Language and Literature at the University of Messina; writer), Násos Vaghenás (Full Professor of Literary Theory and Criticism at Athens University; one of the most famous contemporary Greek poets) and Nguyen Van Hoan (Professor of Italian and Vietnamese Literature at Hanoi University). Besides, other two members have worked here till their untimely death the writers Dario Bellezza, Franco Fortini (already Full Professor of History of Criticism at Siena University) and Giorgio Saviane. Assistant Professor: opening.  Assistant Manager: Maria Peruzzini. Secretary: Ernesto L'Arab, Maria Peruzzini (Office Head).


All honest and willing citizens are invited to come in touch with this Institute.

 

 

 

Articoli ed interventi dalle liste di discussione (Articles, communications and messages from mailing lists)

 

 

 

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Arteterapia (Art-Therapy)

 

L'ART-THÉRAPIE : ACTUALITÉS D'UN CONCEPT ET D'UNE PRATIQUE

 

Jean-Luc SUDRES*

   *Jean-Luc SUDRES, Maître de Conférences en Psychologie, Docteur en Psychopathologie, Secrétaire Général de la Société Internationale de Psychopathologie de l'Expression et d'Art-thérapie (sipearther@aol.com), UFR de Psychologie, Université Toulouse le Mirail, 5 allées Antonio Machado, 31058 Toulouse Cedex (France).

 

 

 

I - PETIT PRÉAMBULE …

              Forgé aux Etats-Unis dans les années trente par Margaret Naumburg, le concept d'art-thérapie n'apparaît, en France, qu'à l'aube des années soixante. Tantôt assimilée aux courants des Nouvelles Thérapies, tantôt récusée par les tenants de la Psychopathologie de l'Expression ou des orthodoxies de bois, elle ne trouve fortune dans l'hexagone qu'au cours des trois dernières décennies. Contemporainement à son émergence, une dialectique passionnante et passionnelle s'engage tant au niveau du concept que de ses étayages. Etait-il loisible de nous satisfaire du pragmatique "it's works" (ça marche) anglo-saxon ?

              Les polémiques d'hier, à défaut d'emprunter quelques zones de luminosité, prennent l'expédient d'une multiplication d'expressions substitutives ("psychanalyse avec l'art", "psychanalyse par l'art", "psychothérapie médiatisée plastique", "art-thérapie créative", etc. ...) délimitant davantage des territoires que des processus et/ou des pratiques. Divers placages théorico-cliniques associés à un exotisme artistique donnent, paradoxalement à certains de leurs promoteurs, l'auréole d'un savoir de prestige !

              Très tôt, l'art-thérapie succombe aux charmes de la psychose des sujets adultes avec, quelquefois, un net tropisme psychanalytique réducteur. De là naissent quelques avancées au niveau de l'intelligibilité des processus, des dispositifs cliniques et des modalités d'évaluation. De son côté, l'enfant, sans concéder la moindre bribe au terrain de l'art-thérapie, continue de cheminer dans l'antre du dessin placé sous l'égide de l'exploration développementale et psychothérapique. Quant à l'art-thérapie de l'adolescent, comme pour la créativité, elle ne fait l'objet que d'un intérêt éphémère durant la période post soixante-huitarde.

 

II –  L'HISTOIRE : UN RÉVÉLATEUR DE LA SITUATION ACTUELLE

1) Art et psychiatrie : Une rencontre fortuite ou prémédité ?

              Depuis la nuit des temps, l'homme inscrit, trace, dessine, ... La préhistoire en apporte un vibrant témoignage avec ses mains, ses animaux, ses scènes de chasse éclairant à tout jamais les cavernes de nos ancêtres et leurs tombes. Fonction de communication, de conjuration, de transcendance de l'invisible... ou encore tout simplement découverte et essai d'objet scripteur avec lequel cet homme des premiers instants joue la partition d'un parcours créatif élémentaire. Etre d'exception, l'humain est à lui seul art et porteur d'art !

              Très tôt, les sociétés primitives attribuent à l'art des propriétés curatives d'autant plus prisées que les maladies étaient appréhendées comme des atteintes aux lois cosmiques. Cette dimension se retrouve toujours dans les sociétés traditionnelles où l'art du masque, l'art des objets et l'art du guérissage s'intègrent à des rites universels. L'Antiquité amène à différencier l'art pragmatique de l'art du beau. Artisans et artistes évoluent ainsi sur des chemins contigus malgré les aléas de l'histoire. Cependant, c'est dans les textes de cette période que se repère clairement les premiers constats des philosophes et des médecins sur les vertus de l'art, des mots (la rhétorique), de la poésie, de la musique... Bien que limité à des effets cathartiques, sédatifs et stimulants reposant sur des attitudes souvent contemplatives, l'art apparaît bien, comme l'avance Marc Muret (1983) en sous titre de son ouvrage sur les arts-thérapies, "le plus vieux médicament du monde et pour certains le meilleur..."

              Le Moyen Age plonge les artistes dans des affres dont ils sortent appauvris d'un point de vue technique, ne sachant plus représenter le corps humain que cela soit en formes, proportions ou attitudes. Quant au "fou", il porte avec son essence divine l'énigmatique ambivalence "curiosité - crainte" sans pour autant jouir d'une considération particulière même si certains d'entre eux écrivent des ouvrages lus par un public cultivé.

              L'expérience de folie et ses éventuelles productions créatives bénéficient jusqu'à la moitié du XVIIème siècle d'une large sollicitude en face d'un fléau touchant à son terme : la lèpre ! Michel Foucault dans son "Histoire de la Folie à l'Age Classique" (1972) nous conte cette rencontre d'espaces de soins vides (ou du moins mal occupée par la syphilis) et l'industrialisation naissante reléguant les oisifs au statut de proscrits. Cette mutation socioculturelle profonde conduit les marginaux en tous genres (mendiants, criminels, infirmes, fous, prostituées, vagabonds, etc. ..) et de tous âges à séjourner dans les lieux d'exclusion devenant les Hôpitaux Généraux. Un peuple de silencieux naît en ces lieux sans vocation médicale particulière, si ce n'est celle d'extraire de la société tous ceux qui ne participent pas activement au système économique. Politiques, médecins et bienfaiteurs y instaurent les us et coutumes de la société bourgeoise. Les fous rencontrent, avec le travail forcé, le surpeuplement et le contrôle moral, des chaînes plus répressives que celles des geôles de la justice. Corrélativement à ces aspects coercitifs évolue un élémentaire arsenal thérapeutique (douches, bains, isolements, ...) appliqué par un personnel incompétent. L'Europe de la fin du XVIIIème se couvre de ces établissements. L'internement se lie encore davantage à la structuration d'un nouvel espace socio-politico-économique. Puis, le "grand internement" isole les délinquants des fous. Ceux-ci libérés de leurs chaînes se retrouvent à l'abri de grands murs ; l'asile est né ! La folie y devient l'objet d'une nouvelle observation.

            Le XIXème siècle, cet âge d'or de l'aliénisme, entrouvre les yeux sur les expressions créatrices des fous. Ainsi, à l'initiative de son célèbre pensionnaire, le Marquis de Sade, l'asile de Charenton a recours dès 1800 au théâtre. Celui de la Salpétrière organise "le bal des folles et des hystériques" et de nombreux autres établissements produisent des concerts en y associant quelquefois des musiciens "normaux"... Les formes collectives de création, plus ou moins montrables aux gens ordinaires, occupent le devant de la scène asilaire. Les productions plastiques en apparence moins spectaculaires et plus individuelles n'attirent l'attention que dans les années vingt. Pourtant, au cours de ce siècle-là, quelques aliénistes (Benjamin Rush, Cesare Lombroso, Auguste Marie, ...) débutent des collections. Des expositions d'œuvres d'aliénés apparaissent notamment à Londres et Milan. Des internés de l'Asile de Charenton éditent une feuille richement ornée "Les Glaneurs de Madapolis"... Mais c'est surtout grâce à Ambroise Tardieu avec son "Etude Médico-légale de la folie" (1872), illustrée par un dessin d'aliéné dont il souligne le caractère extraordinaire et étrange, qu'une bascule s'initie. Dès cet instant, ces œuvres de solitude suscitent un regard classificateur avec une tentative, jadis inaugurée par Max Simon, de dégager une correspondance entre un type de production plastique et une pathologie mentale. Depuis, ce type de rapprochement diagnostique n'a de cesse de réapparaître dans la littérature d'hier et d'aujourd'hui malgré l'administration de preuves annulant toute corrélation.

 

2 - Les rapports Art et Folie : Une provocation sans fin …

            Conjointement à l'intérêt porté aux productions des internés, l'art officiel subit les assauts interrogatifs d'un Paul Gaugin, d'un James Ensor, d'un Vassili Kandinsky ou encore d'un Paul Klee... Certains n'hésitent pas d'ailleurs à identifier chez ces artistes contemporains des signes de folie. D'autres comme Carlo Cara et Umberto Bacchioni intègrent, pour la première fois en 1911 à Milan, des œuvres de fous dans une exposition d'œuvres futuristes. Les Dadaïstes renouvellent l'expérience quelques années plus tard à Cologne.

            Bravant le secret médical et les murs de l'asile, le suisse Walter Morgenthaler dévoile en 1921 dans une remarquable monographie, la vie et l'œuvre d'un aliéné : Adolf Wölfli (schizophrène paranoïde). Il ne manque pas d'insister sur le chaos de ces compositions et leurs vertus thérapeutiques. Un an plus tard, Hans Prinzhorn psychiatre, artiste, musicien, chanteur et philosophe germanique publie "Expressions de la folie"[1].

            En ce début de siècle, Sigmund Freud connaît déjà une certaine notoriété avec son Moïse de Michel Ange. Carl Gustav Jung découvre, dans une période de doute existentiel à la suite de sa rupture avec S. Freud en 1912, la puissance des mandalas et de la pratique artistique. Fort de ses découvertes empiriques, il incite ses patients à dessiner et à peindre leurs rêves préfigurant en quelque sorte un des courants de l'art-thérapie contemporaine[2].

            Le Surréalisme naissant trouve dans la psychanalyse les bases de "l'automatisme psychique pur" dont André Breton développe formes et applications au fur et à mesure des Manifestes du Surréalisme (1921, 1930, 1942). Dès 1925, le Surréalisme s'instaure en tant que juge et critique de la société contemporaine fustigeant (entre autres) les médecins chefs des asiles et les pratiques asilaires dans sa revue "La Révolution Surréaliste". Dans les interstices de ces accusations tout aussi provocantes que passionnées, les surréalistes introduisent la psychanalyse. Peu à peu, on ne cherche plus ce "qu'il pouvait y avoir de fou dans le génie", comme Césaré Lombroso l'inculqua jadis, mais ce "qu'il peut y avoir de génial dans la folie". Un tel renversement de propositions en l'espace de quelques décennies remet singulièrement en cause l'appréhension déficitaire de la folie. Fou parce qu'artiste ou artiste parce que fou ?

            L'Art Psychopathologique prend place dans les expositions mais reçoit surtout une considération concrète des aliénistes. Ils fournissent matériau et outil de qualité à leurs internés[3]. En même temps, le travail industriel et l'artisanat se développent considérablement à partir de 1930 ; l'ergothérapie naissante préfigure les futurs ateliers d'art-thérapie...

 

3) De la fin de la 2ème Guerre Mondiale aux années soixante

              L'hécatombe provoquée par la Seconde Guerre Mondiale au sein de la population asilaire et l'horreur des univers concentrationnaires dont témoignent nombre de dessins de jeunes contribuent à humaniser tous les lieux de soins, à former le personnel et à étendre les prises en charge soignantes. La psychiatrie infanto-juvénile naissante, l'apparition de la psychologie différentielle, le déploiement des établissements spécialisés pour enfants et adolescents en difficulté, la découverte des neuroleptiques et des antidépresseurs, l'introduction de l'orientation scolaire, ... amènent un profond changement dans cette période de reconstruction et d'initiatives pragmatiques. La jeunesse constitue la ressource à laquelle il faut faire appel ; le règne de l'enfance touche brutalement son terme au sein de ce virage socioculturel.

              Jean Dubuffet constitue sa collection d'œuvres acculturelles, c'est à dire ne répondant à aucun des critères techniques et esthétiques habituels ; bref de "l'Art Brut". Regroupant une multitude de conditions de créations, de moyens techniques et de sujets marginaux (fous, retraités, prisonniers, médiums,...), J. Dubuffet jette à nouveau le trouble sur les rapports art/folie.

              L'année 1950 est marquée par la première Exposition Internationale d'Art Psychopathologique dominée par les œuvres de schizophrènes adultes (Volmat, 1955). Enfants et adolescents n'obtiennent aucune place en cette manifestation, véritable clef de voûte de la future art-thérapie. Pourtant dès la fin de la guerre 39-45, des expositions d'œuvres réalisées par des jeunes (notamment délinquants) présentées à Villejuif, Sainte-Anne (Paris), Savigny et Marseille ne reçoivent aucune attention particulière. Peu à peu la folie change de visage, sa perception et son expression plastique aussi...

              Entre 1950 et 1959 le passage de l'Art Psychopathologique (alias Art des Fous) au vocable "Psychopathologie de l'Expression" s'officialise avec la création de la Société Internationale de Psychopathologie de l'Expression (S.I.P.E.) courant 1959, puis de la Société Française de Psychopathologie de l'Expression (S.F.P.E.) en 1964. Dans cette aventure, Claude Wiart apparaît tel un artisan infatigable propulsant les arts-thérapies sur le terrain de la clinique, de la formation et de la recherche. Ses vues avant gardistes et celles de son équipe du Centre Hospitalier Sainte Anne (Paris) ne trouveront d'échos que bien des années plus tard.

              Parallèlement aux U.S.A., l'art-thérapie, avait déjà fait l'objet de quelques ouvrages consacrés à l'adolescent (Naumburg, 1947), à l'adulte (Naumburg, 1950) et à l'enfant (Kramer, 1958) fomentant une controverse territoriale avec les tenants de l'éducation artistique à visée thérapeutique. Dans ce débat, Viktor Lowenfeld se pose en ardent défenseur d'une non séparation de l'éducation artistique et de la thérapie. Au fil du temps, il apporte des nuances à ses positions initiales, notamment en précisant que l'éducateur en art fournit un complément aux interprétations et diagnostics de l'art-thérapeute ... Avec la vision holistique qui la caractérise, Edith Kramer (1971, 1986) propose une intégration sereine d'apprentissages artistiques, pédagogiques et thérapeutiques dans la formation des arts-thérapeutes. Elle ne manque pas non plus de souligner, avec force, la place prépondérante du processus par rapport à l'objet créé même si tous deux doivent être considérés dans la dynamique art-thérapique. Ce débat, en soit peu banal, ne se réglera que dans les années quatre vingt par une assimilation partielle du courant des éducateurs en arts à celui des arts thérapeutes avec un terrain privilégié pour ces premiers : "l'éducation spéciale". Tandis que pour les seconds, un champ à la fois plus focalisé et plus large se justifie, "l'éducation spéciale, le handicap et la psychopathologie"...placés sous l'égide de la thérapie. Mais d'autres dialectiques s'ouvrent :

- d'une part sur la pertinence des approches jungiennes, gestaltistes, humanistes, phénoménologiques... avec les inconditionnels d'une art-thérapie intégrée à un processus thérapeutique global et les partisans la concevant comme une thérapie autonome à part entière,

- d'autre part sur l'utilisation des techniques d'évaluation où s'affrontent les tenants d'outils psychométriques plus ou moins classiques appliqués à l'art-thérapie et ceux revendiquant l'usage d'instruments développés pour les arts-thérapeutes par les arts-thérapeutes.

Dans ces agitations, l'Association Américaine des Art-thérapeutes, forte de quelque quatre mille membres s'essaie à définir des critères standards de reconnaissance d'une art-thérapie de qualité et à affirmer l'identité professionnelle des arts-thérapeutes. Depuis sa fondation en 1969, elle mène cette mission avec une opiniâtreté farouche.

              En Angleterre l'art thérapie apparaît à la fin des années trente sur l'étayage des travaux de la psychologue américaine Margaret Naumburg, du dessin d'enfant et de la psychologie développementale. Elle se déploie alors de manière informelle dans les lieux de soins et les services sociaux pour aboutir en 1964 à la création de la British Association of Art Therapists (B.A.A.T.) dont, l'objectif vise, d'emblée, l'édification des critères de formation et de défense de la profession[4]. Ailleurs, notamment:

- en Suisse, le mouvement art-thérapique amorcé dans les années quarante ne renaît de ses cendres qu'à l'aube de la décennie 1980.

- en Allemagne, l'art-thérapie, décapitée par la montée du nazisme, retrouve son dynamisme dans une véritable "psycho-boum" au décours de la période 1975-1980,

- en Italie, l'édification, courant 1982, d'une association nationale d'art-thérapie avec des standards de formation anglo-saxons bouscule les pratiques cantonnées depuis les années trente aux handicapés physiques et mentaux.

 

4) Seventies et eighties : La préfiguration de la modernité art-thérapique ?

              Si l'imagination ne prend pas le pouvoir comme le clamaient les slogans du Mai 68 Français, un souffle créatif s'ébauche. L'enseignement et les psychothérapies institutionnelles l'amplifient. Le réseau associatif et culturel permet d'installer les sujets de la psychiatrie dans la cité en leur conférant une place de citoyen acteur et créateur de sens, de socialité, d'innovation ... Les formations se multiplient avec un éventail de contenus déroutants ... L'art-thérapie, tout comme la créativité, s'infiltre donc partout...

              A l'aube des années quatre vingt, tout bascule ; la sociologie, la psychologie et la psychiatrie semblent (re)découvrir les jeunes, ou plus exactement ces derniers interpellent les premiers dans une société de consommation en questionnement. Etudes et enquêtes sur leurs états de santé, leurs maux, leurs loisirs, leurs devenirs... prolifèrent dans une connotation sociologique et politico-économique marquée. La culture s'adresse durant cette décennie à des adolescents en quête de référents en essayant de favoriser leurs expressivités créatives. Ainsi, elle leur donne des outils et des moyens via le canal de l'école, des communes, des départements et des régions dont des manifestations comme "la fête de la musique" constitue une élémentaire exemplification.

 

5) Les années quatre-vingt-dix : Ouverture sur le troisième millénaire

            Les années quatre-vingt-dix se caractérisent par :

-        une inflation de l'usage du mot "art - thérapie" et de ses dérivés,

-        une multiplication de pratiques qui n'ont plus rien à voir avec la valence thérapeutique de l'art-thérapie comme en témoigne par exemple son développement dans le champ de la prévention primaire en matière de santé,

-        un engouement de nombre de professionnels issus de champs aussi divers que l'art, la philosophie, le secteur socio-éducatif et para médical, etc,

-        une offre de formations qualifiantes et diplomantes en plein essor,

-        une ouverture vers des courants théoriques tels que l'art - thérapie transpersonnelle, l'art - thérapie systémique, l'art - thérapie intégrative.

-        un éventail de revues nationales et internationales (Art et Thérapie, International Journal of Art therapy, Arti terapie, Arts et Psyché, Art therapy, The arts in Psychotherapy, American Journal of Art therapy, etc) dont l'étendu tout comme la qualité scientifique questionne.

-        une pâle existence de sites Internet dont le contenu se révèle pauvre.

              Bref le troisième millénaire conduit à poser la gageure de la spécificité de l'art - thérapie et de sa professionnalisation à un haut niveau.

 

 

II – L'ART –THÉRAPIE : UNE DÉFINITION PROBLÉMATIQUE

1) Quelques constats

              L'art-thérapie souffre depuis les années cinquante d'une double pathologie subaiguë qui ne cesse de s'amplifier ! Victime de son succès, elle est devenue une sorte de mot valise contenant un ensemble de clefs aux serrures polysémiques en permanente mouvance.

              La prolifération des pratiques et des formations art-thérapiques ont conduit à des malentendus au sein desquels chacun poursuit une optique érigée en vérité universaliste ... A cet égard, un examen attentif de la littérature et des pratiques les plus courantes se révèle pour le moins édifiant :

- quelques praticiens incorporent directement le concept art-thérapie sans se soucier de lui conférer un contenu élaboré comme si le mot relevait de la magie tant parfois l'adéquation de celui-ci au fonctionnement clinique personnel tient de la perlaboration,

- d'autres donnent à l'art-thérapie une définition entièrement personnelle qu'ils articulent à leur pratique devenant ipso facto le contenu mais aussi les indications de référence,

- certains au gré d'opportunités théorico-cliniques réalisent une confusion maximale en amalgamant toutes les pratiques autres que la psychothérapie verbale à de l'art-thérapie,

- d'autres encore, en Europe comme ailleurs, s'emploient à des délimitations de territoire où des disciplines souveraines (art, psychiatrie, pédagogie, ...) s'essaient à des phagocytoses indigestes, plus ou moins teintées d'un état oscillant de la mégalomanie à la pulsion d'emprise,

- enfin quelques-uns débattent de l'art-thérapie avec des nuances et des prises de distance se traduisant par une inflation conceptuelle (thérapies créatives, psychothérapies médiatisées, expressions thérapeutiques, thérapies par l'art, thérapies expressives, ...). Explicites en une situation ponctuelle in situ, ces "remplaçants conceptuels" s'emplissent rapidement d'anachronismes compte tenu que nous ne cessons, pour se bien entendre, d'en revenir au concept fédérateur d'art thérapie.

 

2) Dans le trait d'union de l'art-thérapie : Inflation de propositions conceptuelles

              Depuis les années soixante, période où le concept art-thérapie infiltre le champ de la psychopathologie de l'expression, nous ne cessons de palabrer (surtout en France) autour et sur ce concept anglo-saxon importé sans lifting préalable dans la vieille culture européenne[5]. La greffe a-t-elle prise ?

              Claude Wiart et ses collègues de la Société Française de Psychopathologie de l'Expression mettent à plusieurs reprises l'art-thérapie sur la sellette. D'autres, tel Jean-Pierre Klein (1988) introduisent entre les deux pôles du concept la conjonction de coordination "et" posant en clair la question essentielle de savoir ce qu'il en est de l'art dans la thérapie et de la thérapie dans l'art ? Est-il possible de réduire, de superposer, de faire cohabiter, ... l'un avec l'autre ?

              Si l'art même dans sa définition la plus élémentaire génère des ambiguïtés, la thérapie, elle, s'inscrit clairement dans le soin. Soit dans l'objectif princeps d'amener l'autre à un processus de changement puis de le conduire à faire face aux diverses situations existentielles et enfin à percevoir que la vie vaut la peine d'être vécue.

              Agitateur et catalyseur des pensées, l'art-thérapie a considérablement enrichi la classique "psychopathologie de l'expression" qui, tel le phénix renaît de ses cendres, dans les tumultes conceptuels. En effet, en réaction à ce concept anglophone, jugé inadéquat par nos compatriotes, jaillissent pléthore de substituts dont la forme et le contenu prouvent qu'il ne s'agit pas d'une simple querelle de mots (maux) mais d'enjeux de pouvoirs et de pratiques. Pour mieux éclairer notre lanterne, arrêtons-nous sur quelques unes des formulations les plus preignantes :

a) "Les psychothérapies de créativité" hantèrent les années soixante-dix pour désigner toutes les modalités d'expressions plastiques, corporelles, littéraires et autres usant de la créativité dans un cadre psychothérapique (Benoit, 1973 ; Stévenin, 1978).

              Le manque de spécificité de cette tentative n'altère en rien l'accent mis sur la créativité dont l'acception se révèle tout aussi floue. Outre Manche, Bernie Warren (1984) se rapprochera de cette position française historique en avançant la proposition de "thérapies créatives" entendue dans le sens d'une réintégration du processus artistique produisant un gain chez tout sujet très tôt aliéné dans ses désirs et droits créatifs. De proche en proche, ces propositions laissent place à une gestation d'indications et d'effets thérapeutiques.

b) "La psychothérapie par les expressions plastiques" a été largement promue par Claude Wiart (1983, 1985) soulignant que ces pratiques, qui ne sont pas immédiatement langage, jouent la partition thérapeutique sur la multiplication des signifiés sous des signifiants sans définitions exactes. L'intérêt se porte ici sur le vécu du processus.

              Béatrice Chemama et Françoise Fritschy (1979) préféreront le vocable de "psychothérapie avec expression plastique" afin de poser le fait d'un surgissement verbal à partir du support artistique sous tendant la situation clinique, voire analytique. L'accent se déploie vers le jeu relationnel. La rencontre du sujet avec sa réalité psychique et le réel est ouverte ; l'identisation peut entamer sa fugue dans l'émergence d'une production-création.

              Ce passage du "par" à "l'avec" nous enseigne que d'un côté se localise "les pratiques à effets thérapeutiques" plus ou moins sollicitées et de l'autre "les pratiques psychothérapiques" clairement affirmées où la situation médiatisée ne devient qu'un pré-texte d'un texte à édifier. L'une serait-elle plus noble que l'autre ? Le terrain clinique répond en dévoilant que le "par" et "l'avec" s'intriquent dans un processus thérapeutique toujours complexe.

c) "La thérapie par l'art" a été proposée par Marc Muret (1983) pour refléter la pluralité des médiations et approches artistiques. Elle prête le flanc, tout comme "la psychothérapie par les expressions plastiques" à une conception basale d'un art en soit et par soit thérapeutique et/ou d'une expression pour l'expression. Notons que l'expérience du plaisir, nécessaire à tout processus de soin, est ici bien présente.

d) "La psychothérapie médiatisée" est certainement l'expression phare des années 80 et de celles à venir par le seul fait d'avoir mis l'accent sur le point clef de la médiatisation thérapeutique de l'objet. Certes, les dérives et les abus de l'engouement médiatisé n'ont pas manqué de gauchir cette expression assez proche de celle de "psychothérapie avec expression plastique".

              Façonnée à l'origine par François Granier et son équipe toulousaine sur l'étayage d'adultes psychotiques hospitalisés, cette conceptualisation désigne la pratique d'une activité artistique ou culturelle au titre de médiations en situations d'ateliers psychothérapiques. Autrement dit, l'objectif princeps tient en un travail psychothérapique basé sur le transfert contre-transfert au sein duquel la médiation n'est qu'un moyen pour épauler le déploiement d'indications dans les psychothérapies (Granier, Girard, Jacomini et Escande, 1987)

e) "L'art-thérapie expressive" et "L'art-thérapie créative" sont les dernières nées de cette inflation conceptuelle. Elaborées dans le champ de la pédopsychiatrie et de la formation par Jean-Pierre Klein, elles devraient parfaitement s'adapter à nos préoccupations. Qu'en est-il ?

              En clair "l'art-thérapie expressive" consiste à partir d'un travail d'expression médiatisée (poésie, peinture, collage, terre, etc. ...) à analyser et interroger dans le jeu verbo-transférentiel ce qui est ainsi produit. Quant à "l'art-thérapie créative", si elle sollicite aussi la dimension expressive du sujet, le traitement s'en avère très différent. En effet, point n'est question d'un décryptage stricto sensu du donné à voir et à entendre mais plutôt d'un accompagnement souple sur et dans les productions avec un recours aux forces de constructions positives de la psyché en évitant de percuter, dans une stratégie dit de "détour" ou de "l'ellipse", les tabous, les symptômes, les défenses et résistances du sujet. Le mal être, la douleur, l'errance, ... se métabolisent dans une claire pénombre en une figuration artistique qui pour le coup fait irruption en thérapie... Au fil des productions, des mises en formes imaginaires surgissent, des perlaborations se dévoilent, dans une reconnaissance-renaissance pulsant les "je" identitaires et l'objectivation de la réalité externe. Ce processus transformationnel peut aboutir à la réalisation d'un objet artistique détachable (Klein, 1993).

              Mettre le sujet en position d'acteur ; l'accompagner synchroniquement et diachroniquement dans ses élaborations, ses passages à l'acte, ses tourments, contourner ses résistances au changement, ménager ses dictions de symptômes, respecter ses défenses par le jeu et l'enjeu de médiatisations ; est-ce là "une révélation" ? Les systémiciens l'ont par exemple démontré et couché sur le papier depuis fort longtemps. Pour quelques uns, le mérite de cette conceptualisation d'arlequin réside dans le seul fait de s'essayer à mettre en mots ramassés et poétisés le banal d'une clinique faussement identifiée comme acquise. Elle offre toutefois une méthodologie clinique pour poser la thérapie dans une dynamique adaptée.

 

3) Hors les mailles de la psychiatrie ...

              Lorsqu'un praticien use de psychothérapie verbale avec un sujet, il est admis, (sans trop de restriction) que celle-ci puisse se déployer en tout lieu de soins avec n'importe quel type de malade. Autrement dit, que le psychothérapeute exerce son art en cardiologie, diabétologie ou bien encore en maladies infectieuses ne soulève guère d'étonnement. Le soin verbal jouit, semble-t-il d'un véritable œcuménisme ! Par contre, l'art-thérapie en tant que procédure médiatisée ne bénéficie pas des mêmes extensions du fait :

- d'une surdétermination psychiatrique et psychopathologique,

- d'une mobilisation du potentiel créatif et du corps, perçus avec méfiance par les entourages soignants.

              Les quelques applications hors des champs classiques traduisent clairement que l'art-thérapie n'est pas et ne peut être systématiquement conçue dans l'unique analogon de la psychothérapie analytique. Plus résolument, il convient donc de placer en exergue "la thérapie" étayable sur des théorisations et des pratiques pluriaxiales.

 

4) Art-thérapie structurée, associative ou interactionnelle ?

              Dans ce paysage "boxologique" se noue la nécessité d'adopter un repérage triaxial afin de se dégager des réductionnismes et de favoriser la communication entre soignants. Nanti des éléments discriminants formalisés par Richard Meyer (1994), à propos des somatothérapies, il devient opportun de distinguer sur la base d'un usage de médiations diversifiées :

a) "Une art-thérapie structurée" reposant essentiellement sur une orientation éducative-rééducative, cognitivo-comportementale, psychomotrice, gestaltiste, etc. ... La durée de la prise en charge est dans ce cas relativement courte et programmable. La relation thérapeutique de type semi-directive s'adresse à la symptomatologie et/ou aux difficultés manifestes de manière frontale et active,

b) "Une art-thérapie associative" qui en appelle à une orientation psychanalytique qu'elle soit freudienne, jungienne, lacanienne, etc. ... Si la durée dans cette modalité s'avère longue et non-programmable, elle est en tout cas moins étendue que pour une psychothérapie verbale, voire une analyse didactique. La relation thérapeutique de nature non directive, sans exclure des interventions ponctuelles du praticien, recherche l'édification d'un transfert-contre-transfert conduisant, par delà la symptomatologie à s'intéresser à la structuration du sujet. Dans cette prise en compte du latent, les défenses seront respectées et l'imprévu salué,

c) "Une art-thérapie structuro-associative ou interactionnelle" amalgamant dans un complexe à chaque fois singulier les deux formes précédentes. Le sujet nous contraint le plus souvent à fonctionner dans ce registre où l'aspect structuré se dessine en base de sécurité pour qu'adviennent les associations libres et les élaborations plastiques et/ou verbales. Nous sommes là à une croisée thérapeutique complexe mêlant de façon indistincte des formations appartenant à des niveaux différents de la structuration psychique. Le mélange des genres et des pratiques induit une dynamique fertile conduisant chacun à mettre sur le métier sa clinique, ses incertitudes et ses projets...

 

 

III – POUR CONCLURE : UNE NOUVELLE CONCURRENCE …

              L'art - thérapie n'en finit pas de s'essayer à trouver une identité que viennent maintenent disputer d'autres spécialistes, notamment les artistes. A l'instar des art-thérapeutes, ces derniers ont édifié des pratiques (Ars as Healing, Art in Healthcare, arts Medicine, etc.) et groupements professionnels (Arts and Healing Network, International arts Medicine Association, Society for the Arts in Healthcare, etc.) ad hoc figurant en bonne place sur Internet et dans nombre de revues (Malchiodi, 1998).

              Ce phénomène qui touche pour l'instant assez peu l'Europe Continentale pose implicitement la question de :

-        la validité même du concept d'art - thérapie et de son identité professionnelle,

-        la place de l'artiste et de l'art dans le champ du soin,

-        l'attente des soignants qui sollicitent un praticien versant socio-culturel plutôt qu'un autre versant soin-processus de changements,

              In fine, tout cela ne revient-il pas à disposer d'un courant où l'art est premier et d'un autre où la thérapie domine ? Confessons que les formations en art - thérapie ne sont pas toutes friandes d'artistes … Par ailleurs, beaucoup souhaitent exercer leur métier dans des lieux de soins sans aliéner leur identité première et revêtir la toge de thérapeute !

              Par delà toute polémique, il transparaît que cette situation résulte :

-        d'une part du processus art-thérapique lui-même dans le sens où il convoque simultanément des processus relationnels, médiationnels et créatifs. Cette synthèse conduit inévitablement à des phagocytoses outrancières et donc à des mouvements actés,

-        d'autre part d'une confusion entre ce qu'est "la psychothérapie spécifique ou systématisée" et "la psychothérapie intégrative".

 

 

BIBLIOGRAPHIE

 

1.   BENOIT J.C. (1973). Les méthodes expressives. In P. Sivadon (Ed). Traité de Psychologie Médicale - La rencontre thérapeutique. Paris : PUF ; 151-164.

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3.   ; 242-247.

4.   CHEMAMA B. et FRITSCHY F. (1979). Quelques questions de pratiques concernant l'art-thérapie. Psychologie Médicale, 11, 10 ; 2095-2098.

5.   Collectif (1996). Profession psychothérapeute. Buchet/Chastel, Paris.

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7.   FOUCAULT M. (1972). Histoire de la folie à l'âge classique. Paris : Gallimard.

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10.FREUD S. (1976b). L'interprétation des rêves. Paris : PUF.

11.FREUD S. (1979a). Le mot d'esprit et ses rapports avec l'inconscient. Paris : Gallimard.

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[1] Réunissant quelques 5000 œuvres de près de 450 internés en majorité schizophrènes et issus de toute l'Europe, cet ouvrage introduit en France par les Surréalistes ne connaîtra qu'un succès restreint. Malgré les assauts répétés de Gaston ferdière, dès les années 40, il ne fut traduit en Français (Editions Gallimard) qu'en 1984.

[2] Ce courant est actuellement bien implanté aux U.S.A.

[3] Comparativement dans d'autres lieux d'enfermement comme les prisons, il faudra attendre la décennie 80 pour voir un tel mouvement s'amorcer

[4] Comme aux U.S.A., les arts-thérapeutes anglais se confrontèrent dans l'accession à leur identité à clairement différencier le rôle des enseignants d'arts et le leur.

[5] Nombre d'autres pays européens (Suisse, Italie, Allemagne, Grèce, Lithuanie, Hongrie, ...) ont accueilli le concept d'art-thérapie dans son acception anglo-saxone avec beaucoup moins de réserves. Il est vrai qu'en France, le mot "Art" englobe autant la médiation utilisée, la production, l'activité ... que le processus alors que pour les pays d'Amérique du Nord par exemple, il s'agit essentiellement des Beaux Arts et du processus de création. La traduction littérale est donc porteuse d'équivoque.

 

 

 

  
 
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Arte-Terapia a distanza di Giorgio Turrini Deavi

Presso il CISAT (Centro Italiano Studî Arte-Terapia, di Napoli) esiste una Scuola di Formazione in Arte-Terapia A Distanza: il Centro è parte dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, Ente di rilievo della Regione Campania e riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Il CISAT, oltre che proporre le varie attività, è membro del WCP di Vienna ed è una delle pochissime scuole di Formazione riconosciute in Italia dall'ING/AT, l'associazione mondiale delle scuole di Arteterapia.
Composizione con largo piano blu, rosso, nero, giallo e grigio, 1921. Dallas Museum of Art, Dallas, Texas.
Composizione con largo piano blu, rosso, nero, giallo e grigio, 1921. Dallas Museum of Art, Dallas, Texas.
Corsi di scrittura creativa (anche A Distanza: LESC), laboratori di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi, segnano una progredita e diversa istruzione sanitaria-educativa designata agli studenti laureati in Psicologia, in Medicina, in Scienze dell’educazione, in Filosofia ed in materie letterarie, ai diplomati dell’Accademia delle Belle Arti e del Conservatorio di musica.
Lezioni curate da specialisti, in questo particolare tipo di settore, alternano sedute a temi monotematici a sedute a temi indipendenti, quindi liberi. Nella prassi dei gruppi di terapia e di formazione tenuti dai docenti interni, i discenti devono dare origine all’opera d’arte con la massima creatività ed espressione personalizzando le proprie capacità umanistiche e scientifiche. Con la supervisione del terapeuta e del co-terapeuta si analizzeranno i soggetti tematici, si esamineranno le dinamiche che si innescano all’interno del gruppo attenendosi ai criteri dell’Arteterapia, intesa come psicoterapia analitica.
Questa scuola prevede attività di Icono-Terapia e Pòiesi-Terapia. I Corsi propongono l’utilizzo delle tecniche di scrittura e di disegno come veicolo elettivo nei livelli dell’esperienza sensoriale, corporea, emotiva, immaginativa e cognitiva-verbale.
L'Arte-Terapia come una teoria e una prassi psicoterapeutica a tutti gli effetti, rappresenta una formula innovativa ed intelligente, totalmente autonoma. L’Arte-Terapia è comunicazione e ha lo scopo basilare di variare e ampliare l’espressività efficace nei suoi due versanti, ricettivo e produttivo.
Docenti psicologi, psicoterapeuti e psichiatri che adottano l'arte per sanare la realtà, intendono consolidare l'affermazione scientifica e accrescere la loro conoscenza terapeutica istituzionale.
“L’impiego dell’arte e delle sue tecniche come strumenti terapeutici nelle varie forme della poiesiterapia, dell’iconoterapia e dello psicodramma creativo”, spiega il Direttore Roberto Pasanisi, arteterapeuta, “sono una delle vie della psicoterapia del futuro: ‘Vivete per il presente, sognate per l'avvenire, imparate dal passato’ è il motto della Scuola”.
Progettare la creatività. Teorie psicologiche e analisi dei casi.
Progettare la creatività. Teorie psicologiche e analisi dei casi.

Molti sono in effetti in Italia le scuole e i corsi di scrittura creativa, i laboratori di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi, e altre iniziative simili; come pure gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che adoperano l'arte in forma per così dire “ancillare”, come una tecnica fra le altre nell’ambito di una teoria e di una prassi diverse, che nulla hanno a che vedere con l'Arteterapia.
Il CISAT è invece l'unica istituzione riconosciuta nel nostro Paese che pratichi l'Arteterapia come una teoria e una prassi psicoterapeutica a tutti gli effetti e autonoma, sviluppando questa disciplina come una scuola di psicoterapia “tout court”, curata non da scrittori o pittori o scultori o da psicologi di altre scuole, ma da specialisti in questo particolare tipo di psicoterapia.
Il Centro Italiano Studi Arte-Terapia afferisce riguarda il campo - nuovo in Italia, ma largamente consolidato all'estero, specie in America e nei Paesi anglosassoni — dell'Arteterapia: esso intende consolidare l'affermazione scientifica e accrescere la conoscenza di questa nuova scuola psicoterapeutica, contribuendo a fissarne i punti di riferimento fondamentali. Il CISAT - che propone alcune delle sue attività, oltre che in sede, anche on line - è membro del WCP di Vienna ed è una delle pochissime scuole di Formazione riconosciute in Italia dall'ING/AT, l'associazione mondiale delle scuole di Arteterapia. Il CISAT è in effetti interessato a conoscere qualche impressione sul Centro e ricevere idee e proposte di collaborazione e sinergie, specie via Internet.
La scuola conferisce un Diploma al termine di ogni anno e il Diploma finale in Arteterapia alla fine del IV anno di Formazione.
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Mobbing (Persecuzione lavorativa)

 

Mobbing: un fenomeno da debellare

Convegno Nazionale UIL CA

Hotel Hermitage – Galatina (le)

16 giugno 2000

 

 

 

Intervento dell’Avv. Fernando Caracuta

Cultore di Diritto del Lavoro presso la facoltà di Giurisprudenza

dell’Università di Lecce

 

IL “MOBBING” E LA TUTELA GIUDIZIARIA

 

N

egli ultimi anni, si è sviluppato nel nostro Paese il dibattito intorno al problema del “mobbing” sul posto di lavoro: in questa sede, cercheremo di comprendere ed approfondire gli elementi costitutivi di esso, di verificare se nell’ordinamento giuridico attuale esistano degli strumenti di tutela per tutti i danni prodotti dal mobbing e, infine, di analizzare le diverse proposte di legge che sono all’approvazione del Parlamento.

Il termine “mobbing” deriva dal verbo inglese to mob, che tradotto in italiano può assumere vari significati, quali assalire in massa o in modo tumultuoso, accerchiare, circondare, assediare; il vocabolo mobbing, inoltre, è molto usato anche nel mondo animale per descrivere il comportamento d’aggressione del branco nei confronti di un animale isolato.

Il mobbing nel mondo del lavoro può senz’altro essere ricondotto a sistematiche e ripetute angherie e pratiche di vessazione poste in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico, oppure da colleghi di lavoro di pari livello o subalterni nei confronti di un determinato lavoratore (che potremo chiamare mobbizzato) con l’evidente scopo di emarginarlo, isolarlo ed indurlo, infine, alle dimissioni. Tale illegittimo ed illegale comportamento può scaturire da motivi di gelosia, invidia o concorrenza che esplodono, in un soggetto già di per sé predisposto o dall’animo perverso, nell’ambiente di lavoro, e a causa o in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa.

I principali studiosi di tale fenomeno a livello europeo ed italiano sono, rispettivamente, Heinz Leymann ed Harald Ege: quest’ultimo ha, di recente, svolto un’indagine del fenomeno in Italia ed ha definito il mobbing sul posto di lavoro come “un’azione (o una serie di azioni) che si ripete per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber (datore di lavoro o colleghi) per danneggiare qualcuno di solito in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale”[1].

Le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono diverse e vanno dall’emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla persecuzione sistematica, dalla dequalificazione professionale alle ritorsioni sulle possibilità di carriera, al fine di metterlo in difficoltà. Scopo del mobbing, è, come già detto, quello d’indurre la vittima ad abbandonare l’azienda, provocandone il licenziamento o inducendola alle dimissioni.

Il fenomeno ha assunto proporzioni a tal punto rilevanti, da coinvolgere in ogni paese europeo percentuali molto alte di lavoratori; in Italia, in particolare, si stima che il 4% della forza lavoro occupata è soggetta a pratiche di mobbing: circa 1 milione e mezzo i di lavoratori e lavoratrici italiani, quindi, sono mobbizzati[2]. 

Il mobbing, che inizialmente è stato esclusivo o prevalente campo di indagine della psicologia, medicina e della sociologia del lavoro, è stato recentemente affrontato, in modo adeguato ed appropriato, anche dal punto di vista giuridico[3].

vvvvv vvvvv vvvvv vvvvv vvvvv

Passiamo, ora, ad esaminare gli strumenti giuridici che il nostro ordinamento contiene per sanzionare civilmente i singoli comportamenti che vengono complessivamente ricondotti al mobbing.

Appare opportuno, in questa sede, tralasciare l’esame dell’art. 2043 c.c., che sancisce il principio del neminem laedere, in virtù del quale la produzione di un danno ingiusto è fonte di responsabilità extra-contrattuale ed obbliga il responsabile anche indiretto, e quindi anche il datore di lavoro, al risarcimento del relativo danno.

Ricorderò soltanto la sentenza della Corte Cost. n° 184/86, secondo cui l’art. 2043 c.c. “va necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”.

 

La responsabilità contrattuale del datore di lavoro

 

Affronteremo il tema della responsabilità contrattuale del datore di lavoro, dal punto di vista unicamente della tutela della salute.

La norma fondamentale in materia è costituita dall’art. 2087 c.c. che testualmente statuisce: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Tale norma pone a carico del datore di lavoro uno speciale ed autonomo obbligo di protezione della persona del lavoratore e reca una previsione particolarmente ampia ed elastica, comprensiva non solo del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dalle leggi e dai regolamenti per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ma anche dell’introduzione e manutenzione delle misure idonee, nelle concrete condizioni aziendali, a prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo per il lavoratore, derivanti da fattori naturali o artificiali di nocività o penosità presenti nell’ambiente di lavoro[4]. Siffatto obbligo di protezione, inoltre, non attiene solo al profilo dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, ma anche a quello della personalità morale (da intendersi nel senso di “sociale”) [5].

Quest’ultimo aspetto, a lungo trascurato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, significa che nella fase dell’esecuzione del rapporto di lavoro deve essere rispettata la “persona” del debitore di opere, sia in senso fisico, sia nella direzione più ampiamente etica, in modo da evitare che il prestatore di lavoro, anziché cedere energie e forza-lavoro, sia costretto a “scambiare” ed alienare i propri diritti personalissimi[6].

Al momento della conclusione del contratto, l’obbligo di prevenzione ex art. 2087 c.c. s’inserisce automaticamente nel contenuto del rapporto di lavoro e l’imprenditore è tenuto, quindi, a svolgere un’attività generale di prevenzione dei rischi derivanti dall’ambiente di lavoro.

Mentre nella generalità dei contratti, tale obbligo deriva dal rispetto del principio della buona fede ex art. 1375 c.c. che entrambe le parti sono tenute ad osservare nella fase dell’esecuzione delle proprie obbligazioni, nel rapporto di lavoro vi è la necessità di tutelare il lavoratore dagli specifici rischi derivanti dall’ambiente di lavoro, mediante il ricorso ai normali obblighi di protezione che, per il principio di correttezza ex art. 1175 c.c., integrano i reciproci obblighi derivanti dal rapporto di lavoro (prestazione di lavoro, da una parte, e retribuzione dall’altra). A ciò si aggiunge un autonomo ulteriore obbligo, anch’esso primario, di protezione del fondamentale interesse del prestatore alla salute, riconosciuta dall’art. 32 della Costituzione come bene di interesse collettivo e, nello stesso tempo, come diritto assoluto della persona[7].

Non va dimenticato, infine, e a proposito della tutela costituzionale della salute, l’art. 41, 2° co., Cost., secondo cui l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

V’è da dire, comunque, che la surrichiamata norma dell’art. 2087 è stata scarsamente utilizzata nella sua tipica funzione di prevenzione, ed è stata, invece, invocata ex post in funzione risarcitoria di eventi dannosi già verificatisi[8].

Del resto, tale funzione di tutela preventiva ex art. 2087 c.c. non ha trovato sempre concorde la giurisprudenza di legittimità, la quale, al contrario, con una sentenza del 1982[9] ha espressamente statuito che “il diritto di cui all’art. 2087 c.c. non poteva essere tutelato in via preventiva, ma solo nel caso se ne fosse realizzata la violazione”.

Ma già nell’anno successivo, si registra una decisa inversione di tendenza della Suprema Corte che riconduce la responsabilità imprenditoriale ex art. 2087 c.c. nell’ambito della responsabilità contrattuale, in tal modo configurando per il lavoratore un diritto soggettivo e per il datore un obbligo di sicurezza che trova il suo fondamento giuridico nel rapporto di lavoro[10], cosicchè la sicurezza diventa un’obbligazione accessoria rispetto a quella principale[11].

Nel momento in cui la tutela ex art. 2087 c.c. rientra nella responsabilità contrattuale, e non più in quella extra-contrattuale ex art. 2043 c.c., dovrà applicarsi l’art. 1218 c.c. che stabilisce: “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Per la giurisprudenza, a questo punto, il passaggio dalla responsabilità contrattuale al riconoscimento di una tutela preventiva era quasi automatico. Ed infatti, nel 1985 la giurisprudenza afferma che “il lavoratore, che è oggetto concreto della tutela assicurativa ha, stante la funzione anche preventiva degli obblighi ex art. 2087 c.c., un vero e proprio diritto soggettivo al relativo adempimento, assieme agli altri diritti contrattuali[12]: tale orientamento viene, poi, confermato dalle Sezioni Unite della Cassazione[13].

Può senz’altro affermarsi che nel rapporto di lavoro, il generale principio del neminem laedere ex art. 2043 c.c. si concretizzi in un’autonoma obbligazione contrattuale e confermi, così, l’esistenza di un periculum reale comunque presente all’interno del rapporto di lavoro medesimo[14].

 

Danni risarcibili e profili probatori

 

Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro sia ritenuto responsabile ex art. 2087 c.c. di comportamenti riconducibili al mobbing, egli sarà tenuto a risarcire tutti i danni provocati da tale illegittimo comportamento.

In tali circostanze viene, innanzitutto, riconosciuto pacificamente il danno patrimoniale, ovvero il danno alla capacità produttiva di reddito sia nel senso del danno emergente sia nel senso del lucro cessante; viene, altresì, riconosciuto il danno morale ed alla vita di relazione in tutti i casi integranti reato, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. e viene, infine, riconosciuto il danno biologico.

La categoria del danno biologico è stata creata nel nostro Paese dal diritto “vivente”, che ha dovuto superare le enormi difficoltà interpretative conseguenti alla nozione di danno non patrimoniale collegate al principio di tipicità ex art. 2059 c.c., pur a fronte di una clausola generale come quella contenuta nell’art. 2043 c.c.[15].

Le due norme appena richiamate, se interpretate in senso restrittivo, avrebbero di fatto escluso la possibilità di risarcire il danno alla salute o danno biologico, cosicchè solo un intervento della Corte Costituzionale sarebbe stato in grado di rimuovere l’ostacolo ermeneutico del combinato disposto delle due norme.

Con una prima sentenza[16] la Corte Costituzionale riconobbe nella tutela prevista dall’art. 32 Cost. “un diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra i privati” e con una seconda[17] stabilì il principio in base al quale era conforme alla Costituzione l'interpretazione, secondo diritto vivente (in proposito vanno ricordate soprattutto la sentenza del Tribunale di Genova[18] e quella della Corte di Cassazione n° 3675/’81[19]) che considerava non limitata dall’art. 2059 c.c. la risarcibilità del danno non patrimoniale, anche se tale risarcibilità non è stata esplicitamente prevista dalla legge, nell’ipotesi in cui essa è conseguenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito come quello alla salute ex art. 32 Cost..

Successivamente, la Corte Costituzionale ha definitivamente consolidato tale principio, con tre sentenze tutte adottate nel 1991[20].

Non v’è dubbio, comunque, che l’azione risarcitoria, finalizzata alla riparazione del danno biologico, trae la sua origine causale nell’accertata esistenza di “un illecito civile dell’imprenditore”, riconducibile, in particolare, alla specie dell’inadempimento[21].

Per tale ragione, il danno biologico si cala all’interno di una relazione contrattuale: deriva, da tanto, che non è importante più la rivisitazione dell’art. 2043 c.c., reinterpretato alla luce dell’art. 32 Cost., bensì la rilettura dell’art. 2087 c..c., ed in particolare del dovere di sicurezza, rafforzato dalla concorrente garanzia costituzionale.

La norma di riferimento, quindi, non sarà più l’art. 2043 c. c., ma l’art. 1218 c.c., in stretta connessione con l’art. 1223 c.c., sul risarcimento del danno.

Quest’ultima norma, del resto, come anche l’art. 1226 c.c. (valutazione equitativa del danno) è comune alla due aree di responsabilità, contrattuale ed extra-contrattuale.

In conclusione sul punto, non può affermarsi, come invece ha fatto la Corte di Cassazione[22], un concorso tra le due responsabilità: nel rapporto individuale di lavoro, infatti, la rilevanza del danno biologico trova il suo fondamento giuridico nel combinato disposto di cui agli artt. 2087 c.c. e 32 Cost. e, quindi, la relativa azione risarcitoria si fonda sul presupposto che il datore di lavoro abbia violato il dovere di protezione e versi, così, in una situazione di inadempimento contrattuale[23].

La conseguenza non è di poco conto, ove si pensi che chi richiede il risarcimento del danno ingiusto secondo le regole della responsabilità aquiliana deve provare rigorosamente la condotta che ha determinato il danno, il nesso causale ed anche la colpevolezza o il dolo di chi è ritenuto responsabile. Al contrario, quando la domanda di risarcimento è fondata sulla responsabilità contrattuale, è sufficiente che l’attore provi l’inadempimento, mentre l’art. 1218 c.c. stabilisce il principio della presunzione di colpa, che impone al debitore di provare la non imputabilità dell’inadempimento, vale a dire che l’inadempimento “è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

In tal caso, il lavoratore dovrà provare sia il danno subìto, sia il rapporto di causalità fra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza (specifiche o generiche) e il danno predetto[24].

La giurisprudenza di legittimità ha, comunque, escluso che si versi in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, potendo il datore di lavoro fornire la prova di avere adottato tutte le cautele richieste dall’ordinaria diligenza, cosicchè l’infortunio che pure avrebbe potuto essere vitato comunque si verifichi il pregiudizio non è addebitabile all’imprenditore incolpevole[25].

Ed ancora, in una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha sostenuto che la norma di cui all’art. 2087 c.c. configura un diritto soggettivo del lavoratore, sia alla predisposizione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza, sia al risarcimento dei danni causati dalla mancata adozione di tali misure[26].

 

Fattispecie particolari

 

Nell’ambito del rapporto di lavoro, diversi e specifici comportamenti da parte del datore di lavoro che, complessivamente intesi, sono riconducibili al mobbing sono stati decisi dal legislatore o dalla giurisprudenza, e trovano, quindi, come già detto, una disciplina loro applicabile all’interno dell’ordinamento giuridico.

Si vuol dire, cioè, che le possibili forme in cui può manifestarsi il mobbing non costituiscono delle novità assolute, poiché esse singolarmente considerate trovano già nel nostro ordinamento una disciplina finalizzata a scoraggiarle e ad offrire adeguata tutela al lavoratore. E così, se le azioni di mobbing colpiscono un lavoratore per discriminazione politica, sindacale, religiosa, di lingua e di sesso, diverse norme dell’ordinamento internazionale o comunitario[27] o interno (artt. 3, 37, 39 della Costituzione, art. 15 Stat. Lav., L. n° 903/77, L. n° 125/91, art. 5 L. n° 135/90) possono essere utilizzate, anche a fini risarcitori.

Lo stesso avverrà in caso di violazione dell’art. 2103 c.c. per assegnazione a mansioni dequalificanti, ovvero per violazione dell’art. 1434 c.c. per la richiesta di annullamento di dimissioni derivanti da vizio di consenso per violenza[28].

 

a)     Demansionamento o dequalificazione professionale.

 

Molto spesso, le pratiche di mobbing colpiscono la professionalità del lavoratore, provocando un demansionamento dello stesso.

Il relativo danno da demansionamento[29] ha, in verità una struttura complessa[30], in cui l’elemento principale è il danno alla professionalità[31], a cui deve aggiungersi il danno alla personalità[32], il danno alla vita di relazione, il danno biologico alla salute e, in alcuni casi, anche quello morale[33].

In tale contesto, la tutela risarcitoria appare inadeguata, in particolare per quei diritti della persona-lavoratore personalissimi, che non hanno un contenuto patrimoniale, e tuttavia, di fronte all’incoercibilità degli obblighi di non fare (divieto di assegnazione a mansioni inferiori), può rivelarsi realisticamente utile per realizzare un minimo di effettività della tutela giurisdizionale[34].

Il problema più dibattuto in giurisprudenza attiene alla natura (contrattuale o aquiliana) della responsabilità conseguente alla dequalificazione: sul punto, la giurisprudenza non affronta in modo deciso la questione e, in alcuni casi, configura un’ipotesi di concorso tra le due responsabilità[35].

Per quanto già detto in precedenza, appare più coerente con le peculiarità del rapporto di lavoro ricondurre la responsabilità per tutti i danni provocati dal datore di lavoro all’interno del contratto[36], e tanto sia che il danno attenga alla lesione della professionalità del lavoratore, sia che riguardi la sua personalità.

Nel primo caso (danno alla professionalità) il danno deriva dalla violazione dell’art. 2103 c.c., nel secondo (danno alla personalità) dalla violazione dell’art. 2087 c.c.[37].

 

b)     Dimissioni del lavoratore e sua tutela

 

Così come affermato dagli studiosi del mobbing, uno degli effetti tipici cui mirano le condotte persecutorie e vessatorie è rappresentato dalle dimissioni del lavoratore.

Può accadere, innanzitutto, che il lavoratore, al momento delle dimissioni, adduca l’esistenza di una giusta causa, in conseguenza e per effetto appunto dei comportamenti vessatori: in tal caso, egli chiederà il pagamento dell’indennità di preavviso e il risarcimento del danno subìto[38].

Completamente diverso è, invece, il caso in cui il lavoratore si dimetta senza alcuna reale autonomia con i comportamenti persecutori: il  lavoratore, in tale ipotesi, si trova in uno stato temporaneo di incapacità, a causa appunto delle vessazioni, e, quindi, non adduce una giusta causa di dimissioni. Egli potrà, comunque, ottenere l’annullamento delle dimissioni ex art. 428 c.c. se riuscirà a provare che sono state rassegnate in un momento, anche temporaneo, di totale incapacità di intendere e di volere[39], ovvero se sono state rese sotto violenza ex art. 1434 c.c., anche sotto la forma della minaccia illegittima di far valere un diritto (quale ad esempio il licenziamento) per ottenere un vantaggio ingiusto ex art. 1438 c.c.[40].

Vale la pena sottolineare che la giurisprudenza di legittimità, richiamando altre specifiche pronunce ha ritenuto inapplicabili alle dimissioni  la disciplina di cui all’art. 2113 c.c., ritenendo le dimissioni medesime un diritto disponibile[41].

 

c)     Abuso di potere, comportamenti persecutori o discriminatori

 

In tempi recenti, la giurisprudenza ha sanzionato in maniera specifica comportamenti persecutori del datore di lavoro, che non rientrano tra quelli tipici maggiormente conosciuti.

In particolare la Corte di Cassazione ha ritenuto comportamento illegittimo persecutorio del datore la ripetuta richiesta da parte di quest’ultimo di visite mediche di controllo[42].

Tale sentenza conferma, sul punto, quanto affermato, innanzitutto, dal Pretore di Lecce – Dr. F. Buffa – che a tal proposito aveva parlato di “vero e proprio stillicidio di visite medico-fiscali di controllo[43]. Il Pretore di Lecce, quindi, accertato sia il profilo causale (in quanto l’INPS procede alle visite di controllo solo su impulso del datore di lavoro), sia sotto quello soggettivo (in quanto la società datrice di lavoro era consapevole delle condizioni di salute della lavoratrice), ha ravvisato nella condotta del datore di lavoro un abuso di potere, in violazione dei principi di correttezza ex art. 1175 c.c. e della tutela della salute ex art. 2087 c.c. Conseguentemente il Pretore, sul presupposto che gli obblighi di correttezza integrano il contenuto del contratto e che il relativo inadempimento (di natura dolosa) comporta la responsabilità del datore di lavoro, ha ritenuto il datore medesimo responsabile di tutte le conseguenze dannose, pur non volute o soggettivamente imprevedibili, derivanti dall’inadempimento ex art. 1225 c.c.. Il Pretore, infine, ha riconosciuto il diritto della lavoratrice al risarcimento del solo danno biologico, escludendo, nel contempo, il danno emergente ed il lucro cessante, poiché non adeguatamente provati, ed il danno morale, poiché la fattispecie in esame non integrava estremi di reato.

 

Il mobbing nella sentenza del Tribunale di Torino

 

La sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999[44] è la prima la sentenza ad affrontare, in modo approfondito, un caso di mobbing, formalizzando, così, l’ingresso del mobbing nella giurisprudenza giuslavoristica italiana.

Nel caso di specie, una lavoratrice era stata assunta con un contratto a termine e per mesi era stata costretta a lavorare ad una macchina collocata in una posizione opprimente (chiusa tra altre macchine ed i cassoni di lavorazione così da impedire ogni possibile contatto con i colleghi durante l’orario di lavoro) ed era stata fatta oggetto, altresì, da parte di un superiore di ripetuti maltrattamenti e molestie, anche di carattere sessuale.

Il Giudice ha accertato che la lavoratrice non aveva mai avuto in precedenza stati depressivi, neanche nei pregressi rapporti di lavoro, e che, durante il rapporto di lavoro in questione, era stata investita da “un’autentica catastrofe emotiva” e, nel contempo, colpita da una sindrome ansioso depressiva reattiva[45] che l’aveva, infine, costretta alle dimissioni.

Per tale ragione, il Giudice non ha ritenuto prospettabile, in riferimento ai commi 2 e 3 dell’art. 41 c.p., un’ipotesi di esclusione del nesso di causalità, per la preesistenza di causa efficiente autonoma, capace di generare da sola l’evento lesivo[46].

In ogni caso, ha affermato il Giudice, occorre fare espresso riferimento all’art. 32 della Costituzione ed all’art. 2087 c.c., i quali “tutelano tutti i cittadini indistintamente, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere”.

A tal proposito, il Tribunale di Torino ha confermato quanto già affermato sul punto da altra giurisprudenza di merito[47], secondo cui il datore di lavoro non può essere esonerato dalla responsabilità per il danno biologico e morale sofferto da una lavoratrice molestata, in ragione dell’esistenza di una concausa del danno, rappresentata dalla particolare fragilità personale della donna.

In tali ipotesi, pertanto, non potrà applicarsi l’art. 1225 c.c., che limita la responsabilità contrattuale al solo danno prevedibile, poichè l’inadempimento del datore di lavoro è accompagnato da dolo, ovvero da una condotta intenzionalmente lesiva della personalità del lavoratore.

Può, quindi, affermarsi che in tutti i casi di mobbing che siano imputabili ad una condotta, commissiva o omissiva, del datore di lavoro a quest’ultimo sarà opposta l’inoperatività della surrichiamata norma dell’art. 1225 c.c.[48].

Sul punto, comunque, non appare chiaro l’orientamento del Giudice, il quale ha ritenuto infondata la questione sollevata dalla società convenuta, e concernente la mancata segnalazione dei fatti di causa al datore di lavoro, dal momento che l’istruttoria aveva provato che, al contrario, la società medesima era stata opportunamente e ripetutamente informata della vicenda, vale a dire della ristrettezza dello spazio

Il Tribunale di Torino, nella prima parte della succitata sentenza, ha affrontato, in modo specifico e puntuale, il mobbing in azienda, ricorrendo al comma 2° dell’art. 115 c.p.c., che integra la fattispecie del “fatto notorio”.

Nel caso di specie, quindi, pur nel silenzio della lavoratrice ricorrente che non ha ricondotto il caso concreto al mobbing, il Giudice, utilizzando i poteri istruttori che la legge gli riconosce, ha fatto ricorso ad un dato di comune esperienza, rispetto al quale l’art. 115, 2° comma, enuncia che può essere posto a fondamento della decisione senza bisogno di prova[49].

Naturalmente, si deve trattare non già di fatti accidentalmente conosciuti dal giudice, ma di fatti che il giudice conosce perché sono noti alla generalità delle persone alla quale appartiene anche il giudice, in quel determinato ambiente e momento[50], come nozioni comuni e generali[51], e sempre in quanto siano stati allegati[52].

Con riferimento a quest’ultima ipotesi, la dottrina ha elaborato, come esplicazione del principio della domanda, quello dell’allegazione, in virtù del quale l’attore ed il convenuto devono allegare rispettivamente i fatti costitutivi, ed i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto dedotto in giudizio[53].

Nel caso di specie, pertanto, il Giudice intanto ha potuto far ricorso al “fatto notorio” e, quindi, al mobbing, in quanto la lavoratrice aveva allegato nell’atto introduttivo del giudizio i fatti costitutivi del mobbing medesimo.

E così, il Tribunale ha fatto riferimento al “fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing”, riconducendolo all’interno degli studi effettuati in campo medico, psicologico e sociologico sul sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici che hanno denotato gravi e reiterate distorsioni in grado di incidere pesantemente sulla salute individuale[54].

La sentenza considera necessarie, al fine di poter individuare la fattispecie del mobbing, la ripetitività della condotta e la finalità che essa persegue, e cioè l’isolamento o l’espulsione del lavoratore[55].

Ed ancora, la sentenza in esame ha fatto riferimento esclusivamente ai comportamenti vessatori e persecutori tenuti da superiori o da preposti nei confronti dei rispettivi sottoposti e riconosce, conseguentemente, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. per non aver saputo garantire e tutelare l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti[56].

A tal proposito, va detto che il mobbing può essere attuato sia dal datore di lavoro (o dai superiori gerarchici, spesso quali longa manus del datore medesimo), sia dai colleghi di lavoro: nel primo caso, si parlerà di mobbing verticale, nel secondo di mobbing orizzontale[57].

Può accadere, anzi accade molto spesso, che le due figure si intreccino, quale frutto di una comune strategia persecutoria, in cui il datore di lavoro è il soggetto ispiratore, mentre i colleghi sono i soggetti esecutori.

Sotto l’aspetto probatorio, la sentenza ha confermato quanto innanzi detto, in ordine alla necessità, per la lavoratrice, di provare unicamente la sussistenza del nesso di causalità tra la patologia insorta improvvisamente e l’ambiente di lavoro.

Quanto al risarcimento del danno, il Tribunale, preso atto che non era residuata in capo alla lavoratrice alcuna invalidità permanente, ha riconosciuto il danno biologico medio tempore procurato alla stessa e lo ha liquidato in via equitativa.

Alcune, ulteriori considerazioni, vanno fatte in ordine alla responsabilità diretta di chi pone in essere atti di violenza e persecuzione psicologica (cd. mobber).

Ebbene, non v’è alcun dubbio che l’autore, o gli autori, del mobbing rispondono personalmente e direttamente ex art. 2043 per il danno biologico procurato al lavoratore[58], così come risponderà, per quanto detto in precedenza, il datore di lavoro ex artt. 2049 e 2087 c.c..

Ma gli autori del mobbing risponderanno anche del procurato danno professionale, nei casi in cui il danno è riferibile a reiterati comportamenti personali, colposi o dolosi: in tale ipotesi, il datore di lavoro è, in ogni caso, responsabile ex art. 2103, 2087 e 1375 c.c.[59].

 

Il mobbing nei progetti di legge

 

Attualmente sono stati presentati 5 progetti di legge in Parlamento, di cui 2 disegni di legge al Senato della Repubblica (n° 4265 dei senatori Tapparo e altri comunicato alla Presidenza il 13 ottobre 1999 e n° 4313 del senatore De Luca comunicato alla Presidenza il 12 novembre 1999) e 3 progetti di legge alla Camera dei Deputati (n° 6410 dell’On.le Benvenuto ed altri presentata il 30 settembre 1999, n° 6667 dell’On.le Fiori presentata il 5 gennaio 2000 e n° 1813 dell’On.le Cicu presentata il 9 luglio 1996).

Prenderemo in esame, in questa sede, il disegno di legge n° 4265 e la proposta di legge n° 6410 per evidenziarne sia le affinità, sia le divergenze.

Bisogna, innanzitutto, dire che entrambi si caratterizzano per la funzione preventiva che intendono svolgere, finalizzata ad informare e sensibilizzare tutti i soggetti interessati alla gravità del fenomeno del mobbing.

Comuni sono, anche, le motivazioni che sorreggono la necessità di un puntuale e complessivo intervento in materia: oltre ad evidenti ragioni etiche e di giustizia sociale, sono tenute in considerazione le conseguenze del mobbing anche dal punto di vista economico, sia interno alle azienda, sia riferito ai costi sociali e sanitari.

In particolare, il disegno di legge n° 4265, nella relazione introduttiva, afferma testualmente: “Le forme depressive dovute al mobbing recano un danno socio-economico rilevante e, quindi, intervenire su questo problema non è solo necessario per ragioni etiche, di giustizia e di correttezza nei rapporti umani e per la tutela dei valori della convivenza civile, ma anche di opportunità economica, sia per il buon funzionamento delle aziende, sia per minimizzare i costi sociali e sanitari, sia anche per accrescere la coesione sociale”.

Il Progetto di legge n° 6410, sempre nella relazione, testualmente dispone: “La proposta mira a suscitare l’avvio di un dibattito su problematiche di grande importanza che incidono pesantemente sulla dignità e sull’integrità psico-fisica dei soggetti che ne sono coinvolti. Non devono inoltre essere trascurate le conseguenze più generali che il fenomeno determina, sia in termini di diseconomie interne al luogo di lavoro, che in termini di costi per la cura dei danni provocati da atti e comportamenti vessatori”.

 Una differenza di particolare importanza, invece, la si può immediatamente riscontrare nei soggetti che possono commettere condotte riconducibili al mobbing: il primo ricomprende tra tali soggetti i superiori, i pari-grado, gli inferiori e i datori di lavoro (art. 2, co. 2), mentre il secondo esclude i lavoratori inferiori (art. 1, co. 2). In quest’ultimo caso, quindi, la nozione di mobbing è più restrittiva rispetto a quella contenuta nel D.d.l. Senato e contrasta, altresì, con quanto affermato sul punto dalla psicologia del lavoro.

Il D.d.l. Senato, all’art.6, stabilisce che “le variazioni nelle qualifiche, nelle mansioni, negli incarichi, nei trasferimenti o le dimissioni, determinate da azioni di violenza morale e persecuzione psicologica, sono impugnabili ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2113 del codice civile, salvo risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 5”; il progetto di legge Camera, all’art. 2, sancisce l’annullabilità a richiesta del lavoratore degli atti discriminatori “concernenti le variazioni delle qualifiche, delle mansioni, degli incarichi, ovvero i trasferimenti, riconducibili alla violenza e alla persecuzione psicologica”. Emerge con estrema evidenza la differenza tra queste due norme, nella parte in cui la prima stabilisce l’annullabilità, tra gli altri, delle dimissioni rese dal lavoratore sottoposto a mobbing, nonché la riconducibilità della conseguente impugnazione nell’alveo dell’art. 2113 c.c. sulle rinunzie e transazioni.

L’importanza del richiamo di questa norma risiede nel fatto che essa consente al lavoratore di poter impugnare, anche stragiudizialmente e a pena di decadenza, l’atto annullabile nel termine di sei mesi, che decorrono dalla cessazione del rapporto di lavoro ovvero dalla data dell’atto, se successivo.

Un altro aspetto di indubbio interesse è rappresentato dalla responsabilità disciplinare, che configura una sorta di integrazione necessaria del codice disciplinare per volontà legislativa, cosicchè l’eventuale omissione produrrebbe una responsabilità contrattuale.

È importante che entrambe le proposte di legge individuino con chiarezza quale Giudice competente nei giudizi promossi dal lavoratore soggetto a mobbing la Magistratura del Lavoro.

A tal proposito, infatti, anche se la giurisprudenza prevalente classifica come “cause di lavoro”, con tutte le conseguenze sul rito e sulla competenza, anche quelle in cui viene prospettata la responsabilità personale di colleghi[60], altri Giudici hanno distinto la causa petendi, vale a dire se questa è costituita dalla responsabilità extracontrattuale, si applicheranno le ordinarie norme sulla competenza[61].

Sulla questione, comunque, una recentissima sentenza del Giudice di legittimità[62] ha sancito la competenza del Giudice del Lavoro.

 

 

 

 

Note:

[1] H. EGE, Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora Editrice, Bologna, 1996; Il mobbing in Italia Introduzione al mobbing culturale, Pitagora Editrice, Bologna, 1997; Il mobbing estremo, Pitagora Editrice, Bologna, 1997; I numeri del mobbing La prima ricerca italiana, Pitagora Editrice, Bologna, 1998.

2 H. EGE, I numeri del mobbing La prima ricerca italiana, cit.

3 A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, Inserto n° 18 del 29 aprile 2000, Diritto & Pratica del Lavoro, p. III.

 

4 Cfr. Cass. 2 giugno 1998, n° 5409, Cass. 9 maggio 1998, n° 4721 e Cass. 7 agosto 1998, n° 7772. Questa sua portata di carattere generale ha fatto parlare anche di norma di chiusura del sistema antinfortunistico: v ad es. Cass. 3 settembre 1997, n° 8422 e Cass. 20 aprile 1998, n° 4012.

5 E. GHERA, Diritto del Lavoro, Cacucci, Bari, 2000, p. 204.

6 L. MONTUSCHI, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in RIDL, parte I, 1994, p. 322.

 

7 E. GHERA, cit., p. 205; Cass. 3 settembre 1997, n° 8422 e Cass. 20 aprile 1998, n° 4012.

8 L. GALANTINO, Diritto del Lavoro, Giappichelli, Torino, 1998, p. 394; E. GHERA, cit, p. 205.

9 Cass., 13 settembre 1982, n° 4874, OGL, 1983, 541, con nota di P. ZAMBRANO.

 

10 Cass. 27 maggio 1983, n° 3689.

11 D. VENTURI, RIDL, 1999, II, pp. 67 e ss.

 

12 Cass. 23 ottobre 1985, n° 5210, FI, 1985, I, 3118.

13 Cass., D.U., 16 gennaio 1987, n° 310, RGL, 1987, 335, con nota di L. BARRERA.

14 L. MONTUSCHI, cit., p. 322.

 

 

15 L. MONTUSCHI, cit., p. 317.

16 Corte Cost. 26 luglio 1979, n° 88, in GC, 1980, I, 534 ss., con nota di DE CUPIS, Il diritto alla salute tra Cassazione e Corte Costituzionale; nonché in GI, 1980, I, c. 9 ss., con nota di ALPA, Danno “biologico” e diritto alla salute davanti alla Corte Costituzionale.

17 C. cost., 14 luglio 1986, n° 184, GC, 1986, I, 2324 ss.

18 Trib. Genova, 25 maggio 1974, in GI, 1975, I, 2, 54.

19 Cass., 6 giugno 1981, n° 3675, 1981, I, 1903 ss., con nota di ALPA, Danno biologico e diritto alla salute davanti alla Corte di Cassazione.

 

20 C. cost., 25 febbraio 1991, n° 87, RIDL, 1992, II, 3 ss., con nota di AVIO, Danno biologico e malattie professionali: un ritorno alla teoria del rischio professionale?; C. cost., 18 luglio 1991, n° 356, GC, 1991, I, 14 ss.; C. cost., 27 dicembre 1991, n° 485, RIDL, II, 756 ss., con nota di GIUBBONI, Danno biologico e assicurazioni infortuni: attualità e prospettive.

21 Cass., 8 luglio 1992, n° 8325, FI, 1991, I, 2966, spec. 2972.

22 Cass. 24 gennaio 1990, n° 41, L80, 1990, 659; Cass. 21 dicembre 1998, n° 12763, M.G.L., 1999, p. 287 ss..

 

23 L. MONTUSCHI, cit., p. 324.

24 A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, cit., pp. VIII ss.; Cass. Sez. Lav. 7 agosto 1998, n° 7792, NGL, 1999, p. 43.

 

25 A. GENTILI, Sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, in MGL, 1999, n° 8/9, pp. 846 ss; Cass. 27 giugno 1997, n° 6388, Foro It.-Rep., 1998, voce Infortuni sul lavoro, n° 89; Cass. 20 maggio, 1998, n° 5035, ibidem, 1998, voce Lavoro (rapporto), n° 272; Cass. 20 giugno 1998, n° 6169, ibidem, 1998, stessa voce, n° 379; Cass. 21 ottobre 1997, n° 10361, ibidem, 1997, stessa voce, n° 1333; Cass. 29 marzo 1995, n° 3740, ibidem, 1995, stessa voce, n° 1107 e altre.

26 Cass. Sez. Lav., 9 ottobre 1997, n° 9808, RIDL, 1999, II, pp. 61 ss.

 

27 U. OLIVA, Mobbing: quale risarcimento, in Danno e resp., 2000, 1, 30, nota 20.

28 R. SANTORO, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n° 4/2000, pp. 365 ss.

29 L. MONTUSCHI, cit., p. 327; A. RAFFI, Danni alla professionalità e da perdita di chances, 59, in M. PEDRAZZOLI (a cura di), Danno biologico e oltre, Torino, 1995; L. BONARETTI, Danno biologico,

30 F. PAPPALARDO, Il danno da demansionamento, la sua liquidazione e i danni consequenziali nella giurisprudenza, in RIDL, 1997, II, pp. 143 ss.

31 P. Milano 11 gennaio 1996, inedita; P. Roma 20 febbraio 1995, con nota di POLLERA, Le questioni dell’equivalenza delle mansioni nell’area della professionalità intellettuale più elevata, RIDL, 1996, II, 6, in LPO, 1996, 1368, con nota di MEUCCI, Replica ad un’annotazione in tema di equivalenza professionale, e in D&L, 1995, 963.

32 P. Milano 20 giugno 1995, D&L, 1995, 944; P. Roma 17 aprile 1992, in RIDL, 1993, II, 543, con nota di POSO, Dequalificazione professionale e risarcimento del danno biologico, in OGL, 1992, 263 e in LPO, 1992, 1172.

 

33 P. Milano 28 dicembre 1990, con nota di PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare, in RIDL, 1991, II, 390.

34 M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, in Commentario al Codice Civile, diretto da Piero Schlesinger, p. 257; A. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995, pp. 3 e 101 ss.

35 Cass., 24 gennaio 1990, n° 411, in Lav. Prev. Oggi, 1990, p. 2387 con nota di M. MEUCCI e in Lav. 80, 1990, p. 659 con nota di R. MUGGIA.. Con altre pronunce, si fa riferimento al modello costruito sull’art. 2043 c.c. e 32 Cost. o si parla, più genericamente, di responsabilità extracontrattuale: Cass. 15 agosto 1991, n° 8835, Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, p. 954 con nota di F. FOCARETA; Cass. Sez. U. 14 maggio 1987, n° 4441, in Foro It., 1988, I, c. 2685, e in Dir. Lav., 1987, Ii, p. 544.

36 M. BROLLO, cit, p. 261; L. MONTUSCHI, cit. p. 324; Cass. 26 gennaio 1993, n° 931, in Riv. it. dir. lav., 1994, II, p. 149 con nota di A. PIZZOFERRATO.

 

37 Solo alcun sentenze richiamano entrambe le norme: Pret. Bapoli, 10ottobre 1992,in Foro it., 1993, I, c. 2883; Pret. Roma 3 ottobre 1991, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 390 con nota di R.  MUGGIA..

38 A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, cit., p. XIII; Cass., 8 agosto 1997, n° 7380, Mass., 1997.

 

39 Cass. 5 aprile 1991, n° 3569, MGL, 1991, 263; Cass. 17 aprile 1984, n° 2499 e Cass. 6 febbraio 1984, n° 918, DL, 1984, II, 443, con nota di GORLA; Trib. Napoli, 7 ottobre 1993, RIDL, 1994, II, pp. 758 ss., con nota di  A..VALLI; P. Milano 24 gennaio 1992, D&L 1992, 691; T. Milano 9 luglio 1991, ivi, 1992, 259; T. Milano 14 febbraio 1990, L80, 1990, 530; P. Milano 30 gennaio 1989, ivi, 1989, 770.

40 La giurisprudenza ha affermato, anche, che la minaccia di licenziamento configura violenza morale qualora il giudice accerti l’inesistenza delle inadempienze contestate, ovvero quando gli addebiti mossi al lavoratore non costituiscano valido motivo per il recesso del datore: Cass. 20 gennaio 1999, n° 509, NGL, 1999, 209 ss; Cass. Sez. Lav. 26 maggio 1999, n° 5154, NGL, 1999, pp. 648 ss.;Cass. 16 luglio 1996, n° 6426, NGL, 1996, p. 747; Cass. 26 gennaio 1988, n° 639 e Cass. 11 marzo 1987, n° 2538, inedite.

41 Cass. 20 gennaio 1999, n° 509, cit.; Cass. 22 ottobre 1991, n° 11167; Cass. 20 novembre 1997, n° 11581; Cass. 12 marzo 1998, n° 2716.

 

42 Cass. 19 gennaio 1999, n° 475, MGL, 1999, n° 3, p. 270, con nota di  A. RONDO;

43 Pret. Lecce 29.7.1995, n° 2554, inedita.

 

44 Trib. Torino 16 novembre 1999, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n° 4/2000, pp. 361 ss., con nota di R. SANTORO.

45 Sindrome ansioso depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di soffocamento, tendenza all’isolamento.

 

46 Su tale punto, la Cassazione, con sentenza n° 12339 del 5.11.1999, ha escluso la possibilità di limitare la responsabilità del datore di lavoro per i danni fisici (sindrome depressiva e successivo infarto), provocati con il suo comportamento al lavoratore, in ragione dell’esistenza di una concausa rappresentata da una preesistente patologia coronarica. Secondo la Corte, una limitazione di responsabilità può derivare solo dalla concorrenza di un altrui fatto colposo o doloso, ma non dalla concorrenza, nella causazione dell’evento, di una precedente malattia o di altro evento naturale ed imprevedibile; Cass. 2 febbraio 1999, n° 870, MGL, 1999, n° 4, p. 436; Cass. Sez. Lav., n° 1307/2000, www.giustizia.it.

47 Trib. Milano, 19 giugno 1993 e 21 aprile 1998, in R.C.D.L.., 1998, P. 957.

 

48 D. VERRINA, Mobbing: possibilità e prospettive di intervento giudiziario,

49 C. BALLETTI, La prova nelle cause di lavoro e previdenza, Cedam, Padova, 1998, pp. 38 ss.

 

50 DE STEFANO, Il notorio nel processo civile, Milano, 1947; CARNELUTTI, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. Dir. Proc., 1959, II, p. 639 ss..

51Cass. 13 marzo 1992, n° 3087; Cass. 20 giugno 1985, n° 3883.

52 C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, II, Giappichelli, Torino, 1993, Cass. 10 luglio 1989, n° 3258.

53 F.P. LUISO, Il Processo del lavoro, UTET, Torino, 1992, p. 186.

54 A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, Inserto n° 18 del 29 aprile 2000, Diritto & Pratica del Lavoro, p. XIV.

 

55  Il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”.

56 Secondo il Tribunale di Torino, il datore di lavoro “è tenuto ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili,nei confronti dei rispettivi sottoposti”.

57 R. NUNIN, Di cosa parliamo quando parliamo di “Mobbing”, in ILLeJ, 2000, 1, p. 2, nel sito www.labourlawjournal.it, ISSN 1561-8048.

 

58 P. DENARI, LPO, 2000, n° 1, pp. 5 ss.

59 P. DENARI, cit., p. 8.

 

 

60 Pret. Torino 17 maggio 1996; Cass. 2 marzo 1994, n° 2049; Cass. 20 gennaio 1993, n° 698; Cass. 6 febbraio 1985, n° 897; Cass. 19 aprile 1982, n° 2437; Trib, Milano 15 febbraio 1986.

61 Trib. Milano 9 maggio 1998; Cass. 12 novembre 1996, n° 9874.

 

62 Cass. Sez. Lav., 8 settembre 1999, n° 9539, in LPO, 1999, 12, con nota di DALMASSO p. 2336: “la natura extracontrattuale della rivendicazione non può risolvere il problema della competenza, in quanto risultava il nesso immediato e diretto fra il comportamento illecito e lo svolgimento del rapporto di lavoro”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In caso di utilizzo si prega di citarne la fonte.

Parte integrante degli Atti del Convegno sul Mobbing del 16 giugno 2000 – Hotel Hermitage Galatina (Le) – di prossima pubblicazione.


[1] H. EGE, Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora Editrice, Bologna, 1996; Il mobbing in Italia Introduzione al mobbing culturale, Pitagora Editrice, Bologna, 1997; Il mobbing estremo, Pitagora Editrice, Bologna, 1997; I numeri del mobbing La prima ricerca italiana, Pitagora Editrice, Bologna, 1998.

[2] H. EGE, I numeri del mobbing La prima ricerca italiana, cit.

[3] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, Inserto n° 18 del 29 aprile 2000, Diritto & Pratica del Lavoro, p. III.

[4] Cfr. Cass. 2 giugno 1998, n° 5409, Cass. 9 maggio 1998, n° 4721 e Cass. 7 agosto 1998, n° 7772. Questa sua portata di carattere generale ha fatto parlare anche di norma di chiusura del sistema antinfortunistico: v ad es. Cass. 3 settembre 1997, n° 8422 e Cass. 20 aprile 1998, n° 4012.

[5] E. GHERA, Diritto del Lavoro, Cacucci, Bari, 2000, p. 204.

[6] L. MONTUSCHI, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in RIDL, parte I, 1994, p. 322.

[7] E. GHERA, cit., p. 205; Cass. 3 settembre 1997, n° 8422 e Cass. 20 aprile 1998, n° 4012.

[8] L. GALANTINO, Diritto del Lavoro, Giappichelli, Torino, 1998, p. 394; E. GHERA, cit, p. 205.

[9] Cass., 13 settembre 1982, n° 4874, OGL, 1983, 541, con nota di P. ZAMBRANO.

[10] Cass. 27 maggio 1983, n° 3689.

[11] D. VENTURI, RIDL, 1999, II, pp. 67 e ss.

[12] Cass. 23 ottobre 1985, n° 5210, FI, 1985, I, 3118.

[13] Cass., D.U., 16 gennaio 1987, n° 310, RGL, 1987, 335, con nota di L. BARRERA.

[14] L. MONTUSCHI, cit., p. 322.

[15] L. MONTUSCHI, cit., p. 317.

[16] Corte Cost. 26 luglio 1979, n° 88, in GC, 1980, I, 534 ss., con nota di DE CUPIS, Il diritto alla salute tra Cassazione e Corte Costituzionale; nonché in GI, 1980, I, c. 9 ss., con nota di ALPA, Danno “biologico” e diritto alla salute davanti alla Corte Costituzionale.

[17] C. cost., 14 luglio 1986, n° 184, GC, 1986, I, 2324 ss.

[18] Trib. Genova, 25 maggio 1974, in GI, 1975, I, 2, 54.

[19] Cass., 6 giugno 1981, n° 3675, 1981, I, 1903 ss., con nota di ALPA, Danno biologico e diritto alla salute davanti alla Corte di Cassazione.

[20] C. cost., 25 febbraio 1991, n° 87, RIDL, 1992, II, 3 ss., con nota di AVIO, Danno biologico e malattie professionali: un ritorno alla teoria del rischio professionale?; C. cost., 18 luglio 1991, n° 356, GC, 1991, I, 14 ss.; C. cost., 27 dicembre 1991, n° 485, RIDL, II, 756 ss., con nota di GIUBBONI, Danno biologico e assicurazioni infortuni: attualità e prospettive.

[21] Cass., 8 luglio 1992, n° 8325, FI, 1991, I, 2966, spec. 2972.

[22] Cass. 24 gennaio 1990, n° 41, L80, 1990, 659; Cass. 21 dicembre 1998, n° 12763, M.G.L., 1999, p. 287 ss..

[23] L. MONTUSCHI, cit., p. 324.

[24] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, cit., pp. VIII ss.; Cass. Sez. Lav. 7 agosto 1998, n° 7792, NGL, 1999, p. 43.

[25] A. GENTILI, Sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, in MGL, 1999, n° 8/9, pp. 846 ss; Cass. 27 giugno 1997, n° 6388, Foro It.-Rep., 1998, voce Infortuni sul lavoro, n° 89; Cass. 20 maggio, 1998, n° 5035, ibidem, 1998, voce Lavoro (rapporto), n° 272; Cass. 20 giugno 1998, n° 6169, ibidem, 1998, stessa voce, n° 379; Cass. 21 ottobre 1997, n° 10361, ibidem, 1997, stessa voce, n° 1333; Cass. 29 marzo 1995, n° 3740, ibidem, 1995, stessa voce, n° 1107 e altre.

[26] Cass. Sez. Lav., 9 ottobre 1997, n° 9808, RIDL, 1999, II, pp. 61 ss.

[27] U. OLIVA, Mobbing: quale risarcimento, in Danno e resp., 2000, 1, 30, nota 20.

[28] R. SANTORO, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n° 4/2000, pp. 365 ss.

[29] L. MONTUSCHI, cit., p. 327; A. RAFFI, Danni alla professionalità e da perdita di chances, 59, in M. PEDRAZZOLI (a cura di), Danno biologico e oltre, Torino, 1995; L. BONARETTI, Danno biologico,

[30] F. PAPPALARDO, Il danno da demansionamento, la sua liquidazione e i danni consequenziali nella giurisprudenza, in RIDL, 1997, II, pp. 143 ss.

[31] P. Milano 11 gennaio 1996, inedita; P. Roma 20 febbraio 1995, con nota di POLLERA, Le questioni dell’equivalenza delle mansioni nell’area della professionalità intellettuale più elevata, RIDL, 1996, II, 6, in LPO, 1996, 1368, con nota di MEUCCI, Replica ad un’annotazione in tema di equivalenza professionale, e in D&L, 1995, 963.

[32] P. Milano 20 giugno 1995, D&L, 1995, 944; P. Roma 17 aprile 1992, in RIDL, 1993, II, 543, con nota di POSO, Dequalificazione professionale e risarcimento del danno biologico, in OGL, 1992, 263 e in LPO, 1992, 1172.

[33] P. Milano 28 dicembre 1990, con nota di PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare, in RIDL, 1991, II, 390.

[34] M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, in Commentario al Codice Civile, diretto da Piero Schlesinger, p. 257; A. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995, pp. 3 e 101 ss.

[35] Cass., 24 gennaio 1990, n° 411, in Lav. Prev. Oggi, 1990, p. 2387 con nota di M. MEUCCI e in Lav. 80, 1990, p. 659 con nota di R. MUGGIA.. Con altre pronunce, si fa riferimento al modello costruito sull’art. 2043 c.c. e 32 Cost. o si parla, più genericamente, di responsabilità extracontrattuale: Cass. 15 agosto 1991, n° 8835, Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, p. 954 con nota di F. FOCARETA; Cass. Sez. U. 14 maggio 1987, n° 4441, in Foro It., 1988, I, c. 2685, e in Dir. Lav., 1987, Ii, p. 544.

[36] M. BROLLO, cit, p. 261; L. MONTUSCHI, cit. p. 324; Cass. 26 gennaio 1993, n° 931, in Riv. it. dir. lav., 1994, II, p. 149 con nota di A. PIZZOFERRATO.

[37] Solo alcun sentenze richiamano entrambe le norme: Pret. Bapoli, 10ottobre 1992,in Foro it., 1993, I, c. 2883; Pret. Roma 3 ottobre 1991, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 390 con nota di R.  MUGGIA..

[38] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, cit., p. XIII; Cass., 8 agosto 1997, n° 7380, Mass., 1997.

[39] Cass. 5 aprile 1991, n° 3569, MGL, 1991, 263; Cass. 17 aprile 1984, n° 2499 e Cass. 6 febbraio 1984, n° 918, DL, 1984, II, 443, con nota di GORLA; Trib. Napoli, 7 ottobre 1993, RIDL, 1994, II, pp. 758 ss., con nota di  A..VALLI; P. Milano 24 gennaio 1992, D&L 1992, 691; T. Milano 9 luglio 1991, ivi, 1992, 259; T. Milano 14 febbraio 1990, L80, 1990, 530; P. Milano 30 gennaio 1989, ivi, 1989, 770.

[40] La giurisprudenza ha affermato, anche, che la minaccia di licenziamento configura violenza morale qualora il giudice accerti l’inesistenza delle inadempienze contestate, ovvero quando gli addebiti mossi al lavoratore non costituiscano valido motivo per il recesso del datore: Cass. 20 gennaio 1999, n° 509, NGL, 1999, 209 ss; Cass. Sez. Lav. 26 maggio 1999, n° 5154, NGL, 1999, pp. 648 ss.;Cass. 16 luglio 1996, n° 6426, NGL, 1996, p. 747; Cass. 26 gennaio 1988, n° 639 e Cass. 11 marzo 1987, n° 2538, inedite.

[41] Cass. 20 gennaio 1999, n° 509, cit.; Cass. 22 ottobre 1991, n° 11167; Cass. 20 novembre 1997, n° 11581; Cass. 12 marzo 1998, n° 2716.

[42] Cass. 19 gennaio 1999, n° 475, MGL, 1999, n° 3, p. 270, con nota di  A. RONDO;

[43] Pret. Lecce 29.7.1995, n° 2554, inedita.

[44] Trib. Torino 16 novembre 1999, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n° 4/2000, pp. 361 ss., con nota di R. SANTORO.

[45] Sindrome ansioso depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di soffocamento, tendenza all’isolamento.

[46] Su tale punto, la Cassazione, con sentenza n° 12339 del 5.11.1999, ha escluso la possibilità di limitare la responsabilità del datore di lavoro per i danni fisici (sindrome depressiva e successivo infarto), provocati con il suo comportamento al lavoratore, in ragione dell’esistenza di una concausa rappresentata da una preesistente patologia coronarica. Secondo la Corte, una limitazione di responsabilità può derivare solo dalla concorrenza di un altrui fatto colposo o doloso, ma non dalla concorrenza, nella causazione dell’evento, di una precedente malattia o di altro evento naturale ed imprevedibile; Cass. 2 febbraio 1999, n° 870, MGL, 1999, n° 4, p. 436; Cass. Sez. Lav., n° 1307/2000, www.giustizia.it.

[47] Trib. Milano, 19 giugno 1993 e 21 aprile 1998, in R.C.D.L.., 1998, P. 957.

[48] D. VERRINA, Mobbing: possibilità e prospettive di intervento giudiziario,

[49] C. BALLETTI, La prova nelle cause di lavoro e previdenza, Cedam, Padova, 1998, pp. 38 ss.

[50] DE STEFANO, Il notorio nel processo civile, Milano, 1947; CARNELUTTI, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. Dir. Proc., 1959, II, p. 639 ss..

[51] Cass. 13 marzo 1992, n° 3087; Cass. 20 giugno 1985, n° 3883.

[52] C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, II, Giappichelli, Torino, 1993, Cass. 10 luglio 1989, n° 3258.

[53] F.P. LUISO, Il Processo del lavoro, UTET, Torino, 1992, p. 186.

[54] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, Inserto n° 18 del 29 aprile 2000, Diritto & Pratica del Lavoro, p. XIV.

[55]  Il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”.

[56] Secondo il Tribunale di Torino, il datore di lavoro “è tenuto ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili,nei confronti dei rispettivi sottoposti”.

[57] R. NUNIN, Di cosa parliamo quando parliamo di “Mobbing”, in ILLeJ, 2000, 1, p. 2, nel sito www.labourlawjournal.it, ISSN 1561-8048.

[58] P. DENARI, LPO, 2000, n° 1, pp. 5 ss.

[59] P. DENARI, cit., p. 8.

[60] Pret. Torino 17 maggio 1996; Cass. 2 marzo 1994, n° 2049; Cass. 20 gennaio 1993, n° 698; Cass. 6 febbraio 1985, n° 897; Cass. 19 aprile 1982, n° 2437; Trib, Milano 15 febbraio 1986.

[61] Trib. Milano 9 maggio 1998; Cass. 12 novembre 1996, n° 9874.

[62] Cass. Sez. Lav., 8 settembre 1999, n° 9539, in LPO, 1999, 12, con nota di DALMASSO p. 2336: “la natura extracontrattuale della rivendicazione non può risolvere il problema della competenza, in quanto risultava il nesso immediato e diretto fra il comportamento illecito e lo svolgimento del rapporto di lavoro”.

 

 

 

 

 


n. 06-2001.

MICHELE ORICCHIO
(Consigliere della Corte dei conti)

Il mobbing nel pubblico impiego

SOMMARIO: 1) Definizione e inquadramento del mobbing; 2) le cause dell’espandersi del fenomeno nel pubblico impiego; 3) Le "risposte" ipotizzabili.

Definizione e inquadramento del mobbing

Il termine etologico mobbing costituisce l’ennesimo "anglicismo" recentemente entrato a far parte delle parole d’uso comune anche nella pratica giudiziaria: esso rievoca scenari di aggressività ("to mob" significa assalire, aggredire in gruppo) che si pongono in contrasto non solo con l’ordinato vivere sociale ma anche con il regolare svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato.

L’estrema attualità del predetto fenomeno, contrassegnata anche dal rilievo dato dai mezzi di comunicazione di massa, ha offerto lo spunto per diversi, recenti interventi sul tema, specie sotto il profilo del danno alla persona del lavoratore.

Grazie agli studi effettuati da esperti in neuropsichiatria e in medicina del lavoro, si è potuto affermare che il mobbing è fenomeno ubiquitario piuttosto diffuso in tutte le realtà lavorative non solo private ma anche pubbliche e, tuttavia, è con riferimento alle prime che esso si è primariamente palesato ed è stato oggetto di studi approfonditi sotto il profilo sia medico che legale.

Il mobbing, alla luce anche dell’esperienza sin qui maturata, può definirsi come <un’attività persecutoria posta in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica) e mirante ad indurre il destinatario della stessa a rinunciare volontariamente ad un’incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una sua progressiva emarginazione dal mondo del lavoro>.

Tale attività deve avere una durata di più mesi (normalmente almeno sei, secondo la più recente medicina del lavoro, per poter essere sussulta nel concetto di mobbing.

Nel rapporto di lavoro privato il fenomeno è già più volte giunto all’attenzione della scienza medico-legale e del lavoro approdando anche presso l’Autorità Giudiziaria, sebbene ciò sia accaduto da noi con gran ritardo rispetto ai paesi nord-europei ove vi è una maggiore cultura della difesa dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’emarginazione dal lavoro,ingiustamente attuata attraverso il depotenziamento e la demotivazione del singolo lavoratore, pur non essendo stata positivizzata in una specifica norma (come è accaduto in Svezia) costituisce comunque una situazione rilevante e sotto il profilo medico che legale e, ove accertata, può comportare una reazione da parte dell’Ordinamento giuridico, sussistendo comunque la norma generale di cui all’art. 2087 del codice civile secondo la quale "L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

Un tentativo di regolamentazione del fenomeno si è, peraltro, avuto (senza successo) nella scorsa legislatura con i disegni di legge "Tapparo e "Benvenuto", il primo – in particolare - così lo delinea: "Ai fini della presente legge vengono considerate violenze morali e persecuzioni psicologiche, nell’ambito dell’attività lavorativa, quelle azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore..…esse devono mirare a discreditare, screditare, danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale od informale, grado di influenza sugli altri, rimozione da incarichi, esclusione o immotivata marginalizzazione dalla normale comunicazione aziendale, sottostima sistematica dei risultati, attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o della condizione fisica o di salute".

Sulla problematica in esame si registrano comunque già alcune pronunce dei giudici di merito nel nostro Paese: in particolare merita menzione la sentenza emessa dal Tribunale di Torino in data 11.12.1999 con cui sono stati attentamente analizzati anche gli stati patologici sintomatici dell’esistenza di un comportamento discriminatorio giuridicamente rilevante: sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia, disappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto con conseguente frequente ricorso all’uso farmacologico di ansiolitici, antidepressivi, e disintossicanti.

I danni alla persona che conseguono a tali condizioni patologiche sono evidenti e possono essere sussunti nell’ipotesi del "danno biologico", come in seguito si dirà, ciò che va qui evidenziato è che pur essendo le discriminazioni sul lavoro un fenomeno risalente nel tempo, esse di recente sono venute diffondendosi di pari passo con il fenomeno della "globalizzazione" e dell’esaltazione del liberismo economico più spinto.

In tale contesto, ed in sicuro contrasto anche con i principi di tutela della dignità umana del lavoratore sanciti dalla nostra Costituzione (artt. 35 e 41 in particolare) si registrano svariate forme di discriminazione ingiustificata sul lavoro che sfociano in una nuova "richiesta di giustizia ": prima di esaminare le strade a tal uopo percorribili è necessario però soffermarsi su di un nuovo aspetto del fenomeno, quello cioè del suo manifestarsi nel pubblico impiego.

Le cause dell’espandersi del fenomeno nel pubblico impiego

Il problema del mobbing inteso quale "attività persecutoria ed inibitrice" esercitabile nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente da chi si trova in una posizione di supremazia non rappresenta certamente una novità tant’è che, come già detto, il legislatore del 1942 si era interessato del problema ponendo nell’art.2087 del codice civile il principio secondo il quale incombe al datore di lavoro l’obbligo di tutelare la salute psico-fisica dei propri dipendenti.

La Costituzione repubblicana ha poi specificato che l’attività economica non può svolgersi in contrasto con la dignità umana e, ciononostante,il problema del mobbing si è presentato -di recente - anche nel pubblico impiego ove si è certamente "slatentizzato" per l’innesto massiccio di logiche privatistiche nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione, consacrato nel D.lgs.29/1993 e successive modifiche (oggi D.lgs.30.3.2001 n°165).

In alcuni settori poi esso ha avuto maggiore presa come nel mondo della Sanità ove ha trovato un terreno particolarmente fertile nei delicati rapporti esistenti tra personale medico e paramedico, fra struttura apicale sanitaria e dirigenza generale alla quale ultima sono stati commessi,dalle più recenti leggi di riforma, poteri decisionali caratterizzati dalla più ampia discrezionalità tali da poter sfociare in forme di vero e proprio arbitrio, non facilmente sindacabili dall’Autorità Giudiziaria, nelle sue varie articolazioni.

Anche in seno alle autonomie locali si sono registrati comportamenti mobizzanti ad esempio nei confronti dei segretari comunali, dopo le recenti leggi di riforma della categoria.

Dall’esame della casistica fin qui emersa si può rilevare come nel pubblico impiego (privatizzato) la principale causa di possibili atteggiamenti "mobbistici" è da ricercare nella testé richiamata deprecabile tendenza legislativa in atto che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità dell’agire amministrativo, sacrificandoli sull’ "altare" di un malinteso efficientismo che certo non è un principio antitetico ai primi (come testimonia l’art.97 della Costituzione) e che comunque è rimesso nelle mani di organi politici ovvero di una dirigenza che certo non rispondono del proprio operato ad alcun Consiglio di Amministrazione o ad alcuna assemblea di soci e che, comunque, utilizzano danaro pubblico nell’esercizio delle funzioni loro rispettivamente conferite dalla legge.

Ecco allora come l’incarico di una funzione dirigenziale a persona esterna all’Amministrazione da parte dell’organo politico (ex art.19 D.lgs.165/2001) in dispregio del curriculum e dell’anzianità di servizio di altri aspiranti a quella carica provenienti dai ruoli dell’Amministrazione interessata può divenire un fatto "mobbistico" ed essere contemporaneamente difficilmente perseguibile in sede giudiziaria essendo in qualche modo giustificato dalla legge al fine di garantire l’efficiente funzionamento della struttura.

Analogamente è a dirsi per quanto attiene alle nomine dei primari di reparto operate dai Dirigenti del Servizio sanitario nazionale di cui all’art.26 del D.lgs.165/2001.

E gli esempi potrebbero continuare anzi c’è il concreto rischio che nel pubblico impiego privatizzato il frequente cumularsi delle inefficienze del previgente sistema con i vizi del nuovo finisca per dare un poderoso "contributo" all’arricchimento della casistica del mobbing: si avverte, infatti, un crescente e generalizzato malessere nei diversi settori attraverso i quali si articola l’amministrazione pubblica, generato da crescenti condotte asseritamente vessatorie perpetrate nei confronti del lavoratore.

Se in passato la rigidità strutturale ed organizzativa delle amministrazioni comportava la conseguenza che il lavoratore venisse preposto all’esercizio di specifiche mansioni difficilmente modificabili almeno nei loro aspetti qualitativi, l’attuale sistema di gestione della cosa pubblica e delle risorse umane, trasmigrando verso moduli e modelli di funzionamento "aziendalistici" mutuati dal settore privato, ha provocato l’attenuarsi di tale garanzia al fine di perseguire obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

Orbene, pur nella plausilibilità teorica di tale assunto è innegabile che un sistema di gestione organizzativa costruito conseguentemente sulla "flessibilità" e sul "rapporto fiduciario" avrebbe richiesto una maggiore ponderazione nell’attuazione degli strumenti legislativi per la sua concreta realizzazione e, soprattutto, dei correttivi che avessero evitato una esasperazione dei criteri sui quali si fonda.

Il vincolo di fiduciarietà tra gli organi di direzione politica e gli organi di gestione, che secondo il legislatore deve rappresentare una linea guida per la riforma del nostro sistema amministrativo, in modo da renderlo efficiente ed efficace nel perseguimento degli obiettivi prefissati in sede politica attraverso le diverse tipologie di atti di programmazione a cui deve ricondursi l’attività gestionale -pur condivisibile in linea di principio - nella prassi applicativa può facilmente prestarsi a connivenze, complicità o parzialità che possono integrare gli estremi del comportamento "mobizzante"nel pubblico impiego.

La complessiva rilevanza del fenomeno del mobbing pur senza destare allarmismi, non va dunque sottovalutata se è vero come è vero che L’INAIL ai sensi dell’art.10 comma 4 del D.lgs. 38/2000 lo ha inserito negli studi sulle nuove patologie professionali; di qui alla sua allegazione al fine di ottenere una pensione "privilegiata " il passo è breve: va quindi esaminata la risposta giudiziaria più immediata che al fenomeno può darsi a legislazione vigente.

Le "risposte" ipotizzabili.

Individuata dunque l’esistenza di un vizio genetico nella vigente legislazione che favorisce il diffondersi di atteggiamenti discriminatori nel mondo della Pubblica amministrazione e, conseguentemente, segnalata l’esigenza di un intervento legislativo riparatore, come prima difesa di fronte al fenomeno, va comunque affermato come l’attività persecutoria posta in essere dal detentore di poteri decisionali capaci di incidere nell’altrui sfera giuridica, ove provata, costituisce un atto illecito, cioè un atto che devia dai canoni del buon andamento della pubblica Amministrazione e che è meritevole di sanzione da parte dell’Ordinamento giuridico.

Ecco, dunque, la necessità di difendere il binomio buon andamento-legalità che costituisce sicuro baluardo di fronte a quegli arbitri che non possono giustificarsi con il suggestivo richiamo al "rapporto fiduciario": "l’eccesso di potere" quale vizio dell’atto amministrativo nelle sue varie figure sintomatiche deve costituire l’unico metro per verificare -ad esempio- la legittimità di uno scavalcamento nella progressione in carriera (vedasi: Consiglio di Stato,sez.IV°-sent.n°495 del 24.3.1998) che può costituire un’ipotesi di mobbing giuridicamente rilevante.

Anche allo stato attuale della legislazione si può e si deve pretendere che l’attività degli organi di direzione politica o di alta amministrazione si estrinsechi sempre in provvedimenti congruamente motivati e sia attenta al rispetto della L.241/1990 sulla trasparenza amministrativa.

Di fronte ad atteggiamenti asseritamente "mobizzanti" il lavoratore, pubblico o privato, può certamente trovare una prima forma di tutela giudiziale nell’invocazione di provvedimenti d’urgenza di tipo inibitorio innanzi al giudice del lavoro(vedasi Pretura Milano, sent.31.1.1997) e, tuttavia, tale ipotesi non sembra di facile realizzazione anche per la mancanza di norme processuali "ad hoc".

Tralasciando gli aspetti penali che pure potrebbero rilevare in ipotesi di comportamenti vessatori ai danni dei pubblici dipendenti (penso all"abuso di potere", alla "violenza privata " aggravata, etc.)è evidente che il mobbing può essere causa di "danno biologico" risarcibile innanzi al giudice ordinario ed è stata questa la via sin ora principalmente seguita in tali ipotesi.

Nel Settore pubblico, poi, una condanna della P.A. per danno biologico da mobbing può comportare, tra le altre conseguenze, un danno per l’Erario di cui l’autore può essere chiamato a rispondere innanzi alla Corte dei Conti.

E’ su questo aspetto che qui ci si intende soffermare: ove infatti un dipendente pubblico risulti vittorioso in una causa intentata contro l’amministrazione di appartenenza per ottenere il risarcimento del danno biologico derivante da condotta vessatoria posta in essere nei suoi confronti dal titolare di un potere di supremazia appartenente alla sua stessa amministrazione è evidente che l’esborso da parte dell’Ente della somma risarcitoria non può non costituire un danno erariale, cioè una ingiustificata diminuzione del patrimonio pubblico.

E l’ipotesi è tutt’altro che scolastica se è vero come è vero che di essa se ne è interessato recentemente, seppure con pronuncia a carattere processuale, il Consiglio di Stato in una controversia intentata da una dipendente dell’ AUSL n. 5 di Crotone che aveva convenuto in giudizio l’azienda di appartenenza per ottenere il risarcimento del danno biologico da mobbing.

Il massimo consesso della Giustizia amministrativa con l’ordinanza n°6311 del 6.12.2000 ha preso per la prima volta in esame il concetto di mobbing nel pubblico impiego affermando, però, che è competente l’Autorità giudiziaria ordinaria a decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico ad esso conseguente.

Viene altresì precisato che la giurisdizione in tal materia appartiene alla magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie "sanitari") atteso che l’art.33 comma 2 lettera e) del D.lgs.80/98, nel testo modificato dalla L.21.7. 2000 n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o alle cose".

Dunque può adirsi il giudice ordinario con azione tesa ad ottenere la condanna dell’ente pubblico di appartenenza al risarcimento del danno biologico derivante da mobbing, danno biologico che ha trovato la sua prima definizione in sede legislativa con il comma 3 dell’art.5 della L.57/2001 che (seppure ad altri fini) lo ha definito come "lesione all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale" che "è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione del reddito del danneggiato".

L’ipotesi del risarcimento del danno biologico è quella che statisticamente dovrebbe, dunque, essere preminente: essa postula un duplice accertamento fattuale: innanzitutto relativo alla sussistenza di un atteggiamento ingiustificatamente vessatorio (da provarsi attraverso prova testimoniale e/o documentale, informazioni sindacali, etc.) e, solo successivamente, l’accertamento dell’esistenza di effetti pregiudizievoli per l’equilibrio psico-fisico del dipendente direttamente connessi al fatto "mobbistico ", accertamento da compiersi essenzialmente attraverso un’attenta consulenza medico-legale (i parametri applicabili sono quelli universali al pubblico ed al privato, del disagio psico-fisico,come descritti in una eccellente sentenza resa dal tribunale di Torino in data 11.12.1999 e pubblicata sul Foro Italiano nel n°1/2000 a pag.1555).

Successivamente a tale duplice accertamento si potrà procedere alla determinazione del risarcimento del danno da effettuarsi probabilmente in via equitativa senza il ricorso a criteri egualitari o comunque unicamente fondati sul "reddito del lavoratore", tenendo altresì presente che – vertendosi in ipotesi di responsabilità contrattuale – si dovrà tener conto del limite della "prevedibilità del danno" di cui all’art.1225 del codice civile, ove non sia provato il dolo del debitore.

Comunque sia eventuali sentenze di condanna in casi del genere colpiscono anche l’ente di appartenenza in quanto questo è solidalmente responsabile ex art.28 della Costituzione con il proprio dipendente che ha posto in essere il comportamento vessatorio causativo di danno e i conseguenti esborsi costituiscono, a loro volta, "danno erariale", cioè - come già detto - " ingiusta lesione di un interesse economicamente valutabile di pertinenza dello Stato " (così: Cass.SS.UU. 4.1.1980 n. 2).

Ove si verifichi tale situazione, la risposta dell’Ordinamento giudiziario può arricchirsi del ruolo della Corte dei conti attraverso quella che è stata definita "azione di regresso" e che - in realtà - è un’azione obbligatoria e pubblica tesa ad ottenere il reintegro del patrimonio della P.A. attraverso il recupero nei confronti dell’autore del fatto illecito dannoso delle somme cui la P.A. è stata costretta all’esborso a causa della condotta del proprio dipendente.

Tale azione è appunto attribuita dall’art.103 della Costituzione alla Corte dei conti che ha una generale competenza nelle materie della contabilità pubblica e a cui vanno dunque comunicate tutte le sentenze emesse da altri giudici recanti condanne patrimoniali della P.A. e vanno indirizzate tutte le denunce di sprechi e malversazioni da parte dei cittadini.

Il titolare esclusivo dell’azione risarcitoria è il P.M. presso la Sezione giurisdizionale regionale della Corte competente per territorio (cioè quella della regione in cui si è verificato il danno) che ha un termine prescrizionale di cinque anni per l’esercizio della stessa decorrenti dalla verificazione del fatto dannoso che in caso di risarcimento danni da mobbing si configura come "danno indiretto" cioè conseguenza di una sentenza e non della diretta attività dell’autore del fatto illecito, sicchè il predetto termine prescrizionale può iniziare a decorrere anche a molti anni di distanza dal verificarsi del fatto integrante gli estremi del mobbing.

La conseguente citazione del presunto responsabile deve avvenire, previa contestazione degli addebiti, innanzi alla Sezione giuridizionale regionale competente che giudica in composizione collegiale e può pervenire a sentenza di condanna solo ove ravvisi nel comportamento causativo del danno erariale gli estremi del dolo o della colpa grave, ipotesi peraltro di facile ricorrenza nel caso di comportamenti "ingiustificatamente vessatori" tenuti da un dirigente pubblico.

Il processo si svolge sostanzialmente nelle forme del rito civile e l’eventuale sentenza di condanna di primo grado è provvisoriamente esecutiva, salva la facoltà del convenuto di interporre appello alle sezioni centrali della Corte, servendosi di un avvocato dotato del patrocinio in Cassazione.

Può quindi affermarsi che anche la Corte dei Conti, attraverso l’esercizio dell’azione risarcitoria nei confronti di chi abbia posto in essere un comportamento mobbistico causativo di danno per un ente pubblico, può concorrere alla repressione di tali deplorevoli condotte e, tuttavia, sia consentito affermare che ancora una volta la sola risposta giudiziaria, per quanto articolata, non potrà che essere insoddisfacente se non si farà in modo che essa sia una extrema ratio, se cioè ancora una volta si scaricheranno tutti gli oneri connessi alla problematica testé trattata sul settore giustizia.

E’ necessario innanzitutto una risposta legislativa adeguata, come innanzi segnalato, che tenda a prevenire la possibile insorgenza nel settore pubblico di atteggiamenti mobbistici, è poi necessario un concreto utilizzo degli organi di controllo interno ad ogni amministrazione per monitorare la situazione dei dipendenti sotto il profilo non solo del loro rendimento, ma anche della corretta gestione delle risorse umane.

Solo il costante utilizzo di tali metodiche eviterà un prevedibile massiccio ricorso alla giurisdizione per reprimere le più varie condotte asseritamente mobbistiche configurabili nel pubblico impiego, con la conseguente lievitazione di cause per risarcimento del danno biologico da mobbing, prevedibilmente destinate - altrimenti - a costituire un nuovo filone di contenzioso destinato (al di là dei casi di effettiva verificazione) ad arricchire pochi e a danneggiare le pubbliche finanze e, quindi, tutti i cittadini-contribuenti.

V. in argomento in questa rivista:

CONSIGLIO DI STATO, SEZ.V - Ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311 (con nota di G. Saporito).

 

 


n. 12-2000 - © copyright - vietata la riproduzione.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311 - Pres. Iannotta, Est. Fera - L. (Avv. Maria Rosaria Squadra) c. A.S.L. n. 5 di Crotone (Avv. Raffaele Mirigliani).

Giurisdizione e competenza – Pubblico impiego – Mobbing – Richiesta di risarcimento dei danni – Giurisdizione del giudice ordinario – Fattispecie relativa a dipendente ASL.

È competente l’autorità giudiziaria ordinaria a decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico da mobbing. La giurisdizione è della magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie, sanitari), atteso che l’art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose" (1).

(1) Entra nel pubblico impiego il concetto mobbing, che viene tuttavia subito espulso dalla giustizia amministrativa ed affidato alle cure del giudice ordinario. Nel caso trattato si discuteva di una richiesta di condanna al pagamento di una somma provvisionale (art. 3 L. 205/2000), in relazione al binomio danno biologico-mobbing.

Il Consiglio di Stato, con l'ordinanza in rassegna, devia su altra giurisdizione la possibilità di decidere, utilizzando precedenti univoci (Cass. Sez.Un. 16 gennaio 1987 n. 304 in Foro It. 1988, 1, 2686; Cass. 10 ottobre 1967 n. 2358, Foro amm. 1968, 1,1,100). Precedenti che tuttavia fanno riferimento a infermità di tipo traumatico (infarti, danni da radiazioni, traumi in genere), che agevolmente si collocano nell’ambito della giustizia su responsabilità extracontrattuale e che quindi pacificamente sono da sempre affidate all’indagine del giudice civile.

Diverso sembra il ragionamento per il mobbing, che rappresenta la somma di comportamenti direttamente connessi all’organizzazione del lavoro, oscillanti dall’eccessivo carico di lavoro ai soprusi del superiore e che quindi sembrano gravitare più su aspetti organizzativi che su specifiche, singole situazioni traumatizzanti.

Il mobbing nel pubblico impiego, con il suo corredo di stati patologici diagnosticabili neurologicamente come sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia, inappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto, uso farmacologico di ansiolitici, antidepressivi e disintossicanti, trasloca quindi dal giudice amministrativo a quello ordinario, quale corredo degli accertamenti su carriere (e fallite carriere), sul divenire del rapporto, sugli inquadramenti, su tutto ciò (dispiaceri, traversie) che accompagna il dipendente nella sua vita insieme alla pubblica amministrazione.

In ogni caso, poichè al giudice amministravo non è rimasto quasi nulla del rapporto di pubblico impiego, è comprensibile che declini la competenza sui meccanismi organizzativi che possono generare mobbing. Tuttavia potrebbe essere opportuno che trasmigri dalle sedi della giustizia amministrativa ai Tribunali anche quel bagaglio di strumenti che anni di giurisprudenza hanno affinato: basti pensare all’eccesso di potere in senso assoluto ed in senso relativo (Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 1998 n. 495), formula senza la quale non è possibile verificare la legittimità di uno scavalcamento nella progressione di carriera.

Mentre trova spazio nelle aule giudiziarie, il mobbing ha porte aperte anche nelle coperture assicurative: lo stesso INAIL infatti lo inserisce negli studi su nuove patologie nelle malattie professionali ex art. 10 co. 4 D.Lgs. 38/2000. Si vedano in dettaglio le linee di indirizzo dell’istituto, leggibili nel sito www.inail.it , che contengono appunto un formale riferimento al mobbing quale nuova patologia.

Di sicuro il mobbing nel rapporto alle dipendenze con la pubblica amministrazione sarà più difficile da percepire: i parametri applicabili saranno probabilmente quelli – universali nel pubblico e nel privato – del disagio psicofisico, come descritti dalla sentenza del Tribunale di Torino 11 dicembre 1999 (Foro It. 2000, 1, 1555).

Ma se è agevole comprendere il disagio del dipendente torinese, spostato in altro comparto aziendale e privato di alcune qualificanti attività (passando dalla gratificante gestione poliglotta di clienti stranieri, al mero caricamento dati ed emissione di bolle di accompagnamento), sarà meno agevole districarsi tra le sottili malvagità che spesso serpeggiano nel pubblico impiego.

Se con la scarsezza di mezzi probatori di cui disponeva, il giudice amministrativo riusciva ad eliminare sottili illegittimità, il migliore augurio che si può fare al giudice ordinario è di saper intervenire con altrettanta capacità (Guglielmo Saporito, 18.12.2000).

 

(omissis)

per l’annullamento

dell’ordinanza n. 794 del 5 ottobre 2000 del TAR Calabria – Catanzaro, sez. II, n. 794/2000, resa tra le parti, concernente danno biologico da mobbing;

Visti gli atti e documenti depositati con l’appello;

Vista l’ordinanza di rigetto della domanda cautelare proposta in primo grado per il pagamento, a titolo di provvisionale, della somma spettante;

Considerato che la domanda, con la quale viene denunciata la lesione del diritto alla salute generata da "mobbing", qualificata dallo stesso ricorrente come azione di riconoscimento del danno derivante da illecito civile ex art. 2043 cc., esorbita chiaramente dalla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass., Sez.Un., 10.10.67 n. 2358; Id. 14.5.1987 n. 4441).

Che, peraltro, anche ove essa fosse fondata sul rapporto di servizio con la ASL n. 5, la materia, a seguito dell’entrata in vigore del D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80, rientra ora nella giurisdizione dell’A.G.O.;

Che, inoltre, neppure è configurabile nella specie una controversia in materia di pubblici servizi, posto che l’art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose" e che non vi sono profili di domanda che concernano l’organizzazione del pubblico servizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso in appello.

Depositata in cancelleria il 06.12.2000.

Copertina

V. anche il forum on line sul pubblico impiego.

 

 

 

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Il lavoro è diventato un incubo?  I colleghi sono come belve? Parole ormai purtroppo entrate nell'uso comune: mobbing, bossing, violenza, minaccia, licenziamento, trasferimento, demansionamento........E le loro conseguenze: danno biologico, professionale, stato ansioso depressivo, ecc.....E i nuovi bisogni che esprimono: tutela legale giudiziale, assistenza di avvocato, cura ed assistenza medica....

Negli ultimi tempi sono stati chiusi molti Forums su cui si discuteva con forza del Mobbing....chissà perchè...ma state tranquilli, Signori Censori......

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 La responsabilità diretta e personale nel danno da "mobbing".

La comprensione di questa parte del mio sito richiede una buona preparazione giuridica. Il capitolo che segue è stato pubblicato sul n. 1/2000 della rivista di diritto "Lavoro e Previdenza oggi", pag. 5.  Sono a disposizione dei lettori via mail per chiarire le parti che dovessero sollevare perplessità

(L'AUTORE)

 

 

 

 

SOMMARIO:

1 Premessa: un argomento poco conosciuto

2 Introduzione: la perdita del senso di responsabilità personale

3 L'aspetto sostanziale

4 L'aspetto formale: questioni di rito e competenza

5 Plurioffensività della condotta e pluralità dei soggetti lesi

6 De jure condendo

7 Note

 

 

 

     

  1. Premessa: un argomento poco conosciuto

     

     

    Negli ultimi anni si è iniziato a parlare del problema del "mobbing" (nota 1) sul posto di lavoro, mettendone in luce - e giustamente - definizione, caratteristiche, crescente diffusione, finalità politiche ed aziendali, aspetti economici, danni subiti dai lavoratori vessati , responsabilità del datore di lavoro, carenze legislative, ecc.

    Scarsa attenzione, però, è stata dedicata ad un argomento pur fondamentale ed "intuitivo": la responsabilità personale diretta, civile e penale, dei colleghi e superiori gerarchici autori dei fatti di "mobbing" (c.d. "mobber") nonché le valenze di plurioffensività della loro condotta.

    E' su questo aspetto che si intende in questa sede attirare l'attenzione, nella consapevolezza che quanto qui tratteggiato è solo il primo passo di un lungo e laborioso cammino.

     

     

  2. Introduzione : la perdita del senso di responsabilità personale

     

     

    Se osserviamo i casi di "mobbing" da vicino, rimaniamo sconcertati dal notare come - troppo spesso - i "mobber" abbiano agito come se coltivassero, nell'intimo, un forte convincimento di impunità.

    Sia chiaro: le cause del "mobbing" sono politiche, non psicologiche; tuttavia, è fin troppo ovvio che moltissimi episodi con tutta probabilità non si sarebbero verificati se gli autori del "mobbing" avessero dovuto riflettere anche un solo istante sulle possibili conseguenze, civili e penali, "a loro carico".

    Eppure il concetto generale che l'autore del fatto illecito e del "fatto-reato" risponda personalmente (con tutto il suo patrimonio, presente e futuro, nonché con la sua posizione penale) è antico come l'uomo; anzi , per millenni è stato ancorato al puro e semplice elemento materiale, generando una responsabilità oggettiva, immediata, precisa, persino "brutale": pensiamo al guardiano del fuoco che veniva " comunque" punito se lasciava spegnere il fuoco.

    ***

    Nei secoli diversi elementi , soggettivi ed oggettivi, hanno progressivamente contribuito a "temperare" il senso generale di responsabilità del cittadino contemporaneo (nota 2)

    Inoltre , gli art. 2049 e 2087 cod. civ., ( pur preziosi per il ruolo di responsabilizzazione del datore di lavoro , soggetto che si presume, fra l'altro, dotato di molta maggior "rispondenza patrimoniale" rispetto al singolo collega), hanno comportato che il più delle volte venne chiamato in causa "solo" il datore di lavoro.

    Ciò - unitamente ad un certo "clima politico" presente "in azienda" - deve aver contribuito a far sorgere nei "mobber" quasi la sensazione " che il luogo di lavoro sia diventato una causa oggettiva di esclusione della punibilità " (considerazioni parzialmente analoghe possono valere per fenomeni simili: il "nonnismo" in ambito militare, il "bullismo" nelle scuole ed in certi quartieri, ecc)

    E' questo un caso - e non certo l'unico - di previsioni di responsabilità che dovrebbero essere "di regresso" e "di maggior garanzia" finendo invece per diventare "la vera responsabilità" normalmente azionata in giudizio, con forte conseguenza "diseducativa" sull'intero corpo sociale.

     

     

     

  3. L'aspetto sostanziale

     

     

     

    Eppure i fatti di "mobbing" sul luogo di lavoro (aggressioni, discussioni, liti, insubordinazioni, dequalificazioni, inattività forzate, molestie sessuali, comportamenti omissivi ed elusioni di doveri, uso strumentale ed estorsivo del potere disciplinare, trasferimenti pretestuosi, boicottaggi, atteggiamenti beffardi dei superiori e dei colleghi , umiliazioni ingiustificate nelle progressioni di carriera, osservazioni e provocazioni quotidiane, atti e comportamenti di ingiuria e diffamazione, ecc) sono produttivi di danni ben precisi, rilevanti sia sotto il profilo civile sia sotto quello penale.

    Civilisticamente abbiamo innanzi tutto - come conseguenza più frequente del "mobbing" - il danno biologico(nota 3) , concetto ormai pacifico nella giurisprudenza italiana; abbiamo poi il danno professionale(nota 4), anch'esso ampiamente riconosciuto sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità.

    Il danno biologico deve essere integralmente addebitato in maniera personale e diretta "agli autori del mobbing"; questo deve avvenire ogni volta che ricorrano le condizioni previste dall'art. 2043 cod. civ., indipendentemente dalle obbligazioni (importanti sì, ma pur sempre "di regresso") gravanti sul datore di lavoro ex art. 2049 e 2087 cod. civ.

    Penalmente parlando, si dovrà procedere - a querela del "mobbizzato" o anche d'ufficio, nei casi in cui è possibile - per tutte le fattispecie che dovessero emergere, fra cui, per fare l'esempio più frequente, per il reato di lesioni

    Ma anche del danno professionale, oltre al datore di lavoro per i consueti titoli (art. 2103 ma anche 2087 e 1375 cod. civ.) , "devono rispondere aquilianamente gli autori del mobbing", in tutti i casi in cui il danno è eziologicamente riconducibile a reiterati comportamenti personali, dolosi o colposi (per es. ingiustificate sottrazioni di pratiche importanti avvenute per iniziative personali di determinati capiservizio) che hanno comportato ingiuste dequalificazioni o emarginazioni del lavoratore.

    A maggior ragione, di quanto sopra gli autori del "mobbing" devono rispondere, questa volta sotto il profilo penale, quando i fatti suddetti, come non di rado succede, oltre ad essere apprezzabili sul piano civilistico come danno professionale sono rilevanti sul piano penale a diversi titoli (si pensi anche solo a comportamenti che , legati a dequalificazioni artatamente indotte, sono fatti di ingiuria, diffamazione, ecc; si veda Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539, di cui amplius più oltre)

     

     

     

     

  4. L'aspetto formale: questioni di rito e di competenza

     

     

     

    L'orientamento prevalente (ma non incontrastato) classifica come "cause di lavoro", con tutte le conseguenze sul rito e sulla competenza, anche quelle (non numerose) in cui si è azionata ( o azionata anche) la responsabilità personale di colleghi; in questo senso, per esempio, Pret. Torino 17/5/96; Cass. 2/3/94 n. 2049; Cass. 20/1/93 n. 698; Pret. Roma 7/6/89; Trib. Milano 15/2/86; Cass. 6/2/85 n. 897; Cass. 27/5/83 n. 3689; Cass. 8/8/83 n. 5293; Cass. 12/12/83 n. 7329; Cass. 19/4/82 n. 2437; Cass. 22/9/81 n. 5171.

    L'orientamento non è pacifico, in quanto vi sono pronunce che, forse più opportunamente, hanno distinto la "causa petendi"; se la stessa è costituita dalla responsabilità extracontrattuale, si applicano le normali norme sulla competenza: questo tanto se l'azione è impostata contro il collega (un esempio: Trib. Milano 9/5/98 per un caso di molestie sessuali sul luogo di lavoro) quanto contro lo stesso datore (un esempio: Cass. 12/11/96 n. 9874 per un sinistro stradale occorso mentre l'attore si recava al lavoro).

    E' tuttavia innegabile che il primo orientamento sia prevalente; fondamentale, al riguardo, si presenta la recentissima Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539 (inedita allo stato) che riguarda fatti in cui , sono certo, molti "mobbizzati" si riconosceranno.

    ***

    Una lavoratrice licenziata da una grande impresa privata promosse (oltre all'impugnazione del licenziamento) una causa contro il dirigente del personale, da lei ritenuto responsabile della vicenda che portò al licenziamento e del conseguente danno all'immagine; nel caso specifico, venne lamentato anche che il suddetto dirigente assunse atteggiamenti di minaccia e di contenuto estorsivo (fra l'altro con reiterate prospettazioni di presentare una denuncia penale per ottenere le dimissioni della lavoratrice) nonchè lesivi della privacy, dell'onore e della reputazione (fra cui la divulgazione in azienda del contenuto delle contestazioni disciplinari).

    In questo processo, dopo alterne e contrastate vicende, venne fissata la competenza funzionale del giudice del lavoro.

    La richiamata sentenza afferma che la natura extracontrattuale della rivendicazione non può risolvere il problema della competenza, in quanto, nei fatti addotti in giudizio, risultava il nesso immediato e diretto fra il comportamento illecito e lo svolgimento del rapporto di lavoro; non solo, ma la stessa pronuncia mette in evidenza che questo nesso non era, nel caso specifico, riconducibile alla mera occasionalità , vista la stretta correlazione fra la condotta addebitata ai convenuti e l'esercizio dei poteri datoriali gerarchico e disciplinare.

    Si tratta di deduzioni che meritano approfondita riflessione.

    E' innegabile che il rito del lavoro , caratterizzato dal "favor lavoratoris", presenti pronunciati aspetti a favore del soggetto che chiede giustizia ( maggior celerità, minori costi, ecc.) ed è anche abbastanza palese che vi sia un forte nesso fra il rapporto di lavoro e molti comportamenti di "mobbing", con particolare riguardo a vessazioni provenienti da superiori gerarchici ed incorporate in una stratificata "strategia aziendale".

    Tuttavia non sempre il nesso è evidente e soprattutto "incidente": se il comportamento dannoso proviene da un pari grado o da un inferiore gerarchico (poniamo il caso, tutt'altro che raro, di minacce e abusi sessuali subiti per anni ed anni sul luogo di lavoro ad opera di colleghi) appare per certi versi una forzatura definire l'eventuale causa per danni come una "causa di lavoro".

    Queste considerazioni , però, non sono sfuggite alla pur minoritaria giurisprudenza sopra richiamata; evidentemente l'orientamento prevalente negli ultimi anni è quello di una interpretazione ed applicazione estensiva degli art. 409 ss c.p.c.

    Inoltre non sempre il rito del lavoro favorisce chi chiede giustizia: nel caso, per esempio, della causa da impostare in un centro di piccole dimensioni contro dipendenti di un datore di lavoro di rilevante peso economico e sociale (esempio tutt'altro che raro in Italia), sarebbe in certi casi ben più vantaggioso, per chi chiede giustizia, poter adire la magistratura secondo le regole ordinarie, magari dopo aver scoperto che uno dei suoi persecutori ha una residenza che consente scelte alternative nell'ambito della competenza territoriale ordinaria.

    L'impressione generale che se ne ricava è che si tratta di materia che dovrebbe ancora venir sottoposta ad un opportuno lavorio di limatura e di elaborazione da parte della giurisprudenza.

     

     

     

  5. Plurioffensività della condotta e pluralità dei soggetti lesi

     

     

     

    Questo è un argomento che meriterebbe un'intera trattazione a parte e a cui riservo, in questa sede, brevissimi cenni, per forza di cose insoddisfacenti, più che altro per completezza di discorso.

    E' ovvio che - oltre alle vittime dirette - il comportamento dei "mobber" danneggia soggetti terzi fra cui, innanzi tutto, il loro stesso datore di lavoro; a nulla rileva il fatto che la maggior parte dei casi sono di derivazione aziendale e fanno parte di un'ampia strategia direzionale, in quanto anche i dirigenti sono pur sempre dipendenti dell'impresa e ad essa devono rispondere.

    Questa responsabilità dei dipendenti-"mobber" verso il datore di lavoro si inquadra come inadempimento contrattuale ( per es. come violazione dell'obbligo di fedeltà e diligenza) , traendo forma e sostanza dalla perdita di produttività e risorse umane inflitta all'azienda; può anche configurarsi come obbligazione di regresso che il datore di lavoro esercita verso di loro dopo aver "pagato" terzi danneggiati o altri dipendenti danneggiati ex art. 2049 e 2087 cod. civ.

    A parte questa "configurazione di base", occorre poi ricordare che spesso l'individuo non è "fine a se stesso" ma fa parte, a volte anche con ruoli di responsabilità, di diverse Organizzazioni portatrici di interessi diffusi.

    Il caso più grave ed eclatante - perché "istituzionale" - è il caso del "mobbizzato" che sia anche dirigente, con mansioni importanti ed effettive, di Organizzazioni Sindacali; e se i "mobber" (non ci interessa qui se per iniziativa loro propria o a seguito di una strategia organica aziendale) si scagliano per anni contro il rappresentante sindacale, fino a rendergli impossibile l'espletamento delle sue funzioni, non c'è forse la piena legittimazione di queste Organizzazioni a chiedere ai responsabili i danni loro propri (politico, d'immagine, ecc.) , distinti da quelli personali del "mobbizzato" ?

    Processualmente ritengo possibile sia azioni distinte - che possono poi subire le vicende processuali ritenute più opportune dal giudice a causa della "comunanza" - sia azioni impostate direttamente dall'uno o dall'altro dei danneggiati, con conseguente intervento processuale degli altri danneggiati.

     

    6 . De jure condendo

     

    A modesto parere di chi scrive gli istituti legislativi e giurisprudenziali già esistenti dovrebbero essere sufficienti a prevenire e punire - in civile ed in penale - il fenomeno del "mobbing", se solo si abbia la "volontà politica" di applicarli e , ancor di più, se si abbia l'accortezza di "rivalutare" certi parametri economici in base ai quali si calcola il "quantum" dei danni subiti.

    Inoltre, chiunque abbia una solida formazione storica ha ben presente i rischi e i problemi che comporta una previsione eccessivamente analitica di figure illecite e di fattispecie delittuose.

    E' tuttavia possibile che leggi specifiche sul "mobbing" possano rivestire caratteri positivi; questo non tanto per la punibilità in concreto del fenomeno quanto per dimostrare l'attenzione e la volontà politica con cui si segue questi fatti.

    Per quanto a conoscenza dello scrivente ed al momento della stesura di questo articolo (fine 1999) giacciono in Parlamento tre iniziative distinte:

     

     

     

    Proposta di legge n. 1813 del 9/7/96 Camera dei Deputati , On.le Cicu ed altri: previsione dei comportamenti come fatto-reato, prevista la reclusione.

     

     

    Proposta di legge n.. 6410 del 30/9/99 Camera dei Deputati, On.le Benvenuto ed altri: previsione del fenomeno come illecito disciplinare e civile; invalidità degli atti discriminatori del datore di lavoro; responsabilità civile degli autori delle persecuzioni (" Il giudice condanna il responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, che liquida in forma equitativa" art. 5), richiesta, per la suddetta responsabilità, del dolo specifico ("...e con palese predeterminazione..." art. 1).

     

     

    Proposta di legge n. 4265 del 13/10/99 Senato, Sen. Tapparo ed altri, sostanzialmente simile a quello dell.On.le Benvenuto.

     

     

    ***

    E' evidente che il progetto ad iniziativa dell' On.le Cicu - che ebbe "il merito di anticipare i tempi" e la "sfortuna dell'oblio" - fa "scuola a sé"; se ne potrebbe "confermare" la validità per i motivi di immagine e di visibilità già espressi, mentre sotto il profilo strettamente esegetico chi scrive ritiene che la novellazione , a colpi di previsioni analitiche, del codice penale , non possa certo essere considerata un metodo positivo.

    I due progetti "civilistici" hanno il merito di dare luce al fenomeno, facendolo uscire dalle ombre e dai silenzi nei quali è stato consumato ; contengono interessanti previsioni in sede preventiva ; prevedono l'invalidità degli atti contro il lavoratore "mobbizzato".

    Soprattutto, prevedono esplicitamente la " responsabilità civile e disciplinare dei colpevoli ".

    Entrambi i suddetti progetti contemplano la competenza del giudice del lavoro ( per il quale valgono le considerazioni, in pro ed in contro, già espresse) ed àncorano il risarcimento danni ad una valutazione equitativa del danno , cosa che può essere discutibile ma che è in linea con la giurisprudenza generale sul danno biologico e professionale.

    Suscita perplessità la previsione , in questi progetti, del dolo specifico, quando il nostro sistema generale è basato sulla colpa ed è altresì caratterizzato anche da (sia pure poche) previsioni di responsabilità oggettiva.

    Ancora una volta, con riferimento all'elemento soggettivo, si ha la sensazione che la previsione legislativa del "mobbing"e soprattutto della responsabilità personale dei "mobber", pur avendo effettuato, negli ultimi tempi, sensibili progressi, soffra di una visione per così dire "riduttiva" del fenomeno.

    Qualche cosa è stato fatto, molto può e deve ancora essere fatto.

     

     

  6. Note

     

     

  7.  

Nota n. 1: Vedi M. Meucci, Considerazioni sul "mobbing"(e analisi del d.d.l. n. 4265 del 13 ottobre 1999), in questa Rivista n. 11/1999; L. Veneri, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, ibidem, 1999, 1097 ed ivi 1115. In giurisprudenza, recentissimamente, Trib.Torino, 16/11/99, est. Ciocchetti, E.G. c. Soc. E.D.P.(inedita allo stato).

Nota n.2: elementi che hanno attenuato la responsabilità extracontrattuale: ricordiamo almeno: -

una serie di fattori psicologici e di nessi psichici fra il soggetto e la condotta o fra il soggetto e l'evento (imputabilità, colpevolezza); -una serie di limiti scriminanti (quasi tutti di origine "moderna". per esempio: lo stato di necessità), che hanno condizionato la "punibilità"; - istituti economici e sociali (pensiamo alle assicurazioni obbligatorie) e previsioni di corresponsabilità (per es. ex art. 2049 e 2087 cod. civ., su cui più oltre), che hanno "scaricato" le conseguenze economiche del fatto illecito su soggetti terzi; - esigenze di certezza e delimitazione anche cronologica del diritto (la decadenza e soprattutto la prescrizione), che hanno in molti casi condizionato o fatto cadere nel nulla le istanze di risarcimento; - limiti al pignoramento ed all'esecuzione forzata in generale, che non di rado hanno vanificato ogni possibilità di recupero concreto, ec c

Nota n.3: con riferimento al danno biologico e solo per limitarci a qualche cenno: - sul primato del diritto alla salute in tutte le circostanze: Corte Cost. 20/12/96 n. 399 in Orient. Giur. Lav., 1997, 1169; sul primato di detto diritto anche sul luogo di lavoro: Corte Cost. 18/7/91 n. 356, in Foro it. 1991,I, 3291 con nota di Poletti; Cass. Penale , sez. IV, 8/3/88 in Riv. Pen. economia, 1990, 149, n. CIANNELLA; sul bene primario della salute in sé considerato, quale diritto inviolabile dell'uomo alla pienezza della vita ed all'esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale Cass. 24/1/90 n. 411, in Lav. prev. oggi, 1990,2387, con nota di Meucci; -sul danno biologico sul posto di lavoro e sulla perdita della sensazione di benessere avvertita nello svolgimento del lavoro (c.d. "cenestesi lavorativa") Trib. Roma 11/7/95 in Riv. Giur. Circolaz. e Trasp., 1996, 141; Pretura Torino 8/2/93 in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 124, n. NALETTO; Pret. Milano 30/12/92 in Riv. Critica Dir. Lav., 1993, 387 ; su temi analoghi Cass. 6/7/90 n. 7101, in Lav. prev. oggi 1991,1181; Cass. 10/3/90 n. 1954 in Crit. Pen., 1995, 50 ; - sul danno alla vita di relazione sociale, alla sessualità e sul danno estetico, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 23/1/95 n. 755 in Zacchia, 1997, 117; Cass. 2/7/91 n. 7262 in Arch. Civ., 1991, 1126 ed altresì in Foro It., 1992, I, 803; Trib. Aquila 26/1/91 in P.Q.M., 1991, fasc. 1, 67; Trib. Sassari 19/5/90 Riv. Giur. Sarda, 1990, 717, n. FRAU ; Cass. 13/11/89 n. 4791 in Mass., 1989; Cass. 19/5/89 n. 2409 in Mass., 1989; Trib. Monza, 15/2/88 in Arch. Giur. Circolaz., 1988, 1067, n. GUSSONI; Trib. Ravenna 12/2/88 in Dir. e Prat. Assicuraz., 1989, 512 ; Trib. Padova 24/5/82 in Giur. di Merito, 1984, 65 ed altresì in Riv. It. Medicina Legale, 1984, 217 - sulla rilevanza, nel concetto di danno biologico, pure della componente morale: Trib. Bologna 13/6/95 in Riv. It. Medicina Legale, 1997, 811; Cass. 26/10/94 n. 8787 in Arch. Giur. Circolaz., 1995, 632; Trib. Milano 17/10/94 in Gius, 1995, 165; - sulla valutazione equitativa del danno biologico, avuto riguardo al "valore umano" perduto, e sui criteri di valutazione: Cass. 11/8/97 n. 7459 in Danno e Resp., 1998, 251, n. MONTAGUTI; Cass. 14/5/97 n. 4236 in Mass., 1997; Cass. 23/6/90 n. 6363 in Mass., 1990; Cass. 26/11/84 n. 6134 in Riv. Giur. Lav., 1985, II, 689, n. POLETTI; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18.

Nota n. 4: con riferimento al danno professionale e solo per limitarci a qualche cenno: nella giurisprudenza di merito, si veda: Pretura di Roma 17 aprile 1992, in Lav. prev. oggi, 1992,1172 con nota di Meucci; Pret. Milano 7/1/97 Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 593; Pret. Nocera Inferiore 5/12/96 in Riv. crit. dir. lav. 1996,458; Pret. Pinerolo 8/8/96 in Lavoro nella Giur., 1997, 153; Trib. Milano 6/7/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 121; Trib. Cagliari 5/7/96 in Lavoro nella Giur., 1997, 312, n. TOPO; Pret. Milano 11/3/96, in Riv. crit. dir. lav. 1996,677; Pret. Milano 11/1/96 Riv. Critica Dir. Lav., 1996, 741; Trib. Roma 3/1/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 117; Pret. Milano 20/6/95 in Riv. Critica Dir. Lav., 1995, 94; Pret. Catania 9/5/95 in Lavoro nella Giur., 1996, 77; Pret. Roma 20/2/95 in Riv. Critica Dir. Lav., 1995, 963; Pret. Milano 14/8/91 in Orient. Giur. Lav., 1991, 888 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, 403, n POSO ed altresì in Riv. Critica Dir. Lav., 1992, 679, n. MANNA ; Pret. Cagliari 29/10/82 in Giur. It., 1984, I, 2, 57; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18); in quella di legittimità si veda: Cass. 3/11/97 n. 10775 in Mass., 1997 ; Cass. 6/6/95 n. 6333 in Dir. Lav., 1996, II, 353, n. A.M.B.; Cass. 19/3/91 n. 2896 in Notiz. Giur. Lav., 1991, 454, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 10/4/96 n. 3340 in Giust. Civ., 1997, I, 1073 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1997, II, 66, n. CALAFA'; Cass. 23/11/95 n. 12121 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 4/10/95 n. 10405 in Riv. it. dir. lav. 1996,II,578 con nota di Bano; Cass. 20/2/95 n. 1843 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 11/1/95 n. 276 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 16/12/92 n. 13299, in Foro it. 1993,I, 2883; Cass. 10/3/92 n. 2889 in Giust. Civ., 1993, I, 199, n. PILATI riguardante in maniera specifica il passaggio da c ompiti operativi a quelli di studio; Cass. 13/8/91 n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992, II, 954(con nota di Focareta) riguardante la forzata inattività di un dirigente; Cass. 17/3/90 n. 2251 in Mass., 1990 e 17/1/87 n. 392 in Mass., 1990 sul valore dei compiti di coordinazione e guida del lavoro altrui; Cass. 24/1/90 n. 411, cit.in nt.3, su esaurimento nervoso a seguito di "reformatio in pejus"; Cass. 19/6/81 n. 4041 in Notiz. Giur. Lav., 1982, 5.

 

 

 

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Rapporto di lavoro – Vessazioni morali, trasferimento e demansionamento con inattività, attualizzanti la fattispecie del mobbing – Cessazione della condotta, dichiarazione di illegittimità del trasferimento di sede ed assegnazione a  mansioni equivalenti ex art. 2103 c.c. – Addizionale risarcimento del danno (da qualificarsi come “danno esistenziale”) in via equitativa, ex art. 1226 c.c. - Spettanza e criteri di calcolo.

 

Tribunale di Forlì – sezione lavoro (1° grado) – 15 marzo 2001 (ud. 23 febbraio 2001) – Est. Sorgi – Mulas (avv. Spinelli) c. Banca Nazionale dell’Agricoltura (poi Banca Antoniana Popolare Veneta)(avv. Pessi, Cagnani).

 

Per il danno da vessazioni morali, trasferimento illegittimo, pregiudizio  all’integrità dello stato di salute (sindrome ansioso-depressiva somatizzata, in fattispecie), la tripartizione danno biologico-danno patrimoniale-danno morale oramai appare riduttiva per l’interprete in quanto lascia troppi spazi privi di adeguata tutela. Sul punto è oramai acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria. Non a caso il mobbing è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale appare particolarmente congeniale a tale situazione.

In termini di ripartizione dell’onere probatorio, spetterà al datore di lavoro che voglia evitare profili di responsabilità ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno esistenziale – e dopo che il lavoratore abbia assolto il proprio onere probatorio di dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra l’evento lesivo ed il comportamento del datore di lavoro (nel caso accertato anche tramite CTU) –, dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie, ex art. 2087 c.c., a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore (in fattispecie,  indimostrate dalla banca convenuta).

Quali parametri risarcitori  per una liquidazione equitativa, ex art. 1226 c.c.,  si ritiene  di utilizzare quello della “durata” della situazione di inadempienza  congiunta a quella di una “percentuale della retribuzione mensile lorda” (calcolata a seconda del danno inferto o della sofferenza subita).

Una volta emerso come dato medio mensile retributivo quello di 5 milioni (attualizzato senza necessità di rivalutazione ed interessi), il giudice ritiene che per i primi 22 mesi di “danno esistenziale”  spettino 22 milioni di risarcimento sulla base di una quota percentuale della retribuzione pari al 20% e,  per i successivi 28 mesi, la somma di 42 milioni, calcolata sulla base di una percentuale retributiva elevata al 30% (per un totale di 64 milioni più interessi e rivalutazione monetaria dalla data della sentenza a quella del saldo effettivo).


Recente  sentenza, che ha una particolare importanza :
Trib. Torino , Sez. Lavoro, n. 5050/99 dep. 16/11/99, Est. Dr. Vincenzo Ciocchetti
Si tratta di una pronuncia di grandissimo rilievo per una serie di motivi: - riconoscimento del mobbing come un "fatto notorio" in una percentuale significativa di casi all'interno degli ambienti di lavoro italiani; - riconoscimento esplicito del danno da mobbing; - riconoscimento della sindrome ansioso-depressiva di natura reattiva come danno ingiusto da risarcire - valore ed efficacia applicativa immediata agli art. 32 Cost. e 2087 cod. civ.
Di eccezionale rilevanza sono i passaggi della sentenza che rigettano la tesi datoriale secondo la quale il ricorrente subì i danni perché afflitto da particolare "labilità emotiva". Al riguardo, dopo aver confutato la tesi datoriale perché non fondata, il giudice estensore Dr. Vincenzo Ciocchetti ci dà una grande lezione di civiltà umana prima ancora che giuridica:
""" La Costituzione , nel suo art. 32, e la legge, nell'art. 2087 cod. civ., tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere"""
Di grande importanza l'ultimo passaggio prima del dispositivo, quando il giudice dà mandato alla cancelleria affinchè copia della sentenza venga messa a disposizione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, per l'accertamento di eventuali reati perseguibili d'ufficio; qui il giudice, avvalendosi di un diritto-dovere previsto dalla legge, offre una tutela contro il mobbing a 360 gradi, interessando anche la magistratura penale per gli eventuali aspetti delittuosi.
Tutta la sentenza è scritta in maniera semplice e chiara, ed è apprezzabile da chiunque anche non dotato di particolare cultura giuridica.
Il contenuto e gli "obiter dicta" di questa sentenza sono stati confermati da una successiva pronuncia del medesimo giudice
Cass. 17/6/99 n. 9539
Si tratta di una sentenza molto tecnica, il cui contenuto è difficilmente apprezzabile per il non giurista, ma è molto importante.
La pronuncia - in sé per sé - svolge solo un "regolamento di competenza", confermando la competenza del giudice del lavoro per tutte le cause che riguardano danni subiti sul posto di lavoro; è tuttavia importante per gli "obiter dicta", cioè per i contenuti accessori e per ciò che afferma "fra le righe".
Nel caso specifico il prestatore di lavoro si è giudizialmente attivato non solo contro il datore ma anche direttamente e personalmente contro un dirigente - il capo del personale - sostenendo la sua responsabilità e coinvolgendolo personalmente nella sua istanza risarcitoria.
Si tratta di una mossa di fondamentale importanza nella lotta contro il "mobbing", perché è evidente che solo coinvolgendo direttamente i "mobber" nelle azioni giudiziarie si può pensare di contrastare efficacemente il fenomeno.
Fin tanto che a pagare sarà sempre e solo il datore di lavoro, i "mobber" continueranno indisturbati nei loro comportamenti; per un approfondimento su questo aspetto rimando al mio stesso articolo pubblicato su questo Sito (VEDI IL CAPITOLO SULLA RESPONSABILITA' DIRETTA E PERSONALE)
Ora, questa sentenza della Cassazione, nel rinviare la causa al giudice del lavoro di Torino, sembra sposare la tesi che - alla responsabilità del datore di lavoro - si affianca pure quella diretta e personale del "mobber"; sarà pertanto poi assai interessante seguire gli sviluppi del processo e vedere a quali conclusioni perviene la magistratura Torinese.

 
 
UNA PRONUNCIA IMPORTANTE, SOTTO IL PROFILO PROCEDURALE, CHE RIGUARDA IL PUBBLICO IMPIEGO E LA SANITA'

 


CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311 - Pres. Iannotta, Est. Fera - L. (Avv. Maria Rosaria Squadra) c. A.S.L. n. 5 di Crotone (Avv. Raffaele Mirigliani).
Giurisdizione e competenza - Pubblico impiego - Mobbing - Richiesta di risarcimento dei danni - Giurisdizione del giudice ordinario - Fattispecie relativa a dipendente ASL.
È competente l'autorità giudiziaria ordinaria a decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico da mobbing. La giurisdizione è della magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie, sanitari), atteso che l'art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose" (1).
(1) Entra nel pubblico impiego il concetto mobbing, che viene tuttavia subito espulso dalla giustizia amministrativa ed affidato alle cure del giudice ordinario. Nel caso trattato si discuteva di una richiesta di condanna al pagamento di una somma provvisionale (art. 3 L. 205/2000), in relazione al binomio danno biologico-mobbing.
Il Consiglio di Stato, con l'ordinanza in rassegna, devia su altra giurisdizione la possibilità di decidere, utilizzando precedenti univoci (Cass. Sez.Un. 16 gennaio 1987 n. 304 in Foro It. 1988, 1, 2686; Cass. 10 ottobre 1967 n. 2358, Foro amm. 1968, 1,1,100). Precedenti che tuttavia fanno riferimento a infermità di tipo traumatico (infarti, danni da radiazioni, traumi in genere), che agevolmente si collocano nell'ambito della giustizia su responsabilità extracontrattuale e che quindi pacificamente sono da sempre affidate all'indagine del giudice civile.
Diverso sembra il ragionamento per il mobbing, che rappresenta la somma di comportamenti direttamente connessi all'organizzazione del lavoro, oscillanti dall'eccessivo carico di lavoro ai soprusi del superiore e che quindi sembrano gravitare più su aspetti organizzativi che su specifiche, singole situazioni traumatizzanti.
Il mobbing nel pubblico impiego, con il suo corredo di stati patologici diagnosticabili neurologicamente come sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia, inappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto, uso farmacologico di ansiolitici, antidepressivi e disintossicanti, trasloca quindi dal giudice amministrativo a quello ordinario, quale corredo degli accertamenti su carriere (e fallite carriere), sul divenire del rapporto, sugli inquadramenti, su tutto ciò (dispiaceri, traversie) che accompagna il dipendente nella sua vita insieme alla pubblica amministrazione.
In ogni caso, poichè al giudice amministravo non è rimasto quasi nulla del rapporto di pubblico impiego, è comprensibile che declini la competenza sui meccanismi organizzativi che possono generare mobbing. Tuttavia potrebbe essere opportuno che trasmigri dalle sedi della giustizia amministrativa ai Tribunali anche quel bagaglio di strumenti che anni di giurisprudenza hanno affinato: basti pensare all'eccesso di potere in senso assoluto ed in senso relativo (Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 1998 n. 495), formula senza la quale non è possibile verificare la legittimità di uno scavalcamento nella progressione di carriera.
Mentre trova spazio nelle aule giudiziarie, il mobbing ha porte aperte anche nelle coperture assicurative: lo stesso INAIL infatti lo inserisce negli studi su nuove patologie nelle malattie professionali ex art. 10 co. 4 D.Lgs. 38/2000. Si vedano in dettaglio le linee di indirizzo dell'istituto, leggibili nel sito www.inail.it , che contengono appunto un formale riferimento al mobbing quale nuova patologia.
Di sicuro il mobbing nel rapporto alle dipendenze con la pubblica amministrazione sarà più difficile da percepire: i parametri applicabili saranno probabilmente quelli - universali nel pubblico e nel privato - del disagio psicofisico, come descritti dalla sentenza del Tribunale di Torino 11 dicembre 1999 (Foro It. 2000, 1, 1555).
Ma se è agevole comprendere il disagio del dipendente torinese, spostato in altro comparto aziendale e privato di alcune qualificanti attività (passando dalla gratificante gestione poliglotta di clienti stranieri, al mero caricamento dati ed emissione di bolle di accompagnamento), sarà meno agevole districarsi tra le sottili malvagità che spesso serpeggiano nel pubblico impiego.
Se con la scarsezza di mezzi probatori di cui disponeva, il giudice amministrativo riusciva ad eliminare sottili illegittimità, il migliore augurio che si può fare al giudice ordinario è di saper intervenire con altrettanta capacità (Guglielmo Saporito, 18.12.2000).
 

(omissis)
per l'annullamento
dell'ordinanza n. 794 del 5 ottobre 2000 del TAR Calabria - Catanzaro, sez. II, n. 794/2000, resa tra le parti, concernente danno biologico da mobbing;
Visti gli atti e documenti depositati con l'appello;
Vista l'ordinanza di rigetto della domanda cautelare proposta in primo grado per il pagamento, a titolo di provvisionale, della somma spettante;
Considerato che la domanda, con la quale viene denunciata la lesione del diritto alla salute generata da "mobbing", qualificata dallo stesso ricorrente come azione di riconoscimento del danno derivante da illecito civile ex art. 2043 cc., esorbita chiaramente dalla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass., Sez.Un., 10.10.67 n. 2358; Id. 14.5.1987 n. 4441).
Che, peraltro, anche ove essa fosse fondata sul rapporto di servizio con la ASL n. 5, la materia, a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80, rientra ora nella giurisdizione dell'A.G.O.;
Che, inoltre, neppure è configurabile nella specie una controversia in materia di pubblici servizi, posto che l'art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose" e che non vi sono profili di domanda che concernano l'organizzazione del pubblico servizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso in appello.
Depositata in cancelleria il 06.12.2000.

 
 
 
 
LA GIURISPRUDENZA SI PRONUNCIA SUGLI ASPETTI PENALI DEL MOBBING:
 

MALTRATTAMENTO DEI DIPENDENTI PER STIMOLARNE LA PRODUTTIVITA’ E ACCRESCERE I PROFITTI AZIENDALICostituisce reato punibile con la reclusione (Cassazione Sezione Sesta Penale n. 10090 del 12 marzo 2001, Pres. Sansone, Rel. Garribba).
Orlando E., capogruppo responsabile di zona per la vendita porta a porta di prodotti per la casa, dipendente di un’azienda commerciale gestita da Cataldo C. è stato sottoposto a processo penale, insieme al suo principale, per maltrattamenti in danno dei collaboratori. Il Tribunale di Milano ha accertato che Orlando E. “con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti molestie sessuali e, non ultima la ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato che il lavoro era svolto in nero e le retribuzioni venivano depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti dal datore di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate”.
In considerazione di ciò il Tribunale ha condannato Orlando E. e Cataldo C. alle pene rispettivamente di anni cinque e anni quattro di reclusione, dichiarandoli colpevoli il primo dei reati previsti dall’art. 572 (“maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) e dall’art. 610 cod. pen. (“violenza privata”) e il secondo del solo reato di violenza privata.
La sentenza è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano. I condannati hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, che il rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare cui fa riferimento l’art. 572 cod. pen.
La Suprema Corte (Sezione Sesta Penale n. 10090 del 12 marzo 2001, Pres. Sansone, Rel. Garribba) ha rigettato il ricorso osservando che l’art. 572 cod. pen., pur essendo contraddistinto dalla rubrica “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” punisce anche chi maltratta “una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte”.
Non v’è dubbio, ha affermato la Corte, che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di “persona sottoposta alla sua autorità”, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente.

 
 
 
DEMANSIONAMENTO ED ATTIVITA' FORZATA COME STRUMENTI DI MOBBING
 

LO "STRESS DA NON LAVORO" PER DEMANSIONAMENTO PUO’ CAUSARE UNA SINDROME DEPRESSIVA L’origine della malattia va accertata mediante consulenza tecnica (Cassazione Sezione Lavoro n. 1205 del 29 gennaio 2001, Pres. Trezza, Rel. Maiorano).
M.G., dipendente della Cassa Edile Capitanata, ha promosso, davanti al Pretore di Foggia, un giudizio nei confronti della datrice di lavoro sostenendo, tra l’altro, di essere stata lasciata, per lungo tempo, in condizioni di forzata inoperosità, in violazione del suo diritto al lavoro, e di essere stata colpita, in conseguenza di ciò, da sindrome depressiva con somatizzazioni; ella ha prodotto certificati medici ed ha chiesto l’accertamento mediante prova testimoniale e consulenza tecnica, della malattia riportata e della sua origine, e la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno causato alla sua salute.
Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Foggia, non hanno ritenuto di ammettere le prove e di disporre la consulenza tecnica ed hanno rigettato la domanda di risarcimento.
Il Tribunale ha motivato la sua decisione affermando che non era possibile neanche con l’ausilio di un consulente tecnico provare "il nesso causale tra le patologie di cui ai certificati medici allegati e la mancata utilizzazione delle prestazione lavorative della signora M." precisando che "le malattie arteriose e le sindromi depressive sono largamente frequenti nella nostra società e sono causate da una molteplicità di fattori (alimentazione, età, stress da lavoro ecc.) onde il consulente tecnico potrebbe formulare solo ipotesi che non sarebbero sufficienti a provare il nesso di causalità".
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1205 del 29 gennaio 2001, Pres. Trezza, Rel. Maiorano) ha accolto il ricorso della lavoratrice osservando in primo luogo che non può essere negata in astratto la possibilità di accertare l’esistenza di un danno alla salute, in base a previsioni sui possibili esiti di una consulenza. In secondo luogo – ha affermato la Corte – il ragionamento seguito dal Tribunale deve ritenersi sostanzialmente contraddittorio: dopo avere individuato fra i molteplici fattori che possono provocare le malattie arteriose e le sindromi depressive lo "stress da lavoro" e quindi dopo avere individuato il fattore "lavoro" (o "non lavoro") come possibile concausa, il Tribunale ha erroneamente rigettato la domanda senza istruire la causa, ipotizzando il possibile esito negativo della richiesta consulenza e senza nemmeno esaminare in dettaglio la documentazione prodotta dalla parte.
La Cassazione ha rinviato la causa, per nuovo esame alla Corte d’Appello di Bari.

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LA GIURISPRUDENZA DI BASE

 

 

Con riferimento al danno biologico e solo per limitarci a qualche cenno: - sul primato del diritto alla salute in tutte le circostanze: Corte Cost. 20/12/96 n. 399 in Orient. Giur. Lav., 1997, 1169; sul primato di detto diritto anche sul luogo di lavoro: Corte Cost. 18/7/91 n. 356, in Foro it. 1991,I, 3291 con nota di Poletti; Cass. Penale , sez. IV, 8/3/88 in Riv. Pen. economia, 1990, 149, n. CIANNELLA; sul bene primario della salute in sé considerato, quale diritto inviolabile dell'uomo alla pienezza della vita ed all'esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale Cass. 24/1/90 n. 411, in Lav. prev. oggi, 1990,2387, con nota di Meucci; -sul danno biologico sul posto di lavoro e sulla perdita della sensazione di benessere avvertita nello svolgimento del lavoro (c.d. "cenestesi lavorativa") Trib. Roma 11/7/95 in Riv. Giur. Circolaz. e Trasp., 1996, 141; Pretura Torino 8/2/93 in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 124, n. NALETTO; Pret. Milano 30/12/92 in Riv. Critica Dir. Lav., 1993, 387 ; su temi analoghi Cass. 6/7/90 n. 7101, in Lav. prev. oggi 1991,1181; Cass. 10/3/90 n. 1954 in Crit. Pen., 1995, 50 ; - sul danno alla vita di relazione sociale, alla sessualità e sul danno estetico, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 23/1/95 n. 755 in Zacchia, 1997, 117; Cass. 2/7/91 n. 7262 in Arch. Civ., 1991, 1126 ed altresì in Foro It., 1992, I, 803; Trib. Aquila 26/1/91 in P.Q.M., 1991, fasc. 1, 67; Trib. Sassari 19/5/90 Riv. Giur. Sarda, 1990, 717, n. FRAU ; Cass. 13/11/89 n. 4791 in Mass., 1989; Cass. 19/5/89 n. 2409 in Mass., 1989; Trib. Monza, 15/2/88 in Arch. Giur. Circolaz., 1988, 1067, n. GUSSONI; Trib. Ravenna 12/2/88 in Dir. e Prat. Assicuraz., 1989, 512 ; Trib. Padova 24/5/82 in Giur. di Merito, 1984, 65 ed altresì in Riv. It. Medicina Legale, 1984, 217 - sulla rilevanza, nel concetto di danno biologico, pure della componente morale: Trib. Bologna 13/6/95 in Riv. It. Medicina Legale, 1997, 811; Cass. 26/10/94 n. 8787 in Arch. Giur. Circolaz., 1995, 632; Trib. Milano 17/10/94 in Gius, 1995, 165; - sulla valutazione equitativa del danno biologico, avuto riguardo al "valore umano" perduto, e sui criteri di valutazione: Cass. 11/8/97 n. 7459 in Danno e Resp., 1998, 251, n. MONTAGUTI; Cass. 14/5/97 n. 4236 in Mass., 1997; Cass. 23/6/90 n. 6363 in Mass., 1990; Cass. 26/11/84 n. 6134 in Riv. Giur. Lav., 1985, II, 689, n. POLETTI; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18.

Con riferimento al danno professionale e solo per limitarci a qualche cenno: nella giurisprudenza di merito, si veda: Pretura di Roma 17 aprile 1992, in Lav. prev. oggi, 1992,1172 con nota di Meucci; Pret. Milano 7/1/97 Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 593; Pret. Nocera Inferiore 5/12/96 in Riv. crit. dir. lav. 1996,458; Pret. Pinerolo 8/8/96 in Lavoro nella Giur., 1997, 153; Trib. Milano 6/7/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 121; Trib. Cagliari 5/7/96 in Lavoro nella Giur., 1997, 312, n. TOPO; Pret. Milano 11/3/96, in Riv. crit. dir. lav. 1996,677; Pret. Milano 11/1/96 Riv. Critica Dir. Lav., 1996, 741; Trib. Roma 3/1/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 117; Pret. Milano 20/6/95 in Riv. Critica Dir. Lav., 1995, 94; Pret. Catania 9/5/95 in Lavoro nella Giur., 1996, 77; Pret. Roma 20/2/95 in Riv. Critica Dir. Lav., 1995, 963; Pret. Milano 14/8/91 in Orient. Giur. Lav., 1991, 888 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, 403, n. POSO ed a ltresì in Riv. Critica Dir. Lav., 1992, 679, n. MANNA ; Pret. Cagliari 29/10/82 in Giur. It., 1984, I, 2, 57; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18); in quella di legittimità si veda: Cass. 3/11/97 n. 10775 in Mass., 1997 ; Cass. 6/6/95 n. 6333 in Dir. Lav., 1996, II, 353, n. A.M.B.; Cass. 19/3/91 n. 2896 in Notiz. Giur. Lav., 1991, 454, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 10/4/96 n. 3340 in Giust. Civ., 1997, I, 1073 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1997, II, 66, n. CALAFA'; Cass. 23/11/95 n. 12121 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 4/10/95 n. 10405 in Riv. it. dir. lav. 1996,II,578 con nota di Bano; Cass. 20/2/95 n. 1843 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 11/1/95 n. 276 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 16/12/92 n. 13299, in Foro it. 1993,I, 2883; Cass. 10/3/92 n. 2889 in Giust. Civ., 1993, I, 199, n. PILATI riguardante in maniera specifica il passaggio da compiti oper ativi a quelli di studio; Cass. 13/8/91 n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992, II, 954(con nota di Focareta) riguardante la forzata inattività di un dirigente; Cass. 17/3/90 n. 2251 in Mass., 1990 e 17/1/87 n. 392 in Mass., 1990 sul valore dei compiti di coordinazione e guida del lavoro altrui; Cass. 24/1/90 n. 411, cit.in nt.3, su esaurimento nervoso a seguito di "reformatio in pejus"; Cass. 19/6/81 n. 4041 in Notiz. Giur. Lav., 1982, 5.

 

 

 

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Psicopatologia di Internet (Internet Psychopathology)

 

 

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INTERNET ADDICTION DISORDER.
Una Review

Anna Fata

 

MODELLO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DELL'UTILIZZO PATOLOGICO DI INTERNET (PIU) di Davis R.A (1999)

 

 

L’utilizzo patologico di Internet (PIU) può essere di due tipi:

 

 

bulletSpecifico: include le persone dipendenti da una funzione specifica di Internet (es. materiale erotico, gioco d'azzardo, aste, ecc.). Queste forme di dipendenza sono contenuto-specifiche ed esisterebbero indipendentemente dalla presenza o meno di Internet.

 

 

bulletGeneralizzato: comprende un sovrautilizzo generalizzato e multidimensionale di Internet. Può includere anche la perdita di tempo on line, senza un obiettivo preciso. Spesso è associato alle frequenza delle chat e alla dipendenza dalla posta elettronica. Si ritiene che tale elemento sia in relazione con l'aspetto sociale di Internet: il bisogno di un contatto sociale e il rinforzo ottenuto on line accrescono il desiderio di rimanere in uno stato di vita sociale virtuale.

 

 

Davis R.A. (1999), per identificare l'eziologia della PIU, ha utilizzato un approccio cognitivo-comportamentale, in base al quale il PIU deriva da cognizioni problematiche unite a dei comportamenti che intensificano o mantengono la risposta disadattiva. La teoria sul PIU pone l'enfasi sulle cognizioni o i pensieri dell'individuo intesi come la fonte principale del comportamento anormale. Sebbene i sintomi più evidenti del PIU siano di tipo affettivo o comportamentale, l’Autore sostiene che i sintomi cognitivi del PIU possono spesso precedere e causare i sintomi affettivi o comportamentali, non viceversa.

 

Per spiegare la natura della teoria cognitiva del PIU si devono descrivere preliminarmente alcuni concetti. Abramson e coll. (1989) distinguono diversi tipi di cause:

 

 

bulletNecessarie: fattori eziologici che devono essere presenti o devono accadere affinché i sintomi si manifestino, ma non è detto che i sintomi si manifestino quando la cause necessarie sono presenti o sono avvenute, cioè necessario non equivale a sufficiente.

 

 

bulletSufficienti: fattori eziologici la cui presenza o occorrenza garantiscono la manifestazione dei sintomi.

 

 

bulletFacilitanti: fattori eziologici che aumentano la probabilità della manifestazione dei sintomi, ma non sono necessari, né sufficienti per la loro manifestazione.

 

 

Inoltre, Abramson e coll. (1989) distinguono tra cause:

 

 

bulletProssimali: cause posizionate verso la fine della catena causale.

 

 

bulletDistali: cause collocate vicine all'inizio della catena, lontano dai sintomi.

 

 

L'obiettivo di Davis R.A. (1999) è quello di presentare le cognizioni disadattive come una causa prossimale sufficiente per i sintomi del PIU.

 

 

 

 

 

Figura 1. Modello cognitivo-comportamentale dell'Uso Patologico di Internet (PIU)

 

 

 

1. Cause distali contribuenti

 

Il comportamento anormale è il risultato di una vulnerabilità a cui si è predisposti e di un evento di vita. La psicopatologia è una causa distale necessaria dei sintomi della PIU, cioè deve essere presente o deve accadere affinché i sintomi si manifestino. La psicopatologia in sé non è un elemento presente tra i nei sintomi del PIU, ma è necessaria nella sua eziologia.

 

Lo stressor è l'introduzione di Internet o di alcune nuove tecnologie reperite in Internet. L'esposizione a tali tecnologie è una causa distale necessaria dei sintomi del PIU. L'esperienza di queste tecnologie agisce come un catalizzatore per lo sviluppo del PIU.

 

Un fattore chiave nell'esperienza di Internet e delle nuove tecnologie ed esso associate, è il rinforzo che un individuo riceve dall'evento. Se il rinforzo derivante dall'utilizzo di Internet è positivo, l'individuo sarà condizionato a compiere più frequentemente la/e medesima/e attività per raggiungere una reazione fisiologica simile. Tale condizionamento operante prosegue fino a che l'individuo cerca nuove tecnologie per raggiungere una reazione fisiologica simile. Uno shift associativo si verifica nel normale processo di condizionamento: ogni stimolo associato con lo stimolo condizionato primario è suscettibile di un rinforzo secondario. I rinforzi secondari agiscono come indizi situazionali che rinforzano lo sviluppo dei sintomi del PIU e contribuiscono al mantenimento dei sintomi associati.

 

 

2. Cause prossimali contribuenti

 

Un soggetto con il PIU presenta una disfunzione cognitiva che prende la forma di cognizioni disadattive. Queste cognizioni sono cause sufficienti del PIU.

 

Le cognizioni disadattive sono di due tipi:

 

bulletPensieri distorti su di sé: sono guidati da uno stile cognitivo ruminante. I soggetti che tendono a ruminare sperimentano un PIU più severo e prolungato. La ruminazione verte continuamente su pensieri che riguardano i problemi associati all'uso personale di Internet. La ruminazione è in grado di mantenere o esacerbare la psicopatologia, interferendo in parte con i comportamenti strumentali (agire) e con la risoluzione efficace dei problemi interpersonali. Inoltre, la ruminazione centrata su di sé porta il soggetto a ricordare gli episodi più rinforzanti circa Internet, mantenendo così il circolo vizioso del PIU. Altre distorsioni cognitive su di sé includono la messa in dubbio di sé, un basso livello di auto efficacia e una bassa autostima. L'individuo ha una visione negativa di sé e utilizza Internet per ottenere delle risposte più positive dagli altri in modo non minaccioso.

 

 

bulletPensieri distorti sul mondo: comprendono le generalizzazioni di eventi specifici. Sono pensieri del tipo tutto-o-nulla che esacerbano la dipendenza del soggetto da Internet.

 

 

bulletTali distorsioni del pensiero sono messe in atto automaticamente ogni volta che uno stimolo associato ad Internet è disponibile. Il risultato di tali cognizioni disadattive sono o il PIU specifico o il PIU generalizzato.

 

 

 

3. Pathological Internet Use (PIU)

 

Il PIU specifico comprende il sovrautilizzo e l'abuso delle funzioni specifiche di Internet (es. aste, pornografia, stock trading, ecc.). Esso è il risultato di una psicopatologia preesistente che si associa all'attività online.

 

Il PIU generalizzato è correlato al contesto sociale dell'individuo. Specificamente: l'assenza di un supporto sociale da parte della famiglia o degli amici e/o l'isolamento sociale caratterizzano i soggetti affetti da PIU generalizzato, che si manifesta trascorrendo enormi quantità di tempo in Internet, o sprecandolo senza uno scopo preciso, o nelle chat rooms. Tali soggetti, frequentemente, hanno una psicopatologia preesistente all’abuso di Internet, sono socialmente isolati e non esprimono le loro angosce.

 

 

4. Sintomi del Pathological Internet Use

 

I sintomi delineati da Davis R.A. sono simili a quelli riscontrati da Young K.S. in ricerche precedenti (1996). Nel modello cognitivo-comportamentale, tuttavia, viene posta maggiore enfasi sui sintomi cognitivi quali: pensieri ossessivi su Internet, calo del controllo degli impulsi, incapacità di porre fine all'uso di Internet, sentire che Internet rappresenta l'unico amico. Il soggetto è convinto che Internet sia l'unico luogo in cui si sente bene con se stesso e con il mondo. Altri sintomi sono: pensare ad Internet quando si è off line, anticipare il momento in cui si sarà online, spendere una grande quantità di denaro per il collegamento alla rete. Un soggetto con PIU trascorre meno tempo a fare cose che in passato gli davano piacere, ciò che lo divertiva in passato non lo interessa più. Un'ulteriore complicazione sorge nel momento in cui il soggetto si isola dagli amici "reali" per quelli online. Egli, inoltre, prova un forte senso di colpa per il suo utilizzo della rete. Spesso mente agli amici o ai familiari circa il tempo che trascorre online e su ciò che fa quando è collegato. Egli sente che ciò che sta facendo non è pienamente accettabile a livello sociale, ma non riesce a smettere. Il risultato è una diminuzione dell'autostima e un aumento dei sintomi del PIU.

 

 

Conclusioni

 

Le implicazioni del modello sopra descritto sono le seguenti:

 

     

  1. E' possibile considerare il PIU come specifico o generalizzato. Il PIU generalizzato è socialmente più pericoloso, in quanto Internet agisce come stressor per i soggetti e può esacerbare le condizioni psicopatologiche preesistenti. Per altre persone Internet è semplicemente un mezzo per esprimere la loro dipendenza da diversi stimoli (es. gioco d'azzardo, pornografia, ecc.). Questi individui hanno un PIU specifico.

     

     

     

  2. Il modello di Davis R.A. (1999) costituisce il punto di riferimento per la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) del PIU. Il focus della CBT è portare alla luce le distorsioni cognitive, provocarle, permettere ai soggetti di catastrofizzare ed, infine, lavorare sulla ristrutturazione cognitiva. Le componenti comportamentali della CBT per il PIU includono: registrare l'uso di Internet, fare una lista dei pensieri e la terapia dell'esposizione allo stimolo. Questo implica tenere il soggetto lontano da Internet per un periodo di tempo, mostrare che non accade nulla di negativo e fare osservare le proprie reazioni cognitive verso Internet, tramite esposizioni multiple alle varie funzioni di Internet. Ciò permette al soggetto di osservare le distorsioni cognitive per quelle che sono.

     

     

     

  3. Attualmente, l’obiettivo dell’Autore consiste nel testare empiricamente tale modello.

     

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LINKS CORRELATI

bullethttp://www.concentric.net/~Astorm/:

Stormsite: la Psicologia delle Comunità virtuali. Sito gestito da S.A. King, membro dell’IMHO (International Society for Menthal Health Online). Molto ricco di risorse: articoli sul self-help online, la psicoterapia virtuale, la psicologia del Cyberspazio, link ad altri siti e a gruppi di discussione.

bullethttp://www.internetaddiction.com/:

Sito con risorse di auto-aiuto, gruppo di supporto, mailing list, manuali per la conoscenza dell’Internet Addiction.

bullethttp://internet-dipendenza.it:

I temi fondamentali trattati sono: le caratteristiche psicologiche di Internet che possono creare dipendenza, la definizione dell’Internet Addiction, i criteri diagnostici, le fasi di sviluppo della sindrome, i tipi di dipendenze, i trattamenti. A cura dalla psicologa Anna Fata.

bullethttp://www.ismho.org/:

Sito della International Society of Mental Health, un ente non-profit, fondato nel 1997 per promuovere la comprensione, l’utilizzo e lo sviluppo della comunicazione, informazione e tecnologia online per la comunità internazionale della salute mentale.

bullethttp://netaddiction.com/index.html:

Center for On-Line Addiction è la clinica virtuale gestita dalla Professoressa K. Young, in cui vengono forniti servizi di counseling via e-mail, per telefono o in chat room ed altri servizi clinici (es. psicoterapia individuale o di coppia) e di formazione. E’ disponibile, inoltre, una buona quantità di risorse, articoli, libri, tests di autosomministrazione, gruppo di discussione, link correlati, sia per il grande pubblico, sia, in parte, per gli addetti ai lavori.

bullethttp://www.presinellarete.com:

Sito italiano gestito dalla Casa Editrice che ha curato l’edizione italiana del volume "Presi nella rete" della Professoressa K.Young, dell’Università di Pittsburgh. In esso sono presenti, in particolare, una breve introduzione al libro e le risposte alle domande che i lettori, tramite la mediazione della Casa Editrice, rivolgono all’Autrice.

bullethttp://psychcentral.com/grohol.htm:

Sito gestito dal Dottor J. Grohol, online dal 1995, molto ricco di risorse e ben organizzato. Sono presenti articoli ed indicazioni bibliografiche, non solo sull’Internet Addiction, ma anche su vari temi psicologici e di salute mentale. Dispone di un motore di ricerca interno. Il Dottor Grohol, inoltre, offre la sua consulenza gratuita via chat, ad orari prestabiliti.

bullethttp://www.psychoinside.it/:

Il sito è stato creato con lo scopo di informare chiunque desideri avvicinarsi alla Psicologia ed alla Psichiatria. In esso viene offerta la possibilità di effettuare una psicoterapia online, in via sperimentale, tramite, e-mail o chat, con o senza l’uso di WebCam. Ci sono quattro percorsi per visitare il sito: clinico, formativo, informativo e Internet Addiction Disorder.

bullethttp://www.psychomedia.it/:

Risorsa italiana di Psichiatria, Psicologia, Psicoanalisi, Psicoterapia, online dal Gennaio 1996. Presenza di un’ingente quantità di risorse, divise in sezioni (atti di Congressi, programmi di seminari, convegni, giornate di studio, recensioni di pubblicazioni, mailing lists, formazione in Psichiatria e Psicoterapia, link ad altri siti).

bullethttp://www.rider.edu/users/suler/psycyber/psycyber.html:

In esso è stato pubblicato il manuale ipertestuale del Professor J. Suler della Rider University, sulle dimensioni psicologiche dell’ambiente creato dai computer e dalla rete. L’obiettivo consiste nella comprensione delle caratteristiche psicologiche del cyberspazio e del modo in cui le persone si comportano in esso. La pubblicazione risale al Gennaio 1996, ma è stato continuamente aggiornato ed ampliato. Provvisto di motore di ricerca interno. Link con altri siti riguardanti il cyberspazio.

bullethttp://www.victoriapoint.com/catalyst.htm:

L’Editore, R.A. Davis, lo definisce il sito sull’utilizzo del computer nella psicologia. In particolare, sono presenti articoli su: l’Internet Addiction Disorder, il comportamento, le terapie e le ricerche online e su altri temi più genericamente correlati al computer ed alla psicologia. E’ possibile inviare i propri articoli. Numerosi link ad altri siti, particolarmente interessanti quelli rivolti alle ricerche universitarie. I contenuti sono indirizzati, tranne rare eccezioni, ad un grande pubblico.

bullethttp://www.virtual-addiction.com/:

Centro per lo studio di Internet creato dal Dottor D. Greenfield, con la presentazione dei servizi offerti e le risorse per la conoscenza dell’Internet Addiction Disorder (articoli e libri redatti dall’Autore). Buona navigabilità, ma limitata offerta quantitativa di risorse e assenza di link con altri siti.


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Intervista a John Suler su fisiologia e psicopatologia della vita on line di Anna Fata


Nota editoriale: John Suler si è laureato in psicologia presso la State University di New York, a Stony Brook, nel 1977. Nel 1982 ha conseguito il dottorato in Psicologia Clinica presso la State University di New York a Buffalo. Da 12 anni sta portando avanti il training personale in psicoterapia in un gruppo clinico condotto da N. McWilliams. Dal 1982 è professore di Psicologia presso la Rider University a Lawrenceville, New Jersey. Le sue attività di ricerca sono: la psicologia del cyberspazio, la psicoanalisi contemporanea e il pensiero dell'Est, l'insegnamento della psicologia clinica, l'immaginario mentale, i processi terapeutici nei gruppi di auto-aiuto.

La fisiologia della vita online

D: Secondo me, partire dalla fisiologia impedisce di considerare la Rete come patologica a priori. La Rete ha molti vantaggi che devono essere tenuti nella giusta considerazione. Mi riferisco, ad esempio, ai MUDs: assumere una o più identità online può condurre ad una più profonda conoscenza di sé ed autorealizzazione. Esistono anche dei rischi. Cosa pensa di tale questione? Mi può esporre uno o più casi clinici di cui ha avuto esperienza?

R: Come in molte situazioni sociali online, le persone forse mettono in atto i loro bisogni ed i loro desideri, assumendo delle personalità online senza alcuno sviluppo personale, mentre, forse, danneggiano altri individui; a volte, essi possono darsi da fare su importanti aspetti personali assumendo tali identità, avendo come risultato la crescita ed il cambiamento psicologici.

 

D: Ritengo che la cyberpsicologia costituisca un importante tema accademico. In Italia, nel passato recente, tale questione non è stata tenuta nella debita considerazione e coloro che la studiavano venivano guardati in modo sospetto e, a volte, emarginati. In riferimento a ciò, vorrei sapere come viene considerato lo studio della Rete, nel suo contesto socio-culturale, nel passato e attualmente e quale è stata la sua esperienza.

R: Le persone sono state scettiche sulle relazioni online, così come sulla psicoterapia online. Ma non c'è assolutamente alcun dubbio che le persone instaurino delle relazioni significative online (colleghi, amici, amanti). La stessa cosa è vera anche per la terapia online. Alcune persone sono molto scettiche su ciò, ma l'evidenza è molto chiara, secondo me, che la terapia online è possibile e che può essere molto efficace. La domanda reale non è "se è possibile fare la terapia online", ma piuttosto "come la terapia online può essere efficace, con quali tipi di problemi e con quali tipi di persone". La psicoterapia online è un nuovo tipo di psicoterapia, per certi versi simili, in alcuni aspetti differente dalla terapia faccia a faccia.

 

D: Mi può esporre uno o più esempi di cooperazione e di conflitto in una comunità online di cui lei ha avuto esperienza?

R: Questo è un argomento molto complesso – non dissimile dal chiedere in che modo le persone cooperano e fanno esperienza del conflitto nel mondo "in person". Sotto molti aspetti, ciò che accade in una comunità online è molto simile alle comunità "in person". La differenza maggiore è che la gente comunica via TESTO, che si risolve in un parziale anonimato, una mancanza di indizi faccia a faccia e una conseguente disinibizione. Tale disinibizione può condurre ad un maggiore acting out e a dei conflitti interpersonali che possiamo vedere nelle comunità faccia a faccia, ma forse anche ad una più rapida rivelazione di sé e ad atti di gentilezza.

 

D: Lei pensa che le manifestazioni emotive siano più intense rispetto alla vita ‘reale'? Se è così, perché lei pensa che accade?

R: In alcuni casi può essere vero. L'anonimato e la mancanza di indizi faccia a faccia tendono a condurre in direzione di un numero maggiore di reazioni di proiezione e di transfert. Esiste una tendenza un po' maggiore nelle relazioni online a "leggere" significati in ciò che le altre persone hanno scritto. C'è una tendenza maggiore a fraintendere ciò che la gente intende.

 

D: Lei crede che le relazioni online si stabiliscano e vengano meno più rapidamente di quelle faccia a faccia? Ha qualche esempio di esse?

R: Io penso che possa essere vero. A volte, a causa di quell'effetto di disinibizione, la gente si apre molto velocemente ed instaura un'intimità con gli altri molto rapidamente. A volte, la relazione dura, ma, altre volte, l'intimità si sviluppa troppo rapidamente e la gente comincia a sentirsi vulnerabile. Così, pongono fine alla relazione. Per alcune persone, quella rapida intimità, che, in qualche modo, viene avvertita come falsa e, paradossalmente, superficiale, dal momento che le altre persone "non mi conoscono realmente". E' molto facile cliccare il tasto "disconnetti" e scomparire, se una relazione non sta andando bene. E' molto facile NON rispondere ad una e-mail. Una persona può sempre incolpare il proprio server o Internet di "non ricevere" un messaggio o "non essere in grado di connettersi". E' molto facile, su Internet, evitare di dire arrivederci a qualcuno.

 

 

La psicopatologia

 

D: Esistono delle pubblicazioni scientifiche contenenti casi clinici di IAD?

R: C'è un numero considerevole di libri e di articoli. Visiti il sito web di Kimberly Young " The Center for Online Addiction". Inoltre, numerosi articoli sono apparsi sulla rivista CyberPsychology and Behavior (http://www.liebertpub.com/CPB/default1.asp). Anche Azy Barak ha una lista di articoli di ampia portata sul comportamento online, che include articoli sullo IAD (http://construct.haifa.ac.il/~azy/refindx.htm).

 

D: Lo IAD sarà inserito nella prossima edizione del DSM, come già sembrava possibile nel 1993?

R: Probabilmente no. Molte più ricerche sono necessarie per stabilire lo IAD come una categoria diagnostica affidabile e valida. La maggior parte dei ricercatori pensano che Internet faciliti o acceleri i comportamenti di dipendenza già presenti in una persona, piuttosto che creare un unico disturbo.

 

D: Quali sono le psicopatologie più frequentemente associate con l'IAD, se ce ne sono? Quali sono le caratteristiche di Internet che sono in grado di condurre alla psicopatologia? Quali sono le caratteristiche della personalità dei soggetti a rischio?

R: Queste sono domande importanti e molto complesse. Il mio articolo sulla dipendenza da Internet si riferisce a tali argomenti (http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/getneed.html) ed i riferimenti che ho citato sopra esplorano anche tali aspetti.

 

D: Non esiste un comune accordo sull'esistenza dell'Internet Addiction Disorder e suoi criteri diagnostici: qual è la sua opinione al proposito?

R: Io credo che molti ricercatori stiano pensando più in termini di disturbi "facilitati" da Internet – in altre parole, l'essere online tende ad accelerare o esagerare alcune tendenze di dipendenza o compulsive che sono già presenti. E' improbabile che Internet creerà dei problemi seri in una persona per la quale non c'era alcuna debolezza o vulnerabilità preesistente.

 

D: Conosce dei casi clinici di IAD? Mi può raccontare uno dei casi clinici più rappresentativi che lei conosce, focalizzandosi sulla storia del paziente ed il suo background socio-culturale?

R: E' interessante che, sebbene io abbia parlato con molte persone via e-mail, chat, telefono e faccia a faccia sulla loro vita nel cyberspazio, non mi sia mai imbattuto in un dipendente da Internet veramente patologico – non come quelli descritti nei media. Ho ricevuto e-mail dai genitori e dagli amici di gente che sembrava essere seriamente dipendente, ma non li ho mai "incontrati" io stesso. D'altra parte, ho parlato con molte persone che hanno attraversato una fase di utilizzo di Internet molto intenso, che poi è diminuito quando la persona si è adattata alla vita online.

 

D: Secondo lei, sono più frequenti i casi di IAD o un uso patologico di Internet che risulta da una psicopatologia associata?

R: Come ho accennato, ci sono, probabilmente, altre tendenze sottostanti alla dipendenza, che esistevano prima dell'uso di Internet. E' possibile che alcune persone con disordini borderline o con fobie sociali possano diventare "dipendenti" da Internet.

 

D: Nel suo articolo "To get what you need" lei sostiene che un sintomo della patologia consiste nella dissociazione tra la vita online ed offline: secondo lei, quali sono le cause di tale situazione?

R: Quando la gente dissocia la propria vita online da quella offline, la vita online diventa strettamente incapsulata, un "mondo" segreto che tende a divorare la persona. Questo accresce le proiezioni e le reazioni di transfert, con una scarsa opportunità per la persona di attuare la prova di realtà, parlando con le persone che non sono parte di quel mondo segreto. Tutti i tipi di bisogni forti, desideri e fantasie vengono incanalati in quel mondo, così che, gradualmente, lo spazio psicologico della persona si riduce a quell'ambiente online. Il mondo "reale" inizia a perdere significato e scopo.

 

D: In base all'affermazione che non c'è un comune accordo sui criteri diagnostici dello IAD, secondo lei, quali sono i sintomi clinici dello IAD, oltre alla dissociazione tra la vita online ed offline?

R: Secondo me, gli indicatori più importanti sono una diminuzione del livello di funzionamento nel mondo faccia a faccia – lavoro, relazioni con la famiglia e gli amici, altri interessi, perfino la proprio salute, le abitudini igieniche tendono a declinare.

 

D: Quali sono le terapie più efficaci?

R: Dipende dalla persona. Gli interventi comportamentali andranno bene per alcuni. Per altri, una combinazione di interventi comportamentali con la terapia cognitiva e/o psicodinamica sarà una combinazione efficace. La terapia di gruppo ed i gruppi di auto-aiuto potrebbero essere efficaci (questo solleva l'interessante interrogativo se la terapia di gruppo online ed i gruppi di auto-aiuto possano essere efficaci nel contribuire ai disordini facilitati da Internet!).

 

 

La psicoterapia online

 

D: Quali sono gli standards etici per una psicoterapia online? Lei pensa che quelli stabiliti dall'APA siano sufficienti?

 

R: Numerose organizzazioni hanno proposto degli standards:

http://www.ismho.org/suggestions.html

http://www.counseling.org/gc/cybertx.htm

http://www.ihealthcoalition.org/ethics/draftcode.html

http://www.nbcc.org/ethics/wcstandards.htm

http://www.hon.ch/HONcode/Conduct.html

http://www.apa.org/ethics/stmnt01.html

 

D: Quali sono i cambiamenti necessari del setting per una psicoterapia online? Quali sono le conseguenze sul processo terapeutico?

R: Anche questa è una questione molto complessa. I fattori più importanti riguardano le dinamiche della comunicazione testuale, l'anonimato, la mancanza di indizi faccia a faccia e la comunicazione sincronica versus asincronica. I suoi lettori possono essere interessati a questo articolo, in cui esploro tali argomenti:

http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/therapy.html

 

D: In una psicoterapia online, lei pensa che sia possibile stabilire una relazione terapeutica? Se sì, quali sono le differenze rispetto alla relazione in una psicoterapia tradizionale?

Senza dubbio, una relazione terapeutica è possibile. La differenza più importante riguarda quei fattori che ho citato sopra: le dinamiche della comunicazione testuale, l'anonimato, la mancanza di indizi faccia a faccia e la comunicazione sincronica versus asincronica. Sebbene questo articolo non sia sulla psicoterapia, esplora le differenze affascinanti tra le relazioni "in – person" ed online: http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/showdown.html.

 

D: Quali sono le patologie che sono curabili e non con una psicoterapia online?

R: Nessuno lo sa ancora per certo. Il lavoro clinico online è una buona scelta come modo per iniziare a lavorare con vari tipi di ansie sociali. Come regola generale, la terapia online, probabilmente, non è appropriata per le psicopatologie gravi, sebbene sia necessaria una maggiore ricerca per stabilirlo.

 

D: Un psicopatologia implica dei problemi relazionali nella vita del cliente. Ci sono degli svantaggi in una psicoterapia online per trattare tali clienti?

R: Il terapeuta online, probabilmente, dovrebbe trattare tali relazioni pressappoco allo stesso modo di un terapeuta faccia a faccia. Inoltre, alcuni clinici online stanno facendo delle terapie di coppia e coniugali via e-mail e chat, che sembrano funzionare bene. Un altro approccio interessante è incoraggiare i clienti a sperimentare le reazioni online come un modo per provare nuove modalità di relazionarsi agli altri e di applicare tale conoscenza alle loro relazioni "in – person". La relazione online può essere un tipo di "pietra di guado".

 

D: Secondo lei, quali sono le caratteristiche del background professionale necessario per uno psicoterapeuta online?

R: Per condurre degli interventi pregnanti, una persona ha bisogno di essere bene addestrata da professionisti in uno dei tradizionali centri di salute mentale, poi un addestramento specifico nel lavoro clinico. Tuttavia, nel futuro, vedremo lavorare molti para-professionisti con degli approcci di intervento a breve termine o meno complessi.

 

D: Quali sono le possibilità di comprendere le perversioni sessuali, che sono così difficili da avvicinare nel setting psicoterapeutico tradizionale?

R: Il lavoro online può essere un buon modo per iniziare un trattamento di tali problemi, in parte, perché la vergogna e la colpa associate a tali perversioni le rendono difficili per la gente da far emergere e da affrontare con una terapia faccia a faccia.

 

D: Nel suo articolo "Psychotherapy in Cyberspace" lei afferma che "Noi possiamo pensare ai computers come a degli strumenti utili da integrare in approcci pre-esistenti": come pensa che questa integrazione verrà effettuata? Quali potrebbero essere i vantaggi e gli svantaggi?

R: Il modo in cui i computers verranno integrati dipenderà dal tipo di terapia. Alcuni interventi comportamentali e cognitivi, che implicano dei protocolli specifici, potrebbero essere adattati ai computers che guidano i clienti attraverso il protocollo, valutano i progressi del cliente e poi indirizzano lo stesso verso le subroutines dei protocolli, basate sulla valutazione. Nella psicoterapie parlate, i programmi dei computers, che comprendono l'apprendimento esperienziale e l'auto-osservazione, potrebbero essere dei supporti utili per la terapia. Essi possono servire come un trampolino di lancio per le discussioni tra il cliente ed i terapeuti. Durante la fase di presa in carico e di valutazione, i programmi dei computers possono essere molto validi nell'aiutare i clienti a decidere a quale tipo di terapia essi sarebbero interessati e da quale potrebbero trarre beneficio. Il pericolo è di affidarsi eccessivamente ai computers, perdendo, perciò, la relazione umana necessaria tra il cliente ed il terapeuta, che è così importante nel processo di cura, così come perdere l'occhio acuto del clinico, che è in grado di vedere le sottili, complesse variabili nel processo di trattamento, che il computer non potrebbe mai rilevare.

 

D: L'assenza del linguaggio del corpo, dell'espressione facciale e degli indizi dello stile del discorso, rendono la cyberterapia matura per la proiezione su entrambi i versanti della relazione: quali sono le conseguenze possibili per il processo terapeutico?

R: In una terapia psicoanalitica, le proiezioni del cliente e le reazioni di transfert sarebbero molto preziose ed essenziali per il progresso della terapia. Fiduciosamente, il clinico online è abile nel comprendere e nel lavorare con le reazioni di controtransfert, che possono essere intensificate nel cyberspazio. Tutti i clinici che lavorano online dovrebbero essere molto sensibili a questa accresciuta possibilità di proiezione, transfert e incomprensioni di ciò che una persona intende nel suo digitare. Se questo non accade, allora tali fenomeni potrebbero distruggere la terapia.

 

D: Come pensa che sia possibile usare la regressione provocata da Internet in una psicoterapia online?

R: Nelle terapie che incoraggiano le regressione, come mezzo per comprendere e per porre rimedio ai conflitti sottostanti e alle deprivazioni (come la terapia psicoanalitica), questo potrebbe essere utile. Tuttavia, forti regressioni potrebbero essere difficili da trattare efficacemente online, dal momento che il feedback "al momento", la discussione ed il WORKING TROUGH potrebbero essere necessari – che non è possibile in una comunicazione asincronica, come l'e-mail.

 

D: Lei ritiene che l'anonimato di un individuo abbia degli effetti negativi sul processo terapeutico? Quali?

R: In una terapia in corso, se questo anonimato ha come conseguenza che il terapeuta non conosce aspetti importanti dell'identità della persona e lo stile di vita (situazioni di vita, occupazione, relazioni coniugali, razza, età, persino sesso), potrebbe impedire le terapia, proprio come nella terapia faccia a faccia. La maggior parte delle cure parlate, terapie basate sull'insight, sono un processo per giungere a conoscere e a capire meglio il cliente. Utilizzare la comunicazione via Internet per "nascondere" alcuni aspetti della propria identità, probabilmente, legherebbe le mani del terapista dietro la sua schiena ….. Se definiamo "anonimato" la mancanza di indizi faccia a faccia (e non il nascondere aspetti dell'identità), allora la disinibizione risultante potrebbe condurre i clienti a discutere di aspetti di se stessi e delle loro vite di cui non avrebbero mai parlato in una terapia faccia a faccia. Questo è uno dei grandi benefici della terapia online.

LINKS CORRELATI

 
bulletThe International Society for Mental Health Online (ISMHO)

 

bulletAmerican Counseling Association

 

bulletInternet Healthcare Coalition

 

bulletNational Board for Certified Counselors

 

bulletThe Health On the Net Foundation (HON)

 

bulletAMERICAN PSYCHOLOGICAL ASSOCIATION

 

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bulletDalle Liste di discussione (from the Mailing Lists)

 

 

 

Mobbing (Persecuzione lavorativa)

 

La retribuzione di risultato, assieme al mobbing, è un'altra arma nella mani
di personaggi " politici"
Arma usata impropriamente ed in maniera assai malaccorta, tale da essere un
argomento che un domani
verrà portato in sede acconcia per la sua definizione.

 La retribuzione di risultato, parte variabile della variabile dello
stipendio,  è strettamente personale e legata al raggiungimento di obiettivi
pre - fissati  ,di parametri di valutazione , sempre pre fissati (i famosi
indicatori) e quindi appunto una valutazione dell'operare ex - post .

Accade sovente  che gli psichiatri non. siano  stati avvertiti
preventivamente di tali obiettivi ed indicatori.

Vi è totale assenza di trasparenza e una serie di inadempienze ad ogni
livello con un iperverticismo che mal si addice all'operare in psichiatria
e,secondo le ultime tendenze manageriali , in qualsiasi azienda.

Questo iperverticismo (Dipartimento gerarchico) è stato recentemente
contestato da diversi psichiatri del
Veneto che hanno proposto l'adozione di un Dipartimento funzionale,
sostenendolo con grande coerenza.

Di contro i sostenitori del Dipartimento gerarchico hanno sproloquiato sulla
restituzione della contrattualità
all'ammalato psichiatrico (quando la contrattualità è negata agli stessi
psichiatri).
[In pratica questa "contrattualità" per l'ammalato  si è definita vuoi come
abbandono dello stesso  vuoi come agevolazione al suicidio (statistiche alla
mano).
I presenti,  alle elucubrazioni rozze e cervellotiche di chi non aveva
neppure il linguaggio per disquisire su un argomento così elaborato, non
hanno risparmiato né commenti ironici né risolini.]

La  corrispondenza degli steps contrattuali e di deliberazioni
amministrative risulta quanto meno aleatoria e fumosa (costituzione del
nucleo di valutazione, reporting periodici, analisi degli
scostamenti,normative contrattuali etc.).

Dagli ultimi contratti  il Dirigente di I° Livello ", ex art.117, ex
assistente , è  praticamente privato di progressione di carriera, ove le
cosidette "funzioni" sono a totale discrezione del Dirigente di struttura
complessa ,  quando non addirittura del Direttore del Dipartimento (in barba
a tutte le leggi)  a sua volta legato a "normative" politiche.

Tutto ciò è nettamente contrario ad un operare onesto e stimolante, tanto è
vero che nei più famigerati Dipartimenti Gerarchici del Veneto [ove,
peraltro,  piovono sentenze penali sui Responsabili] la rotazione dei
Dirigenti Medici di I° Livello è altissima, a testimonianza delle condizioni
impossibili di lavoro.

E ciò assieme al mancato contenimento della spesa (anche per diverse
erogazioni a Cooperative) costituisce
un grosso elemento di danno all'operatività dei Dipartimenti.



.
 Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
(Venezia)

 

Iniziano, com'è giusto, le sentenze favorevoli ai mobbizzati.

Com'è noto la legislazione italiana non dava molto spazio al danno biologico
psichico da mobbing.

Ricordo che oggi a Verona v'è un interessante incontro sull'argomento cui,
purtroppo, per altri impegni presi precedentemente, non potrò partecipare.

Scrive " La Nuova Venezia" in data odierna :

«Maltratta» un dipendente, condannata
Prima sentenza per mobbing a Venezia, dirigente delle Poste risarcirà
l'impiegato

di Giorgio Cecchetti

VENEZIA. Un caso di mobbing arriva davanti ai giudici di pace. E, per la
prima volta a Venezia, un magistrato ha dato ragione ad un lavoratore che ha
denunciato di aver subito conseguenze alla salute per essere stato vittima
di un atteggiamento persecutorio da parte del capo. La direttrice di un
ufficio postale è stata dunque condannata a risarcire l'impiegato con un
milione di lire per i danni causati alla sua salute. In un rapporto ai
superiori - scritto in conseguenza ad un errore contabile - la dirigente
aveva tracciato un profilo tutt'altro che lusinghiero del sottoposto,
causandogli un profondo turbamento e l'insonnia.



--------------------------------------------------------------------------------
VENEZIA. Un magistrato, per la prima volta a Venezia, ha dato ragione ad un
lavoratore che ha denunciato di aver subito conseguenze alla salute per
essere stato vittima di un atteggiamento persecutorio da parte del capo, che
dovrà risarcire il dipendente con un milione di lire.
Angherie, soprusi, molestie morali e anche sessuali di padroni, capi e
colleghi: il lavoro può danneggiare anche la psiche dei lavoratori, con
conseguenze mentali e fisiche gravi. Questo è il mobbing, termine inglese
che indica una «malattia da lavoro» in rapida diffusione, soprattutto nei
rapporti di lavoro «precari», ma non solo.
Il caso in questione, infatti, è stato affrontato dal giudice di pace di
Mestre Bernardo Caracciolo è a subire la condanna a pagare il risarcimento è
stata la direttrice di un ufficio postale della terraferma. L'avvocato
mestrino Enrico Cornelio per conto di Renato B., impiegato postale, aveva
fatto ricorso al giudice denunciando che il suo cliente a causa di una
contestazione elevata nei suoi confronti dalla direttice, Claudia T.,
«rimaneva profondamente scosso e questo gli procurava insonnia per alcune
notti non consentendogli di uscire la domenica successiva».
Tutto nasce da un errore di 100 mila lire nella contabilità dei francobolli
commessa dall'impiegato, errore che il giorno successivo era stato scoperto
e corretto (tra l'altro l'istruttoria amministrativa avviata a seguito della
contestazione disciplinare si è conclusa con il proscioglimento di Renato
B). Secondo il giudice di pace la direttrice aveva l'obbligo di inviare un
rapporto sul fatto al direttore generale delle Poste di Venezia, ma «il
contenuto di quel documento ha posto in pessima luce l'impiegato in
questione», sostenendo che avrebbe agito in malafede.
Solo una supposizione, ma la direttrice «non aveva elementi - si legge nella
sentenza - per fondarla». «Ritiene allora il giudicante - prosegue il
magistrato onorario - che la responsabile dell'agenzia postale si sia
lasciata prendere la mano nel rapportare i fatti al diretto superiore,
accusando il dipendente di essersi comportato in malafede, basandosi solo su
supposizione e non su fatti certi. Anzichè, quindi, riferire i fatti come si
sono svolti, lasciando agli organi ispettivi di trarne la conclusione, la
direttrice ha ritenuto di far apparire il dipendente come un soggetto non
affidabile da cui, in sostanza, ci si debba guardare perchè in malafede».
Per il giudice, «pur avendo agito in adempimento dei suoi doveri d'ufficio,
la direttrice ha accusato il suo collaboratore di un fatto grave, ledendo la
sua dignità e il suo onore, sulla base di sole supposizioni». Tutto questo
avrebbe provocato un «turbamento dello stato d'animo con sofferenze d'ordine
morale e fisico» quantificabili in un danno per un milione.


--------------------------------------------------------------------------------


--------------------------------------------------------------------------------

 



 Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
(Venezia)

 

Con il Centro Antimobbing, che ho messo su a Treviso, si sta addensando
una ricca casistica. Casistica che, fino ad ora, era sconosciuta perché chi era
assoggettato a mobbing taceva e si dimetteva, quasi la colpa fosse sua.

Interessanti, tra le altre, le tecniche (sempre le stesse) adottate nel caso
dei Sanitari
non graditi, perché non schierati.
.
In ULSS di provincia la tecnica è quella di sollecitare a scrivere  uno o
più  pazienti
(.reclutabili tra i deboli mentali e le strutture paronidee di personalità),
fare un fascio 
 di queste deliranti missive e promuovere  una lettera d' addebito.

Cui poi, per sei mesi, non segue altro.Né una inchiesta né un procedimento
disciplinare.

Dopo sei mesi : si ripete la cosa. Le lamentele sono sempre sulla
sensazione soggettiva del malato.       Mai su argomenti tecnici.

Come dire " Il dott. Cirillo mi è antipatico, oggi mi ha medicato e non mi ha
salutato garbatamente"  (mica scherzo, ho letto di queste cose).

Talora queste lettere di "protesta" non vengono neppure inviate
all'interessato, che non riceve nemmanco
la lettera d'adebito, ma si ritrova, senza sapere perché, fuori dalla sala
operatoria a far medicazioni.
dopo vent'anni di attività quale primo operatore.  Egli non ha , così, non
ha modo di difendersi.

Ma le lettere  vengono  rese pubbliche   in occasioni di concorsi e verifiche.

Una variante sono le minacce e le urla fatte apertamente al diretto
interessato. Seconda
variante sono le dicerie e diffamazioni, tra quelle raccolte le più comuni
afferiscono ai
suoi costumi sessuali (è omosessuale, frequenta prostitute).Terza variante
sottrargli le
possibilità di comunicazione o di sopravvivenza [un collega non trovava
neppure più
chi gli facesse le pulizie in casa]. Un variazione debole  sono i danni
sistematici all'autovettura.
Spesso l'Ufficio Personale decurta le entrate su motivi assai flebili.

E, alla fine,  viene intimato il LICENZIAMENTO  (ammapelo, perché.....non è
simpatico, capite ? Null'altro).
Magari in reparti vicini od in ospedali viciniori l'aumento della mortalità
è ingravescente, ma
quello fa parte dell"imprevisto", e su quello cala il silenzio.

Ciao contratti, tutele, ordini professionali e tutte le altre bazzeccole.

Ma nel non trasmettere queste lettere  di protesta agli interessati vi è
qualcosa di più di una omissione
di atti di ufficio :     vi è una correità in diffamazione, per cui si può
tranquillamente adire
il Giudice Penale.

E' questo il consiglio che ho dato ai Colleghi che mi si sono presentati
afflitti da sindrome
del burnt out e del mobbing. Sono ahimé più di quanti non pensassi, segno
del malessere della Sanità
nonostante le qualifiche internazionali che ci vedono al secondo posto.

So che sono cose spiacevoli : ma è opportuno che i Colleghi le conoscano.

Se qualcuno di Voi è stato assoggettato a mobbing si metta in contatto con me.

Saluti.










Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
Primario del 1° Servizio Psichiatrico ULSS9 (Treviso)

aa.rizzoli@ve.nettuno.it

Libero Docente in Fisiologia Umana
Specialista in Neurologia, Psichiatria,
Medicina del lavoro, Medicina legale,
Professore a contratto nell'Università di Trieste
Corresponding Member of APA

Calle del Basegò
Dorsoduro 3623 a 30123 Venezia

041-5209496
041-5209876
0336-606143( ufficio)
03488534948 (privato)

 

Mediaset (Canale Cinque) manderà in onda, un sabato pomeriggio dopo le
18.00, una mia breve intervista sul mobbing con la partecipazione
(anonima) di due mobbizzati.
Il fenomeno è in costante espansione e sono sempre di più gli
psichiatri  che vengono interpellati
sull'argomento.
Queste sono, in nuce, le mie considerazioni sull'argomento:

                                                        IL MOBBING

Esistono dei contratti, esistono dei sindacati, esiste (evanescente) una
giustizia civile. Come aggirarli? Con una tecnica di importazione
americana, ampiamente sviluppata in questi ultimi tempi  in Germania. In
un qualsiasi luogo di lavoro il manager che voglia sbarazzarsi di un
collaboratore scomodo dice e fa capire agli altri dipendenti che questi
va osteggiato.
Frequentemente egli assume iniziative dirette (ad esempio rimproveri,
procedimenti disciplinari per inezie, allusioni alla vita privata del
dipendente) tali da far capire chiaramente allo stesso che egli è di
troppo.
I subordinati, per paura di essere anch'essi perseguitati e per istinto
di identificazione e di gruppo, si daranno prontamente da fare per
rendere dura la sopravvivenza della vittima, che, spesso, è un capro
espiatorio istituzionale perché troppo critico, troppo intelligente o
troppo esplicito nel rendere note le sue idee.
Si crea così una tecnica di gruppo, ben noto fenomeno istituzionale, ove
il manager, in un secondo momento, può anche , apparentemente, ostentare
la massima bonomia ed il massimo apprezzamento del subordinato da
danneggiare, mentre i suoi sottoposti, inferiori , pari grado e
superiori escogitano ogni possibile, e sottile, metodo per rendergli
difficile la vita quotidiana ed impossibile il lavoro. Viene così
realizzato, in un primo momento, il "mobbing verticale", ed in un
secondo momento,"il mobbing orizzontale".

Il mobbing ha maggiore rilevanza sui quadri dirigenti che sulle
categorie operaie in quanto questi elementi sono spesso dotati di
orgoglio, ambizione, amor proprio che li manterranno ben lontani da ogni
forma di pubblicità e indurranno in loro dei sensi di colpa per non aver
saputo intuire in tempo che le loro fortune cambiavano.

Spesso questi dirigenti sono stati portatori di soluzioni innovative per
la società o l'istituto per cui lavoravano e, sovente, hanno anche
un'ampia rete di relazioni sociali (che essi, naturalmente, non
sfrutteranno perché anche nel gruppo sociale la tendenza al consenso fa
ritenere nocivo ogni componente che abbia problemi di qualsiasi genere).

Il mobbing ha una matrice essenzialmente politica. Ad ogni voltar di
pagina decine e decine di persone nelle istituzioni dello Stato
subiscono, a mitraglia, azioni di mobbing che li inducono a ritirarsi o,
nel minore dei mali, li relegano in posizioni vuote di contenuto.

Ne ha anche una industriale : in presenza di rimaneggiamenti societari
(ne sia un esempio quello delle Case farmaceutiche) molti elementi di
spicco vengono mobbizzati in maniera rapidissima, facendo intender loro
che è meglio essi si ritirino.

Il mobbing colpisce in maniera tanto più efficace quanto maggiore è il
narcisismo e l'autoinvestimento che una persona ha. Chi  ha scarsi
interessi al lavoro, un' autovalutazione modesta, la tendenza a rimanere
nel solco della più banale convenzione raramente viene toccato da
un'azione di "mobbing". Egli si piegherà, come "canna al vento".

Ma il "mobbing" sfronda e decapita gli alberi ad alto fusto. Il
mobbizzato perde il piacere della vita, non ha più piacevoli rapporti
affettivi, diviene irascibile, lunatico, sviluppa sintomi psicosomatici,
tende a darsi all'alcool, ai tranquillanti che ne smorzano la
reattività, è prone ad avere incidenti stradali, ad essere meno attento
ed a subire, pertanto, furti ed essere vittima di imbrogli. Piano piano
si sviluppa in lui una situazione paranoicale per cui egli vede nemici
dappertutto ed, essendo diminuita la sua sicurezza, commette, via via,
piccoli sbagli che, accumulandosi lo rendono sempre di più  un facile
bersaglio.

La situazione del mobbizzato è particolarmente pericolosa per chi abbia
incarichi di responsabilità (uffici finanziari, istituzioni statali,
contatti con una popolazione di "clienti" difficili [ pazienti,
militari ,imputati, detenuti, viaggiatori]) creando così, a cascata, una
vera e propria situazione di pericolo pubblico.

Tra i mobbizzati prevalgono di gran lunga i maschi, poiché le donne,
spesso, sono un obbiettivo più facile (ma anche più reattivo). La loro
età varia dai 45 ai 60 anni, l'età in cui è difficile trovare impieghi
alternativi ed in cui la dolorosa, ma necessaria scelta, rimane quella
di un lavoro dequalificato e dequalificante.

Non vi è, quindi, da stupirsi se in alcuni, rari, casi il mobbizzato
scelga la via della violenza, che può essere auto- od eterodiretta. Quei
suicidi e quei delitti che lo psichiatra, anche in sede di Tribunale,
non riesce bene a spiegarsi ,tanto tenue e sottile, quindi
indistinguibile,  è la ragnatela che avvolge l'autore di questi reati.
Che viene sempre giudicato, quindi,  "capace di intendere e di volere",
anche se, un buona sostanza, non lo è, avendo un Disturbo Posttraumatico
da Stress cronico ed anche perché troppo spesso lo psichiatra neglige di
considerare quell'Asse IV del Diagnostic and  Statistical Mental
Disorder (DSM-IV) che è dedicato ai "Problemi Psicosociali ed
ambientali" e che, tra questi elenca con molta acribia anche i problemi
collegati al lavoro (paura di perdere il lavoro, tempi ed orari
stressanti, condizioni di lavoro difficili, insoddisfazione sul lavoro,
cambiamento di occupazione, liti con il boss o i suoi colleghi).


Professor  dottor Antonio Augusto Rizzoli

Primario Psichiatra della ULSS n.9, Treviso
Libero Docente in Fisiologia Umana
Specialista in Neurologia, Psichiatria,
Medicina del Lavoro, Medicina Legale e delle Assicurazioni

E-Mail : aa.rizzoli@ve.nettuno.it

Dorsoduro 3623 a,30123 VENEZIA


Esistono dei contratti, esistono dei sindacati, esiste
(evanescenteperché in difficoltà) una giustizia civile. Come aggirarli?
Con una tecnica di importazione americana, ampiamente sviluppata in
questi ultimi tempi  in Germania. In un qualsiasi luogo di lavoro il
manager che voglia sbarazzarsi di un collaboratore scomodo dice e fa
capire agli altri dipendenti che questi va osteggiato.
Frequentemente egli assume iniziative dirette (ad esempio rimproveri,
procedimenti disciplinari per inezie, allusioni alla vita privata del
dipendente) tali da far capire chiaramente allo stesso che egli è di
troppo.
I subordinati, per paura di essere anch'essi perseguitati e per istinto
di identificazione e di gruppo, si daranno prontamente da fare per
rendere dura la sopravvivenza della vittima, che, spesso, è un capro
espiatorio istituzionale perché troppo critico, troppo intelligente o
troppo esplicito nel rendere note le sue idee.
Si crea così una tecnica di gruppo, ben noto fenomeno istituzionale, ove
il manager, in un secondo momento, può anche , apparentemente, ostentare
la massima bonomia ed il massimo apprezzamento del subordinato da
danneggiare, mentre i suoi sottoposti, inferiori , pari grado e
superiori escogitano ogni possibile, e sottile, metodo per rendergli
difficile la vita quotidiana ed impossibile il lavoro. Viene così
realizzato, in un primo momento, il "mobbing verticale", ed in un
secondo momento,"il mobbing orizzontale".

Il mobbing ha maggiore rilevanza sui quadri dirigenti che sulle
categorie operaie in quanto questi elementi sono spesso dotati di
orgoglio, ambizione, amor proprio che li manterranno ben lontani da ogni
forma di pubblicità e indurranno in loro dei sensi di colpa per non aver
saputo intuire in tempo che le loro fortune cambiavano.

Spesso questi dirigenti sono stati portatori di soluzioni innovative per
la società o l'istituto per cui lavoravano e, sovente, hanno anche
un'ampia rete di relazioni sociali (che essi, naturalmente, non
sfrutteranno perché anche nel gruppo sociale la tendenza al consenso fa
ritenere nocivo ogni componente che abbia problemi di qualsiasi genere).

Il mobbing ha una matrice essenzialmente politica. Ad ogni voltar di
pagina decine e decine di persone nelle istituzioni dello Stato
subiscono, a mitraglia, azioni di mobbing che li inducono a ritirarsi o,
nel minore dei mali, li relegano in posizioni vuote di contenuto.

Ne ha anche una industriale : in presenza di rimaneggiamenti societari
(ne sia un esempio quello delle Case farmaceutiche) molti elementi di
spicco vengono mobbizzati in maniera rapidissima, facendo intender loro
che è meglio essi si ritirino.

Il mobbing colpisce in maniera tanto più efficace quanto maggiore è il
narcisismo e l'autoinvestimento che una persona ha. Chi  ha scarsi
interessi al lavoro, un' autovalutazione modesta, la tendenza a rimanere
nel solco della più banale convenzione raramente viene toccato da
un'azione di "mobbing". Egli si piegherà, come "canna al vento".

Ma il "mobbing" sfronda e decapita gli alberi ad alto fusto. Il
mobbizzato perde il piacere della vita, non ha più piacevoli rapporti
affettivi, diviene irascibile, lunatico, sviluppa sintomi psicosomatici,
tende a darsi all'alcool, ai tranquillanti che ne smorzano la
reattività, è prone ad avere incidenti stradali, ad essere meno attento
ed a subire, pertanto, furti ed essere vittima di imbrogli. Piano piano
si sviluppa in lui una situazione paranoicale per cui egli vede nemici
dappertutto ed, essendo diminuita la sua sicurezza, commette, via via,
piccoli sbagli che, accumulandosi lo rendono sempre di più  un facile
bersaglio.

La situazione del mobbizzato è particolarmente pericolosa per chi abbia
incarichi di responsabilità (uffici finanziari, istituzioni statali,
contatti con una popolazione di "clienti" difficili  [ pazienti,
militari , imputati, detenuti, viaggiatori]) creando così, a cascata,
una vera e propria situazione di pericolo pubblico.

Tra i mobbizzati prevalgono di gran lunga i maschi, poiché le donne,
spesso, sono un obbiettivo più facile (ma anche più reattivo). La loro
età varia dai 45 ai 60 anni, l'età in cui è difficile trovare impieghi
alternativi ed in cui la dolorosa, ma necessaria scelta, rimane quella
di un lavoro dequalificato e dequalificante.

Non vi è, quindi, da stupirsi se in alcuni, rari, casi il mobbizzato
scelga la via della violenza, che può essere auto- od eterodiretta. Quei
suicidi e quei delitti che lo psichiatra, anche in sede di Tribunale,
non riesce bene a spiegarsi ,tanto tenue e sottile, quindi
indistinguibile,  è la ragnatela che avvolge l'autore di questi reati.
Che viene sempre giudicato, quindi,  "capace di intendere e di volere",
anche se, un buona sostanza, non lo è, avendo un Disturbo Posttraumatico
da Stress cronico ed anche perché troppo spesso lo psichiatra neglige di
considerare quell'Asse IV del Diagnostic and  Statistical Mental
Disorder (DSM-IV) che è dedicato ai "Problemi Psicosociali ed
ambientali" e che, tra questi elenca con molta acribia anche i problemi
collegati al lavoro (paura di perdere il lavoro, tempi ed orari
stressanti, condizioni di lavoro difficili, insoddisfazione sul lavoro,
cambiamento di occupazione, liti con il boss o i suoi colleghi).

Antonio Augusto Rizzoli

 

 

 

Da "La Tribuna" di oggi 28 Marzo 2000.
Visibile anche in
http://www.tribunatreviso.kataweb.it/tribunatreviso/arch_28/treviso/cronaca/tc501.htm

                Scatta l'allarme mobbing
              «Malattia in espansione»
              Arriva dalla Marca il maggior numero di richieste d'aiuto
del Nordest:
              più colpite le donne operaie

              Giovanni Baschieri

              L'esterofilia non c'entra: la lingua inglese ha il grande
pregio della sintesi e
              per definire una forma di terrore psicologico che viene
esercitata sul posto di
              lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi o
superiori che si
              concretizzano in emarginazione, diffusione di maldicenze,
critiche e
              persecuzione, compiti dequalificanti, beh usa una sola
parola, mobbing.
              Segnatevela questa parola perché vittime di questo
fenomeno, in Italia, sono
              circa un milione e mezzo di lavoratori, soprattutto nelle
industrie, nelle
              imprese di servizi e nella pubblica amministrazione,
comunque in aziende
              con più di 100 dipendenti. E che del problema si stia
prendendo coscienza
              lo testimoniano i quattro progetti di legge (il primo è
datato 1996) che
              «riposano» in Parlamento. Sì, perché al momento il codice
prevede solo il
              reato di molestia, di competenza del pretore.
              Osservatorio della situazione veneta è un'associazione,
Contromobbing, nata
              ufficialmente nel novembre del '99 a Marghera ma
informalmente attiva da un
              anno, promotrice a fine gennaio 2000 di un seminario che,
attraverso le
              centinaia di richieste d'aiuto giunte per telefono (il
numero è 041/5387343 e
              risponde il martedì e il giovedì, dalle ore 15 in poi), ha
«disegnato» la realtà
              del Nordest e lanciato un messaggio, vale a dire la
necessità di informazione
              corretta sul fenomeno sia alle aziende che ai lavoratori,
il coinvolgimento
              degli organi previsti dalla 626 (sicurezza sul lavoro) e
prevenzione sanitaria
              (la Clinica del Lavoro di Milano segue il fenomeno da 10
anni). Dunque, nel
              mitico Nordest pensano di essere vittime del mobbing più
le donne degli
              uomini (68,44% contro il 31,56%), con un grado di
istruzione medio basso
              (75%) e con qualifica di operaio o impiegato (92,94%). Ed
è proprio dalla
              Marca che provengono la maggior parte delle segnalazioni
rispetto alle altre
              province. «Bisogna però sottolineare un aspetto - spiega
Umberto Billo,
              vicepresidente di Contromobbing - Di cento persone che
chiamano, solo due
              sono effettivamente vittime di mobbing. Molti infatti
hanno già problemi a
              rapportarsi con gli altri e denunciano sofferenze
psichiche oppure legano i
              loro disturbi a quelli tipici del mobbing. E ci sono anche
quelli che fanno i
              furbi per far causa all'impresa. Mobizzato? E' chi non
canta nel coro, chi è
              troppo propositivo, è il dirigente "doppione" dopo la
fusione dell'azienda o
              quello che è in ascesa e ha suscitato l'invidia del
collega».
              I casi segnalati dall'associazione veneziana e che
riguardano la Marca
              vengono indirizzati alle strutture pubbliche. Il professor
Antonio Augusto
              Rizzoli è primario di psichiatria all'ospedale di Treviso.
«In un anno e mezzo
              ho studiato una decina di casi di mobbing - spiega - Non
pensiate che sia un
              numero trascurabile: il campanello d'allarme è suonato, il
fenomeno è in
              rapida espansione e i danni che può provocare sono
notevoli. Il mobbing è
              infatti un'elaborata tecnica di gruppo guidata da un capo
con istinti perversi,
              di solito dalla personalità sadica, in base alla quale si
zittiscono o si
              eliminano tutti i lavoratori che non si sottomettono
platealmente alle direttive
              dell'azienda. L'accanimento del mobbing porta alla
malattia che procura un
              danno biologico di natura psichica e provoca depressione,
ulcera gastrica,
              perdita dell'appetito, insonnia. In casi particolarmente
gravi induce perfino a
              progetti di suicidio. Molti comunque nascondono le
difficoltà che incontrano
              al lavoro perché si vergognano di denunciarle, specie nel
Trevigiano, dove
              esiste ancora il retaggio di una cultura contadina che
predica obbedienza e
              pazienza. Guai ad alzare la voce. Un mio collega
giapponese considera
              Treviso campagna inurbata. Qui c'è il benessere ma la
struttura sociale è
              fragile, la critica viene vista male».

Antonio Augusto Rizzoli

 

 

 

Un commento a margine dell'articolo sul mobbing nelle strutture sanitarie inglesi, citato dal collega Rizzoli. Vi si sostiene che buone politiche di gestione del personale dovrebbero tenere conto del fenomeno del mobbing. Trasposto il tutto nella situazione italiana, ritengo che siamo anni luce indietro. Purtroppo i criteri che fanno il bravo "manager" sanitario attualmente sembrano un po' troppo circoscritti alla capacita' di gestire il budget. Molto poco, nella pratica, si guarda alla capacita' del dirigente di gestire e valorizzare davvero le persone che compongono lo staff. Mio marito, che non fa il mio lavoro, giorni fa mi riferiva dell'entusiasmo che un dirigente straniero gli manifestava per il suo lavoro. Ecco: l'amore per il lavoro che fai scaturisce anche dal fatto che le condizioni in cui lavori sono piacevoli. Da noi invece sembra che l'idea del piacere sul lavoro non esista: il lavoro deve essere sacrificio, altrimenti non e' tale. Potrei sbagliarmi, in fondo ho lavorato solo in tre USL nella mia vita, ma temo che pochi colleghi potranno portare esperienze diverse dalla mia. Ora, finche' l'aspetto di soddisfazione del dipendente e' ritenuta una variabile assolutamente accessoria o addirittura pericolosa, vedo terreno fertile per tutte le forme di degenerazione dell'ambiente lavorativo, compreso il mobbing. Ma quando sara' che le USL capiranno che il benessere dei dipendenti e' la risorsa piu' importante in cui investire?

___Silvia Bianconcini________________________________________________

 

 

 

Dice il British Medical Journa (BMJ 1999;318:228-232 ( 23 January ):

38% of staff in a community NHS trust reported being subjected to bullying
behaviours in the workplace in the previous year and 42% had witnessed the
bullying of others

Staff who had been bullied had lower levels of job satisfaction and higher
levels of job induced stress, depression, anxiety, and intention to leave

Support at work may be able to protect people from some of the damaging
effects of bullying.

Employers should have policies and procedures that comprehensively address
the issue of workplace bullying
Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496

 

 

 


> From: "Antonio Augusto Rizzoli" <aarizzoli@ulss.tv.it>
> To:   LISTA PSICOLOGIA <psicologia@caen.it>
> Subject: Convegno sul mobbing a Venezia
>
> Venerdì 28 e sabato 29 Gennaio si svolgerà a Venezia il "Primo
Seminario
> Europeo sul Mobbing" con la presenza dei Parlamentari firmatari
> (G.Benvenuto e C. Tapparo) del progetto di Legge sul "Mobbing".
> Sono stati invitati i Magistrati Raffaele Guariniello, Alfonso
Marra,
> Antonio Della Rocca che si sono espressi sul tema delle
molestie sul
> luogo di lavoro.
>
> Il Convegno vedrà anche la partecipazione di psicologi europei
per la
> formazione di un network transnazionale antimobbing.
>
> Il Convegno è patrocinato dal Comune di Venezia in
Collaborazione con
> l'Associazione Onlus "Contromobbing".
>
> Si svolgerà all'Auditorium Monteverdi in Piazzale Giovannacci a
Marghera
> con inizio alle ore 13.00 del 28 Gennaio e chiusura dei lavori,
> organizzati in Seminari, alle ore 18 di sabato 29 Gennaio.
>
> Il mobbing, praticato largamente anche all'interno delle
Organizzazioni
> Sanitarie (ULSS ed ASL) è effettuato, generalmente, da
dirigenti con
> strutture caratteriali di perversione, che approfittano di una
> giustificazione razionale (la "razionalizzazione" dei servizi)
per dare
> sfogo ai loro istinti sadico (non percependo il dolore lo
vogliono
> vedere sugli altri). Si può definire un gioco perverso di
gruppo.
>
> Il mobbing ha un costo sociale e psichico ininmaginabile
provocando
> depressioni, alcolismi, gravi disturbi relazionali familiari,
> aggressioni, omicidi e suicidi.
>
> Una figura metaforica ed emblematica di mobbizzatore è stata
> identificata nel cosiddetto "V.G."
> su cui sono stati effettuati degli studi e delle simulazioni
allo scopo
> di studiarne  la psicologia e le motivazioni profonde.
> Tali studi sono ancora  in elaborazione e saranno pubblicati su
Riviste
> Internazionali.
>
> Professor Antonio Augusto Rizzoli
> Professore a contratto all'Università di Trieste
> Primario Psichiatra della ULSS n.9, Treviso
> Libero Docente in Fisiologia Umana
> Specialista in Neurologia, Specialista in Psichiatria,
> Specialista in Medicina del Lavoro
> Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni
> Dorsoduro 3623 a
> 30123 Venezia
>
> telefono/fax 041-5209496 ; 5209876
> ospedale 0422-322638 ;322624
> cellulare 0336-606143
> Email: aa.rizzoli@ve.nettuno.it

 

 

 

BMJ 1999;318:228-232 ( 23 January )
>
> Papers
> Workplace bullying in NHS community trust: staff questionnaire survey
> Lyn Quine, reader in health psychology.
>
> Centre for Research in Health Behaviour, Department of Psychology,
> University of Kent at Canterbury, Canterbury CT2 7NP
>
> L.Quine@ukc.ac.uk
>
> Objectives: To determine the prevalence of workplace bullying in an NHS
> community trust; to examine the association between bullying and
> occupational health outcomes; and to investigate the relation between
> support at work and bullying.
> Design: Questionnaire survey.
> Setting: NHS community trust in the south east of England.
> Subjects: Trust employees.
> Main outcome measures: Measures included a 20 item inventory of bullying
> behaviours designed for the study, the job induced stress scale, the
> hospital anxiety and depression scale, the overall job satisfaction scale,
> the support at work scale, and the propensity to leave scale.
> Results: 1100 employees returned questionnairesa response rate of 70%. 421
> (38%) employees reported experiencing one or more types of bullying in the
> previous year. 460 (42%) had witnessed the bullying of others. When
bullying
> occurred it was most likely to be by a manager. Two thirds of the victims
of
> bullying had tried to take action when the bullying occurred, but most
were
> dissatisfied with the outcome. Staff who had been bullied had
significantly
> lower levels of job satisfaction (mean 10.5 (SD 2.7) v 12.2 (2.3),
P<0.001)
> and higher levels of job induced stress (mean 22.5 (SD 6.1) v 16.9 (5.8),
> P<0.001), depression (8% (33) v 1% (7), P<0.001), anxiety (30% (125) v 9%
> (60), P<0.001), and intention to leave the job (8.5 (2.9) v 7.0 (2.7),
> P<0.001). Support at work seemed to protect people from some of the
damaging
> effects of bullying.
> Conclusions: Bullying is a serious problem. Setting up systems for
> supporting staff and for dealing with interpersonal conflict may have
> benefits for both employers and staff.
>
> Key messages
>
> 38% of staff in a community NHS trust reported being subjected to bullying
> behaviours in the workplace in the previous year and 42% had witnessed the
> bullying of others
>
> Staff who had been bullied had lower levels of job satisfaction and higher
> levels of job induced stress, depression, anxiety, and intention to leave
>
> Support at work may be able to protect people from some of the damaging
> effects of bullying
>
> Employers should have policies and procedures that comprehensively address
> the issue of workplace bullying
>
> --------------------------------------------------------------------------
-----
> © British Medical Journal 1999
>
> eLetter responses to this article:
> Read all eLetter responses
>
> Bullying of Junior trainee surgeons
> Pinaki Sen, Medical student , University of liverpool
> eBMJ, 25 Jan 1999 [Response]
> Bullying, harassment and racism in the pharmaceutical industry
> Ishaq Abu-Arafeh, Consultant Paediatrician , Stirling Royal Infirmary
> eBMJ, 5 Feb 1999 [Response]
> Bullying in the NHS
> Dr Peter Bruggen
> eBMJ, 8 Feb 1999 [Response]
> Racism in the BMJ classifieds
> RJ Aspinall, clinical research fellow , ICRF Molecular Oncology Unit,
> Hammersmith Hospital, London W12 0NN, UK.
> eBMJ, 8 Feb 1999 [Response]
> Re: Bullying, harassment and racism in the pharmaceutical industry
> walter Brennan, Lecturer in Conflict and Aggression Management , Centre
for
> Aggression Management, Liverpool
> eBMJ, 20 Mar 1999 [Response]
> When will organisations do something about the bully?
> Gill Rowe, Counsellor/Adviser workplace bullying , from home
> eBMJ, 25 Nov 1999 [Response]
>
>
>
>
> Antonio Augusto Rizzoli
> Venezia
> 041-520949

 

Con il Centro Antimobbing che ho messo su a Treviso si sta addensando
una ricca casisistica.

Interessanti, tra le altre, le tecniche (sempre le stesse) adottate nel caso
dei Sanitari
non graditi, perché non schierati.
.
In ULSS di provincia la tecnica è quella di sollecitare a scrivere  uno o
più  pazienti
( raccoglibili tra i deboli mentali e le strutture paronidee di
personalità), fare un fascio 
 di queste deliranti missive e promuovere  una lettera d' addebito.Talora
metterci qualche
- pagata - delazione infermieristica o segretariale.

Cui poi, per sei mesi, non segue altro.Né una inchiesta né un procedimento
disciplinare.

Dopo sei mesi : si ripete la cosa. Le lamentele sono sempre sulla
sensazione soggettiva del malato.  Mai su argomenti tecnici.

Come dire " Il dott. Cirillo mi è antipatico, oggi mi ha medicato e non mi ha
salutato garbatamente" (mica scherzo, ho letto di queste cose).

Talora queste lettere di "protesta" non vengono neppure inviate
all'interessato, che non riceve nemmanco
la lettera d'adebito, ma si ritrova, senza sapere perché, fuori dalla sala
operatoria a far medicazioni.
dopo vent'anni di attività quale primo operatore.Trattasi del noto stile
mafioso.
Egli non ha , così, non ha modo di difendersi.Ma le lettere  vengono ostense
in occasioni di concorsi e verifiche.

Tralascio le minacce aperte e le urlate dei Primari e dei Direttori Generali
che hanno trovato...
il pelo nell'uovo!! Frasi come "La sbatterò via di qui" al solito capro
espiatorio non coperto politicamente
sono frequentissime. Peccato il dipendente non sia filato diritto in Pretura
(registratore in tasca).

E, alla fine,  viene intimato il LICENZIAMENTO (ammapelo, perché..non è
simpatico, capite ? Null'altro).
Magari in reparti vicini od in ospedali viciniori l'aumento della mortalità
è ingravescente, ma
quello fa parte dell"imprevisto" e su quello cala il silenzio.

Ciao contratti, tutele, ordini professionali e tutte le altre bazzeccole.

Ma nel non trasmettere queste lettere agli interessati vi è qualcosa di più
di una omissione
di atti di ufficio : vi è una correità in diffamazione, per cui si può
tranquillamente adire
il Giudice Penale.

E' questo il consiglio che ho dato ai Colleghi che mi si sono presentati
afflitti da sindrome
del burnt out e del mobbing. Sono ahimé più di quanti non pensassi, segno
del malessere della Sanità
nonostante le qualifiche internazionali che ci vedono al secondo posto..



Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496


 

 

 

Perfezionismo (Perfectionism)

 

Ammettendo che sia diagnosticato un forte complesso d`inferiorita`in un
paziente con un profilo di personalita`che non presenta disturbi gravi,
e`possibile, attraverso una psicoterapia, una volta avvenuta la 
consapevolizzazione e accettazione,la sua scomparsa totale?
Grazie per un`eventuale risposta.


                              Cari saluti, Ofle.
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In 07.21 23/03/00 +0100, ho scritto:
>ma perché l'anoressica è talmente perfezionista da scegliere di limitare il
>suo campo d'azione al controllo del comportamento alimentare, cioè
>restringe la sua vita ad un campo di interessi così estremamente
>semplificato, il cui unico vantaggio (da un punto di vista anoressico) è
>nella auto-evidenza con la quale si può misurare il successo in manirea
>quantificabile (successo=controllo della quantità di cibo)? In altre
>parole, qual è la spiegazione dell'assurdità del disturbo mentale anoressico?
>
>giovanni maria ruggiero
>
cerco di rispondermi da solo. Secondo Vitousek e Ewald (1993), i disturbi
alimentari consistono in un nucleo di idee sopravalutate (overvalued ideas)
concernenti il controllo del peso e dell'aspetto corporeo. Da questo
riuscito controllo la ragazza anoressica e/o bulimica fa dipendere il suo
senso di autostima.

Il problema dell'autostima è abbastanza sfuggente e generico. Un autore
italiano, Castelfranchi (1997), ha cercato di affrontare il problema
scomponendolo in parti. egli individua le seguenti componenti:
appartenenza, differenza, narrazione, valutazione. Le prime quattro
categorie costituiscono il versante cosiddetto definitorio o fattuale,
quello nel quale ci definiamo e ci stimiamo descrivendoci. Questa
descrizione avviene soprattutto in rapporto agli altri, ai quali cerchiamo
in parte di conformarci/appartenere (domain dell'appartenenza), in parte di
differenziarci (domain della differenza). Inoltre, i  due assi
dell'appartenenza e della differenza si modificano nel tempo, cosicché si
aggiunge un terzo asse temporale, quello della narrazione di sé. Questi tre
assi insieme finiscono per costituire un articolata teoria di sé, in parte
pienamente esplicita, in parte implicazionale, cioè inferibile dal
comportamento, dalle opinioni espresse non esplicitamente su di sé. A
questa parte implicazionale della teoria di sé corrisponderebbero non dei
pensieri espliciti, ma piuttosto dei modelli operativi interni di tipo
procedurale intuititivi e "sentiti". L'ultimo asse è quello valutativo.
esso esprime  giudizi non più solo fattuali, ma di valore. Il soggetto
valuta sé stesso, si dà un valore in vari parametri di tipo sia
socio-relazionale che prestazionale (studio, lavoro).

l'anoressica e la bulimica avrebbero un deficit sia di definizione di sé
che di valutazione di sé. Il deficit di definizione di sé è stato suggerito
da Guidano e Liotti (1983), mentre quello della valutazione di sé da
Fairburn e Wilson (1999), che hanno parlato di negative self-evaluation
(NSE). La NSE sarebbe il nucleo profondo della personalità anoressica.
abbiamo così il low self esteem mind set, che secondo Yellowless (1997) si
articolerebbe in quattro punti:
1. eccessivo bisogno di approvazione
2. problemi di evitamento
3. perfezionismo
4. preoccupazione ansiosa

insomma, si tratta di uno stile di conoscenza di tipo evitante, secondo la
classificazione di Lorenzini e Sassaroli (in press). Il perfezionismo è
probabilmente soltanto l'aspetto più appariscente di questo stile
conoscitivo. come ho già scritto, il perfezionismo è stato misurato da
almeno tre scale importanti, la MPS  (Frost e altri, 1990) che identifica 5
dimensioni (Preoccupazione degli errori, Modelli personali, Aspettative dei
genitori, Dubbi riguardanti le proprie azioni, ed Organizzazione, ordine e
precisione), la scala di Hewitt (che misura il perfezionismo orientato
verso il sé, verso gli altri e quello socialmente prescritto) e la scala
Perfezionismo dell'EDI (Eating Disorder Inventory). Un importante studio di
Bastiani e altri (1995) effettutato utilizzando le scale elencate ha
stabilito che il perfezionismo dell'anoressica è esperito come
auto-imposto, e non indotto dagli altri.
Il perfezionismo clinicamente si definisce come bisogno di ipercontrollo su
un parametro scelto per la sua facile quatificabilità e misurabilità,
secondo uno stile di pensiero tipicamente primitivo (Fairburn, 1999). Di
qui la scelta del peso corporeo. Questa scelta però dipenderebbe anche da
altri fattori. Inizialmente, infatti, l'anoressica tenderebbe a svolgere il
suo ipercontrollo anche su altri fattori, scelti sempre però in base alla
loro "quantificabilità" (esempio: il rendimento scolastico), od alla loro
capacita di soddisfare conformisticamente le attese altrui, soprattutto dei
genitori (di qui il carattere pre-morboso di "brava ragazza" dell'anoressica).

Questi altri fattori sarebbero: l'oggettiva importanza che riveste il corpo
nella definzione dlell'identità femminole (Striegel-Moore, 1993), ed il
senso emozionale di euforia e trionfo che dà, almeno inzialmente, la dieta
riuscita (Fairburn, 1999). Si aggiungerebbero poi anche fattori genetici.
Secondo Treasure (2000), gli studi sul gene della leptina suggerirebbero
una oggettiva facilità genetica della anoressica nel dominare i suoi
impulsi di fame. Last but not least, la pressione sociale verso la
magrezza, iniziata negli anni '60. Quest'ultima, tuttavia, non viene più
ritenuta, come un tempo così decisiva, anche se indubbiamente ha rivestito
un ruolo nell'esplosione della bulimia nei tardi anni '70-inizio anni '80
(attualmente vi è una fase di plateau della prevalenza), soprattutto dopo
che studi transculturali hanno dimostrato la presenza di anoressia senza
paura di ingrassare in zona rurali del mondo (Lee, 1993; Nasser, 1984;
Ruggiero, 2000).

Aggiungiamo poi l'influenza della famiglia e dei peers. E' soprattutto in
questi due ambienti che la ragazza anoressica apprende le sue distorsioni
cognitive. Lo stimolo alla dieta da parte della madre, il controllo
esercitato sul proprio peso e su quella della figlia da parte della madre,
e di infine il teasing (il prendere in giro) sadicamente effettuato dalle
coetanee (peers) hanno un potente effetto di insegnamento del sintomo
(storia di apprendimenti, secondo la terminologia di Sassaroli e Lorenzini,
in press).

L'influenza della famiglia agirebbe anche sui sentimenti di scarsa
definizione di sé, già invocati da Liotti e Guidano. Non è altro che la
vecchia teoria di Minuchin e Selvini-Palazzoli, della famiglia
psicosomatica "enmeshed". Tuttavia, questo approccio è oggi criticato, e si
ritiene che questo tipo di relazione familiare sia piuttosto conseguenza
che antecedente della malattia. Si ammette, tuttavia, che atteggiamenti
invadenti della privacy e della intimità corporea e sessuale e della
ragazza non ancora anoressica (parental intrusiveness), da parte sia della
madre che del padre, nonchè sentimenti di gelosia della madre verso la
femminilità della figlia, possano giocare un ruolo predisponente.

Gli stati emotivi della anoressica sono caratteristicamente negativi:
tristezza, paura e disgusto. Quest'ultimo, in particolare, è collegato con
il disprezzo di sé ed è molto studiato ultimamente (Troop, 1999), dopo che
era stato definito "l'emozione dimenticata della psichiatria" (non ricordo
al momento gli autori dell'articolo).



***********************************
Giovanni Maria Ruggiero

Psichiatra Contrattista U.O.P. Bergamo
Locum Psychiatrist Bergamo General Psychiatry

Consulente Scientifico Unità Distubi Alimentari Università di Milano e Zurigo
Scientific Counseling Eating Disorder Unit of Milano and Zuerich Universities

Private address: via Fratelli Cervi 16G, 20068 PESCHIERA BORROMEO (Milano).

Editorial staff member di www.psychomedia.it
***********************************

 

 

>Il tema che introdurrò nel prossimo messaggio sarà: autostima e
>perfezionismo come cuore psichico dell'anoressia.
>
>a presto
>
>giovanni ruggiero
>

Mi scuso per il ritardo con il quale vi spedisco questa mail. Sono stato
preso dapprima da un concorso in Bergamo, e poi da un lavoro scientifico
intenso.

Questa mia mail di esordio come rianimatore della lista parte da uno
scambio "in vivo" con Tullio Carere, il quale aveva osservato come i
disturbi alimentari condividano, con altri disturbi cosiddetti dell'area
ansiosa, il tema strutturale dell"ansia superegoica".

Questo tema mi sembra in rapporto con il tema molto dibattuto del
perfezionismo e dell'autostima nell'anoressia. Il pefezionismo viene da
tempo indicato come importante fattore di rischio dei disturbi alimentari.
Si tratta evidentemente di un tratto di personalità, quella che una volta
si chiamava personalità anancastica. In genere si dice che nei disturbi
alimentari si sa molto dei cosiddetti fattori di rischio prossimali (nel
tempo), di cui il principale è il semplice atto di mettersi a dieta, ma
poco di quelli distali (sempre riferito al tempo). Eppure intuitivamente il
perfezionismo, come fattore di rischio personologico, affonda le sue radici
in un tempo più lungo e profondo di quello prossimale. La personalità si
sviluppa sulla lunga distanza. Tuttavia, non sappiamo bene dove inizi
questa lunga distanza. Se abbia le sue radici nel terreno freudiano della
prima infanzia, oppure più in là.

Storicamente, il perfezionismo fu introdotto nella riflessione sui disturbi
alimentari da Hilde Bruch (1978) e poi da Slade (1982). Il perfezionismo è
stato descritto come "L'aspettativa da parte di sè stessi e degli altri di
prestazioni più elevate di quelle richieste dalla situazione" (English ed
English, 1958). Questa aspettativa si accompagna alla tendenza di valutare
ipercriticamente il proprio comportamento (Frost e altri, 1990). In
aggiunta, il perfezionismo include "stabilire modelli irrealistici e
lottare strenuamente per realizzarli, una attenzione selettiva verso ed una
distorsione cognitiva ipergeneralizzante verso il fallimento, una
auto-valutazione sempre severa ed una tendenza ad impegnarsi nel pensiero
tutto-o-nulla per il quale gli unici esiti possibili sono il fallimento
totale od il successo assoluto" (Hewitt e Flett, 1991).

Il perfezionismo è stato misurato da almeno tre scale importanti, la MPS
(Frost e altri, 1990) che identifica 5 dimensioni (Preoccupazione degli
errori, Modelli personali, Aspettative dei genitori, Dubbi riguardanti le
proprie azioni, ed Organizzazione, ordine e precisione), la scala di Hewitt
(che misura il perfezionismo orientato verso il sé, verso gli altri e
quello socialmente prescritto) e la scala Perfezionismo dell'EDI (Eating
Disorder Invenotory).

Un importante studio di Bastiani e altri (1995) effettutato utilizzando le
scale elencate ha stabilito che il perfezionismo dell'anoressica è esperito
come auto-imposto, e non indotto dagli altri.

Penso che come primo messaggio possa bastare. Le curiosità che mi stimolano
questi dati e queste riflessioni sono molteplici. La prima di tutte è: ma
perché l'anoressica è talmente perfezionista da scegliere di limitare il
suo campo d'azione al controllo del comportamento alimentare, cioè
restringe la sua vita ad un campo di interessi così estremamente
semplificato, il cui unico vantaggio (da un punto di vista anoressico) è
nella auto-evidenza con la quale si può misurare il successo in manirea
quantificabile (successo=controllo della quantità di cibo)? In altre
parole, qual è la spiegazione dell'assurdità del disturbo mentale anoressico?

giovanni maria ruggiero

 

 

Depressione (Depression)

 


Sto scivendo a tutti voi.Non vi conosco,non so se e
quando mi leggerete,non so nulla dei vostri
sogni,delle vostre speranze e dei tanti mostri che
popolano la parte che ognuno di noi non ama mostrare
all'altro.
Paura? Vergogna? Mancanza di tempo?
Posso dirvi con tutta sincerita' il MIO rapporto con
la parte in ombra che mi accompagna ogni attimo della
mia giornata,mi osserva,mi spinge a rivedere le mie
scelte,molto spesso mi confonde.
Guardo le persone che mi sono vicino,noto in loro una
immensa capacita' di controllarsi;dicono esattamente
cio' che vogliono,mai un gesto fuori posto,mai una
sbavatura.
Mi guardo:vedo una monade staccata dal contesto in cui
e' immersa,uno spazio fisico ben delimitato mi separa
da cio' che sta "fuori".
"Fuori" e "dentro" sono espressioni che non rispettano
la geografie dei rapporti umani,ma a me servono per
spiegare,per verbalizzare una cosa altrimenti
inesprimibile:due membrane,separate da uno spazio
vuoto.Al di la' della seconda membrana c'e' l'immensa
bellezza della vita.
Colori,suoni,sapori che nessuno puo' arrogare il
diritto di classificare,inscrivere in una tabella.
Io sono "al di qua".
Schegge di felicita' mi trafiggono,quando meno me lo
aspetto.Ma sono sempre li'.


A.


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Cara Ofle,

... che la forza sia con te!

Speriamo di aver avuto, con il nostro inpegno quotidiano nel sito, una
piccola parte nella tua decisione di metterti in viaggio.

Auguri dalla Redazione


----- Original Message -----
From: "rossy damico" <damicoross@hotmail.com>
To: <psiconline@ecircle.it>
Sent: Wednesday, October 18, 2000 10:54 PM
Subject: [psiconline-it] Re: Re: ofle


> Buongiorno a tutti!Sono Ofle.
> Malinka e`riuscita a iniziare il suo viaggio, la sua corazza e`stata piano
> piano scalfita. Il silenzio e`assordante e mi distrugge, mi
> spaventa...e`come essere in una cabina piena di gas dove perdi il fiato e
> rischi di soffocare.
> NB: Malinka e`la protagonista di un bellissimo libro.
>
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Ciao Ofle,
sono Luigi, piacere di conoscerti.
Sono stato anch'io in terapia per circa otto mesi, con una psicologa.
Indipendentemente da come sia finita mi sento di darti un consiglio che a
me, all'epoca, servì parecchio.
Anch'io temevo di essere giudicato per alcuni pensieri e atteggiamenti che
adottavo spesso senza pensarci.
Gli effetti negativi di questo comportamento erano diversi e di varie
intensità, riflettendosi anche nel sogno, sempre piuttosto turbato.
Fu un momento particolare quello in cui decisi che sarebbe cambiato il mio
rapporto con colei che mi visitava.
Uno dei motivi per cui ero in terapia si identificava in una grossa quantità
di rabbia, di cui io sapevo benissimo l'entità e la potenzialità, che io
temevo e reprimevo costantemente.
Adottai allora questa rabbia e provai ad "usare" la mia terapeuta come uno
specchio, una superficie riflettente, capace di rivelare me stesso a me
nella misura di quanto io lo facessi a lei.
Adoperai questa rabbia come una enrgia, non mi interessai neppure di che
qualità fosse, lo feci senza considerare la persona a me di fronte come un
oggetto, ignorandone le possibilità relazionali e le capacità di giudizio.
"Adesso io sono qui davanti a te" pensavo "tu hai gli strumenti e MI DEVI
AIUTARE a venirne fuori".
Lo feci più volte, senza neppure pormi il problema dell'ira manifestata,
dell'aggressività e delle parolacce.
Divenne man mano più semplice, più scorrevole ed anche più gradevole, quasi
simpatico farlo.
Non seppi mai che reazioni effettivamente avesse sortito questo modo di fare
ma devo dire che funzionò alla grande.
E' solo un salto, un momento in cui tu ti fermi e ti guardi per intero,
completamente senti tutto di te, avverti ogni cosa sensorialmente.
Ti fermi, domini e pacatamente, senza fretta lasci che tutto salga dal basso
di te, da quel pozzo nero che ogni tanto vomita qualcosa di indigesto, di
inaccettabile, di curioso e di assurdo pure.
Pensa solo che, quando partirai con questo tipo di tecnica, prenderai
contatto con energie che ti appartengono di cui ignoravi perfino l'esistenza
e la possibilità.
E' solo un salto, devi solo desiderare e assecondare il desiderio di
saltare.
Tutto il resto diverrà solo un film di ricordi e segreti.
In bocca al lupo.



Luigi

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At 10.46 05/10/00 +0000, you wrote:
Questo viaggio,pero`,non riesce a decollare contro tutte le mie previsioni e desideri. Paura del giudizio, pensiero, idea che la mia psiche possa essere visibile e interpretabile da chi potrebbe farlo realmente e senza alcun preconcetto, una persona in cui confido, stimo. Ma allora perche`non ce la faccio?

...forse perché vorresti già trovarti tu dall'altra parte.
Il Signore disse:"Non giudicare se non vorrai essere giudicato".
Se ti va leggi qualcuno dei miei racconti. Ti suggerisco "L'esordiente".
Forse ti aiuterà a fare "il paziente".
Ciao,

Mario Trovarelli
www.narrare.it

 

Ciao Ofle, ho letto il tuo messaggio ed ho letto la
mia stessa paura ad affrontare un percorso di terapia
psicoanalatica. Tu ti fidi di chi ti sei affidata?
Credo che si abbia paura di scoprirsi totalmente e
conoscere quello che si ha dentro e si ha paura che
qualcuno ne possa rimanere deluso o manipolare.
Forse sono queste le paure recondite.
Mi viene in mente una scena del film "La Storia
Infinita" dove un adolescente doveva affrontare delle
prove di coraggio ed una d queste era quella di
guardarsi ad uno specchio, dove avrebbe visto come era
veramente e chi lo aveva preceduto era scappato via
urlando - chi si credeva coraggioso vedeva che in
realta' era un vile e cosi' via. E' questo il paragone
che penso ogni volta che mi dico di andare da uno
psicologo.
ciao Donatella
--- rossy damico <damicoross@hotmail.com> ha scritto:
> Ciao a tutti! Sono Ofle.
> E`da 2 mesi che ho intrapreso il mio viaggio dentro
> me stessa. Sono in
> terapia psicoanalitica da due mesi. Questo
> viaggio,pero`,non riesce a
> decollare contro tutte le mie previsioni e desideri.
> Paura del giudizio,
> pensiero, idea che la mia psiche possa essere
> visibile e interpretabile da
> chi potrebbe farlo realmente e senza alcun
> preconcetto, una persona in cui
> confido, stimo. Ma allora perche`non ce la faccio?
> N.B. Sono studentessa in psicologia, la mia
> piu`grande passione.
> Se qualcuno vorra`rispondermi saro`molto felice.
> ofle.
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Ciao a tutti! Sono Ofle.
E`da 2 mesi che ho intrapreso il mio viaggio dentro me stessa. Sono in
terapia psicoanalitica da due mesi. Questo viaggio,pero`,non riesce a
decollare contro tutte le mie previsioni e desideri. Paura del giudizio,
pensiero, idea che la mia psiche possa essere visibile e interpretabile da
chi potrebbe farlo realmente e senza alcun preconcetto, una persona in cui
confido, stimo. Ma allora perche`non ce la faccio?
N.B. Sono studentessa in psicologia, la mia piu`grande passione.
Se qualcuno vorra`rispondermi saro`molto felice.
ofle.
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Ho spesso parlato del fenomeno suicidio e delle responsabilità che
possono essere imputate  allo
psichiatra. Ne ho parlato perchè sono stato testimone di diversi casi
accaduti nel Servizio Pubblico
ove  la Magistratura  - fino ad ora - è stata di opinione diversa.

Nel caso di un famoso ed anziano psichiatra, Direttore di una Casa di
Cura, è stata invece comminata
una severa condanna.E' necessario attendere la stesura completa della
sentenza.

L'opinione, comunque,  dei difensori dello psichiatra (in fondo
all'articolo) è da prendere in seria considerazione.

Andate a leggere il "Corriere della Sera" al sito:
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=INTERNI&doc=INC

Scrive il "Corriere"  in data odierna:



                                 APPIANO GENTILE (Como) - La paziente si
è uccisa, lo psichiatra è stato
                            condannato: omicidio colposo. È successo al
fondatore e direttore della clinica dei
                            vip, «Le betulle», di Appiano Gentile.
Secondo il giudice di Como il medico sarebbe
                            responsabile del suicidio di una paziente
affetta da gravissimi disturbi psichici.
                            Augusto Guida, 78 anni, psichiatra milanese,
responsabile della clinica avrebbe
                            «cagionato il decesso per colpa» di una
donna di 64 anni, reduce da tre tentativi di
                            suicidio e «affetta da sindrome depressiva
psicotica». Ne è convinto il sostituto
                            procuratore Claudio Galoppi, che in aula ha
chiesto la condanna dell'imputato a un
                            anno e nove mesi. E ne è convinto anche il
giudice Mauro Ianigro, che ha abbassato
                            la pena a un anno di reclusione (con la
sospensione condizionale), ma che comunque
                            ha riconosciuto il dottor Guida colpevole di
omicidio colposo.
                            «Il nostro assistito è innocente -
commentano convinti gli avvocati difensori, i legali
                            milanesi Federico Stella e Fulvio Simoni -.
Il professor Guida ha realizzato e messo
                            in atto con scrupolo la legge Basaglia, che
sta alla base dell'ordinamento per il
                            trattamento delle malattie mentali».
                            I fatti risalgono a tre anni fa. Il 30
giugno del '97 Clara Piccinetti, 64enne comasca,
                            viene affidata dalla figlia ai medici della
casa di cura di Appiano Gentile.
                            La      donna ha
                            già tentato il suicidio, e nei dieci giorni
trascorsi nella clinica viene salvata in
                            extremis altre tre volte. Secondo la
diagnosi medica la 64enne di origini toscane
                            soffre di sindrome depressiva psicotica.
Neppure due settimane più tardi, però,
                            Clara Piccinetti muore. Suicida dopo un volo
dal quarto piano di un'abitazione.
                            Secondo quanto accertato dall'inchiesta
della Procura di Como la paziente, il 10
                            luglio, viene affidata dai medici della
clinica di Appiano Gentile alla custodia di
                            un'accompagnatrice volontaria, priva di
specializzazione medica o infermieristica. Il
                            direttore delle Betulle, stando alle
contestazioni del pm Claudio Galoppi, non
                            avrebbe informato l'accompagnatrice, Maria
Morandi, volontaria della cooperativa
                            di servizio Gaia, della propensione al
suicidio della paziente. Clara Piccinetti e la
                            volontaria (inizialmente indagata dalla
magistratura, ma poi prosciolta da ogni
                            accusa) vengono autorizzate a uscire dalla
clinica. Un fatto che, secondo l'accusa,
                            avrebbe determinato un «aumento del rischio»
di suicidio della donna.
                            È stata proprio questa autorizzazione a
mettere nei guai il fondatore della clinica.
                            La 64enne viene accompagnata nell'abitazione
della volontaria, a Luisago. Una volta
                            all'interno della casa chiede di poter
andare in bagno, si chiude all'interno, apre la
                            finestra e si getta nel vuoto. Un volo di
quattro piani. Fatale per la paziente, che è
                            morta sul colpo.
                            Il processo era iniziato nel marzo scorso.
Un dibattimento lungo e complesso. Con
                            la difesa che ha portato avanti la tesi
secondo la quale con la legge Basaglia del '78
                            lo psichiatra non può trattenere
coattivamente chi si sottopone volontariamente a
                            una terapia, dunque il direttore delle
Betulle, secondo i legali, non aveva alcun
                            potere di controllo nei confronti della
paziente. E con l'accusa che, per contro, ha
                            sempre sostenuto che quel potere esiste,
tanto che il pm ha espressamente
                            contestato all'imputato l'omissione
dell'obbligo di sorveglianza da parte del
                            direttore della clinica dei vip. Schermaglie
terminate soltanto con la lettura delle
                            decisioni del giudice: colpevole. Un anno di
reclusione e pagamento del danno alla
                            figlia della donna, che si è costituita
parte civile.
                            Quasi certo il ricorso in appello. «Ora
attendiamo di leggere le motivazioni della
                            sentenza», precisa l'avvocato Federico
Stella, legale di Augusto Guida, nonché tra
                            gli estensori della legge Basaglia. Che
conclude: «Ho intenzione di aprire un
                            dibattito per vedere come la normativa sulle
malattie mentali è stata realizzata in
                            tutti i presidi italiani».


 

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PSICONLINE® NEWS
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La prima newsletter italiana dedicata alla psicologia
ed agli psicologi
 
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>> n. 32 - 5 novembre 2000
-------------------------------

Caro cisat@istitalianodicultura.org,
benvenuto al nuovo appuntamento con PSICONLINE® NEWS e le novità del mondo della psicologia.
Prima di invitarti a leggere quello che segue ti invitiamo a scriverci (redazione@psiconline.it) per esprimerci le tue opinioni, conoscere le tue proposte ed i tuoi suggerimenti, sapere a cosa sei interessato.
Avere un continuo feedback con i nostri Ospiti ci aiuta a crescere sempre di più e sempre meglio.

>>> SOMMARIO
-------------------
1 - L'arrivo del primo figlio può essere causa di problemi per la coppia?
2 - Infanzia e depressione
3 - Le novità di Psiconline.it


- L'arrivo del primo figlio può essere causa di problemi per la coppia?
----------------------------------------------------------------------------
L'arrivo del primo figlio di una coppia è un'occasione di grande gioia frequentemente seguita da un certo declino in termini di soddisfazione nel rapporto coniugale da parte dei partner. Gli studiosi conoscono da tempo questa realtà e ribadiscono che tale stato può essere una delle cause di separazione dei coniugi.

Nelle ricerche sono state seguite 82 nuove coppie per un periodo compreso tra 4 e 6anni; durante questo tempo 43 coppie sono diventate genitori per la prima volta.Le ricerche hanno avuto come obiettivo quello di rilevare eventuali cambiamenti nella soddisfazione coniugale e di identificare i meccanismi che insorgono nelle dinamiche di coppia durante la transizione dall'unione matrimoniale alla genitorialità..

Le coppie sono state reclutate tra quelle sposate da un anno, sottoposte a questionari sul grado di soddisfazione riguardo al proprio matrimonio e intervistate per approfondire molteplici aspetti circa la relazione di coppia.

Le ricerche condotte dal Prof. John Gottman  dell'Università di Washinton e pubblicate sul Giornale di Psicologia Familiare sui neo-genitori hanno scoperto una "ricetta" per mantenere e migliorare la soddisfazione coniugale; i risultati ribadiscono l'importanza di costruire un forte legame coniugale fondato sulla amicizia tra i coniugi secondo i seguenti obiettivi:
- stimolare sentimenti di affetto per il partner
- essere al corrente di ciò che accade nella vita del proprio coniuge e diventare più sensibile alle sue richieste.
- sviluppare un approccio ai problemi considerandoli come qualcosa su cui intervenire in coppia e risolverli insieme.


- INFANZIA E DEPRESSIONE
--------------------------
La depressione infantile può insorgere in età precoce e originare problematiche che si intensificano con la crescita.

In un recente studio della cattedra di Neuropsichiatria Infantile dell'Università La Sapienza di Roma condotto su bambini da tre a sei anni è emerso che circa il 2% dei bambini in età scolare dei paesi occidentali potrebbe soffrire di disturbi di natura depressiva, disturbi che non vengono solitamente  rilevati in tempo utile ma si trascinano invece per anni creando problemi psicologici che divengono progressivamente più difficili da superare.
Una delle cause di tale condizione sembra risiedere nel sentimento di non essere amato abbastanza dai propri genitori e dagli altri adulti del proprio ambiente familiare, ciò che porta il bambino a provare tristezza, sentimenti di rabbia e sensi di colpa, timore di manifestare le proprie emozioni.
Il malessere "silenzioso" del bambino sarebbe più spesso conseguenza di disorganizzazione della famiglia, di conflittualità tra i genitori e della presenza di malattie croniche di suoi membri.
La ricerca mostra inoltre che, sulla base di dati anamnestici riscontrati in un campione di adolescenti, circa il 25% presentava problematiche di questo tipo già prima dei 6 anni di età, confermando così che l'inizio del vissuto depressivo può fare la sua comparsa in età precoce ed aumentare la propria intensità negli anni dell'infanzia e dell'adolescenza.
La questione dell'attenzione rivolta dagli adulti al malessere psichico del bambino diviene di conseguenza il punto centrale del discorso, sia in ambito familiare che scolastico, poichè se genitori ed insegnanti possono accorgersi solitamente che il bambino presenta difficoltà di tipo relazionale o affettivo, non è purtroppo ancora possibile ricorrere a chiare scelte operative e ad un intervento tempestivo, come sarebbe auspicabile in questi casi.

Le Novità di Psiconline.it
----------------------------
>>> Ottobre è stato un mese ricco per il nostro sito: 250.000 pagine lette, oltre 60.000 visitatori, il numero degli iscritti nel Registro degli Ospiti che sale costantemente.
Numeri che ci fanno pensare che il nostro lavoro è certamente apprezzato dai navigatori di internet e che ci spingono ogni giorno di più a potenziare i nostri sforzi per rendere un servizio sempre migliore e sempre più ricco ai nostri amici on line.

>>> Abbiamo bisogno di nuovi collaboratori per proseguire costantemente nel nostro impegno; se sei uno psicologo ed in particolare se operi in campi diversi dalla "clinica", scrivici ed unisciti al nostro gruppo. Molti progetti sono in corso di sviluppo e l'apporto spontaneo e volontario dei nostri collaboratori è fondamentale per crescere ulteriormente e realizzare tutto ciò che abbiamo in mente.

>>> Due importantissimi accordi sono stati siglati da Psiconline in questa settimana appena trascorsa. Due partnership significative che aumenteranno sensibilmente la visibilità del nostro lavoro e ci porteranno a sviluppare ulteriormente  il nostro impegno.
Ne parleremo più diffusamente nella prossima newsletter.

>>> Sul sito in questi 7 sette giorni molte novità: articoli, informazioni, convegni, aggiornamenti bibliografici e, infine, "Le Risposte dell'Esperto".
Collegatevi con il sito e date un'occhiata al tutto (se non lo avete già fatto):
http://www.psiconline.it/notizie.htm

Ancora una volta ci fermiamo per non rubarvi altro tempo ma vi salutiamo con la speranza di esservi stati ancora una volta utili. Scriveteci e fateci conoscere le vostre opinioni.

Una Buona Domenica a tutti.

La Redazione di Psiconline.it

 

What types of drug therapies are available to treat children or adolescents for depression?What types of drug therapies are available to treat children or adolescents for depression?
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Drug therapies in children and adolescents can include the following: 1. Tricyclic antidepressants, which have been shown to work in open studies but not in blinded studies. Their side effects are also significant. 2. Selective serotonin reuptake inhibitors (SSRIs) are commonly prescribed by family physicians and pediatricians. Of the physicians surveyed recently, 72% had prescribed an SSRI for a child or adolescent, while only 8% felt that they had adequate knowledge regarding childhood depression and its therapy.[1] A variety of SSRIs for the treatment of childhood depression now exist. Fluoxetine, 20 mg/day for 8 weeks, was shown to produce improvement in 56% of depressed patients vs 33% improvement in patients on placebo.[2] The clinical benefits and safety of paroxetine (PXT) in a group of patients younger than 14 years old with a diagnosis of major depressive disorder have been studied in an open-label trial. All patients experienced marked improvement by 2 months with a complete remission of symptoms by the end of treatment (mean 8.4 months). PXT was well tolerated.[3] Sertraline produced improvement in 40% to 60% of patients by 6 weeks and 70% to 80% of patients by 10 weeks. Adult dosages should be prescribed for adolescents. There were no echocardiogram or blood pressure changes noted using sertraline 200 mg/day. Side effects associated with serotonergic agents include insomnia, anxiety, and agitation, as well as reduced libido and anorgasmia.[4-6] 3. 5HT2 and 5HT2,3 antagonists -- nefazodone and mirtazapine -- have a combined noradrenergic and serotonergic effect and appear to be as effective as SSRIs, with fewer adverse effects.[7] Depression in childhood is a significant disorder and differs from adult depression in several ways. Children exhibit more somatic symptoms, a more chronic course, and a different pharmacologic response (serotonergic drugs being more effective in children than in adults).

Source: Inder T.: Advances and application of psychopharmacology in pediatrics. Conference summary from Advancing Children's Health 2000: Pediatric Academic Societies (PAS) and the American Academy of Pediatrics (AAP) Year 2000 Joint Meeting. Medscape Pediatrics, 2000.

References

1.     Rushton JL, Clark SJ, Freed GL. Pediatrician and family physician prescription of SSRIs. Pediatrics. 2000;105:E82.
2.    Emslie GJ, Rush AJ, Weinberg WA, et al. A double blind randomised placebo controlled trial of fluoxetine in children and adolescents with depression. Arch Gen Psychiatry. 1997;54:1031-1037.
3. Rey-Sanchez F, Gutierrez-Casares JR. Paroxetine in children with major depressive disorder: an open trial. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 1997;36:1443-1447.
4.     Ambrosini PJ, Wagner KD, Biederman J, et al. Multicenter open-label sertraline study in adolescent outpatients with major depression. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 1999;38:566-572.
5.    Alderman J, Wolkow R, Chung M, Johnston HF. Sertraline treatment of children and adolescents with obsessive-compulsive disorder or depression: pharmacokinetics, tolerability and efficacy. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 1998;37:386-394.
6.      Wilens TE, Biederman J, March JS, et al. Absence of cardiovascular adverse effects of sertraline in children and adolescents. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 1999;38:573-577.
7.    Holm KJ, Markham A. Mirtazapine: a review of its use in major depression. Drugs. 1999;57:607-631.

              
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Column Index
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RELATED SPECIALTIES

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Pediatrics
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Psychiatry


 

--

Francesco Bollorino
DIPARTIMENTO DI SCIENZE PSICHIATRICHE
UNIVERSITA' DI GENOVA

 Editor  of "POL.it, Psychiatry on line - Italia" - ISSN 1591-0598.
         ***  - The October 2000 Issue is on the NET - ***

Italian Site:   http://www.pol-it.org
English Site: http://www.priory.com/ital.htm
Book's Site: http://www.pol-it.org/ital/terzo_stato/indice.htm


Via Provana di Leyni' 13/2  16167 GENOVA
16167        Genova - Italia


Tel. 010-3203639
     0348-7117284
Fax: 010-3537669
ICQ : 22413547
***********************************************

       "La vita e' troppo breve, per sprecarla
        a cercare di realizzare i sogni degli altri"
                                           (Oscar Wilde)

 

----- Original Message -----
From: Dott. Giacomini <giacomin@libero.it>
To: Psychomedia Salute Mentale e Comunicazione <PM-SMC@LISTSERVER.SICAP.IT>
Sent: Tuesday, August 29, 2000 5:10 PM
Subject: DISTIMIA, DSM E DINTORNI (IV) Risposta


In data 18 agosto 2000 Anna Abbate Fubini ha scritto:

>Personalmente apprezzo il sostegno professionale che mi offre la
>consultazione del DSM, ma ne ho pure una convalida inaspettata
> dall'apprezzamento
>entusiastico dei pazienti stessi. In molti casi la lettura descrittiva
>dei  "propri disturbi"
>dà loro un enorme sollievo . .
>sono molto interessata, guarderò il sito web, ma non potrei avere una
>copia  cartacea?

 Riposta:

                          DISTIMIA, DSM E DINTORNI  (V)

 Il fatto che il DSM possa essere utilizzato, da qualche volenteroso, per
 dare sollievo alle ansie dei pazienti, non è certo sufficiente a
 conferirgli
 una dignità teoretica e scientifica.
 Personalmente ritengo che per una psicoterapia (sia di sostegno, sia
 sistematica) siano assai più efficaci altre forme di intervento, basate su
seri principi epistemologici.
 Rispondendo alla sua richiesta, le sarà inviata prossimamente in omaggio
una copia della nostra Rassegna "Psicoterapia Professionale" del 1994, dove
è
 presente l'articolo: "Il manuale "diagnostico" e "statistico" DSM III-IV:
analfabetismo epistemologico, nichilismo metodologico e insipienza
clinico-diagnostica in psicopatologia".
 Nello stesso numero della Rassegna, riferimenti e commenti sul DSM si
 trovano anche nell'articolo:
 "L'istituzionalizzazione della psicoterapia professionale e il fallimento
  delle discipline accademiche, psicologiche e psicopatologiche, in Italia.
  I: Il fallimento della psichiatria accademica italiana e il problema del
  metodo  in psicopatologia e in psicoterapia".
 Cordiali saluti.

 G.Giacomo Giacomini

 G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
 Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
 Sistematica CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
 Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
 16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
  Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
 Internet: http://members.xoom.it/istpsico

 


----- Original Message -----
From: Dott. Giacomini <giacomin@libero.it>
To: <psic-ita@psichiatria.unige.it>
Sent: Tuesday, August 29, 2000 5:12 PM
Subject: DISTIMIA, DSM E DINTORNI (IV) Risposta


> In data 18 agosto 2000 Gaetano Rossi ha scritto:
>
> >al di là dell'accademia il dott. Giacomini può indicare una griglia di
> >sintomi per cui si potrebbe fare diagnosi di distimia?
>
> Risposta:
>                               DISTIMIA, DSM E DINTORNI  (VI)
>
> Il discorso epistemologico in psicopatologia non è astratta "accademia" ma
> ha la funzione di chiarire i concetti e i termini che si usano anche nella
> pratica clinica, quali "sintomo", sindrome", "malattia", "diagnosi", ecc.
> Concetti e termini clinici mutano il loro significato in ragione dei
> presupposti epistemologici che (consapevolmente o inconsapevolmente)
abbiano
> deciso di adottare per il discorso psicopatologico e psichiatrico.
> Nel caso, per esempio, della psicopatologia classica nella sua accezione
> strutturalistica, il termine "sintomo" riveste il significato di fenomeno
> che "segnala" la presenza di una malattia dell'organismo biologico.
> Un "disturbo" come tale, cioè come un semplice disagio soggettivo (ad es.
un
> senso di tristezza o di pessimismo) o un disordine funzionale (una dispnea
o
> una tachicardia) non è, di per sè, un "sintomo": lo diviene solo quando,
sul
> piano clinico, riteniamo possa essere la conseguenza e la "spia" di una
> patologia somatica (considerata come la "vera malattia").
> Pertanto, in questa impostazione epistemologica (psicopatologia della
> spiegazione), pertanto, il "sintomo" presenta una rilevanza clinica tanto
> maggiore, non in quanto comporti, per il paziente, una grave sofferenza
> psicofisica o una appariscente limitazione funzionale, ma in quanto si
> dimostri "patognomonico", cioè rivelatore specifico di una ben precisa
> malattia (somatica): il sintomo di Argyll Robertson, ad esempio, non
> comporta nè gravi sofferenze nè rilevanti limitazioni funzionali per il
> paziente, ma ha un importante valore clinico per la sua specificità
> diagnostica.
> Seguendo questo orientamento, pertanto, si può parlare di "Sintomi"
> psicopatologici (con la speranza di reperirne qualcuno "patognomonico")
> soltanto in rapporto alle DISTIMIE PSICOTICHE (malattia maniaco-depressiva
> secondo Kraepelin, psicosi ciclotimica secondo K.Schneider, ecc.) che si
> caratterizzano, sul piano formale, per la loro "INCOMPRENSIBILITÀ" e per
le
> quali è lecito parlare di "DIAGNOSI" clinica. K.Schneider, ad esempio,
> indica come "sintomo" tipico della psicosi ciclotimica (in quanto malattia
> neurobiologica) la tristezza che colpirebbe lo strato timico "vitale"
> (secondo N.Hartmann e M.Scheler) e che pertanto denomina "tristezza
vitale".
> Egli però non considera questo sintomo come specificamente "patognomico".
> Per quanto concerne, invece, le DISTIMIE PSICOPATICHE non avrebbe senso,
in
> questa prospettiva epistemologica (psicopatologia della comprensione),
> parlare di "SINTOMI" e neppure di "DIAGNOSI" clinica. In questi casi,
> infatti, la distimia (cioè il disturbo dell'umore) si presenta
COMPRENSIBILE
> in rapporto alle vicende ambientali e/o alle caratteristiche della
> personalità (con le loro diverse modalità di elaborazione dell'esperienza
> interiore), senza che ciò comporti la necessità di un rinvio "esplicativo"
> ad una malattia cerebrale.
> Nello stato distimico "psicopatico" i fenomeni del quadro clinico (quali
la
> perdita dell'autostima, l'autocritica esasperata, il senso di inutilità
per
> ogni cosa e per se stessi, i sentimenti di colpa, gli stati d'animo di
> estraneità, di alienazione e perfino di annichilimento, ecc.) non dovranno
> essere "spiegati" come conseguenze ("sintomi") di una malattia
> neurobiologica (vista come "causa" del quadro clinico) ma dovranno essere
> "compresi" in funzione della possibilità dell'osservatore di
identificarsi,
> empaticamente e riflessivamente, con la soggettività dell'interlocutore e
> con le sue problematiche interiori. In una PSICOPATOLOGIA DELLA
> COMPRENSIONE, qual è quella delle DISTIMIE PSICOPATICHE, i fenomeni dell'
> osservazione clinica sono concepiti non come effetti naturali di un
processo
> somatico, ma come espressione di un'interiorità soggettiva, manifestazione
> della sua personalità e dei sentimenti dell'Io ad essa correlati.
> Se non si accentua eccessivamente la tesi della cosiddetta "costituzione
> biologica" e se, al contrario, si sviluppa la tematica dialettica dell'
> interiorità soggettiva, la teoria delle psicopatie e il metodo della
> comprensione, che le è pertinente, possono costituire il fondamento
> teoretico per una psicoterapia sistematica.
> Rimanendo nel campo della psicopatologia classica, il termine di sintomo
> (così come quello di sindrome) assume un significato differente nella
> psicopatologia funzionalistica (secondo K.Bonhöffer, A,Hoche, O.Bumke,
> E.Bleuler, ecc.) dove, in un contesto epistemologico meno rigoroso, viene
> inquadrato nella teoria della malattia intesa come "sindrome funzionale di
> adattamento" e "tipo di reazione" (secondo A.Mayer).
> E' ovvio che, in un contesto epistemologico funzionalistico, il
significato
> clinico dei "disturbi distimici" assume differenti connotazioni rispetto
> alla psicopatologia strutturalistica.
> In particolare, i fenomeni distimici vengono inquadrati conformemente alla
> teoria della "sindrome funzionale" e dei corrispondenti modelli di
> adattamento predisposti nell'organismo secondo diversi livelli di
> integrazione.
> Ciò comporta, tra l'altro, una distinzione tra sintomi distimici primari
> (negativi) e sintomi distimici secondari (positivi e compensatori).
> Nella versione funzionalistica adottata dal A.Meyer (e molto diffusa nella
> psichiatria anglosassone) viene abbandonata del tutto la rigorosa
> impostazione diagnostica della psicopatologia strutturalistica: non vi è
più
> una netta distinzione nosografica tra il tipo neurotico e quello psicotico
> di "reazione depressiva", ma solo una differenza di grado, in rapporto
alle
> più o meno limitate possibilità di "adattamento" all'ambiente sociale.
> Com'è noto, nella sua prima edizione il DSM si è conformato
all'impostazione
> psicopatologica funzionalistica dei "tipi di reazione" (secondo A.Meyer)
e,
> conseguentemente, si è attenuto alla dizione della cosiddetta "depressione
> nevrotica".
> Tuttavia questa pur labile impostazione epistemologica è stata
> progressivamente abbandonata con le successive edizioni del DSM, così che,
> dopo il 1980, anche la categoria della "depressione nevrotica" è stata
> abolita per dar luogo ad una presunta "diagnosi" di "distimia", priva di
> qualsiasi fondamento teoretico.
> E' necessario sottolineare che, in assenza di un ben definito orientamento
> epistemologico (sia esso di ordine strutturalistico o funzionalistico,
> riduzionistico o integrazionistico, naturalistico o dialettico) la
> terminologia clinica (sintomo, sindrome, diagnosi, malattia, nosografia,
> ecc.) resta priva di un preciso significato e, pertanto, viene meno
> qualsiasi termine di riferimento per un coerente discorso psicopatologico,
> non solo nella teoria, ma anche nella pratica clinica e nella ricerca.
>
> N.B.: In questa sede posso solo accennare a questi temi fondamentali che
ho
> trattato in lavori specifici. A chi fosse interessato e ne facesse
> richiesta, saranno inviati, via e-mail:
> - - "Per un glossario critico: sintomo, sintomatologia, sindrome, sindrome
> psicorganica".
> - - "La psichiatria funzionalistica e il problema del metodo in
> psicopatologia".
> - - "Il problema delle psicopatie nella psicopatologia strutturalistica.".
>
> G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
> Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
> Sistematica  - CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
> Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
> 16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
> Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
> Internet: http://members.xoom.it/istpsico
>
>

Non sono tra coloro che usano abitualmente il DSM, anzi le etichette non mi
appassionano anche se riconosco la utilità del manuale soprattutto nella
ricerca e quindi nell'orientamento diagnostico insieme all'ICD 10, ma al di
là dell'accademia il dott.Giacomini può indicare una griglia di sintomi per
cui si potrebbe fare diagnosi di distimia?E' o sarebbe possibile con i
colleghi via e-mail stabilire una batteria di sintomi,secondo la loro
osservazione, che può consentire delle differenze psicopatologiche tra ciò
che noi osserviamo e ciò che è descritto sui manuali? Invidio Messina sullo
Ionio.
Gaetano Rossi

In data 05/08/2000 A.A.Rizzoli ha scritto:

>Invito il dott. GIACOMINI,  dopo aver letto le Sue affermazioni:

                        >DISTIMIA, DSM E DINTORNI

>La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è
profonda e sostanziale.
>Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto
teorico, definendosi >programmaticamente "ateoretico".

 >a leggere i seguenti articoli: (segue un elenco di dieci pubblicazioni in
lingua inglese)

Risposta:                              DISTIMIA, DSM E DINTORNI  (IV)

 Il messaggio  di A.A.Rizzoli non è chiaro.
Se, col suo elenco di ricerche e di ricercatori seguaci del DSM intende
comunicarci che molti psichiatri sono oggi concordi con l'impostazione
metodologica del DSM, il suo elenco è incompleto. E' generalmente noto,
infatti, come non "molti", ma "moltissimi" anzi, la maggioranza degli
psichiatri, a livello nazionale e internazionale, si è convertita al DSM e
lo adotta come supremo modello per la clinica e per la ricerca. In Italia,
in particolare, la ricerca non conforme ai canoni DSM non viene neppure
considerata valida per le prove concorsuali, per cui chi non è "allineato"
non ha speranza di accedere alle docenze universitarie o ai posti apicali
nei servizi pubblici, oltre che, s'intende, alle grazie delle Ditte
farmaceutiche che forniscono i protocolli (e non solo i protocolli) per le
"ricerche".
Se, invece, col suo messaggio, A.A.Rizzoli intendeva informarci che taluni
dei ricercatori del suo elenco (o anche fuori elenco) hanno dimostrato che
il DSM non è "ateoretico" e che, al contrario, segue un orientamento
epistemologico concorde con la psicopatologia classica, gradiremmo che ce li
indicasse e che ci riferisse con quali argomenti essi hanno sostenuto una
tale tesi.
Occorre tenere presente, in proposito, che il discorso teoretico (o
epistemologico) riguarda la verifica preliminare dei concetti e dei metodi
impiegati per la ricerca empirica, per cui, qualora concetti e metodi
dovessero risultare inadeguati, qualsiasi risultato della ricerca, per
quanto "corposo" e corpulento possa essere, non potrebbe, a sua volta,
essere considerato appropriato.

Ciò premesso, non credo di aver asserito nulla di nuovo definendo come
"ateoretica" l'impostazione "epistemologica" del DSM. Per rendersi conto di
ciò, è sufficiente leggere l'introduzione dello stesso Manuale DSM - III R
compilata da R.L.Spitzen, M.D., Chair, Work Group to Revise DSM III e da
J.B.Williams DSW Text Editor.
Mi limito a citare alcuni passi tratti dall'edizione italiana del DSM III R
(Masson, Milano, 1988):

Pagina 4:
 <<DSM-I . La prima edizione del "Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali dell'Associazione Psichiatrica <Americana è apparsa nel
1952. L'uso del termine "reazione" in questa classificazione rifletteva
l'influenza della concezione <psicobiologica di Adolf  Meyer, secondo la
quale i disturbi mentali rappresentano reazioni della personalità a fattori
<psicologici, sociali e biologici.>>
<<DSM-II: Sia il DSM II che l'ICD8 sono entrati in vigore nel 1968.
<La classificazione del DSM II non usava il termine di "REAZIONE" e, ad
eccezione del termine di NEVROSI usava <TERMINI DIAGNOSTICI CHE NELL'INSIEME
NON IMPLICAVANO SCHEMI DI RIFERIMENTO TEORICO <PARTICOLARI PER I DISTURBI
MENTALI "NON <ORGANICI">>

 Pagina 9:
<<Nel DSM-III-R ciascuno dei disturbi mentali è concepito come una SINDROME
O <MODALITA' COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA clinicamente significativa che si

<manifesti in un individuo, o che sia tipicamente associata o con malessere
attuale (sintomi dolorosi), o con menomazione <(alterazione in una o più
importanti aree del funzionamento), o con rischio significativamente
aumentato di andare incontro a <morte, a dolore, a invalidità o a
un'importante "perdita di libertà".>>

Pagina 11:
<<Il DSM III-R PUO' DEFINIRSI "DESCRITTIVO" nel senso che le definizioni dei
disturbi generalmente si limitano alla <descrizione delle caratteristiche
cliniche dei disturbi.
<L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R alla classificazione e
<definizione dei disturbi mentali non implica che le teorie sull'eziologia
dei vari disturbi mentali non siano importanti in altri <contesti.>>

In margine a tali citazioni si possono fare alcune osservazioni a conferma
di quanto già rilevato nei precedenti messaggi e-mail sullo stesso tema:

1) Non solo il DSM è nato con una impostazione "ateoretica", ma ha
accentuato tale sua impostazione con le successive edizioni.
Già nella seconda edizione viene abolito il pur labile inquadramento
epistemologico basato sui "tipi di reazione" secondo l'impostazione
funzionalistica di A.Meyer.

2) E' evidente, dalla definizione che il DSM conferisce al cosiddetto
"disturbo mentale", che il Manuale non è interessato al punto di vista
patogenetico ma a fornire una descrizione puramente empirica dei quadri
clinici.
La stessa descrizione della SINDROME PSICOPATOLOGICA COME UNA "MODALITA
COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA" esclude la possibilità di inquadrarla anche
solo secondo il modello funzionalistico dei "tipi di reazione" secondo
A.Meyer.
Il DSM non nega la possibilità che il problema delle psicogenesi possa
essere importante per "altri contesti", ma esclude che un simile interesse
possa riguardare L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R.

3) Si deve sottolineare, inoltre, che con l'abolizione, da parte del DSM IV,
perfino della categoria del "disturbi mentali organici" (cui si preferisce,
ora, la qualifica più "neutra", dal punto di vista patogenetico, di
"Delirium, demenza e altri disturbi cognitivi) VIENE ANCHE SOPPRESSA OGNI
POSSIBILITA' DI DISTINZIONE TEORETICA TRA PSICOSI "ORGANICHE" (QUALIFICATE,
SOTTO IL PROFILO EPISTEMOLOGICO, DAL METODO DELLA SPIEGAZIONE) E PSICOPATIE
(METODO DELLA COMPRENSIONE).
Pertanto, dal punto di vista epistemologico, viene meno ogni possibilità di
stabilire qualsiasi correlazione tra il DSM IV e la psicopatologia classica.

4) In linea con la sua impostazione "ateoretica"  IL DSM, NEL1980, ABOLISCE
LA CATEGORIA TRADIZIONALE DELLA "DEPRESSIONE NEVROTICA" (alla quale, nella
psicopatologia funzionalistica classica, viene attribuita una prevalente
origine "psicogena" in contrapposizione con le depressioni "psicotiche",
fondabili su basi somatiche, conosciute o sconosciute).
A partire da tale data, le depressioni "nevrotiche" (o "psicopatiche")
vengono omologate sotto l'unica denominazione di "distimia" e "disturbo
distimico"  (DSM III-R e DSM IV) adducendo una presunta utilità clinica, che
però non viene dimostrata.
In realtà, in conformità all'etimologia della parola, il termine di
distimia, nella psicopatologia classica, viene usato per indicare TUTTI i
disturbi dell'umore, della più diversa tipologia. L'"innovazione" arbitraria
(e puramente lessicale) di impiegare il termine di "distimia" limitatamente
alle "depressioni nevrotiche" (terminologia usata dallo stesso DSM sino al
1980)
non trova alcuna giustificazione nè teoretica, nè clinica. Potrebbe però
avere altre giustificazioni, come quella di omologare, in un'unica
indifferenziata categoria pseudonosografica, il vastissimo campo delle
depressioni psicopatiche (che, in realtà, sono molto differenziate dal punto
di vista della psicopatologia comprensiva e della psicoterapia),al fine di
sottoporle a programmi psicofarmacologici standardizzati secondo gli auspici
delle Aziende farmaceutiche. Perfino taluni congressi della Società Italiana
di Psichiatria (come il XXXIX Congresso Nazionale dell'ottobre 1994) si sono
prestati a questi fini di promozione aziendale (v. JAMA, ed. italiana,
dicembre 1994, vol.6, n.9).

Ritengo però che qualche dubbio debba aver sfiorato anche A.A.Rizzoli, dal
momento che, in altri messaggi e-mail, egli si chiede come mai il DSM
rinnovi così frequentemente le sue edizioni e classificazioni.



N.B.: A tutti coloro che fossero veramente interessati al problema del
rapporto tra l'epistemologia della psicopatologia classica e quella del DSM,
verrà inviato a richiesta, via E-mail, il file dell'articolo (già pubblicato
su "Psicoterapia Professionale" del 1994, A. XI) dal titolo " Il manuale
"diagnostico" e "statistico" DSM III-IV: analfabetismo epistemologico,
nichilismo metodologico e insipienza clinico-diagnostica in psicopatologia."



P.S.: A.A.Rizzoli ha citato solo le prime quattro righe del III messaggio
sul tema : DISTIMIA, DSM E DINTORNI. Il testo completo del III messaggio è
il seguente:

DISTIMIA, DSM E DINTORNI  (04/08/2000)

La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è
profonda e sostanziale.
Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto
teorico, definendosi programmaticamente "ateoretico".
Tutta la psicopatologia classica, nelle sue diverse formulazioni, è invece
costituita su ben precisi fondamenti teoretici. Nel caso di Kraepelin (e dei
suoi maestri e seguaci), ad esempio, la
psicopatologia in generale (e quella delle distimie in particolare) è
fondata sui principi epistemologici del riduzionismo strutturalistico e sul
concetto di entità nosografica.
Perciò, per Kraepelin, tutte le forme di distimia, dalle più gravi alle più
leggere, da quelle manifestamente circolari a quelle croniche, sono incluse
nella psicosi maniaco-depressiva, cui viene attribuito un fondamento
patologico somatico specifico (anche se al momento non è conosciuto).
Nella concezione di C.Wernicke e della sua scuola (K.Kleist, K.Leonard,
ecc.) che pure appartengono allo stesso orientamento epistemologico
(riduzionismo strutturalistico) si dovrebbero invece cercare differenti
fondamenti neurobiologici (come patologia neurobiologica e, soprattutto,
come localizzazione cerebrale) in funzione delle differenti caratteristiche
dei quadri clinici.
In questo contesto epistemologico (riduzionismo strutturalistico) è ovvio
che la soluzione del problema clinico delle distimie venga ricercata, in
ogni caso, sul terreno neuropatologico e che, pertanto, il metodo della
spiegazione sia considerato come l'unico legittimo per la ricerca in questo
campo.
La versione integrazionistica della psicopatologia classica .(strutturalismo
fenomenologico secondo K.Jaspers e K.Schneider) condivide la concezione
Kraepeliniana della "malattia" (neurobiologica) maniaco-depressiva solo in
relazione a quelle distimie che si presentano formalmente incomprensibili (e
che K.Schneider definisce, in genere, "psicosi ciclotimiche").
Per quanto riguarda, invece, quelle distimie che risultino formalmente
comprensibili (reazioni depressive o euforiche agli avvenimenti,
personalitàpsicopatiche, ipertimiche o depressive, depressioni o ipertimie
endoreattive, ecc.) la psicopatologia integrazionistica ritiene che si possa
soltanto parlare di tipologie "psicopatiche" (varianti comprensibili
rispetto alla norma) che non comportano valutazioni di ordine "patologico"né
"diagnostico".
Sotto questo profilo epistemologico K.Schneider si esprime in modo molto
esplicito e perentorio:
"LA MALATTIA, IN QUANTO TALE, ESISTE SOLO NELLA SFERA SOMATICA E CHIAMIAMO
"PATOLOGICO" L'ABNORME PSICHICO ALLORQUANDO ESSO E' RICONDUCIBILE A PROCESSI
MORBOSI ORGANICI. DESIGNARE COME PATOLOGICHE, SENZA UN SIMILE FONDAMENTO,
TUTTE LE STRANEZZE PSICHICHE O SOCIALI, HA SOLO IL SIGNIFICATO DI UN QUADRO,
NON HA ALCUN VALORE METODOLOGICO". (Psicopatologia clinica, trad.it., 1954,
pag. 7).
In questo senso, la psicopatologia strutturalistica integrazionistica
(fenomenologica) da un lato, considera sempre valido il concetto di entità
nosografia come categoria autenticamente diagnostica anche se non gli
attribuisce un significato ontologico-naturalistico (come accade in
Kraepelin e in Wernicke) ma soltanto quello di un'idea normativa di tipo
Kantiano (vedi K,Jaspers, "Psicopatologia generale", trad. it., 1959, pag.
612).
Perciò, in questa prospettiva, la depressione "ciclotimica" (secondo
ladefinizione di K.Schneider) è una "vera" malattia (equivalente alla
malattia maniaco-depressiva di Kraepelin).
Dall'altro lato, invece, la psicopatologia strutturalistica
integrazionistica, applicando il metodo della comprensione, inquadra gli
stati psichici "psicopatici" (e, perciò, anche le distimie "psicopatiche")
in funzione dei sentimenti comprensibili della personalità, definiti come
STATI DELL'IO. Per questa via, K.Schneider perviene ad una "patopsicologia"
che trova il suo punto di riferimento nelle teorie del strati timici di
N.Hartmann e di M.Scheler. Secondo lo Schneider, (Psicopatologia
clinica,trad. it., 1954, pag. 154 e 162) "le personalità abnormi sono
caratterizzate dal predominio di alcuni sentimenti psichici: l'ipertimico è
dominato dalla contentezza, il depresso dalla tristezza. Numerosi sentimenti
psichici sono inclinazioni abituali e comportamenti durevoli della
personalità. GLI PSICOPATICI SONO ANZITUTTO DEGLI ABNORMI DEL SENTIMENTO,
SONO DEI "TIMOPATICI".
E' a tutti evidente come questa distinzione epistemologica tra la "psicosi"
(cui di applica il metodo naturalistico della spiegazione) e le "psicopatie"
(cui è specificamente pertinente il metodo della comprensione) è
diimportanza decisiva non solo agli effetti della diagnostica differenziale
ma anche per una giustificazione della psicoterapia sistematica, come teoria
e come prassi.
Anche nella sua versione funzionalistica (K.Bonhöffer, A.Hoche. O.Bumke.,
E.Bleuler, A.Meyer, H.Ey, ecc.) la psicopatologia classica non intende
rinunciare del tutto all'ideale dell'entità nosografica, anche se, per
motivi di ordine pratico, preferisce inquadrare il discorso clinico secondo
i  modelli della "sindrome funzionale" e dei "tipi di reazione".
Occorre però sottolineare che neanche nella psicopatologia funzionalistica
classica tali modelli sono considerati come equivalenti ad autentiche
"diagnosi cliniche" ma soltanto come inquadramenti clinici che, per quanto
meno rigorosi sotto il profilo epistemologico, possono tuttavia presentare
un'utilità pratica ai fini di un ordinamento nosografico basato sui criteri
dell'"adattamento funzionale" all'ambiente naturale e sociale. (Ma anche la
psicopatologia funzionalistica ha i suoi presupposti teoretici nel
neojacksonismo).
Il manuale DSM, viceversa, non solo rifiuta ogni impostazione teoretica
rigorosa, ma nelle sue ultime edizioni, rifiuta perfino il modello
pragmatistico dei "tipi di reazione" (che aveva adottato nelle prime
edizioni) evidentemente giudicandolo troppo "teoretico".
Tuttavia, presumere di risolvere i problemi teoretici della psicopatologia
semplicemente ignorandoli o aggirandoli con espedienti fittizi equivale a
cavarsi gli occhi per vederci meglio.
Sostenere che in psicopatologia clinica il problema della diagnosi possa
risolversi con l'espediente della "diagnosi sindromica" e che di tale
espediente bisogna "accontentarsi" non è molto convincente.
In un caso clinico di paraplegia vogliamo "accontentarci" di una diagnosi
come "disturbo paraplegico" o dobbiamo indagare per verificare se il
disturbo abbia una patogenesi neurologica oppure psicogena?.
Valutazioni cliniche come "paraplegia da sclerosi multipla", "sindrome
paraplegica funzionale in personalità psicopatica", "disturbo paraplegico"
dovrebbero collocarsi su uno stesso piano di rigore diagnostico?
Se la medicina occidentale avesse dovuto "accontentarsi" di "diagnosi" come
"disturbo febbrile" e simili, anche le terapie non sarebbero andate molto
più in là dei clisteri e dei salassi.
Certo, non disponendo di monete d'oro, talvolta ci si deve "accontentare" di
monete di bronzo, ma sostenere che, in assenza di monete d'oro, si debbano
denominare così quelle di bronzo, non equivale ad "accontentarsi", bensì a
qualcosa di peggio, ad una vera e propria mistificazione.
Purtroppo, non posso fare a meno di consigliare nuovamente, per coloro che
siano realmente interessati a questi temi, la consultazione del mio scritto
"Psicopatologia clinica, diagnosi psichiatrica, tipologia delle psicopatie,
teoria della personalità e giustificazione teoretica della psicoterapia, in
un inquadramento dialettico", presente on-line nel sito Internet
http://members.xoom.it/istpsico dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e
la Psicoterapia Sistematica e della Rassegna "Psicoterapia Professionale".

 P.S.: Qualora si verificassero disfunzioni nelle pagine web, l'articolo
sarà inviato via e-mail ai Colleghi che ne faranno richiesta.

 G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
Sistematica  - CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
Internet: http://members.xoom.it/istpsico



In data 05/08/2000 A.A.Rizzoli ha scritto:

>Invito il dott. GIACOMINI,  dopo aver letto le Sue affermazioni:

 

                       >DISTIMIA, DSM E DINTORNI

>La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è profonda e sostanziale.

.......

Il messaggio  di A.A.Rizzoli non è chiaro.

At 7:04 +0100 18-08-2000, Anna Abbiate Fubini wrote:

Se, col suo elenco di ricerche e di ricercatori seguaci del DSM intende comunicarci che molti psichiatri sono oggi concordi con l'impostazione metodologica del DSM, il suo elenco è incompleto. E' generalmente noto, infatti, come non "molti", ma "moltissimi" anzi, la maggioranza degli psichiatri, a livello nazionale e internazionale, si è convertita al DSM e lo adotta come supremo modello per la clinica e per la ricerca


.......


Ciò premesso, non credo di aver asserito nulla di nuovo definendo come "ateoretica" l'impostazione "epistemologica" del DSM. Per rendersi conto di ciò, è sufficiente leggere l'introduzione dello stesso Manuale DSM - III R compilata da R.L.Spitzen, M.D., Chair, Work Group to Revise DSM III e da J.B.Williams DSW Text Editor.



<<Il DSM III-R PUO' DEFINIRSI "DESCRITTIVO" nel senso che le definizioni dei disturbi <generalmente si limitano alla descrizione delle <caratteristiche cliniche dei disturbi.


Anch'io sono fra gli utilizzatori - tutto sommato: entusiasti - dei DSM dei quali conto sul prossimo  - V° - per veder impostato meglio quello che mi sembra l'unico capitolo difettoso cioé proprio quello sui "DISTURRBI DELL'UMORE" : si tratta di ben ottanta pagine in cui si si rincorrono tautologie su tautologie solo lasciando intuire senza menzionare minimamente il "disturbo" principale e fondante che è la perdita del senso del tempo e l'incapacità a vivere VERI rapporti, scambiando invece per rapporto quello che è la propria sensazione interna.


Ma scusate colleghi: vi par poco questo?????

COSA SONO SE NON "SENTIMENTI" immaturi SCAMBIATI PER "RAPPORTI" I SUICIDI ALLARGATI????? o almeno gli affetti "esclusivi", le possessività escludenti così comunque  distruttivi - come se fossero contagiosi - su tutti i circostanti, colleghi, familiari, partners, figli?


Trovo assolutamente corretto e in linea con un approccio - ben teoretico questo! - di RISPETTO per i pazienti quello di cancellare i termini che definiscono i "pazzi" o i "nevrotici" con delle qualifiche personali - come "schizofrenia", "depressione", "isteria" ecc. - puntando invece sul concetto basilare di DISTURBI, il che permette così alla psichiatria di rientrare nel campo delle "normali" discipline della medicina "normale".


Sarà o meno "ateoretica" un'impostazione esplicita che - come mi sembra assolutamente logico - non può implicare né eziologie, né tanto meno terapie; ma, come vi si legge bene tra le righe, quanto vi è puntualizzabile il concetto teoretico - non "depressivo"! questo - di possibile TRANSITORIETA' di quasi ciascuno dei "disturbi" elencati e di Valutazione Globale del Funzionamento temporanea!

Quanto quindi vi si implica un concetto di "curabilità"!


<L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R alla classificazione e

<definizione dei disturbi mentali non implica che le teorie sull'eziologia dei vari disturbi mentali <non siano importanti in altri contesti.>>

......

2) E' evidente, dalla definizione che il DSM conferisce al cosiddetto "disturbo mentale", che il Manuale non è interessato al punto di vista patogenetico ma a fornire una descrizione puramente empirica dei quadri clinici.


Personalmente apprezzo il sostegno professionale che mi offre la consultazione del DSM, ma ne ho  pure una convalida inaspettata dall'apprezzamento ENTUSIASTICO dei pazienti stessi. In molti casi la lettura descrittiva dei "propri disturbi" - classificati pertanto soltanto come "disturbi" e come tali segnalati di larga diffusione -  dà loro un ENORME sollievo: il fatto stesso che siano così in fondo ovvii, il fatto che siano "disturbi" e non qualifiche - squalificanti di "personalità abnormi" - personali, il fatto stesso che siano ampiamente condivisi dà loro una sensazione di conforto, e perfino in alcuni casi (soprattutto nei gravi "disturbi post-traumatici" e talvolta "crisi di panico") risveglia ricordi, o almeno offre nuovi spunti - terapeutici! - di chiarificazione delle idee.


Il DSM non nega la possibilità che il problema delle psicogenesi possa essere importante per "altri contesti", ma esclude che un simile interesse possa riguardare L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R.

.......

Pertanto, dal punto di vista epistemologico, viene meno ogni possibilità di stabilire qualsiasi correlazione tra il DSM IV e la psicopatologia classica.


N.B.: A tutti coloro che fossero veramente interessati al problema del rapporto tra l'epistemologia della psicopatologia classica e quella del DSM, verrà inviato a richiesta, via E-mail, il file dell'articolo (già pubblicato su "Psicoterapia Professionale" del 1994, A. XI) dal titolo " Il manuale "diagnostico" e "statistico" DSM III-IV: analfabetismo epistemologico, nichilismo metodologico e insipienza clinico-diagnostica in psicopatologia."


SONO MOLTO INTERESSATA, guarderò il sito Web, ma non ìpotrei avere anche una copia cartacea?



===================

 "le personalità abnormi sono caratterizzate dal predominio di alcuni sentimenti psichici: l'ipertimico è dominato dalla contentezza, il depresso dalla tristezza. Numerosi sentimenti psichici sono inclinazioni abituali e comportamenti durevoli della personalità. GLI PSICOPATICI SONO ANZITUTTO DEGLI ABNORMI DEL SENTIMENTO, SONO DEI "TIMOPATICI".

Saluti

Anna Abbiate Fubini



In data 05/08/2000 A.A.Rizzoli ha scritto:

>Invito il dott. GIACOMINI,  dopo aver letto le Sue affermazioni:

 

                       >DISTIMIA, DSM E DINTORNI

>La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è profonda e sostanziale.

>Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto teorico, definendosi >programmaticamente "ateoretico".

 

>a leggere i seguenti articoli: (segue un elenco di dieci pubblicazioni in lingua inglese)

 

Risposta:                             DISTIMIA, DSM E DINTORNI  (IV)

 

Il messaggio  di A.A.Rizzoli non è chiaro.

Se, col suo elenco di ricerche e di ricercatori seguaci del DSM intende comunicarci che molti psichiatri sono oggi concordi con l'impostazione metodologica del DSM, il suo elenco è incompleto. E' generalmente noto, infatti, come non "molti", ma "moltissimi" anzi, la maggioranza degli psichiatri, a livello nazionale e internazionale, si è convertita al DSM e lo adotta come supremo modello per la clinica e per la ricerca. In Italia, in particolare, la ricerca non conforme ai canoni DSM non viene neppure considerata valida per le prove concorsuali, per cui chi non è "allineato" non ha speranza di accedere alle docenze universitarie o ai posti apicali nei servizi pubblici, oltre che, s'intende, alle grazie delle Ditte farmaceutiche che forniscono i protocolli (e non solo i protocolli) per le "ricerche".

Se, invece, col suo messaggio, A.A.Rizzoli intendeva informarci che taluni dei ricercatori del suo elenco (o anche fuori elenco) hanno dimostrato che il DSM non è "ateoretico" e che, al contrario, segue un orientamento epistemologico concorde con la psicopatologia classica, gradiremmo che ce li indicasse e che ci riferisse con quali argomenti essi hanno sostenuto una tale tesi.

Occorre tenere presente, in proposito, che il discorso teoretico (o epistemologico) riguarda la verifica preliminare dei concetti e dei metodi impiegati per la ricerca empirica, per cui, qualora concetti e metodi dovessero risultare inadeguati, qualsiasi risultato della ricerca, per quanto "corposo" e corpulento possa essere, non potrebbe, a sua volta, essere considerato appropriato.

 

Ciò premesso, non credo di aver asserito nulla di nuovo definendo come "ateoretica" l'impostazione "epistemologica" del DSM. Per rendersi conto di ciò, è sufficiente leggere l'introduzione dello stesso Manuale DSM - III R compilata da R.L.Spitzen, M.D., Chair, Work Group to Revise DSM III e da J.B.Williams DSW Text Editor.

Mi limito a citare alcuni passi tratti dall'edizione italiana del DSM III R (Masson, Milano, 1988):

 

Pagina 4:

 <<DSM-I . La prima edizione del "Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali <dell'Associazione Psichiatrica Americana è apparsa nel 1952. L'uso del termine "reazione" in questa classificazione <rifletteva l'influenza della concezione psicobiologica di Adolf  Meyer,

<secondo la quale i disturbi mentali rappresentano reazioni della personalità a fattori psicologici, sociali e biologici.>>

<<DSM-II: Sia il DSM II che l'ICD8 sono entrati in vigore nel 1968.

<La classificazione del DSM II non usava il termine di "REAZIONE" e, ad eccezione del termine <di NEVROSI usava TERMINI DIAGNOSTICI CHE NELL'INSIEME NON IMPLICAVANO <SCHEMI DI RIFERIMENTO TEORICO PARTICOLARI PER I DISTURBI MENTALI "NON <ORGANICI">>

 

Pagina 9:

<<Nel DSM-III-R ciascuno dei disturbi mentali è concepito come una SINDROME O <MODALITA' COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA clinicamente significativa che si

<manifesti in un individuo, o che sia tipicamente associata o con malessere attuale (sintomi <dolorosi), o con menomazione (alterazione in una o più importanti aree del funzionamento), o con <rischio significativamente aumentato di andare incontro a morte, a dolore, a invalidità o a

<un'importante "perdita di libertà".>>

 

Pagina 11:

<<Il DSM III-R PUO' DEFINIRSI "DESCRITTIVO" nel senso che le definizioni dei disturbi <generalmente si limitano alla descrizione delle <caratteristiche cliniche dei disturbi.

<L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R alla classificazione e

<definizione dei disturbi mentali non implica che le teorie sull'eziologia dei vari disturbi mentali <non siano importanti in altri contesti.>>

 

In margine a tali citazioni si possono fare alcune osservazioni a conferma di quanto già rilevato nei precedenti messaggi e-mail sullo stesso tema:

 

1) Non solo il DSM è nato con una impostazione "ateoretica", ma ha accentuato tale sua impostazione con le successive edizioni.

Già nella seconda edizione viene abolito il pur labile inquadramento epistemologico basato sui "tipi di reazione" secondo l'impostazione funzionalistica di A.Meyer.

 

2) E' evidente, dalla definizione che il DSM conferisce al cosiddetto "disturbo mentale", che il Manuale non è interessato al punto di vista patogenetico ma a fornire una descrizione puramente empirica dei quadri clinici.

La stessa descrizione della SINDROME PSICOPATOLOGICA COME UNA "MODALITA

COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA" esclude la possibilità di inquadrarla anche solo secondo il modello funzionalistico dei "tipi di reazione" secondo A.Meyer.

Il DSM non nega la possibilità che il problema delle psicogenesi possa essere importante per "altri contesti", ma esclude che un simile interesse possa riguardare L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R.

 

3) Si deve sottolineare, inoltre, che con l'abolizione, da parte del DSM IV, perfino della categoria del "disturbi mentali organici" (cui si preferisce, ora, la qualifica più "neutra", dal punto di vista patogenetico, di "Delirium, demenza e altri disturbi cognitivi) VIENE ANCHE SOPPRESSA OGNI POSSIBILITA' DI DISTINZIONE TEORETICA TRA PSICOSI "ORGANICHE" (QUALIFICATE, SOTTO IL PROFILO EPISTEMOLOGICO, DAL METODO DELLA SPIEGAZIONE) E PSICOPATIE (METODO DELLA COMPRENSIONE).

Pertanto, dal punto di vista epistemologico, viene meno ogni possibilità di stabilire qualsiasi correlazione tra il DSM IV e la psicopatologia classica.

 

4) In linea con la sua impostazione "ateoretica"  IL DSM, NEL1980, ABOLISCE LA CATEGORIA TRADIZIONALE DELLA "DEPRESSIONE NEVROTICA" (alla quale, nella

psicopatologia funzionalistica classica, viene attribuita una prevalente origine "psicogena" in contrapposizione con le depressioni "psicotiche", fondabili su basi somatiche, conosciute o sconosciute).

A partire da tale data, le depressioni "nevrotiche" (o "psicopatiche") vengono omologate sotto l'unica denominazione di "distimia" e "disturbo distimico"  (DSM III-R e DSM IV) adducendo una presunta utilità clinica, che però non viene dimostrata.

In realtà, in conformità all'etimologia della parola, il termine di distimia, nella psicopatologia classica, viene usato per indicare TUTTI i disturbi dell'umore, della più diversa tipologia. L'"innovazione" arbitraria (e puramente lessicale) di impiegare il termine di "distimia" limitatamente alle "depressioni nevrotiche" (terminologia usata dallo stesso DSM sino al 1980)

non trova alcuna giustificazione nè teoretica, nè clinica. Potrebbe però avere altre giustificazioni, come quella di omologare, in un'unica indifferenziata categoria pseudonosografica, il vastissimo campo delle depressioni psicopatiche (che, in realtà, sono molto differenziate dal punto di vista della psicopatologia comprensiva e della psicoterapia),al fine di sottoporle a programmi psicofarmacologici standardizzati secondo gli auspici delle Aziende farmaceutiche. Perfino taluni congressi della Società Italiana di Psichiatria (come il XXXIX Congresso Nazionale dell'ottobre 1994) si sono prestati a questi fini di promozione aziendale (v. JAMA, ed. italiana, dicembre 1994, vol.6, n.9).

Ritengo però che qualche dubbio debba aver sfiorato anche A.A.Rizzoli, dal momento che, in altri messaggi e-mail, egli si chiede come mai il DSM rinnovi così frequentemente le sue edizioni e classificazioni.

 

 

N.B.: A tutti coloro che fossero veramente interessati al problema del rapporto tra l'epistemologia della psicopatologia classica e quella del DSM, verrà inviato a richiesta, via E-mail, il file dell'articolo (già pubblicato su "Psicoterapia Professionale" del 1994, A. XI) dal titolo " Il manuale "diagnostico" e "statistico" DSM III-IV: analfabetismo epistemologico, nichilismo metodologico e insipienza clinico-diagnostica in psicopatologia.”

 

P.S.: A.A.Rizzoli ha citato solo le prime quattro righe del III messaggio sul tema : DISTIMIA, DSM E DINTORNI. Il testo completo del III messaggio è il seguente:

 

DISTIMIA, DSM E DINTORNI  (04/08/2000)

 

La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è profonda e sostanziale.

Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto teorico, definendosi programmaticamente "ateoretico".

Tutta la psicopatologia classica, nelle sue diverse formulazioni, è invece costituita su ben precisi fondamenti teoretici. Nel caso di Kraepelin (e dei suoi maestri e seguaci), ad esempio, la

psicopatologia in generale (e quella delle distimie in particolare) è fondata sui principi epistemologici del riduzionismo strutturalistico e sul concetto di entità nosografica.

Perciò, per Kraepelin, tutte le forme di distimia, dalle più gravi alle più leggere, da quelle manifestamente circolari a quelle croniche, sono incluse nella psicosi maniaco-depressiva, cui viene attribuito un fondamento patologico somatico specifico (anche se al momento non è conosciuto).

Nella concezione di C.Wernicke e della sua scuola (K.Kleist, K.Leonard, ecc.) che pure appartengono allo stesso orientamento epistemologico (riduzionismo strutturalistico) si dovrebbero invece cercare differenti fondamenti neurobiologici (come patologia neurobiologica e, soprattutto,

come localizzazione cerebrale) in funzione delle differenti caratteristiche dei quadri clinici.

In questo contesto epistemologico (riduzionismo strutturalistico) è ovvio che la soluzione del problema clinico delle distimie venga ricercata, in ogni caso, sul terreno neuropatologico e che, pertanto, il metodo della spiegazione sia considerato come l'unico legittimo per la ricerca in questo

campo.

La versione integrazionistica della psicopatologia classica .(strutturalismo fenomenologico secondo K.Jaspers e K.Schneider) condivide la concezione Kraepeliniana della "malattia" (neurobiologica) maniaco-depressiva solo in relazione a quelle distimie che si presentano formalmente incomprensibili (e che K.Schneider definisce, in genere, "psicosi ciclotimiche").

Per quanto riguarda, invece, quelle distimie che risultino formalmente comprensibili (reazioni depressive o euforiche agli avvenimenti, personalitàpsicopatiche, ipertimiche o depressive, depressioni o ipertimie endoreattive, ecc.) la psicopatologia integrazionistica ritiene che si possa

soltanto parlare di tipologie "psicopatiche" (varianti comprensibili rispetto alla norma) che non comportano valutazioni di ordine "patologico"né "diagnostico".

Sotto questo profilo epistemologico K.Schneider si esprime in modo molto esplicito e perentorio:

"LA MALATTIA, IN QUANTO TALE, ESISTE SOLO NELLA SFERA SOMATICA E CHIAMIAMO "PATOLOGICO" L'ABNORME PSICHICO ALLORQUANDO ESSO E' RICONDUCIBILE A PROCESSI MORBOSI ORGANICI. DESIGNARE COME PATOLOGICHE, SENZA UN SIMILE FONDAMENTO, TUTTE LE STRANEZZE PSICHICHE O SOCIALI, HA SOLO IL SIGNIFICATO DI UN QUADRO, NON HA ALCUN VALORE METODOLOGICO". (Psicopatologia clinica, trad.it., 1954, pag. 7).

In questo senso, la psicopatologia strutturalistica integrazionistica (fenomenologica) da un lato, considera sempre valido il concetto di entità nosografia come categoria autenticamente diagnostica anche se non gli attribuisce un significato ontologico-naturalistico (come accade in Kraepelin e in Wernicke) ma soltanto quello di un'idea normativa di tipo Kantiano (vedi K,Jaspers, "Psicopatologia generale", trad. it., 1959, pag. 612).

Perciò, in questa prospettiva, la depressione "ciclotimica" (secondo ladefinizione di K.Schneider) è una "vera" malattia (equivalente alla malattia maniaco-depressiva di Kraepelin).

Dall'altro lato, invece, la psicopatologia strutturalistica integrazionistica, applicando il metodo della comprensione, inquadra gli stati psichici "psicopatici" (e, perciò, anche le distimie "psicopatiche")

in funzione dei sentimenti comprensibili della personalità, definiti come STATI DELL'IO. Per questa via, K.Schneider perviene ad una "patopsicologia" che trova il suo punto di riferimento nelle teorie del strati timici di N.Hartmann e di M.Scheler. Secondo lo Schneider, (Psicopatologia

clinica,trad. it., 1954, pag. 154 e 162) "le personalità abnormi sono caratterizzate dal predominio di alcuni sentimenti psichici: l'ipertimico è dominato dalla contentezza, il depresso dalla tristezza. Numerosi sentimenti psichici sono inclinazioni abituali e comportamenti durevoli della

personalità. GLI PSICOPATICI SONO ANZITUTTO DEGLI ABNORMI DEL SENTIMENTO,

SONO DEI "TIMOPATICI".

E' a tutti evidente come questa distinzione epistemologica tra la "psicosi" (cui di applica il metodo naturalistico della spiegazione) e le "psicopatie" (cui è specificamente pertinente il metodo della comprensione) è diimportanza decisiva non solo agli effetti della diagnostica differenziale ma

anche per una giustificazione della psicoterapia sistematica, come teoria e come prassi.

Anche nella sua versione funzionalistica (K.Bonhöffer, A.Hoche. O.Bumke., E.Bleuler, A.Meyer, H.Ey, ecc.) la psicopatologia classica non intende rinunciare del tutto all'ideale dell'entità nosografica, anche se, per motivi di ordine pratico, preferisce inquadrare il discorso clinico secondo

I modelli della "sindrome funzionale" e dei "tipi di reazione".

Occorre però sottolineare che neanche nella psicopatologia funzionalistica classica tali modelli sono considerati come equivalenti ad autentiche "diagnosi cliniche" ma soltanto come inquadramenti clinici che, per quanto meno rigorosi sotto il profilo epistemologico, possono tuttavia presentare un'

utilità pratica ai fini di un ordinamento nosografico basato sui criteri dell'"adattamento funzionale" all'ambiente naturale e sociale. (Ma anche la psicopatologia funzionalistica ha i suoi presupposti teoretici nel neojacksonismo).

Il manuale DSM, viceversa, non solo rifiuta ogni impostazione teoretica rigorosa, ma nelle sue ultime edizioni, rifiuta perfino il modello pragmatistico dei "tipi di reazione" (che aveva adottato nelle primeedizioni) evidentemente giudicandolo troppo "teoretico".

Tuttavia, presumere di risolvere i problemi teoretici della psicopatologia semplicemente ignorandoli o aggirandoli con espedienti fittizi equivale a cavarsi gli occhi per vederci meglio.

Sostenere che in psicopatologia clinica il problema della diagnosi possa risolversi con l'espediente della "diagnosi sindromica" e che di tale espediente bisogna "accontentarsi" non è molto convincente.

In un caso clinico di paraplegia vogliamo "accontentarci" di una diagnosi come "disturbo paraplegico" o dobbiamo indagare per verificare se il disturbo Valutazioni cliniche come "paraplegia da sclerosi multipla", "sindrome paraplegica funzionale in personalità psicopatica", "disturbo paraplegico" dovrebbero collocarsi su uno stesso piano di rigore diagnostico?

Se la medicina occidentale avesse dovuto "accontentarsi" di "diagnosi" come "disturbo febbrile" e simili, anche le terapie non sarebbero andate molto più in là dei clisteri e dei salassi.

Certo, non disponendo di monete d'oro, talvolta ci si deve "accontentare" di monete di bronzo, ma sostenere che, in assenza di monete d'oro, si debbano denominare così quelle di bronzo, non equivale ad "accontentarsi", bensì a qualcosa di peggio, ad una vera e propria mistificazione.

Purtroppo, non posso fare a meno di consigliare nuovamente, per coloro che siano realmente interessati a questi temi, la consultazione del mio scritto "Psicopatologia clinica, diagnosi psichiatrica, tipologia delle psicopatie, teoria della personalità e giustificazione teoretica della psicoterapia, in un inquadramento dialettico", presente on-line nel sito Internet http://members.xoom.it/istpsico dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia Sistematica e della Rassegna "Psicoterapia Professionale".

 

P.S.: Qualora si verificassero disfunzioni nelle pagine web, l'articolo sarà

inviato via e-mail ai Colleghi che ne faranno richiesta.

 

G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta

Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia

Sistematica  - CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica

Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"

16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5

Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it

Internet: http://members.xoom.it/istpsico

 

Spesso negli iniziali deficit cognitivi v'è associato un elemento
depressivo (e, di converso, spesso nei  depressi si evidenziano deficit
cognitivi).
F. M. Reischies e P. Neu hanno studiato un centinaio di depressi ed
hanno trovato dei deficit cognitivi, deficit che non ritornavano alla
norma dopo la scomparsa dei sintomi depressivi (contrariamente a quanto
sin'ora affermato in letteratura).
Non vi era correlazione tra  durata della malattia ed i deficit
cognitivi. Se ne deduce che la depressione  non ha una grande influenza
sui sintomi cognitivi  (ricordo che anni addietro nelle demenze iniziali
si somministravano anche TCA!) e che spesso nei depressi vi sono
elementi di
deterioramento cognitivo.

***Commento : Purtroppo il riassunto, qui allegato, non porta l'ETA'
media dei pazienti.


European Archives of Psychiatry and Clinical  Neurosciences

              Abstract Volume 250 Issue 4 (2000) pp 186-193

       Comorbidity of mild cognitive disorder and
       depression - a neuropsychological analysis

       F. M. Reischies, P. Neu

       Psychiatrische Klinik der Freien Universität Berlin, Eschenallee
3, D-14050 Berlin,
       Germany, e-mail: reischie@zedat.fu-berlin.de

       Received: 4 August 1999 / Accepted: 10 April 2000

       Abstract Mild cognitive impairment is found in many cases of
depression, and it is mostly
       assumed to improve during the time course of depression
remission.

       Recent data question the reversibility of low cognitive test
performance in depression. The
       aim of this study is to determine the degree of reversibility and
the proportion of patients
       who will not demonstrate reversibility of cognitive dysfunction.

       Consecutive inpatients suffering from depression (N=102) were
investigated and N=82
       matched control subjects. N=57 of the patients were diagnosed as
major depression
       according to DSM-IV. A total of N=67 could be retested after
remission of depression
       (N=32 of the patients with major depression) and a matched
control group (N=62).
       Neuropsychological tests were applied in a test session which
avoids the effects of fatigue in
       the patients by the short duration of strenuous tests.

       For most neuropsychological tests an impaired performance in the
depressed patients was
       found. About one third of the depression subjects performed in an
impaired level in tests of
       averbal memory and verbal fluency (below 5th percentile). In the
follow-up investigation, a
       slight improvement in performance could be assessed for both the
depression and the
       control group, which was, however, attributed to a general test
training effect. No
       normalization of cognitive test performance was found in spite of
complete recovery of the
       affective symptoms. No correlation between the duration of the
disease before the index
       episode or number of episodes and cognitive deficits could be
found.

       The data of the neuropsychological deficits of depressed
patients, which are stable in the
       time course of the affective disorder, may indicate that these
patients may suffer from
       comorbidity of both depression and mild cognitive disorder. The
findings are discussed as
       1) indicating only a minor impact of the depressed mood on the
cognitive performance and
       2) they are consistent with a role of brain lesions which have
been reported in several
       studies in a subgroup of depression.


DISTIMIA, DSM E DINTORNI

Alcuni recenti interventi (A.A.Rizzoli, G.Esposito) hanno fatto riferimento
al problema delle distimie. In realtà, al giorno d'oggi, il primo problema è
costituito dall'intento del manuale DSM di imporre la "distimia" come una
vera e propria "diagnosi" psichiatrica, pur rifiutando il concetto di
"entità nosografica" della psicopatologia classica.
Secondo la prospettiva sostenuta dal DSM, la "distimia" dovrebbe
rappresentare una sorta di depressione "minore", distinta dalla cosiddetta
depressione maggiore" o ciclotimia.
Nella psicopatologia classica, in realtà, la distimia è concepita, in
generale, come un disturbo dell'umore sintomatico che, qualora presenti
caratteristiche "ciclotimiche" può legittimare il sospetto diagnostico di
una vera e propria malattia cerebrale; quando, invece, si presenti con
tipologie meno gravi e riferibili ad avvenimenti vissuti (Erlebnisse) o a
caratteristiche conflittuali della personalità, viene definita come
"psicopatica", "reattiva", "nevrotica", ecc.
Com'è noto, la psicopatologia classica si riproponeva, giustamente, di
introdurre nella clinica psichiatrica e perciò anche nel vastissimo campo
dei quadri "distimici", i ben noti criteri diagnostici differenziali della
comprensione ("Verstehen") e della spiegazione ("Erklären").
In base a questi criteri, distingueva tra due classi di distimie: le une
"ciclotimiche", diagnosticabili come "psicotiche" (in quanto formalmente
"incomprensibili" e, pertanto, "spiegabili" solo ipotizzando la presenza di
una malattia cerebrale); le altre, semplicemente "psicopatiche" (in quanto
formalmente "comprensibili" in funzione degli avvenimenti vissuti e dalle
caratteristiche conflittuali della personalità.
Questa distinzione della psicopatologia classica è di fondamentale
importanza sotto ogni profilo (ricerca, concettualizzazione teoretica,
diagnosi, terapia), perché è ovvio che, qualora il quadro "distimico"
osservabile clinicamente sia considerato riferibile ad una patologia
cerebrale, esso, dal punto di vista metodologico, deve essere inquadrato nei
termini di una psicopatologia neuropatologica (e del metodo della
"spiegazione" causale naturalistica); viceversa, qualora non sia ritenuto
derivabile da patologie neurobiologiche significative, sarà di pertinenza
della psicopatologia comprensiva e della psicoterapia sistematica
(personologica).
Tale fondamentale differenziazione diagnostica della psicopatologia classica
è stata ignorata, soprattutto negli ultimi decenni, dalla psichiatria
accademica nostrana, con l'adozione indiscriminata e acritica del manuale
DSM, tanto nella clinica, come nella cosiddetta "ricerca".
La principale caratteristica del DSM risulta quella di definire
arbitrariamente come "diagnosi" i più disparati complessi sintomatici
psicopatologici (o sindromi psicopatologiche) senza alcuna preoccupazione
per la diagnostica differenziale tra neuropatogenesi (psicopatologia della
spiegazione) e psicogenesi (psicopatologia della comprensione).
In realtà, l'unica preoccupazione del DSM sembra essere quella di fornire,
sbrigativamente, una lista standardizzata di complessi psicopatologici
"sintomatici" (definiti impropriamente come "diagnosi") idonei per la
ricettazione, altrettanto standardizzata, di determinate categorie di
psicofarmaci (secondo gli auspici delle ditte farmaceutiche produttrici).
In tal modo, alle "diagnosi computerizzate" fanno riscontro le terapie
psicofarmacologiche, a loro volta computerizzate.
In psichiatria, psicopatologia e psicoterapia, è necessario, oggi,
riprendere e sviluppare il discorso già avviato dalla psicopatologia
classica (K.Jaspers, K.Schneider, E.Bleuler, ecc.), se si vuole porre un
freno all'attuale degrado della clinica psichiatrica e al progressivo
imbarbarimento della cultura psicopatologica.


G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
Sistematica
CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
Internet: http://members.xoom.it/istpsico


Durante i cinque anni dell'osservazione solo il 35-30 % dei pazienti
distimici aveva ricevuto un trattamento farmacologico adeguato. Ma non è
possibile chiarire se questa percentuale fosse dovuta ad un nucleo
compatto di pazienti che prendevano i farmaci oppure fosse una percentuale
"dinamica"
(pazienti che smettevano di prendere i farmaci venivano sostituiti da altri
che iniziavano
a prendere i farmaci).

Molti pazienti avevano anche un trattamento psicoterapico mono o
bisettimanale : ma con l'andar del tempo
la frequenza del trattamento psicoterapico diminuì. Come da referenza
interna nella pubblicazione
si tratta di una psicoterapia d'appoggio della durata, in più della metà dei
casi, di meno di mezz'ora.
Nulla viene detto sulla tecnica scelta.Del pari nulla viene detto sui
farmaci erogati limitandosi in
ambedue i casi a definire come adatto o non adatto (su una scala da 0 a 3)
sia il trattamento farmacologico che quello psicoterapico

L'importanza di questo studio naturalistico durato cinque anni è che ci dice
che il 73.7% dei distimici
nel corso di 5 anni - non avendo MAI - avuto un Episodio Depressivo Maggiore
in vita loro, ebbe un
Episodio Depressivo Maggiore., la Depressione Doppia, come già detto.

E' interessante notare che i pazienti con Disturbo Distimico ebbero
un'attenzione terapeutica MAGGIORE di quelli con Episodio Depressivo Maggiore.

I Tentativi di suicidio furono 19 %  e i ricoveri in Ospedale 22.4% Alla
fine dello stuido erano ancora in trattamento il 50% dei pazienti.

Sarebbe interessante replicare lo studio in Italia.

AAR




Giuseppe Messina ha scritto:
>Condivido in pieno quanto da te affermato sul disturbo distimico. Nel nostro
>CSM, nell'ambito di un programma di incontri con i medici di famiglia che
>operano nel distretto di Reggio Calabria, abbiamo dibattuto a lungo il
>problema della distimia.
>Si è evidenziato soprattutto
>1) che la ricaduta del disturbo è certamente sottostimata
>2) che determina disagio personale e lavorativo decisamente elevati
>3) che spesso il medico di famiglia ne affronta gli aspetti sintomatologici
>in modo empirico senza porsi il problema della diagnosi
>4) che la percentuali di questi pazienti che viene inviata a un centro di
>salute mentale è molto bassa
>Per quanto riguarda "l'integrazione con la psicoterapia" segnalata da
>Esposito non ho ben compreso se si tratta di un sostegno psicoterapico alla
>terapia farmacologica o di un protocollo originale di tipo psicoterapico
>integrato. In quest'ultimo caso mi piacerebbe conoscerne i particolari.
>

Antonio A.Rizzoli aveva scritto

>> Il Disturbo Distimico
>>
>> Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi,  esso è  spesso
>l'araldo
>> di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione
>Doppia".
>>
>> Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
>> "normali"  e dal 22-al 36 %
>> dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
>> sua storia naturale.
>>
>> Uno studio pubblicato sul numero
>> di Giugno  dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni)
>del 53%.
>> Sono elevate le possibilità di ricaduta.
>> (Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
>>
>>
>> L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
>> prospettiva
>> preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti
>non
>> specialistici
>> (anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai
>MDMG
>> una serie
>> di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
>>
>> Attendo Vostre osservazioni.
>>
>> AAR
>>
>>
>>
>> --------------------------------------------------------------------------
>------
>>
>> Article
>>
>> Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
>> Naturalistic Follow-Up Study
>> Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
>> Julie B. Leader, Ph.D.
>>
>>
>> OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
>> disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
>> disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal
>follow-up
>> study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
>> outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
>> 30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
>> Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton
>Rating
>> Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
>> dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
>> risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
>> Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
>> period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
>> the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
>> greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly
>more
>> likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
>> episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
>> disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
>> into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
>> depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
>> condition with a protracted course and a high risk of relapse. In
>addition,
>> almost all patients with dysthymic disorder eventually develop
>superimposed
>> major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend
>to
>> show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
>> condition is severe.
>>
>>
>>
>>
>> Antonio Augusto Rizzoli
>> Venezia
>> 041-5209496
>>
>
>
>
Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496

Condivido in pieno quanto da te affermato sul disturbo distimico. Nel nostro
CSM, nell'ambito di un programma di incontri con i medici di famiglia che
operano nel distretto di Reggio Calabria, abbiamo dibattuto a lungo il
problema della distimia.
Si è evidenziato soprattutto
1) che la ricaduta del disturbo è certamente sottostimata
2) che determina disagio personale e lavorativo decisamente elevati
3) che spesso il medico di famiglia ne affronta gli aspetti sintomatologici
in modo empirico senza porsi il problema della diagnosi
4) che la percentuali di questi pazienti che viene inviata a un centro di
salute mentale è molto bassa
Per quanto riguarda "l'integrazione con la psicoterapia" segnalata da
Esposito non ho ben compreso se si tratta di un sostegno psicoterapico alla
terapia farmacologica o di un protocollo originale di tipo psicoterapico
integrato. In quest'ultimo caso mi piacerebbe conoscerne i particolari.

Giuseppe Messina

-----Messaggio Originale-----
Da: Antonio Augusto Rizzoli <aa.rizzoli@ve.nettuno.it>
A: <psic-ita@psichiatria.unige.it>
Data invio: sabato 24 giugno 2000 15.22
Oggetto: [PSIC-ITA #3034] Il Disturbo Distimico


> Il Disturbo Distimico
>
> Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi,  esso è  spesso
l'araldo
> di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione
Doppia".
>
> Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
> "normali"  e dal 22-al 36 %
> dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
> sua storia naturale.
>
> Uno studio pubblicato sul numero
> di Giugno  dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni)
del 53%.
> Sono elevate le possibilità di ricaduta.
> (Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
>
>
> L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
> prospettiva
> preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti
non
> specialistici
> (anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai
MDMG
> una serie
> di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
>
> Attendo Vostre osservazioni.
>
> AAR
>
>
>
> --------------------------------------------------------------------------
------
>
> Article
>
> Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
> Naturalistic Follow-Up Study
> Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
> Julie B. Leader, Ph.D.
>
>
> OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
> disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
> disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal
follow-up
> study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
> outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
> 30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
> Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton
Rating
> Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
> dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
> risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
> Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
> period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
> the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
> greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly
more
> likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
> episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
> disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
> into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
> depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
> condition with a protracted course and a high risk of relapse. In
addition,
> almost all patients with dysthymic disorder eventually develop
superimposed
> major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend
to
> show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
> condition is severe.
>
>
>
>
> Antonio Augusto Rizzoli
> Venezia
> 041-5209496
>
Antonio Augusto Rizzoli wrote:
>
> Il Disturbo Distimico
>
> Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi,  esso è  spesso l'araldo
> di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione Doppia".
>
> Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
> "normali"  e dal 22-al 36 %
> dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
> sua storia naturale.
>
> Uno studio pubblicato sul numero
> di Giugno  dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni) del 53%.
> Sono elevate le possibilità di ricaduta.
> (Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
>
> L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
> prospettiva
> preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti  non
> specialistici
> (anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai MDMG
> una serie
> di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
>
> Attendo Vostre osservazioni.


Nella mia esperienza (non ho dati evidence based sottomano)
l'integrazione con la psicoterapia da risultati di guarigione
sensibilmente superiori rispetto al solo trattamento farmacologico.
Naturalmente, considerato l'andamento cronico remittente del disturbo,
la sua relativa gravita'rispetto al disturbo depressivo maggiore, si
spiega come mai questi pazienti finiscono dal medico di famiglia o dagli
internisti.

passo...


>
> AAR
>
> --------------------------------------------------------------------------------
>
> Article
>
> Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
> Naturalistic Follow-Up Study
> Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
> Julie B. Leader, Ph.D.
>
> OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
> disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
> disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal follow-up
> study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
> outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
> 30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
> Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton Rating
> Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
> dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
> risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
> Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
> period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
> the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
> greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly more
> likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
> episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
> disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
> into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
> depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
> condition with a protracted course and a high risk of relapse. In addition,
> almost all patients with dysthymic disorder eventually develop superimposed
> major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend to
> show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
> condition is severe.
>
> Antonio Augusto Rizzoli
> Venezia
> 041-5209496


--

                         Gennaro Esposito

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                        Dr.GENNARO ESPOSITO
        Specialista in Neurologia - Psicoterapeuta legittimato
   Medico formato in M.G. CEE - Medico fiscale INPS - Counselor online
   SAVIANO (NAPOLI),via Molino,6 - 80039 - telefono e fax: 081-5113481
                      "mailto:genesp@fastcom.it"
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Il Disturbo Distimico

Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi,  esso è  spesso l'araldo
di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione Doppia".

Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
"normali"  e dal 22-al 36 %
dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
sua storia naturale.

Uno studio pubblicato sul numero
di Giugno  dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni) del 53%.
Sono elevate le possibilità di ricaduta.
(Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)


L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
prospettiva
preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti  non
specialistici
(anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai MDMG
una serie
di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).

Attendo Vostre osservazioni.

AAR



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Article

Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
Naturalistic Follow-Up Study
Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
Julie B. Leader, Ph.D.


OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal follow-up
study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton Rating
Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly more
likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
condition with a protracted course and a high risk of relapse. In addition,
almost all patients with dysthymic disorder eventually develop superimposed
major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend to
show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
condition is severe.




Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496

Grazie!!
Mi informo subito per dove posso e come posso far reperire il materiale.
Se tu hai i libri, non potresti mandarmi qualche immagine (se esiste) per
fax?
Così vedo se può essermi utile.

Per ciò che concerne il tuo interesse sulla scrittura ed apprendimento dimmi
cosa ti serve nello specifico ed io ti darò una mano.
Grazie per la tua disponibilità
Ciao Marisa


-----Messaggio Originale-----
Da: Luisa Di Sarno <luisaok@libero.it>
A: <psiconline-it@egroups.com>
Data invio: martedì 6 giugno 2000 21.37
Oggetto: Re: [psiconline-it] materiale sul suicidio


> Ciao,  sono Luisa, non sono di sicuro un' esperta, ma mi viene  subito in
> mente il caso di Michedstedter (si scrive così?) un filosofo che all'
inizio
> del secolo si è suicidato  dopo aver spedito la sua tesi in filosofia "La
> persuasione e la rettorica". E' famoso anche perchè commentava i testi che
> leggeva nella lingua originale ( quelli in greco antico in greco
antico...).
> A Gorizia, credo, c'è un museo che raccoglie anche i suoi disegni. All'
> inizio del secolo molti filosofi si sono suicidati (che ne è stato di
> Godell?). So che un esperto di Michestedter è Giorgio Brianese, un
> ricercatore della facoltà di filosofia di Venezia che si è laureato con E.
> Severino (il cui fratello, nello stesso periodo si è suicidato). Non so se
> ti posso essere stata di aiuto, ma io cercherei nella filosofia e nella
> letteratura di inizio secolo. Ad esempio una nobildonna, amante di
> D'Annunzio, si suicidò: il poeta ne ricavò un diario "Solus ad Solam"
> (l'edizione mondadori racconta con dettaglio i fatti)
> Saluti e in bocca al lupo per il tuo convegno.
> P.S.: io mi interesso di scrittura ed apprendimento, se hai qualche
> indicazione iteressante fammelo sapere se ti capita! :o))
> ----- Original Message -----
> From: "marisa" <aloia@dada.it>
> To: <psiconline-it@egroups.com>
> Sent: Tuesday, June 06, 2000 5:46 PM
> Subject: [psiconline-it] materiale sul suicidio
>
>
> Salve, sono Marisa, una psicologa con specializzazione in Psicodiagnosi
> grafica, dal disegno alla scrittura.
> Sto preparando un intervento per un convegno, dove vorrei analizzare le
> motivazioni che spingono al suicidio, ma in particolare mi interesserebbe
> reperire materiale circa persone che si sono tolte la vita, ma che hanno
> lasciato o un disegno o uno scritto.
> Il titolo dell'intervento è: "l'ultimo tratto" dove per trattoi si intende
> anche l'analisi del tratto grafico lasciato dalla penna sulla carta.
> Al microscopio il tratto assume connotazioni diverse ma costanti per ogni
> persona al di là dello strumento usato.
> In prtaica queste variazioni dipendono dal movimento di ritazione del
polso
> e dal tipo di prensione del mezzo scrivente.
>
> So che la richesta è forse un pò insolita, ma proprio per queste
motivazioni
> non riesco a trovare molto materiale, neppure come bibliografia.
> Qualcuno può aiutarmi?
> Grazie Marisa
>
>
> [Non-text portions of this message have been removed]
>
>
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Ciao,  sono Luisa, non sono di sicuro un' esperta, ma mi viene  subito in
mente il caso di Michedstedter (si scrive così?) un filosofo che all' inizio
del secolo si è suicidato  dopo aver spedito la sua tesi in filosofia "La
persuasione e la rettorica". E' famoso anche perchè commentava i testi che
leggeva nella lingua originale ( quelli in greco antico in greco antico...).
A Gorizia, credo, c'è un museo che raccoglie anche i suoi disegni. All'
inizio del secolo molti filosofi si sono suicidati (che ne è stato di
Godell?). So che un esperto di Michestedter è Giorgio Brianese, un
ricercatore della facoltà di filosofia di Venezia che si è laureato con E.
Severino (il cui fratello, nello stesso periodo si è suicidato). Non so se
ti posso essere stata di aiuto, ma io cercherei nella filosofia e nella
letteratura di inizio secolo. Ad esempio una nobildonna, amante di
D'Annunzio, si suicidò: il poeta ne ricavò un diario "Solus ad Solam"
(l'edizione mondadori racconta con dettaglio i fatti)
Saluti e in bocca al lupo per il tuo convegno.
P.S.: io mi interesso di scrittura ed apprendimento, se hai qualche
indicazione iteressante fammelo sapere se ti capita! :o))
----- Original Message -----
From: "marisa" <aloia@dada.it>
To: <psiconline-it@egroups.com>
Sent: Tuesday, June 06, 2000 5:46 PM
Subject: [psiconline-it] materiale sul suicidio


Salve, sono Marisa, una psicologa con specializzazione in Psicodiagnosi
grafica, dal disegno alla scrittura.
Sto preparando un intervento per un convegno, dove vorrei analizzare le
motivazioni che spingono al suicidio, ma in particolare mi interesserebbe
reperire materiale circa persone che si sono tolte la vita, ma che hanno
lasciato o un disegno o uno scritto.
Il titolo dell'intervento è: "l'ultimo tratto" dove per trattoi si intende
anche l'analisi del tratto grafico lasciato dalla penna sulla carta.
Al microscopio il tratto assume connotazioni diverse ma costanti per ogni
persona al di là dello strumento usato.
In prtaica queste variazioni dipendono dal movimento di ritazione del polso
e dal tipo di prensione del mezzo scrivente.

So che la richesta è forse un pò insolita, ma proprio per queste motivazioni
non riesco a trovare molto materiale, neppure come bibliografia.
Qualcuno può aiutarmi?
Grazie Marisa


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Salve, sono Marisa, una psicologa con specializzazione in Psicodiagnosi grafica, dal disegno alla scrittura.
Sto preparando un intervento per un convegno, dove vorrei analizzare le motivazioni che spingono al suicidio, ma in particolare mi interesserebbe reperire materiale circa persone che si sono tolte la vita, ma che hanno lasciato o un disegno o uno scritto.
Il titolo dell'intervento è: "l'ultimo tratto" dove per trattoi si intende anche l'analisi del tratto grafico lasciato dalla penna sulla carta.
Al microscopio il tratto assume connotazioni diverse ma costanti per ogni persona al di là dello strumento usato.
In prtaica queste variazioni dipendono dal movimento di ritazione del polso e dal tipo di prensione del mezzo scrivente.

So che la richesta è forse un pò insolita, ma proprio per queste motivazioni non riesco a trovare molto materiale, neppure come bibliografia.
Qualcuno può aiutarmi?
Grazie Marisa


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Dal 1976 si sa che la serotonina è diminuita nel liquor c.s. dei suicidi.

Con l'aiuto della PET  si è visto che la serotonina è  globalmente diminuita
nella corteccia frontale Si tratta di un'area che viene considerata come "la
cintura di sicurezza
emotiva".

Un uso allargato della PET nei pazienti a rischio di suicidio potrebbe
rivelarsi  non solo utile,
ma predittiva delle potenzialità di suicidio stesso.

 

 

Linguaggio, psicoanalisi ed arte (Language, psychoanalysis and art)

 

Cari Amici della Lista,
riprendendo l'interessante intervento del gentile collega Simone, vorrei
sottolineare come l'ambito al quale egli fa riferimento sia in effetti
quello dell'Arteterapia (poiesiterapia ed iconoterapia), a me
particolarmente caro!
Già Hugo diceva, nel 1834, "Jusqu'à quel point le chant appartient à la
voix, et la poésie au poète?". In una parola, una psicoanalisi dell'arte è
senz'altro possibile, purché non si cada nell'ingenuità di considerare l'
opera d'arte come le risposte del paziente sul lettino dello psicoanalista:
non bisogna mai dimenticare - e ciò vale specialmente per l'arte classica
greco-latina - quali e quanto grandi siano le convenzioni e le tecniche
letterarie con cui l'artista è in un modo o nell'altro costretto a fare i
conti, insomma la letterarietà dell'opera d'arte. Il principio di
tensione/distensione, ad esempio, viene felicemente a inquadrarsi nel
contrasto di Eros e Thanatos e nel conseguente «disagio della civiltà» di
freudiana memoria. Si può stabilire questo triplice parallelo (che riprendo
nel mio libro, in corso di stampa presso gli Istituti Editoriali e
Poligrafici Internazionali, Le "muse bendate": la poesia del '900 contro la
modernità) : Super-Io > convenzioni e tecniche letterarie; Io > opera in
quante identificantesi pareysonianamente con l'artista; Es > pulsioni
istintuali dell'artista. Fónagy individua nella «situazione edipica il
focolaio primitivo e naturale» del chiasmo e della struttura ternaria che è
alla base di molte pièce: dimentica però di rilevare la classica
tripartizione contrastiva dei movimenti di molte composizioni musicali
(allegro-largo-allegro è il typos fondamentale). Del resto, il 3 è come il 7
un numero magico in tutto il Mediterraneo antico (si pensi anche alla
configurazione ternaria di molte divinità).
Come dice Flavio Manieri, "Le nevrosi del genio, cioè le aliquote di nevrosi
che vi troviamo onnipresenti, sarebbero, secondo quanto abbiamo detto,
direttamente collegate al residuo di tendenza parziale che questi non è
riuscito a sublimare (come soddisfazioni sostitutive di compromesso
realizzate attraverso la sintomatologia morbosa); ed appunto, a loro volta,
le idiosincrasie, che spesso troviamo riguardare il suo lavoro, al
riassorbimento di un'altra porzione di tendenza parziale nel meccanismo
delle formazioni reattive". Fondamentali sono anche le parole del grande (mi
sia qui consentito l'omaggio) Luigi Pareyson in quella che potremmo chiamare
"estetica dell'equilibrio": "fra la spiritualità dell'artista e il suo modo
di formare c'è addirittura identità, e così la stessa materia formata è di
per sé contenuto espresso. [...] Spiritualità e modo di formare, cioè
umanità e stile s'identificano: nell'attività artistica esprimere e fare,
dire e produrre sono la stessa cosa." E più avanti lo stesso estetologo
aggiunge: "E se nell'operare artistico la persona dell'artista è diventata
essa stessa il suo proprio e insostituibile modo di formare, e se l'arte non
ha altro contenuto che la persona stessa che ne è energia formante, si può
ben dire che l'opera cui mette capo il processo artistico è la stessa
persona dell'artista incarnatasi completamente in un oggetto fisico e reale,
qual è, appunto, l'opera formata."

In attesa di qualche ulteriore intervento sulla quaestio arte, letteratura e
psiconalisi, un cordiale saluto a tutti i membri della lista da

Roberto  Pasanisi






----- Original Message -----
From: Simone
To: Psicoanalisi Mailing list
Sent: Saturday, February 26, 2000 11:41 AM
Subject: [psicoanalisi] linguaggio e psicoanalisi


Concludo con un interrogativo: è possibile che l'espressione attraverso le
immagini pittoriche, nonostante sia sempre presente una forma di mediazione
relativa all'uso dei materiali e ad altri fattori, sia un metodo che
consenta un avvicinamento maggiore all'esperienza soggettiva rispetto al
linguaggio ?

Saluti
Simone

 

 

 

Cari Colleghi,
ancora intorno a Fonagy ed alle questioni connesse (sempre sul versante
intermedio dei rapporti fra psicologia e letteratura), dopo la segnalazione
di alcuni miei lavori nel mio precedente intervento, mi permetto di
riportare un passo tratto da essi (dietro opportuna sollecitazione
dell'amico e "grande capo" della lista Marco Longo...): "Ricordiamo
anzitutto ciò che scrive Aldo Rossi: «Il ritmo, in senso generale, è
movimento, ovvero tutto ciò che si succede nel tempo con un certo ordine. Il
moto ordinato dei suoni, ossia la successione regolare dei suoni nel tempo,
costituisce il ritmo musicale.»
 D'altra parte, Rubina Giorgi rileva: «Quando ha scoperto la pulsione di
morte o il pricipio di un `al di là del piacere', Freud ha postulato una
regressività della pulsione verso primordi dell'inorganico o verso una
fattura androginica dell'animale uomo [tensione/distensione?], piuttosto che
risolversi ad accettare il legame della psiche col tempo». Ma, come scrive
Fónagy, «La ripetizione è l'immobilità nel movimento. Le strutture
ripetitive, a tutti i livelli dell'opera letteraria, sono forme derivate
della pulsione di morte postulata da Freud.» Ergo, se il ritmo è alterità
dal silenzio e ritorno sistematico di un quid, esso è a mio avviso frutto
della pulsione di morte, tentativo supremo di dominio sul tempo e di ritorno
«allo stato di perfetto equilibrio che caratterizza la materia inerte.»
Il piacere del verso (metro) è infatti determinato anche dal fatto che la
ripetizione (costanza) ritmica consente il minimo dispendio di energia
fisica (fonazione) e psichica (previsione, in quanto anche le connesse
variazioni sono pur sempre nell'àmbito dello schema)."

Un grazie per l'attenzione ed un carissimo saluto a tutti gli amici della
lista da

Roberto Pasanisi

 

 

Vorrei introdurre un ulteriore elemento di discussione rispetto a quanto detto sui rapporti tra psicoanalisi e fenomenologia. Le esperienze che noi viviamo soggettivamente " in silenzio e solitudine ", le nostre sensazioni, le nostre emozioni e così via, non coincidono con le descrizioni linguistiche che diamo delle stesse. Questo accade perchè il linguaggio rappresenta un filtro che separa il visibile ( la comunicazione di ciò che era soggettivo ) e l'invisibile ( l'esperienza soggettiva ). Siamo tutti d'accordo nel dire che il linguaggio, qualunque esso sia, è un insieme di convenzioni i cui segni non hanno nessun nesso con ciò che vogliono rappresentare. Attraverso il linguaggio si introduce una dimensione lineare nell'esperienza soggettiva che però a causa di ciò, proprio perchè l'inconscio è non lineare, perde il suo vero significato.

Concludo con un interrogativo: è possibile che l'espressione attraverso le immagini pittoriche, nonostante sia sempre presente una forma di mediazione relativa all'uso dei materiali e ad altri fattori, sia un metodo che consenta un avvicinamento maggiore all'esperienza soggettiva rispetto al linguaggio ?

 

Saluti

Simone  

 

 

 

Cari Colleghi,
intorno a Fonagy ed alle questioni connesse (ma sul versante intermedio dei
rapporti fra psicologia e letteratura), mi permetto di segnalare alcuni miei
articoli, che saranno raccolti nel volume, in corso di stampa, Le "muse
bendate". La poesia del '900 contro la modernità, Pisa-Roma, Istituti
Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000: La ripetizione creativa, in
"Il letterato", 1-3, 1985, pp. 3-5; Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione
creativa. Ridondanze espressive nell'opera poetica, Dedalo, Bari, 1982, in
"Annali dell'Istituto Universitario Orientale" Sezione Romanza, XXVIII, 1,
1986, pp. 407-410; La 'ripetizione onirica': la rima del Poema Paradisiaco
fra psicoanalisi e metricologia, in "Alla bottega", 3, 1987, pp. 20-22.

Un grazie per l'attenzione ed un carissimo saluto a tutti membri della lista
da

Roberto Pasanisi

 





 
 
 

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Aggiornato il: 18 marzo 2003