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- Riviste
- "Nuove Lettere" (rivista internazionale di poesia e
letteratura dell'Istituto Italiano di Cultura di Napoli)
- www.istitalianodicultura.org
nuovelettere@istitalianodicultura.org
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- Libri
- Edizioni dell'Istituto Italiano di Cultura di Napoli
- www.istitalianodicultura.org
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- Materiali d'archivio del C.I.S.A.T.
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professionali (Newsletters)
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- Articoli ed interventi dalle liste di discussione
(vd.
sotto)
- (Articles, communications and messages from mailing
lists) (see below)
L'Istituto Italiano di Cultura di Napoli
Ente di rilievo della Regione Campania (L.R.
49/85),
riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (L. 534/96, art.
8)
LIstituto
Italiano di Cultura di Napoli (I.C.I.) esiste dal gennaio del 90 ed è
attualmente diretto da Roberto Pasanisi.
Sin dallinizio, in tempi non ancóra sospetti, lIstituto ha concepito la
cultura nel suo senso più ampio, vivificata cioè da profonde implicazioni civili e
sociali: ha denunciato, nellàmbito del programma del suo anno accademico ed
attraverso la sua rivista Nuove Lettere, la corruzione e linefficienza
del sistema, il malaffare e la collusione fra politici, mafiosi e camorristi, la gestione
clientelare del potere; rimarcando, nel contempo, la necessità imprescindibile dun
ritorno alla legalità e ad una vita politica e sociale fondata sui sacri valori
delletica, della cultura e della giustizia.
In effetti, una delle cause di quello che è successo e sta succedendo risiede certo
nellabisso che si è progressivamente scavato fra cultura (intesa nella sua
accezione più ampia, e quindi anche etica) e politica: così la politica è divenuta una
pura tecnica, e di lì il passo a farne il più bieco degli affari non poteva essere che
breve.
La battaglia per la politica del futuro si giocherà dovrà giocarsi sulla
cultura.
LIstituto, nel corso della sua attività, ha assunto sempre di più, accanto a
quella primaria (letteraria e culturale), una funzione civile, di luogo di dibattito e di
aggregazione di quella che oggi viene chiamata la società civile; di
laboratorio politico, nel senso etimologico del termine (idest come scienza del
cittadino), ma sempre super partes (anzi: contra partes).
In effetti, lIstituto opera, diversamente da altre pur prestigiose strutture
cittadine, non dallalto, ma in diretto contatto con la città, con la gente,
cercando di dare una risposta, dal punto di vista culturale, alle loro esigenze ed al loro
bisogno di punti di riferimento civili e sociali. A tale scopo, esso si pone da un punto
di vista di reciproca e proficua collaborazione con le altre associazioni ed enti
culturali e sociali.
LIstituto, improntato ai criterî di unautentica ed incondizionata democrazia
e vicino, sul piano ideologico, alla Scuola filosofica di Francoforte (Adorno, Marcuse,
Löwenthal, Horkheimer), è caratterizzato dalla più grande ed indiscriminata apertura,
al di là e al di fuori di ogni barriera ideologica, tranne due: quelle dellonestà
intellettuale e morale e della buona volontà.
LIstituto Italiano di Cultura di Napoli, talvolta in collaborazione con altri enti
culturali, organizza per tutto il corso dellanno, nellàmbito del proprio anno
accedemico, una continuativa ed altamente qualitativa attività culturale, esplicantesi in
una serie di convegni, conferenze, incontri, lezioni, presentazioni e tavole rotonde, su
tematiche politiche e culturali; un Corso di Lingua e Letteratura napoletana ed un
Laboratorio permanente di poesia contemporanea; pubblica la Rivista internazionale di
poesia e letteratura Nuove Lettere e quattro collane editoriali (di poesia, di
narrativa e di saggistica); organizza un Premio Internazionale di Poesia e Letteratura
Nuove Lettere. DellI.C.I. fanno inoltre parte il CISAT (Centro Italiano
Studî Arte-Terapia), che organizza un Corso teorico-esperienziale di Psicologia (training
di formazione in Arte-Terapia e Training Autogeno), e il Libero Istituto Universitario per Stranieri
"Fancesco De Sanctis" (LIUPS).
Il Comitato scientifico dellIstituto è composto da: Alberto Bevilacqua (scrittore),
Constantin Frosin (docente di Lingua e Letteratura francese all Università Statale
Il Basso Danubio di Galati; scrittore), Antonio Illiano (ordinario di Lingua e
Letteratura italiana alla University of North Carolina at Chapel Hill), Roberto Pasanisi
(direttore dellIstituto Italiano di Cultura di Napoli e di Nuove
Lettere; Visiting Professor di Lingua e Letteratura italiana presso
lUniversità Statale di New York, Nassau (U.S.A.) e presso lUniversità Dunarea
de Jos di Galati (Romania), Visiting Professorof
Literary Studies alla Pan American University; Rettore e professore
ordinario di Psicologia dellarte e della letteratura al Libero Istituto
Universitario per Stranieri Francesco De Sanctis, LIUPS; scrittore), Vittorio
Pellegrino (già presidente dellEnte Provinciale per il Turismo di Napoli;
neuropsichiatra, Direttore del Servizio dIgiene Mentale e docente
allUniversità di Napoli Federico II), Maria Luisa Spaziani
(già ordianrio di Lingua e letteratura francese all'Università di Messina;
scrittrice),
Násos Vaghenás (ordinario di Teoria e critica letteraria allUniversità di Atene;
scrittore) e Nguyen Van Hoan (ordinario di Letteratura italiana e di Letteratura
vietnamita allUniversità di Hanoi). Ne hanno fatto parte dallinizio fino alla
prematura scomparsa gli scrittori Dario Bellezza, Franco Fortini (già ordinario di
Storia della critica allUniversità di Siena) e Giorgio Saviane. Assistente ordinario:
carica vacante. Coordinatore generale: Maria Peruzzini. Segreteria: Ernesto L'Arab, Maria Peruzzini (Capo Ufficio).
I cittadini onesti e di buona volontà sono invitati a mettersi in
contatto con lIstituto.
Italian Culture Institute of Naples
A Prominent Institution of Campania Region (L.R.
49/85),
recognized by the Ministery of the Cultural Goods and Activities (L. 534/96,
art. 8)
The Italian Culture
Institute of Naples (I.C.I.) has lived since 1990 and is at present directed by
Roberto Pasanisi.
From the beginning, in no suspicious times yet, the Institute has conceived culture in its
broader sense, encouraged by deep and social implications: it has denounced, during the
programme of its academic year and through its review Nuove Lettere, the
corruption and inefficiency of the Establishment, the shadiness and secret arrangement
among politicians, members of the Mafia and Camorra, the client-management of power;
emphasizing again, in the meantime, the strong need for a return to lawfulness and a
political and social life based on the solemn values of ethics, culture, justice.
As a matter of fact, one of the causes of what has happened and is happening depends upon
the gap which is progressively produced between culture (seen in its broader meaning, and
consequently ethically, too) and politics: in this way politics has become a plain
technique and from there it has become the most wicked business of all.
The fight for the future politics shall be played on culture.
The Institute, during its working, has put on more and more, a civil role (as well as
literary and cultural), as a meeting place of what people call now civil
society; a political lab, in its ethimological term ( that is citizens
learning) but always above super partes.
In fact, the Institute works, contrary to other prestigious city structures, in direct
contact with the town, people, looking for an answer, from a cultural point of view, to
their demands and needs for civil and social reference points. For this reason, it works
in a mutual and profitable collaboration with other associations and cultural-social
organizations.
The Institute, based on democratic principles and ideologically very close to the
Frankfurt Philosophy School (Adorno, Marcuse, Löwenthal, Fromm, Horkheimer), is
characterized by the most indiscriminate opening, against all ideological bars, but two:
intellectual and moral honesty and goodwill.
The Italian Culture Institute in Naples, sometimes in collaboration with other cultural
associations, arranges for, during the course of the year, inside its own academic one, a
constant and very qualitative cultural activity, such as meetings, conferences, lectures,
introductions to and about political and cultural subjects; a course in Neapolitan
Language and Literature and a Standing Lab on Contemporary Poetry; it publishes the
international poetry and literature Review Nuove Lettere and three garlands
(poetry, fiction, essay); it sets up an International Poetry and Literature Award
Nuove Lettere. The I.C.I. comprises the CISAT (Italian Art-Therapy Study
Centre) which organinizes a theoretic-practical course in Psychology (Art-Therapy and
Autogenous Training) and the Foreigners
Free University "Francesco De Sanctis" (LIUPS).
The Scientific Committee of this Institute is composed of: Alberto
Bevilacqua (one of the most famous Italian contemporary writers and intellectual men),
Constantin Frosin (Professor of French Language and Literature at State University
Dunarea de Jos at Galati; writer), Antonio Illiano (Full Professor of Italian
Language and Literature at University of North Carolina at Chapel Hill), Roberto Pasanisi
(Head of the Italian Culture Institute in Naples and of Nuove Lettere;
Visiting Professor of Italian Language and Literature at the State University of New York,
Nassau (U.S.A.) and at the State University Dunarea de Jos of Galati
(Ramania), Visiting Professor of Literary Studies at the Pan American University, Rector
and full professor of Art and Literature Psychology at the Free University for Foreigners
Francesco De Sanctis, LIUPS; Visiting Professor of Literary Studies at the Pan
American University; writer), Vittorio Pellegrino (already Chairman of Naples Tourist
Authority; neuropsychiatrist, Head of Mental Health Department and Professor at Naples
University Federico II), Maria Luisa Spaziani (formerly Full
Professor of Fanch Language and Literature at the University of Messina; writer), Násos Vaghenás (Full Professor of Literary Theory and Criticism at
Athens University; one of the most famous contemporary Greek poets) and Nguyen Van Hoan
(Professor of Italian and Vietnamese Literature at Hanoi University). Besides, other two
members have worked here till their untimely death the writers Dario Bellezza, Franco
Fortini (already Full Professor of History of Criticism at Siena University) and
Giorgio Saviane. Assistant
Professor: opening. Assistant Manager: Maria Peruzzini. Secretary: Ernesto
L'Arab, Maria Peruzzini (Office Head).
All honest and willing citizens are invited to come in touch with this
Institute.
Articoli ed interventi dalle liste di discussione
(Articles, communications and messages from mailing lists)
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(Articles) |
Arteterapia (Art-Therapy)
L'ART-THÉRAPIE : ACTUALITÉS D'UN CONCEPT ET D'UNE
PRATIQUE
Jean-Luc
SUDRES*
*Jean-Luc SUDRES, Maître de Conférences en
Psychologie, Docteur en Psychopathologie, Secrétaire Général de la Société
Internationale de Psychopathologie de l'Expression et d'Art-thérapie (sipearther@aol.com),
UFR de Psychologie, Université Toulouse le Mirail, 5 allées Antonio Machado,
31058 Toulouse Cedex (France).
I - PETIT PRÉAMBULE
…
Forgé aux Etats-Unis dans les années trente par Margaret Naumburg, le
concept d'art-thérapie n'apparaît, en France, qu'à l'aube des années
soixante. Tantôt assimilée aux courants des Nouvelles Thérapies, tantôt récusée
par les tenants de la Psychopathologie de l'Expression ou des orthodoxies de
bois, elle ne trouve fortune dans l'hexagone qu'au cours des trois dernières décennies.
Contemporainement à son émergence, une dialectique passionnante et
passionnelle s'engage tant au niveau du concept que de ses étayages. Etait-il
loisible de nous satisfaire du pragmatique "it's
works" (ça marche) anglo-saxon ?
Les polémiques d'hier, à défaut d'emprunter quelques zones de
luminosité, prennent l'expédient d'une multiplication d'expressions
substitutives ("psychanalyse avec l'art", "psychanalyse par l'art",
"psychothérapie médiatisée plastique", "art-thérapie créative",
etc. ...) délimitant davantage des territoires que des processus et/ou des
pratiques. Divers placages théorico-cliniques associés à un exotisme
artistique donnent, paradoxalement à certains de leurs promoteurs, l'auréole
d'un savoir de prestige !
Très tôt, l'art-thérapie succombe aux charmes de la psychose des
sujets adultes avec, quelquefois, un net tropisme psychanalytique réducteur. De
là naissent quelques avancées au niveau de l'intelligibilité des processus,
des dispositifs cliniques et des modalités d'évaluation. De son côté,
l'enfant, sans concéder la moindre bribe au terrain de l'art-thérapie,
continue de cheminer dans l'antre du dessin placé sous l'égide de l'exploration
développementale et psychothérapique. Quant à l'art-thérapie de l'adolescent,
comme pour la créativité, elle ne fait l'objet que d'un intérêt éphémère
durant la période post soixante-huitarde.
II
– L'HISTOIRE : UN RÉVÉLATEUR
DE LA SITUATION ACTUELLE
1)
Art et psychiatrie : Une rencontre fortuite ou prémédité
?
Depuis la nuit des temps, l'homme inscrit, trace, dessine, ... La préhistoire
en apporte un vibrant témoignage avec ses mains, ses animaux, ses scènes de
chasse éclairant à tout jamais les cavernes de nos ancêtres et leurs tombes.
Fonction de communication, de conjuration, de transcendance de l'invisible... ou
encore tout simplement découverte et essai d'objet scripteur avec lequel cet
homme des premiers instants joue la partition d'un parcours créatif élémentaire.
Etre d'exception, l'humain est à lui seul art et porteur d'art !
Très tôt, les sociétés primitives attribuent à l'art des propriétés
curatives d'autant plus prisées que les maladies étaient appréhendées comme
des atteintes aux lois cosmiques. Cette dimension se retrouve toujours dans les
sociétés traditionnelles où l'art du masque, l'art des objets et l'art du guérissage
s'intègrent à des rites universels. L'Antiquité amène à différencier l'art
pragmatique de l'art du beau. Artisans et artistes évoluent ainsi sur des
chemins contigus malgré les aléas de l'histoire. Cependant, c'est dans les
textes de cette période que se repère clairement les premiers constats des
philosophes et des médecins sur les vertus de l'art, des mots (la rhétorique),
de la poésie, de la musique... Bien que limité à des effets cathartiques, sédatifs
et stimulants reposant sur des attitudes souvent contemplatives, l'art apparaît
bien, comme l'avance Marc Muret (1983) en sous titre de son ouvrage sur les
arts-thérapies, "le plus vieux médicament du monde et pour certains le
meilleur..."
Le Moyen Age plonge les artistes dans des affres dont ils sortent
appauvris d'un point de vue technique, ne sachant plus représenter le corps
humain que cela soit en formes, proportions ou attitudes. Quant au "fou",
il porte avec son essence divine l'énigmatique ambivalence "curiosité -
crainte" sans pour autant jouir d'une considération particulière même si
certains d'entre eux écrivent des ouvrages lus par un public cultivé.
L'expérience de folie et ses éventuelles productions créatives bénéficient
jusqu'à la moitié du XVIIème siècle
d'une large sollicitude en face d'un fléau touchant à son terme : la lèpre !
Michel Foucault dans son "Histoire de
la Folie à l'Age Classique" (1972) nous conte cette rencontre d'espaces
de soins vides (ou du moins mal occupée par la syphilis) et l'industrialisation
naissante reléguant les oisifs au statut de proscrits. Cette mutation
socioculturelle profonde conduit les marginaux en tous genres (mendiants,
criminels, infirmes, fous, prostituées, vagabonds, etc. ..) et de tous âges à
séjourner dans les lieux d'exclusion devenant les Hôpitaux Généraux. Un
peuple de silencieux naît en ces lieux sans vocation médicale particulière,
si ce n'est celle d'extraire de la société tous ceux qui ne participent pas
activement au système économique. Politiques, médecins et bienfaiteurs y
instaurent les us et coutumes de la société bourgeoise. Les fous rencontrent,
avec le travail forcé, le surpeuplement et le contrôle moral, des chaînes
plus répressives que celles des geôles de la justice. Corrélativement à ces
aspects coercitifs évolue un élémentaire arsenal thérapeutique (douches,
bains, isolements, ...) appliqué par un personnel incompétent. L'Europe de la
fin du XVIIIème se couvre de ces établissements. L'internement se lie encore
davantage à la structuration d'un nouvel espace socio-politico-économique.
Puis, le "grand internement" isole les délinquants des fous. Ceux-ci
libérés de leurs chaînes se retrouvent à l'abri de grands murs ; l'asile est
né ! La folie y devient l'objet d'une nouvelle observation.
Le XIXème siècle, cet âge d'or de l'aliénisme, entrouvre
les yeux sur les expressions créatrices des fous. Ainsi, à l'initiative de son
célèbre pensionnaire, le Marquis de Sade, l'asile de Charenton a recours dès
1800 au théâtre. Celui de la Salpétrière organise "le bal des folles et
des hystériques" et de nombreux autres établissements produisent des
concerts en y associant quelquefois des musiciens "normaux"... Les
formes collectives de création, plus ou moins montrables aux gens ordinaires,
occupent le devant de la scène asilaire. Les productions plastiques en
apparence moins spectaculaires et plus individuelles n'attirent l'attention que
dans les années vingt. Pourtant, au cours de ce siècle-là, quelques aliénistes
(Benjamin Rush, Cesare Lombroso, Auguste Marie, ...) débutent des collections.
Des expositions d'œuvres d'aliénés apparaissent notamment à Londres et Milan.
Des internés de l'Asile de Charenton éditent une feuille richement ornée
"Les Glaneurs de Madapolis"...
Mais c'est surtout grâce à Ambroise Tardieu avec son "Etude Médico-légale de la folie" (1872), illustrée par un
dessin d'aliéné dont il souligne le caractère extraordinaire et étrange, qu'une
bascule s'initie. Dès cet instant, ces œuvres de solitude suscitent un regard
classificateur avec une tentative, jadis inaugurée par Max Simon, de dégager
une correspondance entre un type de production plastique et une pathologie
mentale. Depuis, ce type de rapprochement diagnostique n'a de cesse de réapparaître
dans la littérature d'hier et d'aujourd'hui malgré l'administration de preuves
annulant toute corrélation.
2
- Les rapports Art et Folie : Une provocation sans fin …
Conjointement à l'intérêt porté aux productions des internés, l'art
officiel subit les assauts interrogatifs d'un Paul Gaugin, d'un James Ensor,
d'un Vassili Kandinsky ou encore d'un Paul Klee... Certains n'hésitent pas d'ailleurs
à identifier chez ces artistes contemporains des signes de folie. D'autres
comme Carlo Cara et Umberto Bacchioni intègrent, pour la première fois en 1911
à Milan, des œuvres de fous dans une exposition d'œuvres futuristes. Les Dadaïstes
renouvellent l'expérience quelques années plus tard à Cologne.
Bravant le secret médical et les murs de l'asile, le suisse Walter
Morgenthaler dévoile en 1921 dans une remarquable monographie, la vie et l'œuvre
d'un aliéné : Adolf Wölfli (schizophrène paranoïde). Il ne manque pas
d'insister sur le chaos de ces compositions et leurs vertus thérapeutiques. Un
an plus tard, Hans Prinzhorn psychiatre, artiste, musicien, chanteur et
philosophe germanique publie "Expressions
de la folie".
En ce début de siècle, Sigmund Freud connaît déjà une certaine
notoriété avec son Moïse de Michel Ange. Carl Gustav Jung découvre, dans une
période de doute existentiel à la suite de sa rupture avec S. Freud en 1912,
la puissance des mandalas et de la pratique artistique. Fort de ses découvertes
empiriques, il incite ses patients à dessiner et à peindre leurs rêves préfigurant
en quelque sorte un des courants de l'art-thérapie contemporaine.
Le Surréalisme naissant trouve dans la psychanalyse les bases de "l'automatisme psychique pur" dont André Breton développe
formes et applications au fur et à mesure des Manifestes du Surréalisme (1921,
1930, 1942). Dès 1925, le Surréalisme s'instaure en tant que juge et critique
de la société contemporaine fustigeant (entre autres) les médecins chefs des
asiles et les pratiques asilaires dans sa revue "La Révolution Surréaliste".
Dans les interstices de ces accusations tout aussi provocantes que passionnées,
les surréalistes introduisent la psychanalyse. Peu à peu, on ne cherche plus
ce "qu'il pouvait y avoir de fou dans
le génie", comme Césaré Lombroso l'inculqua jadis, mais ce "qu'il
peut y avoir de génial dans la folie". Un tel renversement de
propositions en l'espace de quelques décennies remet singulièrement en cause
l'appréhension déficitaire de la folie. Fou parce qu'artiste ou artiste parce
que fou ?
L'Art Psychopathologique prend place dans les expositions mais reçoit
surtout une considération concrète des aliénistes. Ils fournissent matériau
et outil de qualité à leurs internés.
En même temps, le travail industriel et l'artisanat se développent considérablement
à partir de 1930 ; l'ergothérapie naissante préfigure les futurs ateliers d'art-thérapie...
3)
De la fin de la 2ème Guerre Mondiale aux années
soixante
L'hécatombe provoquée par la Seconde Guerre Mondiale au sein de la
population asilaire et l'horreur des univers concentrationnaires dont témoignent
nombre de dessins de jeunes contribuent à humaniser tous les lieux de soins, à
former le personnel et à étendre les prises en charge soignantes. La
psychiatrie infanto-juvénile naissante, l'apparition de la psychologie différentielle,
le déploiement des établissements spécialisés pour enfants et adolescents en
difficulté, la découverte des neuroleptiques et des antidépresseurs, l'introduction
de l'orientation scolaire, ... amènent un profond changement dans cette période
de reconstruction et d'initiatives pragmatiques. La jeunesse constitue la
ressource à laquelle il faut faire appel ; le règne de l'enfance touche
brutalement son terme au sein de ce virage socioculturel.
Jean Dubuffet constitue sa collection d'œuvres acculturelles, c'est à
dire ne répondant à aucun des critères techniques et esthétiques habituels ;
bref de "l'Art Brut".
Regroupant une multitude de conditions de créations, de moyens techniques et de
sujets marginaux (fous, retraités, prisonniers, médiums,...), J. Dubuffet
jette à nouveau le trouble sur les rapports art/folie.
L'année 1950 est marquée par la première Exposition Internationale
d'Art Psychopathologique dominée par les œuvres de schizophrènes adultes (Volmat,
1955). Enfants et adolescents n'obtiennent aucune place en cette manifestation,
véritable clef de voûte de la future art-thérapie. Pourtant dès la fin de la
guerre 39-45, des expositions d'œuvres réalisées par des jeunes (notamment délinquants)
présentées à Villejuif, Sainte-Anne (Paris), Savigny et Marseille ne reçoivent
aucune attention particulière. Peu à peu la folie change de visage, sa
perception et son expression plastique aussi...
Entre 1950 et 1959 le passage de l'Art Psychopathologique (alias Art des
Fous) au vocable "Psychopathologie de l'Expression" s'officialise avec
la création de la Société Internationale de Psychopathologie de l'Expression
(S.I.P.E.) courant 1959, puis de la Société Française de Psychopathologie de
l'Expression (S.F.P.E.) en 1964. Dans cette aventure, Claude Wiart apparaît tel
un artisan infatigable propulsant les arts-thérapies sur le terrain de la
clinique, de la formation et de la recherche. Ses vues avant gardistes et celles
de son équipe du Centre Hospitalier Sainte Anne (Paris) ne trouveront d'échos
que bien des années plus tard.
Parallèlement aux U.S.A., l'art-thérapie, avait déjà fait l'objet de
quelques ouvrages consacrés à l'adolescent (Naumburg, 1947), à l'adulte (Naumburg,
1950) et à l'enfant (Kramer, 1958) fomentant une controverse territoriale avec
les tenants de l'éducation artistique à visée thérapeutique. Dans ce débat,
Viktor Lowenfeld se pose en ardent défenseur d'une non séparation de l'éducation
artistique et de la thérapie. Au fil du temps, il apporte des nuances à ses
positions initiales, notamment en précisant que l'éducateur en art fournit un
complément aux interprétations et diagnostics de l'art-thérapeute ... Avec la
vision holistique qui la caractérise, Edith Kramer (1971, 1986) propose une intégration
sereine d'apprentissages artistiques, pédagogiques et thérapeutiques dans la
formation des arts-thérapeutes. Elle ne manque pas non plus de souligner, avec
force, la place prépondérante du processus par rapport à l'objet créé même
si tous deux doivent être considérés dans la dynamique art-thérapique. Ce débat,
en soit peu banal, ne se réglera que dans les années quatre vingt par une
assimilation partielle du courant des éducateurs en arts à celui des arts thérapeutes
avec un terrain privilégié pour ces premiers : "l'éducation spéciale".
Tandis que pour les seconds, un champ à la fois plus focalisé et plus large se
justifie, "l'éducation spéciale, le handicap et la psychopathologie"...placés
sous l'égide de la thérapie. Mais d'autres dialectiques s'ouvrent :
-
d'une part sur la pertinence des approches jungiennes, gestaltistes, humanistes,
phénoménologiques... avec les inconditionnels d'une art-thérapie intégrée
à un processus thérapeutique global et les partisans la concevant comme une thérapie
autonome à part entière,
-
d'autre part sur l'utilisation des techniques d'évaluation où s'affrontent les
tenants d'outils psychométriques plus ou moins classiques appliqués à l'art-thérapie
et ceux revendiquant l'usage d'instruments développés pour les arts-thérapeutes
par les arts-thérapeutes.
Dans
ces agitations, l'Association Américaine des Art-thérapeutes, forte de quelque
quatre mille membres s'essaie à définir des critères standards de
reconnaissance d'une art-thérapie de qualité et à affirmer l'identité
professionnelle des arts-thérapeutes. Depuis sa fondation en 1969, elle mène
cette mission avec une opiniâtreté farouche.
En Angleterre l'art thérapie apparaît à la fin des années trente sur
l'étayage des travaux de la psychologue américaine Margaret Naumburg, du
dessin d'enfant et de la psychologie développementale. Elle se déploie alors
de manière informelle dans les lieux de soins et les services sociaux pour
aboutir en 1964 à la création de la British Association of Art Therapists (B.A.A.T.)
dont, l'objectif vise, d'emblée, l'édification des critères de formation et
de défense de la profession.
Ailleurs, notamment:
-
en Suisse, le mouvement art-thérapique amorcé dans les années quarante ne
renaît de ses cendres qu'à l'aube de la décennie 1980.
-
en Allemagne, l'art-thérapie, décapitée par la montée du nazisme, retrouve
son dynamisme dans une véritable "psycho-boum" au décours de la période
1975-1980,
-
en Italie, l'édification, courant 1982, d'une association nationale d'art-thérapie
avec des standards de formation anglo-saxons bouscule les pratiques cantonnées
depuis les années trente aux handicapés physiques et mentaux.
4)
Seventies et eighties : La préfiguration de la modernité
art-thérapique ?
Si l'imagination ne prend pas le pouvoir comme le clamaient les slogans
du Mai 68 Français, un souffle créatif s'ébauche. L'enseignement et les
psychothérapies institutionnelles l'amplifient. Le réseau associatif et
culturel permet d'installer les sujets de la psychiatrie dans la cité en leur
conférant une place de citoyen acteur et créateur de sens, de socialité, d'innovation
... Les formations se multiplient avec un éventail de contenus déroutants ...
L'art-thérapie, tout comme la créativité, s'infiltre donc partout...
A l'aube des années quatre vingt, tout bascule ; la sociologie, la
psychologie et la psychiatrie semblent (re)découvrir les jeunes, ou plus
exactement ces derniers interpellent les premiers dans une société de
consommation en questionnement. Etudes et enquêtes sur leurs états de santé,
leurs maux, leurs loisirs, leurs devenirs... prolifèrent dans une connotation
sociologique et politico-économique marquée. La culture s'adresse durant cette
décennie à des adolescents en quête de référents en essayant de favoriser
leurs expressivités créatives. Ainsi, elle leur donne des outils et des moyens
via le canal de l'école, des communes, des départements et des régions dont
des manifestations comme "la fête de la musique" constitue une élémentaire
exemplification.
5)
Les années quatre-vingt-dix : Ouverture sur le troisième millénaire
Les années quatre-vingt-dix se caractérisent par :
-
une inflation de l'usage du mot "art - thérapie" et de ses dérivés,
-
une multiplication de pratiques qui n'ont plus rien à voir avec la
valence thérapeutique de l'art-thérapie comme en témoigne par exemple son développement
dans le champ de la prévention primaire en matière de santé,
-
un engouement de nombre de professionnels issus de champs aussi divers
que l'art, la philosophie, le secteur socio-éducatif et para médical, etc,
-
une offre de formations qualifiantes et diplomantes en plein essor,
-
une ouverture vers des courants théoriques tels que l'art - thérapie
transpersonnelle, l'art - thérapie systémique, l'art - thérapie intégrative.
-
un éventail de revues nationales et internationales (Art
et Thérapie, International Journal of Art therapy, Arti terapie, Arts et Psyché,
Art therapy, The arts in
Psychotherapy, American Journal of Art therapy, etc) dont l'étendu tout
comme la qualité scientifique questionne.
-
une pâle existence de sites Internet dont le contenu se révèle pauvre.
Bref le troisième millénaire conduit à poser la gageure de la spécificité
de l'art - thérapie et de sa professionnalisation à un haut niveau.
II
– L'ART –THÉRAPIE : UNE DÉFINITION PROBLÉMATIQUE
1)
Quelques constats
L'art-thérapie souffre depuis les années cinquante
d'une double pathologie subaiguë qui ne cesse de s'amplifier ! Victime de son
succès, elle est devenue une sorte de mot valise contenant un ensemble de clefs
aux serrures polysémiques en permanente mouvance.
La prolifération des pratiques et des formations art-thérapiques ont
conduit à des malentendus au sein desquels chacun poursuit une optique érigée
en vérité universaliste ... A cet égard, un examen attentif de la littérature
et des pratiques les plus courantes se révèle pour le moins édifiant :
-
quelques praticiens incorporent directement le concept art-thérapie sans se
soucier de lui conférer un contenu élaboré comme si le mot relevait de la
magie tant parfois l'adéquation de celui-ci au fonctionnement clinique
personnel tient de la perlaboration,
-
d'autres donnent à l'art-thérapie une définition entièrement personnelle qu'ils
articulent à leur pratique devenant ipso facto le contenu mais aussi les
indications de référence,
-
certains au gré d'opportunités théorico-cliniques réalisent une confusion
maximale en amalgamant toutes les pratiques autres que la psychothérapie
verbale à de l'art-thérapie,
-
d'autres encore, en Europe comme ailleurs, s'emploient à des délimitations de
territoire où des disciplines souveraines (art, psychiatrie, pédagogie, ...)
s'essaient à des phagocytoses indigestes, plus ou moins teintées d'un état
oscillant de la mégalomanie à la pulsion d'emprise,
-
enfin quelques-uns débattent de l'art-thérapie avec des nuances et des prises
de distance se traduisant par une inflation conceptuelle (thérapies créatives,
psychothérapies médiatisées, expressions thérapeutiques, thérapies par
l'art, thérapies expressives, ...). Explicites en une situation ponctuelle in
situ, ces "remplaçants conceptuels" s'emplissent rapidement d'anachronismes
compte tenu que nous ne cessons, pour se bien entendre, d'en revenir au concept
fédérateur d'art thérapie.
2)
Dans le trait d'union de l'art-thérapie : Inflation de propositions
conceptuelles
Depuis les années soixante, période où le concept art-thérapie
infiltre le champ de la psychopathologie de l'expression, nous ne cessons de
palabrer (surtout en France) autour et sur ce concept anglo-saxon importé sans
lifting préalable dans la vieille culture européenne.
La greffe a-t-elle prise ?
Claude Wiart et ses collègues de la Société Française de
Psychopathologie de l'Expression mettent à plusieurs reprises l'art-thérapie
sur la sellette. D'autres, tel Jean-Pierre Klein (1988) introduisent entre les
deux pôles du concept la conjonction de coordination "et" posant en
clair la question essentielle de savoir ce qu'il en est de l'art dans la thérapie
et de la thérapie dans l'art ? Est-il possible de réduire, de superposer, de
faire cohabiter, ... l'un avec l'autre ?
Si l'art même dans sa définition la plus élémentaire génère des
ambiguïtés, la thérapie, elle, s'inscrit clairement dans le soin. Soit dans
l'objectif princeps d'amener l'autre à un processus de changement puis de le
conduire à faire face aux diverses situations existentielles et enfin à
percevoir que la vie vaut la peine d'être vécue.
Agitateur et catalyseur des pensées, l'art-thérapie a considérablement
enrichi la classique "psychopathologie de l'expression" qui, tel le phénix
renaît de ses cendres, dans les tumultes conceptuels. En effet, en réaction à
ce concept anglophone, jugé inadéquat par nos compatriotes, jaillissent pléthore
de substituts dont la forme et le contenu prouvent qu'il ne s'agit pas d'une
simple querelle de mots (maux) mais d'enjeux de pouvoirs et de pratiques. Pour
mieux éclairer notre lanterne, arrêtons-nous sur quelques unes des
formulations les plus preignantes :
a)
"Les psychothérapies de créativité"
hantèrent les années soixante-dix pour désigner toutes les modalités d'expressions
plastiques, corporelles, littéraires et autres usant de la créativité dans un
cadre psychothérapique (Benoit, 1973 ; Stévenin, 1978).
Le manque de spécificité de cette tentative n'altère en rien l'accent
mis sur la créativité dont l'acception se révèle tout aussi floue. Outre
Manche, Bernie Warren (1984) se rapprochera de cette position française
historique en avançant la proposition de "thérapies
créatives" entendue dans le sens d'une réintégration du processus
artistique produisant un gain chez tout sujet très tôt aliéné dans ses désirs
et droits créatifs. De proche en proche, ces propositions laissent place à une
gestation d'indications et d'effets thérapeutiques.
b)
"La psychothérapie par les expressions plastiques"
a été largement promue par Claude Wiart (1983, 1985) soulignant que ces
pratiques, qui ne sont pas immédiatement langage, jouent la partition thérapeutique
sur la multiplication des signifiés sous des signifiants sans définitions
exactes. L'intérêt se porte ici sur le vécu du processus.
Béatrice Chemama et Françoise Fritschy (1979) préféreront le vocable
de "psychothérapie avec expression plastique" afin de poser
le fait d'un surgissement verbal à partir du support artistique sous tendant la
situation clinique, voire analytique. L'accent se déploie vers le jeu
relationnel. La rencontre du sujet avec sa réalité psychique et le réel est
ouverte ; l'identisation peut entamer sa fugue dans l'émergence d'une
production-création.
Ce passage du "par" à "l'avec" nous enseigne que
d'un côté se localise "les pratiques à effets thérapeutiques" plus
ou moins sollicitées et de l'autre "les pratiques psychothérapiques"
clairement affirmées où la situation médiatisée ne devient qu'un pré-texte
d'un texte à édifier. L'une serait-elle plus noble que l'autre ? Le terrain
clinique répond en dévoilant que le "par" et "l'avec" s'intriquent
dans un processus thérapeutique toujours complexe.
c)
"La thérapie par l'art" a été
proposée par Marc Muret (1983) pour refléter la pluralité des médiations et
approches artistiques. Elle prête le flanc, tout comme "la psychothérapie
par les expressions plastiques" à une conception basale d'un art en soit
et par soit thérapeutique et/ou d'une expression pour l'expression. Notons que
l'expérience du plaisir, nécessaire à tout processus de soin, est ici bien présente.
d)
"La psychothérapie médiatisée" est
certainement l'expression phare des années 80 et de celles à venir par le seul
fait d'avoir mis l'accent sur le point clef de la médiatisation thérapeutique
de l'objet. Certes, les dérives et les abus de l'engouement médiatisé n'ont
pas manqué de gauchir cette expression assez proche de celle de "psychothérapie
avec expression plastique".
Façonnée à l'origine par François Granier et son équipe toulousaine
sur l'étayage d'adultes psychotiques hospitalisés, cette conceptualisation désigne
la pratique d'une activité artistique ou culturelle au titre de médiations en
situations d'ateliers psychothérapiques. Autrement dit, l'objectif princeps
tient en un travail psychothérapique basé sur le transfert contre-transfert au
sein duquel la médiation n'est qu'un moyen pour épauler le déploiement d'indications
dans les psychothérapies (Granier, Girard, Jacomini et Escande, 1987)
e)
"L'art-thérapie expressive" et "L'art-thérapie créative" sont les
dernières nées de cette inflation conceptuelle. Elaborées dans le champ de la
pédopsychiatrie et de la formation par Jean-Pierre Klein, elles devraient
parfaitement s'adapter à nos préoccupations. Qu'en est-il ?
En clair "l'art-thérapie expressive" consiste à partir d'un
travail d'expression médiatisée (poésie, peinture, collage, terre, etc. ...)
à analyser et interroger dans le jeu verbo-transférentiel ce qui est ainsi
produit. Quant à "l'art-thérapie créative", si elle sollicite aussi
la dimension expressive du sujet, le traitement s'en avère très différent. En
effet, point n'est question d'un décryptage stricto sensu du donné à voir et
à entendre mais plutôt d'un accompagnement souple sur et dans les productions
avec un recours aux forces de constructions positives de la psyché en évitant
de percuter, dans une stratégie dit de "détour" ou de "l'ellipse",
les tabous, les symptômes, les défenses et résistances du sujet. Le mal être,
la douleur, l'errance, ... se métabolisent dans une claire pénombre en une
figuration artistique qui pour le coup fait irruption en thérapie... Au fil des
productions, des mises en formes imaginaires surgissent, des perlaborations se dévoilent,
dans une reconnaissance-renaissance pulsant les "je" identitaires et
l'objectivation de la réalité externe. Ce processus transformationnel peut
aboutir à la réalisation d'un objet artistique détachable (Klein, 1993).
Mettre le sujet en position d'acteur ; l'accompagner synchroniquement et
diachroniquement dans ses élaborations, ses passages à l'acte, ses tourments,
contourner ses résistances au changement, ménager ses dictions de symptômes,
respecter ses défenses par le jeu et l'enjeu de médiatisations ; est-ce là
"une révélation" ? Les systémiciens l'ont par exemple démontré et
couché sur le papier depuis fort longtemps. Pour quelques uns, le mérite de
cette conceptualisation d'arlequin réside dans le seul fait de s'essayer à
mettre en mots ramassés et poétisés le banal d'une clinique faussement
identifiée comme acquise. Elle offre toutefois une méthodologie clinique pour
poser la thérapie dans une dynamique adaptée.
3)
Hors les mailles de la psychiatrie ...
Lorsqu'un praticien use de psychothérapie verbale
avec un sujet, il est admis, (sans trop de restriction) que celle-ci puisse se déployer
en tout lieu de soins avec n'importe quel type de malade. Autrement dit, que le
psychothérapeute exerce son art en cardiologie, diabétologie ou bien encore en
maladies infectieuses ne soulève guère d'étonnement. Le soin verbal jouit,
semble-t-il d'un véritable œcuménisme ! Par contre, l'art-thérapie en tant
que procédure médiatisée ne bénéficie pas des mêmes extensions du fait :
-
d'une surdétermination psychiatrique et psychopathologique,
-
d'une mobilisation du potentiel créatif et du corps, perçus avec méfiance par
les entourages soignants.
Les quelques applications hors des champs classiques traduisent
clairement que l'art-thérapie n'est pas et ne peut être systématiquement conçue
dans l'unique analogon de la psychothérapie analytique. Plus résolument, il
convient donc de placer en exergue "la thérapie" étayable sur des théorisations
et des pratiques pluriaxiales.
4)
Art-thérapie structurée, associative ou interactionnelle ?
Dans ce paysage "boxologique" se noue la nécessité d'adopter
un repérage triaxial afin de se dégager des réductionnismes et de favoriser
la communication entre soignants. Nanti des éléments discriminants formalisés
par Richard Meyer (1994), à propos des somatothérapies, il devient opportun de
distinguer sur la base d'un usage de médiations diversifiées :
a)
"Une art-thérapie structurée"
reposant essentiellement sur une orientation éducative-rééducative,
cognitivo-comportementale, psychomotrice, gestaltiste, etc. ... La durée de la
prise en charge est dans ce cas relativement courte et programmable. La relation
thérapeutique de type semi-directive s'adresse à la symptomatologie et/ou aux
difficultés manifestes de manière frontale et active,
b)
"Une art-thérapie associative" qui
en appelle à une orientation psychanalytique qu'elle soit freudienne, jungienne,
lacanienne, etc. ... Si la durée dans cette modalité s'avère longue et
non-programmable, elle est en tout cas moins étendue que pour une psychothérapie
verbale, voire une analyse didactique. La relation thérapeutique de nature non
directive, sans exclure des interventions ponctuelles du praticien, recherche l'édification
d'un transfert-contre-transfert conduisant, par delà la symptomatologie à s'intéresser
à la structuration du sujet. Dans cette prise en compte du latent, les défenses
seront respectées et l'imprévu salué,
c)
"Une art-thérapie structuro-associative ou interactionnelle"
amalgamant dans un complexe à chaque fois singulier les deux formes précédentes.
Le sujet nous contraint le plus souvent à fonctionner dans ce registre où l'aspect
structuré se dessine en base de sécurité pour qu'adviennent les associations
libres et les élaborations plastiques et/ou verbales. Nous sommes là à une
croisée thérapeutique complexe mêlant de façon indistincte des formations
appartenant à des niveaux différents de la structuration psychique. Le mélange
des genres et des pratiques induit une dynamique fertile conduisant chacun à
mettre sur le métier sa clinique, ses incertitudes et ses projets...
III – POUR CONCLURE : UNE
NOUVELLE CONCURRENCE …
L'art - thérapie n'en finit pas de s'essayer à trouver une identité
que viennent maintenent disputer d'autres spécialistes, notamment les artistes.
A l'instar des art-thérapeutes, ces derniers ont édifié des pratiques (Ars as Healing, Art in Healthcare, arts
Medicine, etc.) et groupements professionnels (Arts and Healing Network, International arts Medicine Association,
Society for the Arts in Healthcare, etc.) ad hoc figurant en bonne place sur
Internet et dans nombre de revues (Malchiodi, 1998).
Ce phénomène qui touche pour l'instant assez peu l'Europe Continentale
pose implicitement la question de :
-
la validité même du concept d'art - thérapie et de son identité
professionnelle,
-
la place de l'artiste et de l'art dans le champ du soin,
-
l'attente des soignants qui sollicitent un praticien versant
socio-culturel plutôt qu'un autre versant soin-processus de changements,
In fine, tout cela ne revient-il pas à disposer d'un courant où l'art
est premier et d'un autre où la thérapie domine ? Confessons que les
formations en art - thérapie ne sont pas toutes friandes d'artistes … Par
ailleurs, beaucoup souhaitent exercer leur métier dans des lieux de soins sans
aliéner leur identité première et revêtir la toge de thérapeute !
Par delà toute polémique, il transparaît que cette situation résulte
:
-
d'une part du processus art-thérapique lui-même dans le sens où il
convoque simultanément des processus relationnels, médiationnels et créatifs.
Cette synthèse conduit inévitablement à des phagocytoses outrancières et
donc à des mouvements actés,
-
d'autre part d'une confusion entre ce qu'est "la
psychothérapie spécifique ou systématisée" et "la
psychothérapie intégrative".
BIBLIOGRAPHIE
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Soins Psychiatrie, 56-57 ; 3-4.
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mostra - Galleria Ragno
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Pittura
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Eventi in Italia |
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Le
inedite impressioni di Monet
Treviso. Fino al 17 febbraio è possibile visitare la splendida
mostra "Monet. I luoghi della pittura" allestita nella
Casa dei Carraresi. Un affascinante e suggestivo itinerario
attraverso i luoghi e le sensazioni che hanno ispirato il grande
maestro. |
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In questo numero |
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Il
ritorno di Lucio Del Pezzo
Napoli. Lucio Del Pezzo ritorna nella sua città natale, dalla
quale si era allontanato nel 1960 per trasferirsi a Milano e poi
a Parigi, con la mostra "Alfabeto di segni e di
sogni", allestita nella splendida cornice di Castel
dell'Ovo. |
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Interviste |
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Storia dell'Arte
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Arte&Dintorni |
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Arte-Terapia
a distanza |
di Giorgio Turrini Deavi
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Presso il CISAT
(Centro Italiano Studî Arte-Terapia, di Napoli) esiste una
Scuola di Formazione in Arte-Terapia A Distanza: il Centro è
parte dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, Ente di
rilievo della Regione Campania e riconosciuto dal Ministero per
i Beni e le Attività Culturali.
Il CISAT, oltre che proporre le varie attività, è membro del
WCP di Vienna ed è una delle pochissime scuole di Formazione
riconosciute in Italia dall'ING/AT, l'associazione mondiale
delle scuole di Arteterapia.
Composizione con largo piano blu, rosso, nero, giallo e
grigio, 1921. Dallas Museum of Art, Dallas, Texas.
|
Corsi di scrittura creativa (anche A Distanza: LESC), laboratori
di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi,
segnano una progredita e diversa istruzione sanitaria-educativa
designata agli studenti laureati in Psicologia, in Medicina, in
Scienze dell’educazione, in Filosofia ed in materie
letterarie, ai diplomati dell’Accademia delle Belle Arti e del
Conservatorio di musica.
Lezioni curate da specialisti, in questo particolare tipo di
settore, alternano sedute a temi monotematici a sedute a temi
indipendenti, quindi liberi. Nella prassi dei gruppi di terapia
e di formazione tenuti dai docenti interni, i discenti devono
dare origine all’opera d’arte con la massima creatività ed
espressione personalizzando le proprie capacità umanistiche e
scientifiche. Con la supervisione del terapeuta e del
co-terapeuta si analizzeranno i soggetti tematici, si
esamineranno le dinamiche che si innescano all’interno del
gruppo attenendosi ai criteri dell’Arteterapia, intesa come
psicoterapia analitica.
Questa scuola prevede attività di Icono-Terapia e Pòiesi-Terapia.
I Corsi propongono l’utilizzo delle tecniche di scrittura e di
disegno come veicolo elettivo nei livelli dell’esperienza
sensoriale, corporea, emotiva, immaginativa e cognitiva-verbale.
L'Arte-Terapia come una teoria e una prassi psicoterapeutica a
tutti gli effetti, rappresenta una formula innovativa ed
intelligente, totalmente autonoma. L’Arte-Terapia è
comunicazione e ha lo scopo basilare di variare e ampliare
l’espressività efficace nei suoi due versanti, ricettivo e
produttivo.
Docenti psicologi, psicoterapeuti e psichiatri che adottano
l'arte per sanare la realtà, intendono consolidare
l'affermazione scientifica e accrescere la loro conoscenza
terapeutica istituzionale.
“L’impiego dell’arte e delle sue tecniche come strumenti
terapeutici nelle varie forme della poiesiterapia,
dell’iconoterapia e dello psicodramma creativo”, spiega il
Direttore Roberto Pasanisi, arteterapeuta, “sono una delle vie
della psicoterapia del futuro: ‘Vivete per il presente,
sognate per l'avvenire, imparate dal passato’ è il motto
della Scuola”.
Progettare la creatività. Teorie psicologiche e analisi
dei casi.
|
Molti sono in effetti in Italia le scuole e i corsi di scrittura
creativa, i laboratori di pittura e scultura a fini terapeutici
o riabilitativi, e altre iniziative simili; come pure gli
psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che adoperano
l'arte in forma per così dire “ancillare”, come una tecnica
fra le altre nell’ambito di una teoria e di una prassi
diverse, che nulla hanno a che vedere con l'Arteterapia.
Il CISAT è invece l'unica istituzione riconosciuta nel nostro
Paese che pratichi l'Arteterapia come una teoria e una prassi
psicoterapeutica a tutti gli effetti e autonoma, sviluppando
questa disciplina come una scuola di psicoterapia “tout
court”, curata non da scrittori o pittori o scultori o da
psicologi di altre scuole, ma da specialisti in questo
particolare tipo di psicoterapia.
Il Centro Italiano Studi Arte-Terapia afferisce riguarda il
campo - nuovo in Italia, ma largamente consolidato all'estero,
specie in America e nei Paesi anglosassoni — dell'Arteterapia:
esso intende consolidare l'affermazione scientifica e accrescere
la conoscenza di questa nuova scuola psicoterapeutica,
contribuendo a fissarne i punti di riferimento fondamentali. Il
CISAT - che propone alcune delle sue attività, oltre che in
sede, anche on line - è membro del WCP di Vienna ed è una
delle pochissime scuole di Formazione riconosciute in Italia
dall'ING/AT, l'associazione mondiale delle scuole di
Arteterapia. Il CISAT è in effetti interessato a conoscere
qualche impressione sul Centro e ricevere idee e proposte di
collaborazione e sinergie, specie via Internet.
La scuola conferisce un Diploma al termine di ogni anno e il
Diploma finale in Arteterapia alla fine del IV anno di
Formazione.
L’Istituto Italiano di Cultura di Napoli (I.C.I.), talvolta in
collaborazione con altri enti culturali, organizza invece per
tutto il corso dell’anno, nell’ambito del proprio anno
accademico, una continuativa e altamente qualitativa attività
culturale, che si articola in una serie di convegni, conferenze,
incontri, lezioni, presentazioni e tavole rotonde su tematiche
politiche e culturali; un Laboratorio permanente di Letteratura
contemporanea e Scrittura creativa (anche A Distanza: LESC);
pubblica la Rivista internazionale di poesia e letteratura
“Nuove Lettere” e quattro collane editoriali (di poesia,
narrativa e saggistica); organizza un Premio Internazionale di
Poesia e Letteratura “Nuove Lettere”. Dell’I.C.I. fa
inoltre parte, oltre al CISAT, il Libero Istituto Universitario
per Stranieri "Francesco De Sanctis" (LIUPS), con
Corsi anche A Distanza (LIUPS-AD).
La “lista di discussione” di Arte-Terapia del CISAT,
moderata dal prof. Roberto Pasanisi, Direttore del CISAT e
realizzata in collaborazione con il C.I.S.P., è all’indirizzo
http://www.domeus.it/groups/cisat
(per l’iscrizione si può scrivere a cisat@domeus.it).
Istituto Italiano di Cultura di Napoli
Ente di rilievo della Regione Campania riconosciuto dal
Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
C . I . S . A . T
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Mobbing (Persecuzione lavorativa)
Mobbing:
un fenomeno da debellare
Convegno
Nazionale UIL CA
Hotel
Hermitage – Galatina (le)
16
giugno 2000
Intervento
dell’Avv. Fernando
Caracuta
Cultore
di Diritto del Lavoro presso la facoltà di Giurisprudenza
dell’Università
di Lecce
IL
“MOBBING” E LA TUTELA GIUDIZIARIA
egli
ultimi anni, si è sviluppato nel nostro Paese il dibattito intorno al
problema del “mobbing” sul
posto di lavoro: in questa sede, cercheremo di comprendere ed approfondire gli
elementi costitutivi di esso, di verificare se nell’ordinamento giuridico
attuale esistano degli strumenti di tutela per tutti i danni prodotti dal mobbing
e, infine, di analizzare le diverse proposte di legge che sono
all’approvazione del Parlamento.
Il
termine “mobbing” deriva dal
verbo inglese to mob, che tradotto
in italiano può assumere vari significati, quali assalire
in massa o in modo tumultuoso, accerchiare, circondare, assediare; il
vocabolo mobbing, inoltre,
è molto usato anche nel mondo animale per descrivere il comportamento
d’aggressione del branco nei confronti di un animale isolato.
Il
mobbing nel mondo del lavoro può senz’altro essere ricondotto a
sistematiche e ripetute angherie e pratiche di vessazione poste in essere dal
datore di lavoro o da un superiore gerarchico, oppure da colleghi di lavoro di
pari livello o subalterni nei confronti di un determinato lavoratore (che
potremo chiamare mobbizzato) con
l’evidente scopo di emarginarlo, isolarlo ed indurlo, infine, alle
dimissioni. Tale illegittimo ed illegale comportamento può scaturire da
motivi di gelosia, invidia o concorrenza che esplodono, in un soggetto già di
per sé predisposto o dall’animo perverso, nell’ambiente di lavoro, e a
causa o in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa.
I
principali studiosi di tale fenomeno a livello europeo ed italiano sono,
rispettivamente, Heinz Leymann ed Harald Ege: quest’ultimo ha, di recente,
svolto un’indagine del fenomeno in Italia ed ha definito il mobbing
sul posto di lavoro come “un’azione (o una serie di azioni) che si ripete
per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber
(datore di lavoro o colleghi) per danneggiare qualcuno di solito in modo
sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene accerchiato e
aggredito intenzionalmente dai mobber che
mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione
psicologica, sociale e professionale”.
Le
forme che il mobbing può assumere
sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono diverse e vanno
dall’emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche
alla persecuzione sistematica, dalla dequalificazione professionale alle
ritorsioni sulle possibilità di carriera, al fine di metterlo in difficoltà.
Scopo del mobbing, è, come già
detto, quello d’indurre la vittima ad abbandonare l’azienda, provocandone
il licenziamento o inducendola alle dimissioni.
Il
fenomeno ha assunto proporzioni a tal punto rilevanti, da coinvolgere in ogni
paese europeo percentuali molto alte di lavoratori; in Italia, in particolare,
si stima che il 4% della forza lavoro occupata è soggetta a pratiche di mobbing:
circa 1 milione e mezzo i di lavoratori e lavoratrici italiani, quindi,
sono mobbizzati.
Il
mobbing, che inizialmente è
stato esclusivo o prevalente campo di indagine della psicologia, medicina e
della sociologia del lavoro, è stato recentemente affrontato, in modo
adeguato ed appropriato, anche dal punto di vista giuridico.
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In
caso di utilizzo si prega di citarne la fonte.
n. 06-2001.
MICHELE ORICCHIO
(Consigliere della Corte dei conti)
Il mobbing nel pubblico
impiego
SOMMARIO: 1) Definizione e inquadramento del mobbing;
2) le cause dell’espandersi del fenomeno nel pubblico impiego; 3) Le
"risposte" ipotizzabili.
Definizione e inquadramento del mobbing
Il termine etologico mobbing
costituisce l’ennesimo "anglicismo" recentemente entrato a far parte
delle parole d’uso comune anche nella pratica giudiziaria: esso rievoca
scenari di aggressività ("to mob" significa assalire,
aggredire in gruppo) che si pongono in contrasto non solo con l’ordinato
vivere sociale ma anche con il regolare svolgimento di un rapporto di lavoro
subordinato.
L’estrema attualità del predetto
fenomeno, contrassegnata anche dal rilievo dato dai mezzi di comunicazione di
massa, ha offerto lo spunto per diversi, recenti interventi sul tema, specie
sotto il profilo del danno alla persona del lavoratore.
Grazie agli studi effettuati da
esperti in neuropsichiatria e in medicina del lavoro, si è potuto affermare che
il mobbing è fenomeno ubiquitario piuttosto diffuso in tutte le realtà
lavorative non solo private ma anche pubbliche e, tuttavia, è con riferimento
alle prime che esso si è primariamente palesato ed è stato oggetto di studi
approfonditi sotto il profilo sia medico che legale.
Il mobbing, alla luce anche
dell’esperienza sin qui maturata, può definirsi come <un’attività
persecutoria posta in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in
posizione di supremazia gerarchica) e mirante ad indurre il destinatario della
stessa a rinunciare volontariamente ad un’incarico ovvero a precostituire i
presupposti per una sua revoca attraverso una sua progressiva emarginazione dal
mondo del lavoro>.
Tale attività deve avere una
durata di più mesi (normalmente almeno sei, secondo la più recente medicina
del lavoro, per poter essere sussulta nel concetto di mobbing.
Nel rapporto di lavoro privato il
fenomeno è già più volte giunto all’attenzione della scienza medico-legale
e del lavoro approdando anche presso l’Autorità Giudiziaria, sebbene ciò sia
accaduto da noi con gran ritardo rispetto ai paesi nord-europei ove vi è una
maggiore cultura della difesa dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
L’emarginazione dal
lavoro,ingiustamente attuata attraverso il depotenziamento e la demotivazione
del singolo lavoratore, pur non essendo stata positivizzata in una specifica
norma (come è accaduto in Svezia) costituisce comunque una situazione rilevante
e sotto il profilo medico che legale e, ove accertata, può comportare una
reazione da parte dell’Ordinamento giuridico, sussistendo comunque la norma
generale di cui all’art. 2087 del codice civile secondo la quale
"L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le
misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica,
sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro".
Un tentativo di regolamentazione
del fenomeno si è, peraltro, avuto (senza successo) nella scorsa legislatura
con i disegni di legge "Tapparo e "Benvenuto", il primo – in
particolare - così lo delinea: "Ai fini della presente legge vengono
considerate violenze morali e persecuzioni psicologiche, nell’ambito
dell’attività lavorativa, quelle azioni che mirano esplicitamente a
danneggiare una lavoratrice o un lavoratore..…esse devono mirare a
discreditare, screditare, danneggiare il lavoratore nella propria carriera,
status, potere formale od informale, grado di influenza sugli altri, rimozione
da incarichi, esclusione o immotivata marginalizzazione dalla normale
comunicazione aziendale, sottostima sistematica dei risultati, attribuzione di
compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o della condizione
fisica o di salute".
Sulla problematica in esame si
registrano comunque già alcune pronunce dei giudici di merito nel nostro Paese:
in particolare merita menzione la sentenza emessa dal Tribunale di Torino in
data 11.12.1999 con cui sono stati attentamente analizzati anche gli stati
patologici sintomatici dell’esistenza di un comportamento discriminatorio
giuridicamente rilevante: sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità
emotiva, nervosismo, insonnia, disappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi
di pianto con conseguente frequente ricorso all’uso farmacologico di
ansiolitici, antidepressivi, e disintossicanti.
I danni alla persona che conseguono
a tali condizioni patologiche sono evidenti e possono essere sussunti
nell’ipotesi del "danno biologico", come in seguito si dirà, ciò
che va qui evidenziato è che pur essendo le discriminazioni sul lavoro un
fenomeno risalente nel tempo, esse di recente sono venute diffondendosi di pari
passo con il fenomeno della "globalizzazione" e dell’esaltazione del
liberismo economico più spinto.
In tale contesto, ed in sicuro
contrasto anche con i principi di tutela della dignità umana del lavoratore
sanciti dalla nostra Costituzione (artt. 35 e 41 in particolare) si registrano
svariate forme di discriminazione ingiustificata sul lavoro che sfociano in una
nuova "richiesta di giustizia ": prima di esaminare le strade a tal
uopo percorribili è necessario però soffermarsi su di un nuovo aspetto del
fenomeno, quello cioè del suo manifestarsi nel pubblico impiego.
Le cause dell’espandersi del fenomeno nel pubblico impiego
Il problema del mobbing
inteso quale "attività persecutoria ed inibitrice" esercitabile
nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente da chi si trova in una posizione
di supremazia non rappresenta certamente una novità tant’è che, come già
detto, il legislatore del 1942 si era interessato del problema ponendo
nell’art.2087 del codice civile il principio secondo il quale incombe al
datore di lavoro l’obbligo di tutelare la salute psico-fisica dei propri
dipendenti.
La Costituzione repubblicana ha poi
specificato che l’attività economica non può svolgersi in contrasto con la
dignità umana e, ciononostante,il problema del mobbing si è presentato
-di recente - anche nel pubblico impiego ove si è certamente "slatentizzato"
per l’innesto massiccio di logiche privatistiche nell’organizzazione e
nell’operato dell’Amministrazione, consacrato nel D.lgs.29/1993 e successive
modifiche (oggi D.lgs.30.3.2001 n°165).
In alcuni settori poi esso ha avuto
maggiore presa come nel mondo della Sanità ove ha trovato un terreno
particolarmente fertile nei delicati rapporti esistenti tra personale medico e
paramedico, fra struttura apicale sanitaria e dirigenza generale alla quale
ultima sono stati commessi,dalle più recenti leggi di riforma, poteri
decisionali caratterizzati dalla più ampia discrezionalità tali da poter
sfociare in forme di vero e proprio arbitrio, non facilmente sindacabili
dall’Autorità Giudiziaria, nelle sue varie articolazioni.
Anche in seno alle autonomie locali
si sono registrati comportamenti mobizzanti ad esempio nei confronti dei
segretari comunali, dopo le recenti leggi di riforma della categoria.
Dall’esame della casistica fin
qui emersa si può rilevare come nel pubblico impiego (privatizzato) la
principale causa di possibili atteggiamenti "mobbistici" è da
ricercare nella testé richiamata deprecabile tendenza legislativa in atto che
ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità
dell’agire amministrativo, sacrificandoli sull’ "altare" di un
malinteso efficientismo che certo non è un principio antitetico ai primi (come
testimonia l’art.97 della Costituzione) e che comunque è rimesso nelle mani
di organi politici ovvero di una dirigenza che certo non rispondono del proprio
operato ad alcun Consiglio di Amministrazione o ad alcuna assemblea di soci e
che, comunque, utilizzano danaro pubblico nell’esercizio delle funzioni loro
rispettivamente conferite dalla legge.
Ecco allora come l’incarico di
una funzione dirigenziale a persona esterna all’Amministrazione da parte
dell’organo politico (ex art.19 D.lgs.165/2001) in dispregio del curriculum e
dell’anzianità di servizio di altri aspiranti a quella carica provenienti dai
ruoli dell’Amministrazione interessata può divenire un fatto "mobbistico"
ed essere contemporaneamente difficilmente perseguibile in sede giudiziaria
essendo in qualche modo giustificato dalla legge al fine di garantire
l’efficiente funzionamento della struttura.
Analogamente è a dirsi per quanto
attiene alle nomine dei primari di reparto operate dai Dirigenti del Servizio
sanitario nazionale di cui all’art.26 del D.lgs.165/2001.
E gli esempi potrebbero continuare
anzi c’è il concreto rischio che nel pubblico impiego privatizzato il
frequente cumularsi delle inefficienze del previgente sistema con i vizi del
nuovo finisca per dare un poderoso "contributo" all’arricchimento
della casistica del mobbing: si avverte, infatti, un crescente e
generalizzato malessere nei diversi settori attraverso i quali si articola
l’amministrazione pubblica, generato da crescenti condotte asseritamente
vessatorie perpetrate nei confronti del lavoratore.
Se in passato la rigidità
strutturale ed organizzativa delle amministrazioni comportava la conseguenza che
il lavoratore venisse preposto all’esercizio di specifiche mansioni
difficilmente modificabili almeno nei loro aspetti qualitativi, l’attuale
sistema di gestione della cosa pubblica e delle risorse umane, trasmigrando
verso moduli e modelli di funzionamento "aziendalistici" mutuati dal
settore privato, ha provocato l’attenuarsi di tale garanzia al fine di
perseguire obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione
amministrativa.
Orbene, pur nella plausilibilità
teorica di tale assunto è innegabile che un sistema di gestione organizzativa
costruito conseguentemente sulla "flessibilità" e sul "rapporto
fiduciario" avrebbe richiesto una maggiore ponderazione nell’attuazione
degli strumenti legislativi per la sua concreta realizzazione e, soprattutto,
dei correttivi che avessero evitato una esasperazione dei criteri sui quali si
fonda.
Il vincolo di fiduciarietà tra gli
organi di direzione politica e gli organi di gestione, che secondo il
legislatore deve rappresentare una linea guida per la riforma del nostro sistema
amministrativo, in modo da renderlo efficiente ed efficace nel perseguimento
degli obiettivi prefissati in sede politica attraverso le diverse tipologie di
atti di programmazione a cui deve ricondursi l’attività gestionale -pur
condivisibile in linea di principio - nella prassi applicativa può facilmente
prestarsi a connivenze, complicità o parzialità che possono integrare gli
estremi del comportamento "mobizzante"nel pubblico impiego.
La complessiva rilevanza del
fenomeno del mobbing pur senza destare allarmismi, non va dunque
sottovalutata se è vero come è vero che L’INAIL ai sensi dell’art.10 comma
4 del D.lgs. 38/2000 lo ha inserito negli studi sulle nuove patologie
professionali; di qui alla sua allegazione al fine di ottenere una pensione
"privilegiata " il passo è breve: va quindi esaminata la risposta
giudiziaria più immediata che al fenomeno può darsi a legislazione vigente.
Le "risposte" ipotizzabili.
Individuata dunque l’esistenza di
un vizio genetico nella vigente legislazione che favorisce il diffondersi di
atteggiamenti discriminatori nel mondo della Pubblica amministrazione e,
conseguentemente, segnalata l’esigenza di un intervento legislativo
riparatore, come prima difesa di fronte al fenomeno, va comunque affermato come
l’attività persecutoria posta in essere dal detentore di poteri decisionali
capaci di incidere nell’altrui sfera giuridica, ove provata, costituisce un
atto illecito, cioè un atto che devia dai canoni del buon andamento della
pubblica Amministrazione e che è meritevole di sanzione da parte
dell’Ordinamento giuridico.
Ecco, dunque, la necessità di
difendere il binomio buon andamento-legalità che costituisce sicuro baluardo di
fronte a quegli arbitri che non possono giustificarsi con il suggestivo richiamo
al "rapporto fiduciario": "l’eccesso di potere" quale
vizio dell’atto amministrativo nelle sue varie figure sintomatiche deve
costituire l’unico metro per verificare -ad esempio- la legittimità di uno
scavalcamento nella progressione in carriera (vedasi: Consiglio di Stato,sez.IV°-sent.n°495
del 24.3.1998) che può costituire un’ipotesi di mobbing giuridicamente
rilevante.
Anche allo stato attuale della
legislazione si può e si deve pretendere che l’attività degli organi di
direzione politica o di alta amministrazione si estrinsechi sempre in
provvedimenti congruamente motivati e sia attenta al rispetto della L.241/1990
sulla trasparenza amministrativa.
Di fronte ad atteggiamenti
asseritamente "mobizzanti" il lavoratore, pubblico o privato, può
certamente trovare una prima forma di tutela giudiziale nell’invocazione di
provvedimenti d’urgenza di tipo inibitorio innanzi al giudice del
lavoro(vedasi Pretura Milano, sent.31.1.1997) e, tuttavia, tale ipotesi non
sembra di facile realizzazione anche per la mancanza di norme processuali
"ad hoc".
Tralasciando gli aspetti penali che
pure potrebbero rilevare in ipotesi di comportamenti vessatori ai danni dei
pubblici dipendenti (penso all"abuso di potere", alla "violenza
privata " aggravata, etc.)è evidente che il mobbing può essere
causa di "danno biologico" risarcibile innanzi al giudice ordinario ed
è stata questa la via sin ora principalmente seguita in tali ipotesi.
Nel Settore pubblico, poi, una
condanna della P.A. per danno biologico da mobbing può comportare, tra
le altre conseguenze, un danno per l’Erario di cui l’autore può essere
chiamato a rispondere innanzi alla Corte dei Conti.
E’ su questo aspetto che qui ci
si intende soffermare: ove infatti un dipendente pubblico risulti vittorioso in
una causa intentata contro l’amministrazione di appartenenza per ottenere il
risarcimento del danno biologico derivante da condotta vessatoria posta in
essere nei suoi confronti dal titolare di un potere di supremazia appartenente
alla sua stessa amministrazione è evidente che l’esborso da parte dell’Ente
della somma risarcitoria non può non costituire un danno erariale, cioè una
ingiustificata diminuzione del patrimonio pubblico.
E l’ipotesi è tutt’altro che
scolastica se è vero come è vero che di essa se ne è interessato
recentemente, seppure con pronuncia a carattere processuale, il Consiglio di
Stato in una controversia intentata da una dipendente dell’ AUSL n. 5 di
Crotone che aveva convenuto in giudizio l’azienda di appartenenza per ottenere
il risarcimento del danno biologico da mobbing.
Il massimo consesso della Giustizia
amministrativa con l’ordinanza n°6311 del 6.12.2000 ha preso per la prima
volta in esame il concetto di mobbing nel pubblico impiego affermando,
però, che è competente l’Autorità giudiziaria ordinaria a decidere su di
una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico ad esso
conseguente.
Viene altresì precisato che la
giurisdizione in tal materia appartiene alla magistratura ordinaria anche se la
pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie
"sanitari") atteso che l’art.33 comma 2 lettera e) del D.lgs.80/98,
nel testo modificato dalla L.21.7. 2000 n. 205, esclude dalla giurisdizione
amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il
danno alla persona o alle cose".
Dunque può adirsi il giudice
ordinario con azione tesa ad ottenere la condanna dell’ente pubblico di
appartenenza al risarcimento del danno biologico derivante da mobbing,
danno biologico che ha trovato la sua prima definizione in sede legislativa con
il comma 3 dell’art.5 della L.57/2001 che (seppure ad altri fini) lo ha
definito come "lesione all’integrità psico-fisica della persona
suscettibile di accertamento medico-legale" che "è risarcibile
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione del reddito
del danneggiato".
L’ipotesi del risarcimento del
danno biologico è quella che statisticamente dovrebbe, dunque, essere
preminente: essa postula un duplice accertamento fattuale: innanzitutto relativo
alla sussistenza di un atteggiamento ingiustificatamente vessatorio (da provarsi
attraverso prova testimoniale e/o documentale, informazioni sindacali, etc.) e,
solo successivamente, l’accertamento dell’esistenza di effetti
pregiudizievoli per l’equilibrio psico-fisico del dipendente direttamente
connessi al fatto "mobbistico ", accertamento da compiersi
essenzialmente attraverso un’attenta consulenza medico-legale (i parametri
applicabili sono quelli universali al pubblico ed al privato, del disagio
psico-fisico,come descritti in una eccellente sentenza resa dal tribunale di
Torino in data 11.12.1999 e pubblicata sul Foro Italiano nel n°1/2000 a
pag.1555).
Successivamente a tale duplice
accertamento si potrà procedere alla determinazione del risarcimento del danno
da effettuarsi probabilmente in via equitativa senza il ricorso a criteri
egualitari o comunque unicamente fondati sul "reddito del lavoratore",
tenendo altresì presente che – vertendosi in ipotesi di responsabilità
contrattuale – si dovrà tener conto del limite della "prevedibilità del
danno" di cui all’art.1225 del codice civile, ove non sia provato il dolo
del debitore.
Comunque sia eventuali sentenze di
condanna in casi del genere colpiscono anche l’ente di appartenenza in quanto
questo è solidalmente responsabile ex art.28 della Costituzione con il proprio
dipendente che ha posto in essere il comportamento vessatorio causativo di danno
e i conseguenti esborsi costituiscono, a loro volta, "danno erariale",
cioè - come già detto - " ingiusta lesione di un interesse economicamente
valutabile di pertinenza dello Stato " (così: Cass.SS.UU. 4.1.1980 n. 2).
Ove si verifichi tale situazione,
la risposta dell’Ordinamento giudiziario può arricchirsi del ruolo della
Corte dei conti attraverso quella che è stata definita "azione di
regresso" e che - in realtà - è un’azione obbligatoria e pubblica tesa
ad ottenere il reintegro del patrimonio della P.A. attraverso il recupero nei
confronti dell’autore del fatto illecito dannoso delle somme cui la P.A. è
stata costretta all’esborso a causa della condotta del proprio dipendente.
Tale azione è appunto attribuita
dall’art.103 della Costituzione alla Corte dei conti che ha una generale
competenza nelle materie della contabilità pubblica e a cui vanno dunque
comunicate tutte le sentenze emesse da altri giudici recanti condanne
patrimoniali della P.A. e vanno indirizzate tutte le denunce di sprechi e
malversazioni da parte dei cittadini.
Il titolare esclusivo dell’azione
risarcitoria è il P.M. presso la Sezione giurisdizionale regionale della Corte
competente per territorio (cioè quella della regione in cui si è verificato il
danno) che ha un termine prescrizionale di cinque anni per l’esercizio della
stessa decorrenti dalla verificazione del fatto dannoso che in caso di
risarcimento danni da mobbing si configura come "danno
indiretto" cioè conseguenza di una sentenza e non della diretta attività
dell’autore del fatto illecito, sicchè il predetto termine prescrizionale può
iniziare a decorrere anche a molti anni di distanza dal verificarsi del fatto
integrante gli estremi del mobbing.
La conseguente citazione del
presunto responsabile deve avvenire, previa contestazione degli addebiti,
innanzi alla Sezione giuridizionale regionale competente che giudica in
composizione collegiale e può pervenire a sentenza di condanna solo ove ravvisi
nel comportamento causativo del danno erariale gli estremi del dolo o della
colpa grave, ipotesi peraltro di facile ricorrenza nel caso di comportamenti
"ingiustificatamente vessatori" tenuti da un dirigente pubblico.
Il processo si svolge
sostanzialmente nelle forme del rito civile e l’eventuale sentenza di condanna
di primo grado è provvisoriamente esecutiva, salva la facoltà del convenuto di
interporre appello alle sezioni centrali della Corte, servendosi di un avvocato
dotato del patrocinio in Cassazione.
Può quindi affermarsi che anche la
Corte dei Conti, attraverso l’esercizio dell’azione risarcitoria nei
confronti di chi abbia posto in essere un comportamento mobbistico causativo di
danno per un ente pubblico, può concorrere alla repressione di tali deplorevoli
condotte e, tuttavia, sia consentito affermare che ancora una volta la sola
risposta giudiziaria, per quanto articolata, non potrà che essere
insoddisfacente se non si farà in modo che essa sia una extrema ratio,
se cioè ancora una volta si scaricheranno tutti gli oneri connessi alla
problematica testé trattata sul settore giustizia.
E’ necessario innanzitutto una
risposta legislativa adeguata, come innanzi segnalato, che tenda a prevenire la
possibile insorgenza nel settore pubblico di atteggiamenti mobbistici, è poi
necessario un concreto utilizzo degli organi di controllo interno ad ogni
amministrazione per monitorare la situazione dei dipendenti sotto il profilo non
solo del loro rendimento, ma anche della corretta gestione delle risorse umane.
Solo il costante utilizzo di tali
metodiche eviterà un prevedibile massiccio ricorso alla giurisdizione per
reprimere le più varie condotte asseritamente mobbistiche configurabili nel
pubblico impiego, con la conseguente lievitazione di cause per risarcimento del
danno biologico da mobbing, prevedibilmente destinate - altrimenti - a
costituire un nuovo filone di contenzioso destinato (al di là dei casi di
effettiva verificazione) ad arricchire pochi e a danneggiare le pubbliche
finanze e, quindi, tutti i cittadini-contribuenti.
V. in argomento in questa rivista:
CONSIGLIO
DI STATO, SEZ.V - Ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311 (con nota di G.
Saporito).
n. 12-2000 - © copyright - vietata la
riproduzione.
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V -
Ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311 - Pres.
Iannotta, Est. Fera - L. (Avv. Maria Rosaria Squadra) c. A.S.L. n. 5 di
Crotone (Avv. Raffaele Mirigliani).
Giurisdizione
e competenza – Pubblico impiego – Mobbing – Richiesta di risarcimento dei
danni – Giurisdizione del giudice ordinario – Fattispecie relativa a
dipendente ASL.
È competente l’autorità
giudiziaria ordinaria a decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un
dipendente per danno biologico da mobbing. La giurisdizione è della
magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di
servizi pubblici (nella specie, sanitari), atteso che l’art. 33, comma 2
lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n.
205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente
risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose" (1).
(1) Entra nel pubblico impiego il
concetto mobbing, che viene tuttavia subito espulso dalla giustizia
amministrativa ed affidato alle cure del giudice ordinario. Nel caso trattato si
discuteva di una richiesta di condanna al pagamento di una somma provvisionale
(art. 3 L. 205/2000), in relazione al binomio danno biologico-mobbing.
Il Consiglio di Stato, con
l'ordinanza in rassegna, devia su altra giurisdizione la possibilità di
decidere, utilizzando precedenti univoci (Cass. Sez.Un. 16 gennaio 1987 n. 304
in Foro It. 1988, 1, 2686; Cass. 10 ottobre 1967 n. 2358, Foro amm.
1968, 1,1,100). Precedenti che tuttavia fanno riferimento a infermità di tipo
traumatico (infarti, danni da radiazioni, traumi in genere), che agevolmente si
collocano nell’ambito della giustizia su responsabilità extracontrattuale e
che quindi pacificamente sono da sempre affidate all’indagine del giudice
civile.
Diverso sembra il ragionamento per
il mobbing, che rappresenta la somma di comportamenti direttamente connessi
all’organizzazione del lavoro, oscillanti dall’eccessivo carico di lavoro ai
soprusi del superiore e che quindi sembrano gravitare più su aspetti
organizzativi che su specifiche, singole situazioni traumatizzanti.
Il mobbing nel pubblico impiego,
con il suo corredo di stati patologici diagnosticabili neurologicamente come
sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia,
inappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto, uso farmacologico di
ansiolitici, antidepressivi e disintossicanti, trasloca quindi dal giudice
amministrativo a quello ordinario, quale corredo degli accertamenti su carriere
(e fallite carriere), sul divenire del rapporto, sugli inquadramenti, su tutto
ciò (dispiaceri, traversie) che accompagna il dipendente nella sua vita insieme
alla pubblica amministrazione.
In ogni caso, poichè al giudice
amministravo non è rimasto quasi nulla del rapporto di pubblico impiego, è
comprensibile che declini la competenza sui meccanismi organizzativi che possono
generare mobbing. Tuttavia potrebbe essere opportuno che trasmigri dalle sedi
della giustizia amministrativa ai Tribunali anche quel bagaglio di strumenti che
anni di giurisprudenza hanno affinato: basti pensare all’eccesso di potere in
senso assoluto ed in senso relativo (Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 1998 n.
495), formula senza la quale non è possibile verificare la legittimità di uno
scavalcamento nella progressione di carriera.
Mentre trova spazio nelle
aule giudiziarie, il mobbing ha porte aperte anche nelle coperture assicurative:
lo stesso INAIL infatti lo inserisce negli studi su nuove patologie nelle
malattie professionali ex art. 10 co. 4 D.Lgs. 38/2000. Si vedano in dettaglio
le linee di indirizzo dell’istituto, leggibili nel sito www.inail.it
, che contengono appunto un formale riferimento al mobbing quale nuova
patologia.
Di sicuro il mobbing nel rapporto
alle dipendenze con la pubblica amministrazione sarà più difficile da
percepire: i parametri applicabili saranno probabilmente quelli – universali
nel pubblico e nel privato – del disagio psicofisico, come descritti dalla
sentenza del Tribunale di Torino 11 dicembre 1999 (Foro It. 2000, 1,
1555).
Ma se è agevole comprendere il
disagio del dipendente torinese, spostato in altro comparto aziendale e privato
di alcune qualificanti attività (passando dalla gratificante gestione
poliglotta di clienti stranieri, al mero caricamento dati ed emissione di bolle
di accompagnamento), sarà meno agevole districarsi tra le sottili malvagità
che spesso serpeggiano nel pubblico impiego.
Se con la scarsezza di mezzi
probatori di cui disponeva, il giudice amministrativo riusciva ad eliminare
sottili illegittimità, il migliore augurio che si può fare al giudice
ordinario è di saper intervenire con altrettanta capacità (Guglielmo Saporito,
18.12.2000).
(omissis)
per l’annullamento
dell’ordinanza n. 794 del 5
ottobre 2000 del TAR Calabria – Catanzaro, sez. II, n. 794/2000, resa tra le
parti, concernente danno biologico da mobbing;
Visti gli atti e documenti
depositati con l’appello;
Vista l’ordinanza di rigetto
della domanda cautelare proposta in primo grado per il pagamento, a titolo di
provvisionale, della somma spettante;
Considerato che la domanda, con la
quale viene denunciata la lesione del diritto alla salute generata da
"mobbing", qualificata dallo stesso ricorrente come azione di
riconoscimento del danno derivante da illecito civile ex art. 2043 cc., esorbita
chiaramente dalla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass., Sez.Un.,
10.10.67 n. 2358; Id. 14.5.1987 n. 4441).
Che, peraltro, anche ove essa fosse
fondata sul rapporto di servizio con la ASL n. 5, la materia, a seguito
dell’entrata in vigore del D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80, rientra ora nella
giurisdizione dell’A.G.O.;
Che, inoltre, neppure è
configurabile nella specie una controversia in materia di pubblici servizi,
posto che l’art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo
modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione
amministrativa "le controversie meramente risarcitorie che riguardano il
danno alla persona o a cose" e che non vi sono profili di domanda che
concernano l’organizzazione del pubblico servizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso
in appello.
Depositata in cancelleria il
06.12.2000.
V. anche il forum
on line sul pubblico impiego.
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Mobbing
contatto
immediato con l'autore di questo sito:
beteldue@hotmail.com
Il
lavoro è diventato un incubo? I colleghi sono
come belve? Parole ormai purtroppo entrate nell'uso
comune: mobbing, bossing, violenza, minaccia,
licenziamento, trasferimento, demansionamento........E
le loro conseguenze: danno biologico, professionale,
stato ansioso depressivo, ecc.....E i nuovi bisogni che
esprimono: tutela legale giudiziale, assistenza di
avvocato, cura ed assistenza medica....
Negli
ultimi tempi sono stati chiusi molti Forums su cui si
discuteva con forza del Mobbing....chissà perchè...ma
state tranquilli, Signori Censori......
NON
RIUSCIRETE A FARCI TACERE !
(Surfers:
utilizzate il navigatore a sinistra)
"Vuoi
contare le cose che hanno cambiato la Storia?
Probabilmente ti basteranno le dita di una mano: - il
Fuoco; - la Ruota; - la Stampa; - l'Automobile; - la
Rete"
|
"Ogni
giorno la Rete cresce; ogni giorno puoi crescer con la
Rete"
"Pensi
che se reagisci non pulirai il Mondo? Può darsi,
ma se non reagisci lo sporcherai ancora di più"
(l'autore di questo sito)
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La
responsabilità diretta e personale nel danno da
"mobbing".
La comprensione di questa parte del mio sito
richiede una buona preparazione giuridica. Il capitolo
che segue è stato pubblicato sul n. 1/2000 della
rivista di diritto "Lavoro e Previdenza
oggi", pag. 5. Sono a disposizione dei
lettori via mail per chiarire le parti che dovessero
sollevare perplessità
(L'AUTORE)
SOMMARIO:
1 Premessa: un argomento poco conosciuto
2 Introduzione: la perdita del senso di
responsabilità personale
3 L'aspetto sostanziale
4 L'aspetto formale: questioni di rito e competenza
5 Plurioffensività della condotta e pluralità dei
soggetti lesi
6 De jure condendo
7 Note
- Premessa: un argomento poco conosciuto
Negli ultimi anni si è iniziato a parlare del
problema del "mobbing" (nota 1) sul posto
di lavoro, mettendone in luce - e giustamente -
definizione, caratteristiche, crescente diffusione,
finalità politiche ed aziendali, aspetti economici,
danni subiti dai lavoratori vessati , responsabilità
del datore di lavoro, carenze legislative, ecc.
Scarsa attenzione, però, è stata dedicata ad un
argomento pur fondamentale ed "intuitivo":
la responsabilità personale diretta, civile e
penale, dei colleghi e superiori gerarchici autori
dei fatti di "mobbing" (c.d. "mobber")
nonché le valenze di plurioffensività della loro
condotta.
E' su questo aspetto che si intende in questa
sede attirare l'attenzione, nella consapevolezza che
quanto qui tratteggiato è solo il primo passo di un
lungo e laborioso cammino.
- Introduzione : la perdita del senso di
responsabilità personale
Se osserviamo i casi di "mobbing" da
vicino, rimaniamo sconcertati dal notare come -
troppo spesso - i "mobber" abbiano agito
come se coltivassero, nell'intimo, un forte
convincimento di impunità.
Sia chiaro: le cause del "mobbing" sono
politiche, non psicologiche; tuttavia, è fin troppo
ovvio che moltissimi episodi con tutta probabilità
non si sarebbero verificati se gli autori del
"mobbing" avessero dovuto riflettere anche
un solo istante sulle possibili conseguenze, civili
e penali, "a loro carico".
Eppure il concetto generale che l'autore del
fatto illecito e del "fatto-reato"
risponda personalmente (con tutto il suo patrimonio,
presente e futuro, nonché con la sua posizione
penale) è antico come l'uomo; anzi , per millenni
è stato ancorato al puro e semplice elemento
materiale, generando una responsabilità oggettiva,
immediata, precisa, persino "brutale":
pensiamo al guardiano del fuoco che veniva "
comunque" punito se lasciava spegnere il fuoco.
***
Nei secoli diversi elementi , soggettivi ed
oggettivi, hanno progressivamente contribuito a
"temperare" il senso generale di
responsabilità del cittadino contemporaneo (nota 2)
Inoltre , gli art. 2049 e 2087 cod. civ., ( pur
preziosi per il ruolo di responsabilizzazione del
datore di lavoro , soggetto che si presume, fra
l'altro, dotato di molta maggior "rispondenza
patrimoniale" rispetto al singolo collega),
hanno comportato che il più delle volte venne
chiamato in causa "solo" il datore di
lavoro.
Ciò - unitamente ad un certo "clima
politico" presente "in azienda" -
deve aver contribuito a far sorgere nei "mobber"
quasi la sensazione " che il luogo di lavoro
sia diventato una causa oggettiva di esclusione
della punibilità " (considerazioni
parzialmente analoghe possono valere per fenomeni
simili: il "nonnismo" in ambito militare,
il "bullismo" nelle scuole ed in certi
quartieri, ecc)
E' questo un caso - e non certo l'unico - di
previsioni di responsabilità che dovrebbero essere
"di regresso" e "di maggior
garanzia" finendo invece per diventare "la
vera responsabilità" normalmente azionata in
giudizio, con forte conseguenza
"diseducativa" sull'intero corpo sociale.
- L'aspetto sostanziale
Eppure i fatti di "mobbing" sul luogo
di lavoro (aggressioni, discussioni, liti,
insubordinazioni, dequalificazioni, inattività
forzate, molestie sessuali, comportamenti omissivi
ed elusioni di doveri, uso strumentale ed estorsivo
del potere disciplinare, trasferimenti pretestuosi,
boicottaggi, atteggiamenti beffardi dei superiori e
dei colleghi , umiliazioni ingiustificate nelle
progressioni di carriera, osservazioni e
provocazioni quotidiane, atti e comportamenti di
ingiuria e diffamazione, ecc) sono produttivi di
danni ben precisi, rilevanti sia sotto il profilo
civile sia sotto quello penale.
Civilisticamente abbiamo innanzi tutto - come
conseguenza più frequente del "mobbing" -
il danno biologico(nota 3) , concetto ormai pacifico
nella giurisprudenza italiana; abbiamo poi il danno
professionale(nota 4), anch'esso ampiamente
riconosciuto sia dalla giurisprudenza di merito che
di legittimità.
Il danno biologico deve essere integralmente
addebitato in maniera personale e diretta "agli
autori del mobbing"; questo deve avvenire ogni
volta che ricorrano le condizioni previste dall'art.
2043 cod. civ., indipendentemente dalle obbligazioni
(importanti sì, ma pur sempre "di
regresso") gravanti sul datore di lavoro ex
art. 2049 e 2087 cod. civ.
Penalmente parlando, si dovrà procedere - a
querela del "mobbizzato" o anche
d'ufficio, nei casi in cui è possibile - per tutte
le fattispecie che dovessero emergere, fra cui, per
fare l'esempio più frequente, per il reato di
lesioni
Ma anche del danno professionale, oltre al datore
di lavoro per i consueti titoli (art. 2103 ma anche
2087 e 1375 cod. civ.) , "devono rispondere
aquilianamente gli autori del mobbing", in
tutti i casi in cui il danno è eziologicamente
riconducibile a reiterati comportamenti personali,
dolosi o colposi (per es. ingiustificate sottrazioni
di pratiche importanti avvenute per iniziative
personali di determinati capiservizio) che hanno
comportato ingiuste dequalificazioni o emarginazioni
del lavoratore.
A maggior ragione, di quanto sopra gli autori del
"mobbing" devono rispondere, questa volta
sotto il profilo penale, quando i fatti suddetti,
come non di rado succede, oltre ad essere
apprezzabili sul piano civilistico come danno
professionale sono rilevanti sul piano penale a
diversi titoli (si pensi anche solo a comportamenti
che , legati a dequalificazioni artatamente indotte,
sono fatti di ingiuria, diffamazione, ecc; si veda
Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539, di cui amplius
più oltre)
- L'aspetto formale: questioni di rito e di
competenza
L'orientamento prevalente (ma non incontrastato)
classifica come "cause di lavoro", con
tutte le conseguenze sul rito e sulla competenza,
anche quelle (non numerose) in cui si è azionata (
o azionata anche) la responsabilità personale di
colleghi; in questo senso, per esempio, Pret. Torino
17/5/96; Cass. 2/3/94 n. 2049; Cass. 20/1/93 n. 698;
Pret. Roma 7/6/89; Trib. Milano 15/2/86; Cass.
6/2/85 n. 897; Cass. 27/5/83 n. 3689; Cass. 8/8/83
n. 5293; Cass. 12/12/83 n. 7329; Cass. 19/4/82 n.
2437; Cass. 22/9/81 n. 5171.
L'orientamento non è pacifico, in quanto vi sono
pronunce che, forse più opportunamente, hanno
distinto la "causa petendi"; se la stessa
è costituita dalla responsabilità
extracontrattuale, si applicano le normali norme
sulla competenza: questo tanto se l'azione è
impostata contro il collega (un esempio: Trib.
Milano 9/5/98 per un caso di molestie sessuali sul
luogo di lavoro) quanto contro lo stesso datore (un
esempio: Cass. 12/11/96 n. 9874 per un sinistro
stradale occorso mentre l'attore si recava al
lavoro).
E' tuttavia innegabile che il primo orientamento
sia prevalente; fondamentale, al riguardo, si
presenta la recentissima Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99,
n. 9539 (inedita allo stato) che riguarda fatti in
cui , sono certo, molti "mobbizzati" si
riconosceranno.
***
Una lavoratrice licenziata da una grande impresa
privata promosse (oltre all'impugnazione del
licenziamento) una causa contro il dirigente del
personale, da lei ritenuto responsabile della
vicenda che portò al licenziamento e del
conseguente danno all'immagine; nel caso specifico,
venne lamentato anche che il suddetto dirigente
assunse atteggiamenti di minaccia e di contenuto
estorsivo (fra l'altro con reiterate prospettazioni
di presentare una denuncia penale per ottenere le
dimissioni della lavoratrice) nonchè lesivi della
privacy, dell'onore e della reputazione (fra cui la
divulgazione in azienda del contenuto delle
contestazioni disciplinari).
In questo processo, dopo alterne e contrastate
vicende, venne fissata la competenza funzionale del
giudice del lavoro.
La richiamata sentenza afferma che la natura
extracontrattuale della rivendicazione non può
risolvere il problema della competenza, in quanto,
nei fatti addotti in giudizio, risultava il nesso
immediato e diretto fra il comportamento illecito e
lo svolgimento del rapporto di lavoro; non solo, ma
la stessa pronuncia mette in evidenza che questo
nesso non era, nel caso specifico, riconducibile
alla mera occasionalità , vista la stretta
correlazione fra la condotta addebitata ai convenuti
e l'esercizio dei poteri datoriali gerarchico e
disciplinare.
Si tratta di deduzioni che meritano approfondita
riflessione.
E' innegabile che il rito del lavoro ,
caratterizzato dal "favor lavoratoris",
presenti pronunciati aspetti a favore del soggetto
che chiede giustizia ( maggior celerità, minori
costi, ecc.) ed è anche abbastanza palese che vi
sia un forte nesso fra il rapporto di lavoro e molti
comportamenti di "mobbing", con
particolare riguardo a vessazioni provenienti da
superiori gerarchici ed incorporate in una
stratificata "strategia aziendale".
Tuttavia non sempre il nesso è evidente e
soprattutto "incidente": se il
comportamento dannoso proviene da un pari grado o da
un inferiore gerarchico (poniamo il caso, tutt'altro
che raro, di minacce e abusi sessuali subiti per
anni ed anni sul luogo di lavoro ad opera di
colleghi) appare per certi versi una forzatura
definire l'eventuale causa per danni come una
"causa di lavoro".
Queste considerazioni , però, non sono sfuggite
alla pur minoritaria giurisprudenza sopra
richiamata; evidentemente l'orientamento prevalente
negli ultimi anni è quello di una interpretazione
ed applicazione estensiva degli art. 409 ss c.p.c.
Inoltre non sempre il rito del lavoro favorisce
chi chiede giustizia: nel caso, per esempio, della
causa da impostare in un centro di piccole
dimensioni contro dipendenti di un datore di lavoro
di rilevante peso economico e sociale (esempio
tutt'altro che raro in Italia), sarebbe in certi
casi ben più vantaggioso, per chi chiede giustizia,
poter adire la magistratura secondo le regole
ordinarie, magari dopo aver scoperto che uno dei
suoi persecutori ha una residenza che consente
scelte alternative nell'ambito della competenza
territoriale ordinaria.
L'impressione generale che se ne ricava è che si
tratta di materia che dovrebbe ancora venir
sottoposta ad un opportuno lavorio di limatura e di
elaborazione da parte della giurisprudenza.
- Plurioffensività della condotta e pluralità
dei soggetti lesi
Questo è un argomento che meriterebbe un'intera
trattazione a parte e a cui riservo, in questa sede,
brevissimi cenni, per forza di cose insoddisfacenti,
più che altro per completezza di discorso.
E' ovvio che - oltre alle vittime dirette - il
comportamento dei "mobber" danneggia
soggetti terzi fra cui, innanzi tutto, il loro
stesso datore di lavoro; a nulla rileva il fatto che
la maggior parte dei casi sono di derivazione
aziendale e fanno parte di un'ampia strategia
direzionale, in quanto anche i dirigenti sono pur
sempre dipendenti dell'impresa e ad essa devono
rispondere.
Questa responsabilità dei dipendenti-"mobber"
verso il datore di lavoro si inquadra come
inadempimento contrattuale ( per es. come violazione
dell'obbligo di fedeltà e diligenza) , traendo
forma e sostanza dalla perdita di produttività e
risorse umane inflitta all'azienda; può anche
configurarsi come obbligazione di regresso che il
datore di lavoro esercita verso di loro dopo aver
"pagato" terzi danneggiati o altri
dipendenti danneggiati ex art. 2049 e 2087 cod. civ.
A parte questa "configurazione di
base", occorre poi ricordare che spesso
l'individuo non è "fine a se stesso" ma
fa parte, a volte anche con ruoli di responsabilità,
di diverse Organizzazioni portatrici di interessi
diffusi.
Il caso più grave ed eclatante - perché
"istituzionale" - è il caso del "mobbizzato"
che sia anche dirigente, con mansioni importanti ed
effettive, di Organizzazioni Sindacali; e se i
"mobber" (non ci interessa qui se per
iniziativa loro propria o a seguito di una strategia
organica aziendale) si scagliano per anni contro il
rappresentante sindacale, fino a rendergli
impossibile l'espletamento delle sue funzioni, non
c'è forse la piena legittimazione di queste
Organizzazioni a chiedere ai responsabili i danni
loro propri (politico, d'immagine, ecc.) , distinti
da quelli personali del "mobbizzato" ?
Processualmente ritengo possibile sia azioni
distinte - che possono poi subire le vicende
processuali ritenute più opportune dal giudice a
causa della "comunanza" - sia azioni
impostate direttamente dall'uno o dall'altro dei
danneggiati, con conseguente intervento processuale
degli altri danneggiati.
6 . De jure condendo
A modesto parere di chi scrive gli istituti
legislativi e giurisprudenziali già esistenti
dovrebbero essere sufficienti a prevenire e punire -
in civile ed in penale - il fenomeno del
"mobbing", se solo si abbia la
"volontà politica" di applicarli e ,
ancor di più, se si abbia l'accortezza di
"rivalutare" certi parametri economici in
base ai quali si calcola il "quantum" dei
danni subiti.
Inoltre, chiunque abbia una solida formazione
storica ha ben presente i rischi e i problemi che
comporta una previsione eccessivamente analitica di
figure illecite e di fattispecie delittuose.
E' tuttavia possibile che leggi specifiche sul
"mobbing" possano rivestire caratteri
positivi; questo non tanto per la punibilità in
concreto del fenomeno quanto per dimostrare
l'attenzione e la volontà politica con cui si segue
questi fatti.
Per quanto a conoscenza dello scrivente ed al
momento della stesura di questo articolo (fine 1999)
giacciono in Parlamento tre iniziative distinte:
Proposta di legge n. 1813 del 9/7/96 Camera dei
Deputati , On.le Cicu ed altri: previsione dei
comportamenti come fatto-reato, prevista la
reclusione.
Proposta di legge n.. 6410 del 30/9/99 Camera dei
Deputati, On.le Benvenuto ed altri: previsione del
fenomeno come illecito disciplinare e civile;
invalidità degli atti discriminatori del datore di
lavoro; responsabilità civile degli autori delle
persecuzioni (" Il giudice condanna il
responsabile del comportamento sanzionato al
risarcimento del danno, che liquida in forma
equitativa" art. 5), richiesta, per la suddetta
responsabilità, del dolo specifico ("...e con
palese predeterminazione..." art. 1).
Proposta di legge n. 4265 del 13/10/99 Senato,
Sen. Tapparo ed altri, sostanzialmente simile a
quello dell.On.le Benvenuto.
***
E' evidente che il progetto ad iniziativa dell'
On.le Cicu - che ebbe "il merito di anticipare
i tempi" e la "sfortuna dell'oblio" -
fa "scuola a sé"; se ne potrebbe
"confermare" la validità per i motivi di
immagine e di visibilità già espressi, mentre
sotto il profilo strettamente esegetico chi scrive
ritiene che la novellazione , a colpi di previsioni
analitiche, del codice penale , non possa certo
essere considerata un metodo positivo.
I due progetti "civilistici" hanno il
merito di dare luce al fenomeno, facendolo uscire
dalle ombre e dai silenzi nei quali è stato
consumato ; contengono interessanti previsioni in
sede preventiva ; prevedono l'invalidità degli atti
contro il lavoratore "mobbizzato".
Soprattutto, prevedono esplicitamente la "
responsabilità civile e disciplinare dei colpevoli
".
Entrambi i suddetti progetti contemplano la
competenza del giudice del lavoro ( per il quale
valgono le considerazioni, in pro ed in contro, già
espresse) ed àncorano il risarcimento danni ad una
valutazione equitativa del danno , cosa che può
essere discutibile ma che è in linea con la
giurisprudenza generale sul danno biologico e
professionale.
Suscita perplessità la previsione , in questi
progetti, del dolo specifico, quando il nostro
sistema generale è basato sulla colpa ed è altresì
caratterizzato anche da (sia pure poche) previsioni
di responsabilità oggettiva.
Ancora una volta, con riferimento all'elemento
soggettivo, si ha la sensazione che la previsione
legislativa del "mobbing"e soprattutto
della responsabilità personale dei "mobber",
pur avendo effettuato, negli ultimi tempi, sensibili
progressi, soffra di una visione per così dire
"riduttiva" del fenomeno.
Qualche cosa è stato fatto, molto può e deve
ancora essere fatto.
- Note
-
Nota n. 1: Vedi M. Meucci, Considerazioni sul
"mobbing"(e analisi del d.d.l. n. 4265 del
13 ottobre 1999), in questa Rivista n. 11/1999; L.
Veneri, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro,
ibidem, 1999, 1097 ed ivi 1115. In giurisprudenza,
recentissimamente, Trib.Torino, 16/11/99, est.
Ciocchetti, E.G. c. Soc. E.D.P.(inedita allo stato).
Nota n.2: elementi che hanno attenuato la
responsabilità extracontrattuale: ricordiamo almeno:
-
una serie di fattori psicologici e di nessi
psichici fra il soggetto e la condotta o fra il
soggetto e l'evento (imputabilità, colpevolezza);
-una serie di limiti scriminanti (quasi tutti di
origine "moderna". per esempio: lo stato di
necessità), che hanno condizionato la "punibilità";
- istituti economici e sociali (pensiamo alle
assicurazioni obbligatorie) e previsioni di
corresponsabilità (per es. ex art. 2049 e 2087 cod.
civ., su cui più oltre), che hanno
"scaricato" le conseguenze economiche del
fatto illecito su soggetti terzi; - esigenze di
certezza e delimitazione anche cronologica del diritto
(la decadenza e soprattutto la prescrizione), che
hanno in molti casi condizionato o fatto cadere nel
nulla le istanze di risarcimento; - limiti al
pignoramento ed all'esecuzione forzata in generale,
che non di rado hanno vanificato ogni possibilità di
recupero concreto, ec c
Nota n.3: con riferimento al danno biologico e solo
per limitarci a qualche cenno: - sul primato del
diritto alla salute in tutte le circostanze: Corte
Cost. 20/12/96 n. 399 in Orient. Giur. Lav., 1997,
1169; sul primato di detto diritto anche sul luogo di
lavoro: Corte Cost. 18/7/91 n. 356, in Foro it.
1991,I, 3291 con nota di Poletti; Cass. Penale , sez.
IV, 8/3/88 in Riv. Pen. economia, 1990, 149, n.
CIANNELLA; sul bene primario della salute in sé
considerato, quale diritto inviolabile dell'uomo alla
pienezza della vita ed all'esplicazione della propria
personalità morale, intellettuale e culturale Cass.
24/1/90 n. 411, in Lav. prev. oggi, 1990,2387, con
nota di Meucci; -sul danno biologico sul posto di
lavoro e sulla perdita della sensazione di benessere
avvertita nello svolgimento del lavoro (c.d. "cenestesi
lavorativa") Trib. Roma 11/7/95 in Riv. Giur.
Circolaz. e Trasp., 1996, 141; Pretura Torino 8/2/93
in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, 124, n. NALETTO; Pret.
Milano 30/12/92 in Riv. Critica Dir. Lav., 1993, 387 ;
su temi analoghi Cass. 6/7/90 n. 7101, in Lav. prev.
oggi 1991,1181; Cass. 10/3/90 n. 1954 in Crit. Pen.,
1995, 50 ; - sul danno alla vita di relazione sociale,
alla sessualità e sul danno estetico, Cass. 18/4/96
n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA;
Cass. 23/1/95 n. 755 in Zacchia, 1997, 117; Cass.
2/7/91 n. 7262 in Arch. Civ., 1991, 1126 ed altresì
in Foro It., 1992, I, 803; Trib. Aquila 26/1/91 in
P.Q.M., 1991, fasc. 1, 67; Trib. Sassari 19/5/90 Riv.
Giur. Sarda, 1990, 717, n. FRAU ; Cass. 13/11/89 n.
4791 in Mass., 1989; Cass. 19/5/89 n. 2409 in Mass.,
1989; Trib. Monza, 15/2/88 in Arch. Giur. Circolaz.,
1988, 1067, n. GUSSONI; Trib. Ravenna 12/2/88 in Dir.
e Prat. Assicuraz., 1989, 512 ; Trib. Padova 24/5/82
in Giur. di Merito, 1984, 65 ed altresì in Riv. It.
Medicina Legale, 1984, 217 - sulla rilevanza, nel
concetto di danno biologico, pure della componente
morale: Trib. Bologna 13/6/95 in Riv. It. Medicina
Legale, 1997, 811; Cass. 26/10/94 n. 8787 in Arch.
Giur. Circolaz., 1995, 632; Trib. Milano 17/10/94 in
Gius, 1995, 165; - sulla valutazione equitativa del
danno biologico, avuto riguardo al "valore
umano" perduto, e sui criteri di valutazione:
Cass. 11/8/97 n. 7459 in Danno e Resp., 1998, 251, n.
MONTAGUTI; Cass. 14/5/97 n. 4236 in Mass., 1997; Cass.
23/6/90 n. 6363 in Mass., 1990; Cass. 26/11/84 n. 6134
in Riv. Giur. Lav., 1985, II, 689, n. POLETTI; Trib.
Roma 18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18.
Nota n. 4: con riferimento al danno professionale e
solo per limitarci a qualche cenno: nella
giurisprudenza di merito, si veda: Pretura di Roma 17
aprile 1992, in Lav. prev. oggi, 1992,1172 con nota di
Meucci; Pret. Milano 7/1/97 Riv. Critica Dir. Lav.,
1997, 593; Pret. Nocera Inferiore 5/12/96 in Riv. crit.
dir. lav. 1996,458; Pret. Pinerolo 8/8/96 in Lavoro
nella Giur., 1997, 153; Trib. Milano 6/7/96 in Riv.
Critica Dir. Lav., 1997, 121; Trib. Cagliari 5/7/96 in
Lavoro nella Giur., 1997, 312, n. TOPO; Pret. Milano
11/3/96, in Riv. crit. dir. lav. 1996,677; Pret.
Milano 11/1/96 Riv. Critica Dir. Lav., 1996, 741;
Trib. Roma 3/1/96 in Riv. Critica Dir. Lav., 1997,
117; Pret. Milano 20/6/95 in Riv. Critica Dir. Lav.,
1995, 94; Pret. Catania 9/5/95 in Lavoro nella Giur.,
1996, 77; Pret. Roma 20/2/95 in Riv. Critica Dir. Lav.,
1995, 963; Pret. Milano 14/8/91 in Orient. Giur. Lav.,
1991, 888 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1992, II,
403, n POSO ed altresì in Riv. Critica Dir. Lav.,
1992, 679, n. MANNA ; Pret. Cagliari 29/10/82 in Giur.
It., 1984, I, 2, 57; Trib. Roma 18/1/82 in Dir. Lav.,
1982, II, 18); in quella di legittimità si veda:
Cass. 3/11/97 n. 10775 in Mass., 1997 ; Cass. 6/6/95
n. 6333 in Dir. Lav., 1996, II, 353, n. A.M.B.; Cass.
19/3/91 n. 2896 in Notiz. Giur. Lav., 1991, 454, Cass.
18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997, I,1, 926, n.
GIAMMARIA; Cass. 10/4/96 n. 3340 in Giust. Civ., 1997,
I, 1073 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav., 1997, II,
66, n. CALAFA'; Cass. 23/11/95 n. 12121 in Dir. Lav.,
1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 4/10/95 n. 10405 in
Riv. it. dir. lav. 1996,II,578 con nota di Bano; Cass.
20/2/95 n. 1843 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.;
Cass. 11/1/95 n. 276 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n.
A.M.B.; Cass. 16/12/92 n. 13299, in Foro it. 1993,I,
2883; Cass. 10/3/92 n. 2889 in Giust. Civ., 1993, I,
199, n. PILATI riguardante in maniera specifica il
passaggio da c ompiti operativi a quelli di studio;
Cass. 13/8/91 n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992, II,
954(con nota di Focareta) riguardante la forzata
inattività di un dirigente; Cass. 17/3/90 n. 2251 in
Mass., 1990 e 17/1/87 n. 392 in Mass., 1990 sul valore
dei compiti di coordinazione e guida del lavoro
altrui; Cass. 24/1/90 n. 411, cit.in nt.3, su
esaurimento nervoso a seguito di "reformatio in
pejus"; Cass. 19/6/81 n. 4041 in Notiz. Giur.
Lav., 1982, 5.
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Rapporto di lavoro – Vessazioni morali,
trasferimento e demansionamento con inattività,
attualizzanti la fattispecie del mobbing – Cessazione
della condotta, dichiarazione di illegittimità del
trasferimento di sede ed assegnazione a mansioni
equivalenti ex art. 2103 c.c. – Addizionale
risarcimento del danno (da qualificarsi come “danno
esistenziale”) in via equitativa, ex art. 1226 c.c. -
Spettanza e criteri di calcolo.
Tribunale di Forlì – sezione lavoro (1° grado)
– 15 marzo 2001 (ud. 23 febbraio 2001) – Est. Sorgi
– Mulas (avv. Spinelli) c. Banca Nazionale
dell’Agricoltura (poi Banca Antoniana Popolare
Veneta)(avv. Pessi, Cagnani).
Per il danno da vessazioni morali, trasferimento
illegittimo, pregiudizio all’integrità dello
stato di salute (sindrome ansioso-depressiva
somatizzata, in fattispecie), la tripartizione danno
biologico-danno patrimoniale-danno morale oramai appare
riduttiva per l’interprete in quanto lascia troppi
spazi privi di adeguata tutela. Sul punto è oramai
acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno
esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si
realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito
nella sfera della dignità senza che tale aggressione
offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria. Non
a caso il mobbing è stato definito violenza morale e
non a caso il danno esistenziale appare particolarmente
congeniale a tale situazione.
In termini di ripartizione dell’onere probatorio,
spetterà al datore di lavoro che voglia evitare profili
di responsabilità ogni volta che il lavoratore abbia
subito un danno esistenziale – e dopo che il
lavoratore abbia assolto il proprio onere probatorio di
dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra
l’evento lesivo ed il comportamento del datore di
lavoro (nel caso accertato anche tramite CTU) –,
dimostrare di aver posto in essere tutte le misure
necessarie, ex art. 2087 c.c., a tutelare l’integrità
psicofisica del lavoratore (in fattispecie,
indimostrate dalla banca convenuta).
Quali parametri risarcitori per una
liquidazione equitativa, ex art. 1226 c.c., si
ritiene di utilizzare quello della “durata”
della situazione di inadempienza congiunta a
quella di una “percentuale della retribuzione mensile
lorda” (calcolata a seconda del danno inferto o della
sofferenza subita).
Una volta emerso come dato medio mensile retributivo
quello di 5 milioni (attualizzato senza necessità di
rivalutazione ed interessi), il giudice ritiene che per
i primi 22 mesi di “danno esistenziale”
spettino 22 milioni di risarcimento sulla base di una
quota percentuale della retribuzione pari al 20% e,
per i successivi 28 mesi, la somma di 42 milioni,
calcolata sulla base di una percentuale retributiva
elevata al 30% (per un totale di 64 milioni più
interessi e rivalutazione monetaria dalla data della
sentenza a quella del saldo effettivo).
Recente sentenza, che ha una particolare
importanza :
Trib. Torino , Sez. Lavoro, n. 5050/99 dep. 16/11/99,
Est. Dr. Vincenzo Ciocchetti
Si tratta di una pronuncia di grandissimo rilievo per
una serie di motivi: - riconoscimento del mobbing come
un "fatto notorio" in una percentuale
significativa di casi all'interno degli ambienti di
lavoro italiani; - riconoscimento esplicito del danno da
mobbing; - riconoscimento della sindrome
ansioso-depressiva di natura reattiva come danno
ingiusto da risarcire - valore ed efficacia applicativa
immediata agli art. 32 Cost. e 2087 cod. civ.
Di eccezionale rilevanza sono i passaggi della sentenza
che rigettano la tesi datoriale secondo la quale il
ricorrente subì i danni perché afflitto da particolare
"labilità emotiva". Al riguardo, dopo aver
confutato la tesi datoriale perché non fondata, il
giudice estensore Dr. Vincenzo Ciocchetti ci dà una
grande lezione di civiltà umana prima ancora che
giuridica:
""" La Costituzione , nel suo art. 32, e
la legge, nell'art. 2087 cod. civ., tutelano infatti
tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e
capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa
più deboli e quindi destinati anzitempo a
soccombere"""
Di grande importanza l'ultimo passaggio prima del
dispositivo, quando il giudice dà mandato alla
cancelleria affinchè copia della sentenza venga messa a
disposizione del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Torino, per l'accertamento di eventuali
reati perseguibili d'ufficio; qui il giudice,
avvalendosi di un diritto-dovere previsto dalla legge,
offre una tutela contro il mobbing a 360 gradi,
interessando anche la magistratura penale per gli
eventuali aspetti delittuosi.
Tutta la sentenza è scritta in maniera semplice e
chiara, ed è apprezzabile da chiunque anche non dotato
di particolare cultura giuridica.
Il contenuto e gli "obiter dicta" di questa
sentenza sono stati confermati da una successiva
pronuncia del medesimo giudice
Cass. 17/6/99 n. 9539
Si tratta di una sentenza molto tecnica, il cui
contenuto è difficilmente apprezzabile per il non
giurista, ma è molto importante.
La pronuncia - in sé per sé - svolge solo un
"regolamento di competenza", confermando la
competenza del giudice del lavoro per tutte le cause che
riguardano danni subiti sul posto di lavoro; è tuttavia
importante per gli "obiter dicta", cioè per i
contenuti accessori e per ciò che afferma "fra le
righe".
Nel caso specifico il prestatore di lavoro si è
giudizialmente attivato non solo contro il datore ma
anche direttamente e personalmente contro un dirigente -
il capo del personale - sostenendo la sua responsabilità
e coinvolgendolo personalmente nella sua istanza
risarcitoria.
Si tratta di una mossa di fondamentale importanza nella
lotta contro il "mobbing", perché è evidente
che solo coinvolgendo direttamente i "mobber"
nelle azioni giudiziarie si può pensare di contrastare
efficacemente il fenomeno.
Fin tanto che a pagare sarà sempre e solo il datore di
lavoro, i "mobber" continueranno indisturbati
nei loro comportamenti; per un approfondimento su questo
aspetto rimando al mio stesso articolo pubblicato su
questo Sito (VEDI IL CAPITOLO SULLA RESPONSABILITA'
DIRETTA E PERSONALE)
Ora, questa sentenza della Cassazione, nel rinviare la
causa al giudice del lavoro di Torino, sembra sposare la
tesi che - alla responsabilità del datore di lavoro -
si affianca pure quella diretta e personale del "mobber";
sarà pertanto poi assai interessante seguire gli
sviluppi del processo e vedere a quali conclusioni
perviene la magistratura Torinese.
UNA PRONUNCIA IMPORTANTE, SOTTO IL PROFILO PROCEDURALE,
CHE RIGUARDA IL PUBBLICO IMPIEGO E LA SANITA'
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Ordinanza 6 dicembre 2000
n. 6311 - Pres. Iannotta, Est. Fera - L. (Avv. Maria
Rosaria Squadra) c. A.S.L. n. 5 di Crotone (Avv.
Raffaele Mirigliani).
Giurisdizione e competenza - Pubblico impiego - Mobbing
- Richiesta di risarcimento dei danni - Giurisdizione
del giudice ordinario - Fattispecie relativa a
dipendente ASL.
È competente l'autorità giudiziaria ordinaria a
decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un
dipendente per danno biologico da mobbing. La
giurisdizione è della magistratura ordinaria anche se
la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi
pubblici (nella specie, sanitari), atteso che l'art. 33,
comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo
modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude
dalla giurisdizione amministrativa "le controversie
meramente risarcitorie che riguardano il danno alla
persona o a cose" (1).
(1) Entra nel pubblico impiego il concetto mobbing, che
viene tuttavia subito espulso dalla giustizia
amministrativa ed affidato alle cure del giudice
ordinario. Nel caso trattato si discuteva di una
richiesta di condanna al pagamento di una somma
provvisionale (art. 3 L. 205/2000), in relazione al
binomio danno biologico-mobbing.
Il Consiglio di Stato, con l'ordinanza in rassegna,
devia su altra giurisdizione la possibilità di
decidere, utilizzando precedenti univoci (Cass. Sez.Un.
16 gennaio 1987 n. 304 in Foro It. 1988, 1, 2686; Cass.
10 ottobre 1967 n. 2358, Foro amm. 1968, 1,1,100).
Precedenti che tuttavia fanno riferimento a infermità
di tipo traumatico (infarti, danni da radiazioni, traumi
in genere), che agevolmente si collocano nell'ambito
della giustizia su responsabilità extracontrattuale e
che quindi pacificamente sono da sempre affidate
all'indagine del giudice civile.
Diverso sembra il ragionamento per il mobbing, che
rappresenta la somma di comportamenti direttamente
connessi all'organizzazione del lavoro, oscillanti
dall'eccessivo carico di lavoro ai soprusi del superiore
e che quindi sembrano gravitare più su aspetti
organizzativi che su specifiche, singole situazioni
traumatizzanti.
Il mobbing nel pubblico impiego, con il suo corredo di
stati patologici diagnosticabili neurologicamente come
sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva,
nervosismo, insonnia, inappetenza, ansia, perdita di
autostima, crisi di pianto, uso farmacologico di
ansiolitici, antidepressivi e disintossicanti, trasloca
quindi dal giudice amministrativo a quello ordinario,
quale corredo degli accertamenti su carriere (e fallite
carriere), sul divenire del rapporto, sugli
inquadramenti, su tutto ciò (dispiaceri, traversie) che
accompagna il dipendente nella sua vita insieme alla
pubblica amministrazione.
In ogni caso, poichè al giudice amministravo non è
rimasto quasi nulla del rapporto di pubblico impiego, è
comprensibile che declini la competenza sui meccanismi
organizzativi che possono generare mobbing. Tuttavia
potrebbe essere opportuno che trasmigri dalle sedi della
giustizia amministrativa ai Tribunali anche quel
bagaglio di strumenti che anni di giurisprudenza hanno
affinato: basti pensare all'eccesso di potere in senso
assoluto ed in senso relativo (Cons. Stato, sez. IV, 24
marzo 1998 n. 495), formula senza la quale non è
possibile verificare la legittimità di uno
scavalcamento nella progressione di carriera.
Mentre trova spazio nelle aule giudiziarie, il mobbing
ha porte aperte anche nelle coperture assicurative: lo
stesso INAIL infatti lo inserisce negli studi su nuove
patologie nelle malattie professionali ex art. 10 co. 4
D.Lgs. 38/2000. Si vedano in dettaglio le linee di
indirizzo dell'istituto, leggibili nel sito www.inail.it
, che contengono appunto un formale riferimento al
mobbing quale nuova patologia.
Di sicuro il mobbing nel rapporto alle dipendenze con la
pubblica amministrazione sarà più difficile da
percepire: i parametri applicabili saranno probabilmente
quelli - universali nel pubblico e nel privato - del
disagio psicofisico, come descritti dalla sentenza del
Tribunale di Torino 11 dicembre 1999 (Foro It. 2000, 1,
1555).
Ma se è agevole comprendere il disagio del dipendente
torinese, spostato in altro comparto aziendale e privato
di alcune qualificanti attività (passando dalla
gratificante gestione poliglotta di clienti stranieri,
al mero caricamento dati ed emissione di bolle di
accompagnamento), sarà meno agevole districarsi tra le
sottili malvagità che spesso serpeggiano nel pubblico
impiego.
Se con la scarsezza di mezzi probatori di cui disponeva,
il giudice amministrativo riusciva ad eliminare sottili
illegittimità, il migliore augurio che si può fare al
giudice ordinario è di saper intervenire con
altrettanta capacità (Guglielmo Saporito, 18.12.2000).
(omissis)
per l'annullamento
dell'ordinanza n. 794 del 5 ottobre 2000 del TAR
Calabria - Catanzaro, sez. II, n. 794/2000, resa tra le
parti, concernente danno biologico da mobbing;
Visti gli atti e documenti depositati con l'appello;
Vista l'ordinanza di rigetto della domanda cautelare
proposta in primo grado per il pagamento, a titolo di
provvisionale, della somma spettante;
Considerato che la domanda, con la quale viene
denunciata la lesione del diritto alla salute generata
da "mobbing", qualificata dallo stesso
ricorrente come azione di riconoscimento del danno
derivante da illecito civile ex art. 2043 cc., esorbita
chiaramente dalla giurisdizione del giudice
amministrativo (cfr. Cass., Sez.Un., 10.10.67 n. 2358;
Id. 14.5.1987 n. 4441).
Che, peraltro, anche ove essa fosse fondata sul rapporto
di servizio con la ASL n. 5, la materia, a seguito
dell'entrata in vigore del D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80,
rientra ora nella giurisdizione dell'A.G.O.;
Che, inoltre, neppure è configurabile nella specie una
controversia in materia di pubblici servizi, posto che
l'art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel
testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205,
esclude dalla giurisdizione amministrativa "le
controversie meramente risarcitorie che riguardano il
danno alla persona o a cose" e che non vi sono
profili di domanda che concernano l'organizzazione del
pubblico servizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso in appello.
Depositata in cancelleria il 06.12.2000.
LA GIURISPRUDENZA SI PRONUNCIA SUGLI ASPETTI PENALI DEL
MOBBING:
MALTRATTAMENTO
DEI DIPENDENTI PER STIMOLARNE LA PRODUTTIVITA’
E ACCRESCERE I PROFITTI AZIENDALI
– Costituisce reato punibile con la
reclusione (Cassazione Sezione Sesta Penale n.
10090 del 12 marzo 2001, Pres. Sansone, Rel.
Garribba).
Orlando
E., capogruppo responsabile di zona per la
vendita porta a porta di prodotti per la casa,
dipendente di un’azienda commerciale gestita
da Cataldo C. è stato sottoposto a processo
penale, insieme al suo principale, per
maltrattamenti in danno dei collaboratori. Il
Tribunale di Milano ha accertato che Orlando E.
“con ripetute e sistematiche vessazioni
fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci,
pugni, morsi, insulti molestie sessuali e, non
ultima la ricorrente minaccia di troncare il
rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni
pattuite (minaccia assai cogente, dato che il
lavoro era svolto in nero e le retribuzioni
venivano depositate su libretti di risparmio
intestati ai lavoratori, ma tenuti dal datore di
lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i
quali una minorenne, in uno stato di penosa
sottomissione e umiliazione, al fine di
costringerli a sopportare ritmi di lavoro
forsennati, essendo il profitto dell’impresa
direttamente proporzionale al volume delle
vendite effettuate”.
In
considerazione di ciò il Tribunale ha
condannato Orlando E. e Cataldo C. alle pene
rispettivamente di anni cinque e anni quattro di
reclusione, dichiarandoli colpevoli il primo dei
reati previsti dall’art. 572
(“maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli”) e dall’art. 610 cod. pen.
(“violenza privata”) e il secondo del solo
reato di violenza privata.
La
sentenza è stata confermata dalla Corte
d’Appello di Milano. I condannati hanno
proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra
l’altro, che il rapporto di lavoro non può
essere assimilato al rapporto di convivenza
familiare cui fa riferimento l’art. 572 cod.
pen.
La
Suprema Corte (Sezione Sesta Penale n. 10090 del
12 marzo 2001, Pres. Sansone, Rel. Garribba) ha
rigettato il ricorso osservando che l’art. 572
cod. pen., pur essendo contraddistinto dalla
rubrica “maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli” punisce anche chi maltratta “una
persona sottoposta alla sua autorità o a lui
affidata per ragioni di educazione, istruzione,
cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio
di una professione o di un’arte”.
Non
v’è dubbio, ha affermato la Corte, che il
rapporto intersoggettivo che si instaura tra
datore di lavoro e lavoratore subordinato,
essendo caratterizzato dal potere direttivo e
disciplinare che la legge attribuisce al datore
nei confronti del lavoratore dipendente, pone
quest’ultimo nella condizione, specificamente
prevista dalla norma penale testé richiamata,
di “persona sottoposta alla sua autorità”,
il che, sussistendo gli altri elementi previsti
dalla legge, permette di configurare a carico
del datore di lavoro il reato di maltrattamenti
in danno del lavoratore dipendente.
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DEMANSIONAMENTO ED ATTIVITA' FORZATA COME STRUMENTI DI
MOBBING
LO "STRESS DA NON LAVORO" PER
DEMANSIONAMENTO PUO’ CAUSARE UNA SINDROME DEPRESSIVA –
L’origine della
malattia va accertata mediante consulenza tecnica
(Cassazione Sezione Lavoro n. 1205 del 29 gennaio 2001,
Pres. Trezza, Rel. Maiorano).
M.G., dipendente della Cassa Edile
Capitanata, ha promosso, davanti al Pretore di Foggia,
un giudizio nei confronti della datrice di lavoro
sostenendo, tra l’altro, di essere stata lasciata, per
lungo tempo, in condizioni di forzata inoperosità, in
violazione del suo diritto al lavoro, e di essere stata
colpita, in conseguenza di ciò, da sindrome depressiva
con somatizzazioni; ella ha prodotto certificati medici
ed ha chiesto l’accertamento mediante prova
testimoniale e consulenza tecnica, della malattia
riportata e della sua origine, e la condanna della
datrice di lavoro al risarcimento del danno causato alla
sua salute.
Sia il Pretore che, in grado di
appello, il Tribunale di Foggia, non hanno ritenuto di
ammettere le prove e di disporre la consulenza tecnica
ed hanno rigettato la domanda di risarcimento.
Il Tribunale ha motivato la sua
decisione affermando che non era possibile neanche con
l’ausilio di un consulente tecnico provare "il
nesso causale tra le patologie di cui ai certificati
medici allegati e la mancata utilizzazione delle
prestazione lavorative della signora M." precisando
che "le malattie arteriose e le sindromi depressive
sono largamente frequenti nella nostra società e sono
causate da una molteplicità di fattori (alimentazione,
età, stress da lavoro ecc.) onde il consulente tecnico
potrebbe formulare solo ipotesi che non sarebbero
sufficienti a provare il nesso di causalità".
La Suprema Corte (Sezione Lavoro
n. 1205 del 29 gennaio 2001, Pres. Trezza, Rel. Maiorano)
ha accolto il ricorso della lavoratrice osservando in
primo luogo che non può essere negata in astratto la
possibilità di accertare l’esistenza di un danno alla
salute, in base a previsioni sui possibili esiti di una
consulenza. In secondo luogo – ha affermato la Corte
– il ragionamento seguito dal Tribunale deve ritenersi
sostanzialmente contraddittorio: dopo avere individuato
fra i molteplici fattori che possono provocare le
malattie arteriose e le sindromi depressive lo
"stress da lavoro" e quindi dopo avere
individuato il fattore "lavoro" (o "non
lavoro") come possibile concausa, il Tribunale ha
erroneamente rigettato la domanda senza istruire la
causa, ipotizzando il possibile esito negativo della
richiesta consulenza e senza nemmeno esaminare in
dettaglio la documentazione prodotta dalla parte.
La Cassazione ha rinviato la
causa, per nuovo esame alla Corte d’Appello di Bari.
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LA GIURISPRUDENZA DI BASE
Con riferimento al danno biologico e solo per
limitarci a qualche cenno: - sul primato del diritto
alla salute in tutte le circostanze: Corte Cost.
20/12/96 n. 399 in Orient. Giur. Lav., 1997, 1169; sul
primato di detto diritto anche sul luogo di lavoro:
Corte Cost. 18/7/91 n. 356, in Foro it. 1991,I, 3291 con
nota di Poletti; Cass. Penale , sez. IV, 8/3/88 in Riv.
Pen. economia, 1990, 149, n. CIANNELLA; sul bene
primario della salute in sé considerato, quale diritto
inviolabile dell'uomo alla pienezza della vita ed
all'esplicazione della propria personalità morale,
intellettuale e culturale Cass. 24/1/90 n. 411, in Lav.
prev. oggi, 1990,2387, con nota di Meucci; -sul danno
biologico sul posto di lavoro e sulla perdita della
sensazione di benessere avvertita nello svolgimento del
lavoro (c.d. "cenestesi lavorativa") Trib.
Roma 11/7/95 in Riv. Giur. Circolaz. e Trasp., 1996,
141; Pretura Torino 8/2/93 in Riv. It. Dir. Lav., 1995,
II, 124, n. NALETTO; Pret. Milano 30/12/92 in Riv.
Critica Dir. Lav., 1993, 387 ; su temi analoghi Cass.
6/7/90 n. 7101, in Lav. prev. oggi 1991,1181; Cass.
10/3/90 n. 1954 in Crit. Pen., 1995, 50 ; - sul danno
alla vita di relazione sociale, alla sessualità e sul
danno estetico, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It.,
1997, I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 23/1/95 n. 755 in
Zacchia, 1997, 117; Cass. 2/7/91 n. 7262 in Arch. Civ.,
1991, 1126 ed altresì in Foro It., 1992, I, 803; Trib.
Aquila 26/1/91 in P.Q.M., 1991, fasc. 1, 67; Trib.
Sassari 19/5/90 Riv. Giur. Sarda, 1990, 717, n. FRAU ;
Cass. 13/11/89 n. 4791 in Mass., 1989; Cass. 19/5/89 n.
2409 in Mass., 1989; Trib. Monza, 15/2/88 in Arch. Giur.
Circolaz., 1988, 1067, n. GUSSONI; Trib. Ravenna 12/2/88
in Dir. e Prat. Assicuraz., 1989, 512 ; Trib. Padova
24/5/82 in Giur. di Merito, 1984, 65 ed altresì in Riv.
It. Medicina Legale, 1984, 217 - sulla rilevanza, nel
concetto di danno biologico, pure della componente
morale: Trib. Bologna 13/6/95 in Riv. It. Medicina
Legale, 1997, 811; Cass. 26/10/94 n. 8787 in Arch. Giur.
Circolaz., 1995, 632; Trib. Milano 17/10/94 in Gius,
1995, 165; - sulla valutazione equitativa del danno
biologico, avuto riguardo al "valore umano"
perduto, e sui criteri di valutazione: Cass. 11/8/97 n.
7459 in Danno e Resp., 1998, 251, n. MONTAGUTI; Cass.
14/5/97 n. 4236 in Mass., 1997; Cass. 23/6/90 n. 6363 in
Mass., 1990; Cass. 26/11/84 n. 6134 in Riv. Giur. Lav.,
1985, II, 689, n. POLETTI; Trib. Roma 18/1/82 in Dir.
Lav., 1982, II, 18.
Con riferimento al danno professionale e solo per
limitarci a qualche cenno: nella giurisprudenza di
merito, si veda: Pretura di Roma 17 aprile 1992, in
Lav. prev. oggi, 1992,1172 con nota di Meucci; Pret.
Milano 7/1/97 Riv. Critica Dir. Lav., 1997, 593; Pret.
Nocera Inferiore 5/12/96 in Riv. crit. dir. lav.
1996,458; Pret. Pinerolo 8/8/96 in Lavoro nella Giur.,
1997, 153; Trib. Milano 6/7/96 in Riv. Critica Dir. Lav.,
1997, 121; Trib. Cagliari 5/7/96 in Lavoro nella Giur.,
1997, 312, n. TOPO; Pret. Milano 11/3/96, in Riv. crit.
dir. lav. 1996,677; Pret. Milano 11/1/96 Riv. Critica
Dir. Lav., 1996, 741; Trib. Roma 3/1/96 in Riv. Critica
Dir. Lav., 1997, 117; Pret. Milano 20/6/95 in Riv.
Critica Dir. Lav., 1995, 94; Pret. Catania 9/5/95 in
Lavoro nella Giur., 1996, 77; Pret. Roma 20/2/95 in Riv.
Critica Dir. Lav., 1995, 963; Pret. Milano 14/8/91 in
Orient. Giur. Lav., 1991, 888 ed altresì in Riv. It.
Dir. Lav., 1992, II, 403, n. POSO ed a ltresì in Riv.
Critica Dir. Lav., 1992, 679, n. MANNA ; Pret. Cagliari
29/10/82 in Giur. It., 1984, I, 2, 57; Trib. Roma
18/1/82 in Dir. Lav., 1982, II, 18); in quella di
legittimità si veda: Cass. 3/11/97 n. 10775 in Mass.,
1997 ; Cass. 6/6/95 n. 6333 in Dir. Lav., 1996, II, 353,
n. A.M.B.; Cass. 19/3/91 n. 2896 in Notiz. Giur. Lav.,
1991, 454, Cass. 18/4/96 n. 3686 in Giur. It., 1997,
I,1, 926, n. GIAMMARIA; Cass. 10/4/96 n. 3340 in Giust.
Civ., 1997, I, 1073 ed altresì in Riv. It. Dir. Lav.,
1997, II, 66, n. CALAFA'; Cass. 23/11/95 n. 12121 in
Dir. Lav., 1996, II, 356, n. A.M.B.; Cass. 4/10/95 n.
10405 in Riv. it. dir. lav. 1996,II,578 con nota di Bano;
Cass. 20/2/95 n. 1843 in Dir. Lav., 1996, II, 356, n.
A.M.B.; Cass. 11/1/95 n. 276 in Dir. Lav., 1996, II,
356, n. A.M.B.; Cass. 16/12/92 n. 13299, in Foro it.
1993,I, 2883; Cass. 10/3/92 n. 2889 in Giust. Civ.,
1993, I, 199, n. PILATI riguardante in maniera specifica
il passaggio da compiti oper ativi a quelli di studio;
Cass. 13/8/91 n. 8835, in Riv. it. dir. lav. 1992, II,
954(con nota di Focareta) riguardante la forzata
inattività di un dirigente; Cass. 17/3/90 n. 2251 in
Mass., 1990 e 17/1/87 n. 392 in Mass., 1990 sul valore
dei compiti di coordinazione e guida del lavoro altrui;
Cass. 24/1/90 n. 411, cit.in nt.3, su esaurimento
nervoso a seguito di "reformatio in pejus";
Cass. 19/6/81 n. 4041 in Notiz. Giur. Lav., 1982, 5.
|
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Psicopatologia di Internet (Internet
Psychopathology)
INTERNET ADDICTION DISORDER.
Una Review
Anna Fata
MODELLO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
DELL'UTILIZZO PATOLOGICO DI INTERNET (PIU)
di Davis R.A (1999)
L’utilizzo patologico di Internet (PIU) può
essere di due tipi:
| Specifico: include le persone dipendenti da una
funzione specifica di Internet (es. materiale erotico, gioco
d'azzardo, aste, ecc.). Queste forme di dipendenza sono
contenuto-specifiche ed esisterebbero indipendentemente dalla
presenza o meno di Internet.
| Generalizzato: comprende un sovrautilizzo
generalizzato e multidimensionale di Internet. Può includere
anche la perdita di tempo on line, senza un obiettivo preciso.
Spesso è associato alle frequenza delle chat e alla
dipendenza dalla posta elettronica. Si ritiene che tale
elemento sia in relazione con l'aspetto sociale di Internet:
il bisogno di un contatto sociale e il rinforzo ottenuto on
line accrescono il desiderio di rimanere in uno stato di vita
sociale virtuale.
|
|
Davis R.A. (1999), per identificare
l'eziologia della PIU, ha utilizzato un approccio
cognitivo-comportamentale, in base al quale il PIU deriva da
cognizioni problematiche unite a dei comportamenti che
intensificano o mantengono la risposta disadattiva. La teoria
sul PIU pone l'enfasi sulle cognizioni o i pensieri
dell'individuo intesi come la fonte principale del comportamento
anormale. Sebbene i sintomi più evidenti del PIU siano di tipo
affettivo o comportamentale, l’Autore sostiene che i
sintomi cognitivi del PIU possono spesso precedere e causare i
sintomi affettivi o comportamentali, non viceversa.
Per spiegare la natura della teoria cognitiva
del PIU si devono descrivere preliminarmente alcuni concetti.
Abramson e coll. (1989) distinguono diversi tipi di cause:
| Necessarie: fattori eziologici che devono essere
presenti o devono accadere affinché i sintomi si manifestino,
ma non è detto che i sintomi si manifestino quando la cause
necessarie sono presenti o sono avvenute, cioè necessario non
equivale a sufficiente.
| Sufficienti: fattori eziologici la cui presenza o
occorrenza garantiscono la manifestazione dei sintomi.
| Facilitanti: fattori eziologici che aumentano la
probabilità della manifestazione dei sintomi, ma non sono
necessari, né sufficienti per la loro manifestazione.
|
| |
Inoltre, Abramson e coll. (1989) distinguono
tra cause:
| Prossimali: cause posizionate verso la fine della
catena causale.
| Distali: cause collocate vicine all'inizio della
catena, lontano dai sintomi.
|
|
L'obiettivo di Davis R.A. (1999) è quello di
presentare le cognizioni disadattive come una causa
prossimale sufficiente per i sintomi del PIU.
Figura 1. Modello cognitivo-comportamentale
dell'Uso Patologico di Internet (PIU)
1. Cause distali contribuenti
Il comportamento anormale è il risultato di
una vulnerabilità a cui si è predisposti e di un evento di
vita. La psicopatologia è una causa distale necessaria dei
sintomi della PIU, cioè deve essere presente o deve
accadere affinché i sintomi si manifestino. La
psicopatologia in sé non è un elemento presente tra i nei
sintomi del PIU, ma è necessaria nella sua eziologia.
Lo stressor è l'introduzione di Internet
o di alcune nuove tecnologie reperite in Internet. L'esposizione
a tali tecnologie è una causa distale necessaria dei
sintomi del PIU. L'esperienza di queste tecnologie agisce come
un catalizzatore per lo sviluppo del PIU.
Un fattore chiave nell'esperienza di Internet
e delle nuove tecnologie ed esso associate, è il rinforzo che
un individuo riceve dall'evento. Se il rinforzo derivante
dall'utilizzo di Internet è positivo, l'individuo sarà
condizionato a compiere più frequentemente la/e medesima/e
attività per raggiungere una reazione fisiologica simile. Tale
condizionamento operante prosegue fino a che l'individuo cerca
nuove tecnologie per raggiungere una reazione fisiologica
simile. Uno shift associativo si verifica nel normale processo
di condizionamento: ogni stimolo associato con lo stimolo
condizionato primario è suscettibile di un rinforzo secondario.
I rinforzi secondari agiscono come indizi situazionali che
rinforzano lo sviluppo dei sintomi del PIU e contribuiscono al
mantenimento dei sintomi associati.
2. Cause prossimali contribuenti
Un soggetto con il PIU presenta una
disfunzione cognitiva che prende la forma di cognizioni
disadattive. Queste cognizioni sono cause sufficienti del PIU.
Le cognizioni disadattive sono di due tipi:
| Pensieri distorti su di sé: sono guidati da uno stile
cognitivo ruminante. I soggetti che tendono a ruminare
sperimentano un PIU più severo e prolungato. La ruminazione
verte continuamente su pensieri che riguardano i problemi
associati all'uso personale di Internet. La ruminazione è in
grado di mantenere o esacerbare la psicopatologia,
interferendo in parte con i comportamenti strumentali (agire)
e con la risoluzione efficace dei problemi interpersonali.
Inoltre, la ruminazione centrata su di sé porta il soggetto a
ricordare gli episodi più rinforzanti circa Internet,
mantenendo così il circolo vizioso del PIU. Altre distorsioni
cognitive su di sé includono la messa in dubbio di sé, un
basso livello di auto efficacia e una bassa autostima.
L'individuo ha una visione negativa di sé e utilizza Internet
per ottenere delle risposte più positive dagli altri in modo
non minaccioso.
| Pensieri distorti sul mondo: comprendono le
generalizzazioni di eventi specifici. Sono pensieri del tipo
tutto-o-nulla che esacerbano la dipendenza del soggetto da
Internet.
|
|
| Tali distorsioni del pensiero sono messe in atto
automaticamente ogni volta che uno stimolo associato ad
Internet è disponibile. Il risultato di tali cognizioni
disadattive sono o il PIU specifico o il PIU generalizzato.
|
3. Pathological Internet Use (PIU)
Il PIU specifico comprende il sovrautilizzo e
l'abuso delle funzioni specifiche di Internet (es. aste,
pornografia, stock trading, ecc.). Esso è il risultato di una
psicopatologia preesistente che si associa all'attività online.
Il PIU generalizzato è correlato al contesto
sociale dell'individuo. Specificamente: l'assenza di un supporto
sociale da parte della famiglia o degli amici e/o l'isolamento
sociale caratterizzano i soggetti affetti da PIU generalizzato,
che si manifesta trascorrendo enormi quantità di tempo in
Internet, o sprecandolo senza uno scopo preciso, o nelle chat
rooms. Tali soggetti, frequentemente, hanno una psicopatologia
preesistente all’abuso di Internet, sono socialmente isolati e
non esprimono le loro angosce.
4. Sintomi del Pathological Internet Use
I sintomi delineati da Davis R.A. sono simili
a quelli riscontrati da Young K.S. in ricerche precedenti
(1996). Nel modello cognitivo-comportamentale, tuttavia, viene
posta maggiore enfasi sui sintomi cognitivi quali: pensieri
ossessivi su Internet, calo del controllo degli impulsi,
incapacità di porre fine all'uso di Internet, sentire che
Internet rappresenta l'unico amico. Il soggetto è convinto che
Internet sia l'unico luogo in cui si sente bene con se stesso e
con il mondo. Altri sintomi sono: pensare ad Internet quando si
è off line, anticipare il momento in cui si sarà online,
spendere una grande quantità di denaro per il collegamento alla
rete. Un soggetto con PIU trascorre meno tempo a fare cose che
in passato gli davano piacere, ciò che lo divertiva in passato
non lo interessa più. Un'ulteriore complicazione sorge nel
momento in cui il soggetto si isola dagli amici
"reali" per quelli online. Egli, inoltre, prova un
forte senso di colpa per il suo utilizzo della rete. Spesso
mente agli amici o ai familiari circa il tempo che trascorre
online e su ciò che fa quando è collegato. Egli sente che ciò
che sta facendo non è pienamente accettabile a livello sociale,
ma non riesce a smettere. Il risultato è una diminuzione
dell'autostima e un aumento dei sintomi del PIU.
Conclusioni
Le implicazioni del modello sopra descritto
sono le seguenti:
- E' possibile considerare il PIU come specifico o
generalizzato. Il PIU generalizzato è socialmente più
pericoloso, in quanto Internet agisce come stressor per i
soggetti e può esacerbare le condizioni psicopatologiche
preesistenti. Per altre persone Internet è semplicemente un
mezzo per esprimere la loro dipendenza da diversi stimoli
(es. gioco d'azzardo, pornografia, ecc.). Questi individui
hanno un PIU specifico.
- Il modello di Davis R.A. (1999) costituisce il punto di
riferimento per la terapia cognitivo-comportamentale (CBT)
del PIU. Il focus della CBT è portare alla luce le
distorsioni cognitive, provocarle, permettere ai soggetti di
catastrofizzare ed, infine, lavorare sulla ristrutturazione
cognitiva. Le componenti comportamentali della CBT per il
PIU includono: registrare l'uso di Internet, fare una lista
dei pensieri e la terapia dell'esposizione allo stimolo.
Questo implica tenere il soggetto lontano da Internet per un
periodo di tempo, mostrare che non accade nulla di negativo
e fare osservare le proprie reazioni cognitive verso
Internet, tramite esposizioni multiple alle varie funzioni
di Internet. Ciò permette al soggetto di osservare le
distorsioni cognitive per quelle che sono.
- Attualmente, l’obiettivo dell’Autore consiste nel
testare empiricamente tale modello.
|
LINKS CORRELATI
| http://www.concentric.net/~Astorm/:
Stormsite: la Psicologia delle Comunità
virtuali. Sito gestito da S.A. King, membro dell’IMHO
(International Society for Menthal Health Online). Molto
ricco di risorse: articoli sul self-help online, la
psicoterapia virtuale, la psicologia del Cyberspazio, link
ad altri siti e a gruppi di discussione.
| http://www.internetaddiction.com/:
Sito con risorse di auto-aiuto, gruppo di
supporto, mailing list, manuali per la conoscenza
dell’Internet Addiction.
| http://internet-dipendenza.it:
I temi fondamentali trattati sono: le
caratteristiche psicologiche di Internet che possono creare
dipendenza, la definizione dell’Internet Addiction, i
criteri diagnostici, le fasi di sviluppo della sindrome, i
tipi di dipendenze, i trattamenti. A cura dalla psicologa
Anna Fata.
| http://www.ismho.org/:
Sito della International Society of
Mental Health, un ente non-profit, fondato nel 1997 per
promuovere la comprensione, l’utilizzo e lo sviluppo della
comunicazione, informazione e tecnologia online per la
comunità internazionale della salute mentale.
| http://netaddiction.com/index.html:
Center for On-Line Addiction è la
clinica virtuale gestita dalla Professoressa K. Young, in
cui vengono forniti servizi di counseling via e-mail, per
telefono o in chat room ed altri servizi clinici (es.
psicoterapia individuale o di coppia) e di formazione. E’
disponibile, inoltre, una buona quantità di risorse,
articoli, libri, tests di autosomministrazione, gruppo di
discussione, link correlati, sia per il grande pubblico,
sia, in parte, per gli addetti ai lavori.
| http://www.presinellarete.com:
Sito italiano gestito dalla Casa Editrice
che ha curato l’edizione italiana del volume "Presi
nella rete" della Professoressa K.Young,
dell’Università di Pittsburgh. In esso sono presenti, in
particolare, una breve introduzione al libro e le risposte
alle domande che i lettori, tramite la mediazione della Casa
Editrice, rivolgono all’Autrice.
| http://psychcentral.com/grohol.htm:
Sito gestito dal Dottor J. Grohol, online
dal 1995, molto ricco di risorse e ben organizzato. Sono
presenti articoli ed indicazioni bibliografiche, non solo
sull’Internet Addiction, ma anche su vari temi psicologici
e di salute mentale. Dispone di un motore di ricerca
interno. Il Dottor Grohol, inoltre, offre la sua consulenza
gratuita via chat, ad orari prestabiliti.
| http://www.psychoinside.it/:
Il sito è stato creato con lo scopo di
informare chiunque desideri avvicinarsi alla Psicologia ed
alla Psichiatria. In esso viene offerta la possibilità di
effettuare una psicoterapia online, in via sperimentale,
tramite, e-mail o chat, con o senza l’uso di WebCam. Ci
sono quattro percorsi per visitare il sito: clinico,
formativo, informativo e Internet Addiction Disorder.
| http://www.psychomedia.it/:
Risorsa italiana di Psichiatria,
Psicologia, Psicoanalisi, Psicoterapia, online dal Gennaio
1996. Presenza di un’ingente quantità di risorse, divise
in sezioni (atti di Congressi, programmi di seminari,
convegni, giornate di studio, recensioni di pubblicazioni,
mailing lists, formazione in Psichiatria e Psicoterapia,
link ad altri siti).
| http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/psycyber.html:
In esso è stato pubblicato il manuale
ipertestuale del Professor J. Suler della Rider University,
sulle dimensioni psicologiche dell’ambiente creato dai
computer e dalla rete. L’obiettivo consiste nella
comprensione delle caratteristiche psicologiche del
cyberspazio e del modo in cui le persone si comportano in
esso. La pubblicazione risale al Gennaio 1996, ma è stato
continuamente aggiornato ed ampliato. Provvisto di motore di
ricerca interno. Link con altri siti riguardanti il
cyberspazio.
| http://www.victoriapoint.com/catalyst.htm:
L’Editore, R.A. Davis, lo definisce il
sito sull’utilizzo del computer nella psicologia. In
particolare, sono presenti articoli su: l’Internet
Addiction Disorder, il comportamento, le terapie e le
ricerche online e su altri temi più genericamente correlati
al computer ed alla psicologia. E’ possibile inviare i
propri articoli. Numerosi link ad altri siti,
particolarmente interessanti quelli rivolti alle ricerche
universitarie. I contenuti sono indirizzati, tranne rare
eccezioni, ad un grande pubblico.
| http://www.virtual-addiction.com/:
Centro per lo studio di Internet creato
dal Dottor D. Greenfield, con la presentazione dei servizi
offerti e le risorse per la conoscenza dell’Internet
Addiction Disorder (articoli e libri redatti dall’Autore).
Buona navigabilità, ma limitata offerta quantitativa di
risorse e assenza di link con altri siti.
COLLABORAZIONI
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Intervista a John Suler su fisiologia e
psicopatologia della vita on line di Anna Fata
Nota editoriale: John Suler si è
laureato in psicologia presso la State University di New
York, a Stony Brook, nel 1977. Nel 1982 ha conseguito il
dottorato in Psicologia Clinica presso la State
University di New York a Buffalo. Da 12 anni sta
portando avanti il training personale in psicoterapia in
un gruppo clinico condotto da N. McWilliams. Dal 1982 è
professore di Psicologia presso la Rider University a
Lawrenceville, New Jersey. Le sue attività di ricerca
sono: la psicologia del cyberspazio, la psicoanalisi
contemporanea e il pensiero dell'Est, l'insegnamento
della psicologia clinica, l'immaginario mentale, i
processi terapeutici nei gruppi di auto-aiuto.
La fisiologia della vita online
D: Secondo me, partire dalla
fisiologia impedisce di considerare la Rete come
patologica a priori. La Rete ha molti vantaggi che
devono essere tenuti nella giusta considerazione. Mi
riferisco, ad esempio, ai MUDs: assumere una o più
identità online può condurre ad una più profonda
conoscenza di sé ed autorealizzazione. Esistono anche
dei rischi. Cosa pensa di tale questione? Mi può
esporre uno o più casi clinici di cui ha avuto
esperienza?
R: Come in molte situazioni sociali
online, le persone forse mettono in atto i loro bisogni
ed i loro desideri, assumendo delle personalità online
senza alcuno sviluppo personale, mentre, forse,
danneggiano altri individui; a volte, essi possono darsi
da fare su importanti aspetti personali assumendo tali
identità, avendo come risultato la crescita ed il
cambiamento psicologici.
D: Ritengo che la cyberpsicologia
costituisca un importante tema accademico. In Italia,
nel passato recente, tale questione non è stata tenuta
nella debita considerazione e coloro che la studiavano
venivano guardati in modo sospetto e, a volte,
emarginati. In riferimento a ciò, vorrei sapere come
viene considerato lo studio della Rete, nel suo contesto
socio-culturale, nel passato e attualmente e quale è
stata la sua esperienza.
R: Le persone sono state scettiche
sulle relazioni online, così come sulla psicoterapia
online. Ma non c'è assolutamente alcun dubbio che le
persone instaurino delle relazioni significative online
(colleghi, amici, amanti). La stessa cosa è vera anche
per la terapia online. Alcune persone sono molto
scettiche su ciò, ma l'evidenza è molto chiara,
secondo me, che la terapia online è possibile e che può
essere molto efficace. La domanda reale non è "se
è possibile fare la terapia online", ma piuttosto
"come la terapia online può essere efficace, con
quali tipi di problemi e con quali tipi di
persone". La psicoterapia online è un nuovo tipo
di psicoterapia, per certi versi simili, in alcuni
aspetti differente dalla terapia faccia a faccia.
D: Mi può esporre uno o più
esempi di cooperazione e di conflitto in una comunità
online di cui lei ha avuto esperienza?
R: Questo è un argomento molto
complesso – non dissimile dal chiedere in che modo le
persone cooperano e fanno esperienza del conflitto nel
mondo "in person". Sotto molti aspetti, ciò
che accade in una comunità online è molto simile alle
comunità "in person". La differenza maggiore
è che la gente comunica via TESTO, che si risolve in un
parziale anonimato, una mancanza di indizi faccia a
faccia e una conseguente disinibizione. Tale
disinibizione può condurre ad un maggiore acting out e
a dei conflitti interpersonali che possiamo vedere nelle
comunità faccia a faccia, ma forse anche ad una più
rapida rivelazione di sé e ad atti di gentilezza.
D: Lei pensa che le manifestazioni
emotive siano più intense rispetto alla vita ‘reale'?
Se è così, perché lei pensa che accade?
R: In alcuni casi può essere vero.
L'anonimato e la mancanza di indizi faccia a faccia
tendono a condurre in direzione di un numero maggiore di
reazioni di proiezione e di transfert. Esiste una
tendenza un po' maggiore nelle relazioni online a
"leggere" significati in ciò che le altre
persone hanno scritto. C'è una tendenza maggiore a
fraintendere ciò che la gente intende.
D: Lei crede che le relazioni
online si stabiliscano e vengano meno più rapidamente
di quelle faccia a faccia? Ha qualche esempio di esse?
R: Io penso che possa essere vero. A
volte, a causa di quell'effetto di disinibizione, la
gente si apre molto velocemente ed instaura un'intimità
con gli altri molto rapidamente. A volte, la relazione
dura, ma, altre volte, l'intimità si sviluppa troppo
rapidamente e la gente comincia a sentirsi vulnerabile.
Così, pongono fine alla relazione. Per alcune persone,
quella rapida intimità, che, in qualche modo, viene
avvertita come falsa e, paradossalmente, superficiale,
dal momento che le altre persone "non mi conoscono
realmente". E' molto facile cliccare il tasto
"disconnetti" e scomparire, se una relazione
non sta andando bene. E' molto facile NON rispondere ad
una e-mail. Una persona può sempre incolpare il proprio
server o Internet di "non ricevere" un
messaggio o "non essere in grado di
connettersi". E' molto facile, su Internet, evitare
di dire arrivederci a qualcuno.
La psicopatologia
D: Esistono delle pubblicazioni
scientifiche contenenti casi clinici di IAD?
R: C'è un numero considerevole di
libri e di articoli. Visiti il sito web di Kimberly
Young " The Center for Online Addiction".
Inoltre, numerosi articoli sono apparsi sulla rivista
CyberPsychology and Behavior (http://www.liebertpub.com/CPB/default1.asp).
Anche Azy Barak ha una lista di articoli di ampia
portata sul comportamento online, che include articoli
sullo IAD (http://construct.haifa.ac.il/~azy/refindx.htm).
D: Lo IAD sarà inserito nella
prossima edizione del DSM, come già sembrava possibile
nel 1993?
R: Probabilmente no. Molte più
ricerche sono necessarie per stabilire lo IAD come una
categoria diagnostica affidabile e valida. La maggior
parte dei ricercatori pensano che Internet faciliti o
acceleri i comportamenti di dipendenza già presenti in
una persona, piuttosto che creare un unico disturbo.
D: Quali sono le psicopatologie più
frequentemente associate con l'IAD, se ce ne sono? Quali
sono le caratteristiche di Internet che sono in grado di
condurre alla psicopatologia? Quali sono le
caratteristiche della personalità dei soggetti a
rischio?
R: Queste sono domande importanti e
molto complesse. Il mio articolo sulla dipendenza da
Internet si riferisce a tali argomenti (http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/getneed.html)
ed i riferimenti che ho citato sopra esplorano anche
tali aspetti.
D: Non esiste un comune accordo
sull'esistenza dell'Internet Addiction Disorder e suoi
criteri diagnostici: qual è la sua opinione al
proposito?
R: Io credo che molti ricercatori
stiano pensando più in termini di disturbi
"facilitati" da Internet – in altre parole,
l'essere online tende ad accelerare o esagerare alcune
tendenze di dipendenza o compulsive che sono già
presenti. E' improbabile che Internet creerà dei
problemi seri in una persona per la quale non c'era
alcuna debolezza o vulnerabilità preesistente.
D: Conosce dei casi clinici di
IAD? Mi può raccontare uno dei casi clinici più
rappresentativi che lei conosce, focalizzandosi sulla
storia del paziente ed il suo background
socio-culturale?
R: E' interessante che, sebbene io
abbia parlato con molte persone via e-mail, chat,
telefono e faccia a faccia sulla loro vita nel
cyberspazio, non mi sia mai imbattuto in un dipendente
da Internet veramente patologico – non come quelli
descritti nei media. Ho ricevuto e-mail dai genitori e
dagli amici di gente che sembrava essere seriamente
dipendente, ma non li ho mai "incontrati" io
stesso. D'altra parte, ho parlato con molte persone che
hanno attraversato una fase di utilizzo di Internet
molto intenso, che poi è diminuito quando la persona si
è adattata alla vita online.
D: Secondo lei, sono più
frequenti i casi di IAD o un uso patologico di Internet
che risulta da una psicopatologia associata?
R: Come ho accennato, ci sono,
probabilmente, altre tendenze sottostanti alla
dipendenza, che esistevano prima dell'uso di Internet.
E' possibile che alcune persone con disordini borderline
o con fobie sociali possano diventare
"dipendenti" da Internet.
D: Nel suo articolo "To get
what you need" lei sostiene che un sintomo della
patologia consiste nella dissociazione tra la vita
online ed offline: secondo lei, quali sono le cause di
tale situazione?
R: Quando la gente dissocia la
propria vita online da quella offline, la vita online
diventa strettamente incapsulata, un "mondo"
segreto che tende a divorare la persona. Questo accresce
le proiezioni e le reazioni di transfert, con una scarsa
opportunità per la persona di attuare la prova di realtà,
parlando con le persone che non sono parte di quel mondo
segreto. Tutti i tipi di bisogni forti, desideri e
fantasie vengono incanalati in quel mondo, così che,
gradualmente, lo spazio psicologico della persona si
riduce a quell'ambiente online. Il mondo
"reale" inizia a perdere significato e scopo.
D: In base all'affermazione che
non c'è un comune accordo sui criteri diagnostici dello
IAD, secondo lei, quali sono i sintomi clinici dello
IAD, oltre alla dissociazione tra la vita online ed
offline?
R: Secondo me, gli indicatori più
importanti sono una diminuzione del livello di
funzionamento nel mondo faccia a faccia – lavoro,
relazioni con la famiglia e gli amici, altri interessi,
perfino la proprio salute, le abitudini igieniche
tendono a declinare.
D: Quali sono le terapie più
efficaci?
R: Dipende dalla persona. Gli
interventi comportamentali andranno bene per alcuni. Per
altri, una combinazione di interventi comportamentali
con la terapia cognitiva e/o psicodinamica sarà una
combinazione efficace. La terapia di gruppo ed i gruppi
di auto-aiuto potrebbero essere efficaci (questo solleva
l'interessante interrogativo se la terapia di gruppo
online ed i gruppi di auto-aiuto possano essere efficaci
nel contribuire ai disordini facilitati da Internet!).
La psicoterapia online
D: Quali sono gli standards etici
per una psicoterapia online? Lei pensa che quelli
stabiliti dall'APA siano sufficienti?
R: Numerose organizzazioni hanno
proposto degli standards:
http://www.ismho.org/suggestions.html
http://www.counseling.org/gc/cybertx.htm
http://www.ihealthcoalition.org/ethics/draftcode.html
http://www.nbcc.org/ethics/wcstandards.htm
http://www.hon.ch/HONcode/Conduct.html
http://www.apa.org/ethics/stmnt01.html
D: Quali sono i cambiamenti
necessari del setting per una psicoterapia online? Quali
sono le conseguenze sul processo terapeutico?
R: Anche questa è una questione
molto complessa. I fattori più importanti riguardano le
dinamiche della comunicazione testuale, l'anonimato, la
mancanza di indizi faccia a faccia e la comunicazione
sincronica versus asincronica. I suoi lettori possono
essere interessati a questo articolo, in cui esploro
tali argomenti:
http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/therapy.html
D: In una psicoterapia online, lei
pensa che sia possibile stabilire una relazione
terapeutica? Se sì, quali sono le differenze rispetto
alla relazione in una psicoterapia tradizionale?
Senza dubbio, una relazione
terapeutica è possibile. La differenza più importante
riguarda quei fattori che ho citato sopra: le dinamiche
della comunicazione testuale, l'anonimato, la mancanza
di indizi faccia a faccia e la comunicazione sincronica
versus asincronica. Sebbene questo articolo non sia
sulla psicoterapia, esplora le differenze affascinanti
tra le relazioni "in – person" ed online: http://www.rider.edu/users/suler/psycyber/showdown.html.
D: Quali sono le patologie che
sono curabili e non con una psicoterapia online?
R: Nessuno lo sa ancora per certo. Il
lavoro clinico online è una buona scelta come modo per
iniziare a lavorare con vari tipi di ansie sociali. Come
regola generale, la terapia online, probabilmente, non
è appropriata per le psicopatologie gravi, sebbene sia
necessaria una maggiore ricerca per stabilirlo.
D: Un psicopatologia implica dei
problemi relazionali nella vita del cliente. Ci sono
degli svantaggi in una psicoterapia online per trattare
tali clienti?
R: Il terapeuta online,
probabilmente, dovrebbe trattare tali relazioni
pressappoco allo stesso modo di un terapeuta faccia a
faccia. Inoltre, alcuni clinici online stanno facendo
delle terapie di coppia e coniugali via e-mail e chat,
che sembrano funzionare bene. Un altro approccio
interessante è incoraggiare i clienti a sperimentare le
reazioni online come un modo per provare nuove modalità
di relazionarsi agli altri e di applicare tale
conoscenza alle loro relazioni "in –
person". La relazione online può essere un tipo di
"pietra di guado".
D: Secondo lei, quali sono le
caratteristiche del background professionale necessario
per uno psicoterapeuta online?
R: Per condurre degli interventi
pregnanti, una persona ha bisogno di essere bene
addestrata da professionisti in uno dei tradizionali
centri di salute mentale, poi un addestramento specifico
nel lavoro clinico. Tuttavia, nel futuro, vedremo
lavorare molti para-professionisti con degli approcci di
intervento a breve termine o meno complessi.
D: Quali sono le possibilità di
comprendere le perversioni sessuali, che sono così
difficili da avvicinare nel setting psicoterapeutico
tradizionale?
R: Il lavoro online può essere un
buon modo per iniziare un trattamento di tali problemi,
in parte, perché la vergogna e la colpa associate a
tali perversioni le rendono difficili per la gente da
far emergere e da affrontare con una terapia faccia a
faccia.
D: Nel suo articolo
"Psychotherapy in Cyberspace" lei afferma che
"Noi possiamo pensare ai computers come a degli
strumenti utili da integrare in approcci
pre-esistenti": come pensa che questa integrazione
verrà effettuata? Quali potrebbero essere i vantaggi e
gli svantaggi?
R: Il modo in cui i computers
verranno integrati dipenderà dal tipo di terapia.
Alcuni interventi comportamentali e cognitivi, che
implicano dei protocolli specifici, potrebbero essere
adattati ai computers che guidano i clienti attraverso
il protocollo, valutano i progressi del cliente e poi
indirizzano lo stesso verso le subroutines dei
protocolli, basate sulla valutazione. Nella psicoterapie
parlate, i programmi dei computers, che comprendono
l'apprendimento esperienziale e l'auto-osservazione,
potrebbero essere dei supporti utili per la terapia.
Essi possono servire come un trampolino di lancio per le
discussioni tra il cliente ed i terapeuti. Durante la
fase di presa in carico e di valutazione, i programmi
dei computers possono essere molto validi nell'aiutare i
clienti a decidere a quale tipo di terapia essi
sarebbero interessati e da quale potrebbero trarre
beneficio. Il pericolo è di affidarsi eccessivamente ai
computers, perdendo, perciò, la relazione umana
necessaria tra il cliente ed il terapeuta, che è così
importante nel processo di cura, così come perdere
l'occhio acuto del clinico, che è in grado di vedere le
sottili, complesse variabili nel processo di
trattamento, che il computer non potrebbe mai rilevare.
D: L'assenza del linguaggio del
corpo, dell'espressione facciale e degli indizi dello
stile del discorso, rendono la cyberterapia matura per
la proiezione su entrambi i versanti della relazione:
quali sono le conseguenze possibili per il processo
terapeutico?
R: In una terapia psicoanalitica, le
proiezioni del cliente e le reazioni di transfert
sarebbero molto preziose ed essenziali per il progresso
della terapia. Fiduciosamente, il clinico online è
abile nel comprendere e nel lavorare con le reazioni di
controtransfert, che possono essere intensificate nel
cyberspazio. Tutti i clinici che lavorano online
dovrebbero essere molto sensibili a questa accresciuta
possibilità di proiezione, transfert e incomprensioni
di ciò che una persona intende nel suo digitare. Se
questo non accade, allora tali fenomeni potrebbero
distruggere la terapia.
D: Come pensa che sia possibile
usare la regressione provocata da Internet in una
psicoterapia online?
R: Nelle terapie che incoraggiano le
regressione, come mezzo per comprendere e per porre
rimedio ai conflitti sottostanti e alle deprivazioni
(come la terapia psicoanalitica), questo potrebbe essere
utile. Tuttavia, forti regressioni potrebbero essere
difficili da trattare efficacemente online, dal momento
che il feedback "al momento", la discussione
ed il WORKING TROUGH potrebbero essere necessari – che
non è possibile in una comunicazione asincronica, come
l'e-mail.
D: Lei ritiene che l'anonimato di
un individuo abbia degli effetti negativi sul processo
terapeutico? Quali?
R: In una terapia in corso, se questo
anonimato ha come conseguenza che il terapeuta non
conosce aspetti importanti dell'identità della persona
e lo stile di vita (situazioni di vita, occupazione,
relazioni coniugali, razza, età, persino sesso),
potrebbe impedire le terapia, proprio come nella terapia
faccia a faccia. La maggior parte delle cure parlate,
terapie basate sull'insight, sono un processo per
giungere a conoscere e a capire meglio il cliente.
Utilizzare la comunicazione via Internet per
"nascondere" alcuni aspetti della propria
identità, probabilmente, legherebbe le mani del
terapista dietro la sua schiena ….. Se definiamo
"anonimato" la mancanza di indizi faccia a
faccia (e non il nascondere aspetti dell'identità),
allora la disinibizione risultante potrebbe condurre i
clienti a discutere di aspetti di se stessi e delle loro
vite di cui non avrebbero mai parlato in una terapia
faccia a faccia. Questo è uno dei grandi benefici della
terapia online.
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Mobbing (Persecuzione lavorativa)
La retribuzione di risultato, assieme al mobbing, è un'altra
arma nella mani
di personaggi " politici"
Arma usata impropriamente ed in maniera assai malaccorta, tale da essere un
argomento che un domani
verrà portato in sede acconcia per la sua definizione.
La retribuzione di risultato, parte variabile della variabile dello
stipendio, è strettamente personale e legata al raggiungimento di obiettivi
pre - fissati ,di parametri di valutazione , sempre pre fissati (i famosi
indicatori) e quindi appunto una valutazione dell'operare ex - post .
Accade sovente che gli psichiatri non. siano stati avvertiti
preventivamente di tali obiettivi ed indicatori.
Vi è totale assenza di trasparenza e una serie di inadempienze ad ogni
livello con un iperverticismo che mal si addice all'operare in psichiatria
e,secondo le ultime tendenze manageriali , in qualsiasi azienda.
Questo iperverticismo (Dipartimento gerarchico) è stato recentemente
contestato da diversi psichiatri del
Veneto che hanno proposto l'adozione di un Dipartimento funzionale,
sostenendolo con grande coerenza.
Di contro i sostenitori del Dipartimento gerarchico hanno sproloquiato sulla
restituzione della contrattualità
all'ammalato psichiatrico (quando la contrattualità è negata agli stessi
psichiatri).
[In pratica questa "contrattualità" per l'ammalato si è definita vuoi
come
abbandono dello stesso vuoi come agevolazione al suicidio (statistiche alla
mano).
I presenti, alle elucubrazioni rozze e cervellotiche di chi non aveva
neppure il linguaggio per disquisire su un argomento così elaborato, non
hanno risparmiato né commenti ironici né risolini.]
La corrispondenza degli steps contrattuali e di deliberazioni
amministrative risulta quanto meno aleatoria e fumosa (costituzione del
nucleo di valutazione, reporting periodici, analisi degli
scostamenti,normative contrattuali etc.).
Dagli ultimi contratti il Dirigente di I° Livello ", ex art.117, ex
assistente , è praticamente privato di progressione di carriera, ove le
cosidette "funzioni" sono a totale discrezione del Dirigente di struttura
complessa , quando non addirittura del Direttore del Dipartimento (in barba
a tutte le leggi) a sua volta legato a "normative" politiche.
Tutto ciò è nettamente contrario ad un operare onesto e stimolante, tanto è
vero che nei più famigerati Dipartimenti Gerarchici del Veneto [ove,
peraltro, piovono sentenze penali sui Responsabili] la rotazione dei
Dirigenti Medici di I° Livello è altissima, a testimonianza delle condizioni
impossibili di lavoro.
E ciò assieme al mancato contenimento della spesa (anche per diverse
erogazioni a Cooperative) costituisce
un grosso elemento di danno all'operatività dei Dipartimenti.
.
Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
(Venezia)
Iniziano, com'è giusto, le sentenze favorevoli ai mobbizzati.
Com'è noto la legislazione italiana non dava molto spazio al danno biologico
psichico da mobbing.
Ricordo che oggi a Verona v'è un interessante incontro sull'argomento cui,
purtroppo, per altri impegni presi precedentemente, non potrò partecipare.
Scrive " La Nuova Venezia" in data odierna :
«Maltratta» un dipendente, condannata
Prima sentenza per mobbing a Venezia, dirigente delle Poste risarcirà
l'impiegato
di Giorgio Cecchetti
VENEZIA. Un caso di mobbing arriva davanti ai giudici di pace. E, per la
prima volta a Venezia, un magistrato ha dato ragione ad un lavoratore che ha
denunciato di aver subito conseguenze alla salute per essere stato vittima
di un atteggiamento persecutorio da parte del capo. La direttrice di un
ufficio postale è stata dunque condannata a risarcire l'impiegato con un
milione di lire per i danni causati alla sua salute. In un rapporto ai
superiori - scritto in conseguenza ad un errore contabile - la dirigente
aveva tracciato un profilo tutt'altro che lusinghiero del sottoposto,
causandogli un profondo turbamento e l'insonnia.
--------------------------------------------------------------------------------
VENEZIA. Un magistrato, per la prima volta a Venezia, ha dato ragione ad un
lavoratore che ha denunciato di aver subito conseguenze alla salute per
essere stato vittima di un atteggiamento persecutorio da parte del capo, che
dovrà risarcire il dipendente con un milione di lire.
Angherie, soprusi, molestie morali e anche sessuali di padroni, capi e
colleghi: il lavoro può danneggiare anche la psiche dei lavoratori, con
conseguenze mentali e fisiche gravi. Questo è il mobbing, termine inglese
che indica una «malattia da lavoro» in rapida diffusione, soprattutto nei
rapporti di lavoro «precari», ma non solo.
Il caso in questione, infatti, è stato affrontato dal giudice di pace di
Mestre Bernardo Caracciolo è a subire la condanna a pagare il risarcimento è
stata la direttrice di un ufficio postale della terraferma. L'avvocato
mestrino Enrico Cornelio per conto di Renato B., impiegato postale, aveva
fatto ricorso al giudice denunciando che il suo cliente a causa di una
contestazione elevata nei suoi confronti dalla direttice, Claudia T.,
«rimaneva profondamente scosso e questo gli procurava insonnia per alcune
notti non consentendogli di uscire la domenica successiva».
Tutto nasce da un errore di 100 mila lire nella contabilità dei francobolli
commessa dall'impiegato, errore che il giorno successivo era stato scoperto
e corretto (tra l'altro l'istruttoria amministrativa avviata a seguito della
contestazione disciplinare si è conclusa con il proscioglimento di Renato
B). Secondo il giudice di pace la direttrice aveva l'obbligo di inviare un
rapporto sul fatto al direttore generale delle Poste di Venezia, ma «il
contenuto di quel documento ha posto in pessima luce l'impiegato in
questione», sostenendo che avrebbe agito in malafede.
Solo una supposizione, ma la direttrice «non aveva elementi - si legge nella
sentenza - per fondarla». «Ritiene allora il giudicante - prosegue il
magistrato onorario - che la responsabile dell'agenzia postale si sia
lasciata prendere la mano nel rapportare i fatti al diretto superiore,
accusando il dipendente di essersi comportato in malafede, basandosi solo su
supposizione e non su fatti certi. Anzichè, quindi, riferire i fatti come si
sono svolti, lasciando agli organi ispettivi di trarne la conclusione, la
direttrice ha ritenuto di far apparire il dipendente come un soggetto non
affidabile da cui, in sostanza, ci si debba guardare perchè in malafede».
Per il giudice, «pur avendo agito in adempimento dei suoi doveri d'ufficio,
la direttrice ha accusato il suo collaboratore di un fatto grave, ledendo la
sua dignità e il suo onore, sulla base di sole supposizioni». Tutto questo
avrebbe provocato un «turbamento dello stato d'animo con sofferenze d'ordine
morale e fisico» quantificabili in un danno per un milione.
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Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
(Venezia)
Con il Centro Antimobbing, che ho messo su a Treviso, si sta
addensando
una ricca casistica. Casistica che, fino ad ora, era sconosciuta perché chi era
assoggettato a mobbing taceva e si dimetteva, quasi la colpa fosse sua.
Interessanti, tra le altre, le tecniche (sempre le stesse) adottate nel caso
dei Sanitari
non graditi, perché non schierati.
.
In ULSS di provincia la tecnica è quella di sollecitare a scrivere uno o
più pazienti
(.reclutabili tra i deboli mentali e le strutture paronidee di personalità),
fare un fascio
di queste deliranti missive e promuovere una lettera d' addebito.
Cui poi, per sei mesi, non segue altro.Né una inchiesta né un procedimento
disciplinare.
Dopo sei mesi : si ripete la cosa. Le lamentele sono sempre sulla
sensazione soggettiva del malato. Mai su argomenti
tecnici.
Come dire " Il dott. Cirillo mi è antipatico, oggi mi ha medicato e non mi ha
salutato garbatamente" (mica scherzo, ho letto di queste cose).
Talora queste lettere di "protesta" non vengono neppure inviate
all'interessato, che non riceve nemmanco
la lettera d'adebito, ma si ritrova, senza sapere perché, fuori dalla sala
operatoria a far medicazioni.
dopo vent'anni di attività quale primo operatore. Egli non ha , così, non
ha modo di difendersi.
Ma le lettere vengono rese pubbliche in occasioni di concorsi e
verifiche.
Una variante sono le minacce e le urla fatte apertamente al diretto
interessato. Seconda
variante sono le dicerie e diffamazioni, tra quelle raccolte le più comuni
afferiscono ai
suoi costumi sessuali (è omosessuale, frequenta prostitute).Terza variante
sottrargli le
possibilità di comunicazione o di sopravvivenza [un collega non trovava
neppure più
chi gli facesse le pulizie in casa]. Un variazione debole sono i danni
sistematici all'autovettura.
Spesso l'Ufficio Personale decurta le entrate su motivi assai flebili.
E, alla fine, viene intimato il LICENZIAMENTO (ammapelo, perché.....non è
simpatico, capite ? Null'altro).
Magari in reparti vicini od in ospedali viciniori l'aumento della mortalità
è ingravescente, ma
quello fa parte dell"imprevisto", e su quello cala il silenzio.
Ciao contratti, tutele, ordini professionali e tutte le altre bazzeccole.
Ma nel non trasmettere queste lettere di protesta agli interessati vi è
qualcosa di più di una omissione
di atti di ufficio : vi è una correità in diffamazione, per cui
si può
tranquillamente adire
il Giudice Penale.
E' questo il consiglio che ho dato ai Colleghi che mi si sono presentati
afflitti da sindrome
del burnt out e del mobbing. Sono ahimé più di quanti non pensassi, segno
del malessere della Sanità
nonostante le qualifiche internazionali che ci vedono al secondo posto.
So che sono cose spiacevoli : ma è opportuno che i Colleghi le conoscano.
Se qualcuno di Voi è stato assoggettato a mobbing si metta in contatto con me.
Saluti.
Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
Primario del 1° Servizio Psichiatrico ULSS9 (Treviso)
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
Libero Docente in Fisiologia Umana
Specialista in Neurologia, Psichiatria,
Medicina del lavoro, Medicina legale,
Professore a contratto nell'Università di Trieste
Corresponding Member of APA
Calle del Basegò
Dorsoduro 3623 a 30123 Venezia
041-5209496
041-5209876
0336-606143( ufficio)
03488534948 (privato)
Mediaset (Canale Cinque) manderà in onda, un sabato pomeriggio
dopo le
18.00, una mia breve intervista sul mobbing con la partecipazione
(anonima) di due mobbizzati.
Il fenomeno è in costante espansione e sono sempre di più gli
psichiatri che vengono interpellati
sull'argomento.
Queste sono, in nuce, le mie considerazioni sull'argomento:
IL MOBBING
Esistono dei contratti, esistono dei sindacati, esiste (evanescente) una
giustizia civile. Come aggirarli? Con una tecnica di importazione
americana, ampiamente sviluppata in questi ultimi tempi in Germania. In
un qualsiasi luogo di lavoro il manager che voglia sbarazzarsi di un
collaboratore scomodo dice e fa capire agli altri dipendenti che questi
va osteggiato.
Frequentemente egli assume iniziative dirette (ad esempio rimproveri,
procedimenti disciplinari per inezie, allusioni alla vita privata del
dipendente) tali da far capire chiaramente allo stesso che egli è di
troppo.
I subordinati, per paura di essere anch'essi perseguitati e per istinto
di identificazione e di gruppo, si daranno prontamente da fare per
rendere dura la sopravvivenza della vittima, che, spesso, è un capro
espiatorio istituzionale perché troppo critico, troppo intelligente o
troppo esplicito nel rendere note le sue idee.
Si crea così una tecnica di gruppo, ben noto fenomeno istituzionale, ove
il manager, in un secondo momento, può anche , apparentemente, ostentare
la massima bonomia ed il massimo apprezzamento del subordinato da
danneggiare, mentre i suoi sottoposti, inferiori , pari grado e
superiori escogitano ogni possibile, e sottile, metodo per rendergli
difficile la vita quotidiana ed impossibile il lavoro. Viene così
realizzato, in un primo momento, il "mobbing verticale", ed in un
secondo momento,"il mobbing orizzontale".
Il mobbing ha maggiore rilevanza sui quadri dirigenti che sulle
categorie operaie in quanto questi elementi sono spesso dotati di
orgoglio, ambizione, amor proprio che li manterranno ben lontani da ogni
forma di pubblicità e indurranno in loro dei sensi di colpa per non aver
saputo intuire in tempo che le loro fortune cambiavano.
Spesso questi dirigenti sono stati portatori di soluzioni innovative per
la società o l'istituto per cui lavoravano e, sovente, hanno anche
un'ampia rete di relazioni sociali (che essi, naturalmente, non
sfrutteranno perché anche nel gruppo sociale la tendenza al consenso fa
ritenere nocivo ogni componente che abbia problemi di qualsiasi genere).
Il mobbing ha una matrice essenzialmente politica. Ad ogni voltar di
pagina decine e decine di persone nelle istituzioni dello Stato
subiscono, a mitraglia, azioni di mobbing che li inducono a ritirarsi o,
nel minore dei mali, li relegano in posizioni vuote di contenuto.
Ne ha anche una industriale : in presenza di rimaneggiamenti societari
(ne sia un esempio quello delle Case farmaceutiche) molti elementi di
spicco vengono mobbizzati in maniera rapidissima, facendo intender loro
che è meglio essi si ritirino.
Il mobbing colpisce in maniera tanto più efficace quanto maggiore è il
narcisismo e l'autoinvestimento che una persona ha. Chi ha scarsi
interessi al lavoro, un' autovalutazione modesta, la tendenza a rimanere
nel solco della più banale convenzione raramente viene toccato da
un'azione di "mobbing". Egli si piegherà, come "canna al vento".
Ma il "mobbing" sfronda e decapita gli alberi ad alto fusto. Il
mobbizzato perde il piacere della vita, non ha più piacevoli rapporti
affettivi, diviene irascibile, lunatico, sviluppa sintomi psicosomatici,
tende a darsi all'alcool, ai tranquillanti che ne smorzano la
reattività, è prone ad avere incidenti stradali, ad essere meno attento
ed a subire, pertanto, furti ed essere vittima di imbrogli. Piano piano
si sviluppa in lui una situazione paranoicale per cui egli vede nemici
dappertutto ed, essendo diminuita la sua sicurezza, commette, via via,
piccoli sbagli che, accumulandosi lo rendono sempre di più un facile
bersaglio.
La situazione del mobbizzato è particolarmente pericolosa per chi abbia
incarichi di responsabilità (uffici finanziari, istituzioni statali,
contatti con una popolazione di "clienti" difficili [ pazienti,
militari ,imputati, detenuti, viaggiatori]) creando così, a cascata, una
vera e propria situazione di pericolo pubblico.
Tra i mobbizzati prevalgono di gran lunga i maschi, poiché le donne,
spesso, sono un obbiettivo più facile (ma anche più reattivo). La loro
età varia dai 45 ai 60 anni, l'età in cui è difficile trovare impieghi
alternativi ed in cui la dolorosa, ma necessaria scelta, rimane quella
di un lavoro dequalificato e dequalificante.
Non vi è, quindi, da stupirsi se in alcuni, rari, casi il mobbizzato
scelga la via della violenza, che può essere auto- od eterodiretta. Quei
suicidi e quei delitti che lo psichiatra, anche in sede di Tribunale,
non riesce bene a spiegarsi ,tanto tenue e sottile, quindi
indistinguibile, è la ragnatela che avvolge l'autore di questi reati.
Che viene sempre giudicato, quindi, "capace di intendere e di volere",
anche se, un buona sostanza, non lo è, avendo un Disturbo Posttraumatico
da Stress cronico ed anche perché troppo spesso lo psichiatra neglige di
considerare quell'Asse IV del Diagnostic and Statistical Mental
Disorder (DSM-IV) che è dedicato ai "Problemi Psicosociali ed
ambientali" e che, tra questi elenca con molta acribia anche i problemi
collegati al lavoro (paura di perdere il lavoro, tempi ed orari
stressanti, condizioni di lavoro difficili, insoddisfazione sul lavoro,
cambiamento di occupazione, liti con il boss o i suoi colleghi).
Professor dottor Antonio Augusto Rizzoli
Primario Psichiatra della ULSS n.9, Treviso
Libero Docente in Fisiologia Umana
Specialista in Neurologia, Psichiatria,
Medicina del Lavoro, Medicina Legale e delle Assicurazioni
E-Mail : aa.rizzoli@ve.nettuno.it
Dorsoduro 3623 a,30123 VENEZIA
Esistono dei contratti, esistono dei sindacati, esiste
(evanescenteperché in difficoltà) una giustizia civile. Come aggirarli?
Con una tecnica di importazione americana, ampiamente sviluppata in
questi ultimi tempi in Germania. In un qualsiasi luogo di lavoro il
manager che voglia sbarazzarsi di un collaboratore scomodo dice e fa
capire agli altri dipendenti che questi va osteggiato.
Frequentemente egli assume iniziative dirette (ad esempio rimproveri,
procedimenti disciplinari per inezie, allusioni alla vita privata del
dipendente) tali da far capire chiaramente allo stesso che egli è di
troppo.
I subordinati, per paura di essere anch'essi perseguitati e per istinto
di identificazione e di gruppo, si daranno prontamente da fare per
rendere dura la sopravvivenza della vittima, che, spesso, è un capro
espiatorio istituzionale perché troppo critico, troppo intelligente o
troppo esplicito nel rendere note le sue idee.
Si crea così una tecnica di gruppo, ben noto fenomeno istituzionale, ove
il manager, in un secondo momento, può anche , apparentemente, ostentare
la massima bonomia ed il massimo apprezzamento del subordinato da
danneggiare, mentre i suoi sottoposti, inferiori , pari grado e
superiori escogitano ogni possibile, e sottile, metodo per rendergli
difficile la vita quotidiana ed impossibile il lavoro. Viene così
realizzato, in un primo momento, il "mobbing verticale", ed in un
secondo momento,"il mobbing orizzontale".
Il mobbing ha maggiore rilevanza sui quadri dirigenti che sulle
categorie operaie in quanto questi elementi sono spesso dotati di
orgoglio, ambizione, amor proprio che li manterranno ben lontani da ogni
forma di pubblicità e indurranno in loro dei sensi di colpa per non aver
saputo intuire in tempo che le loro fortune cambiavano.
Spesso questi dirigenti sono stati portatori di soluzioni innovative per
la società o l'istituto per cui lavoravano e, sovente, hanno anche
un'ampia rete di relazioni sociali (che essi, naturalmente, non
sfrutteranno perché anche nel gruppo sociale la tendenza al consenso fa
ritenere nocivo ogni componente che abbia problemi di qualsiasi genere).
Il mobbing ha una matrice essenzialmente politica. Ad ogni voltar di
pagina decine e decine di persone nelle istituzioni dello Stato
subiscono, a mitraglia, azioni di mobbing che li inducono a ritirarsi o,
nel minore dei mali, li relegano in posizioni vuote di contenuto.
Ne ha anche una industriale : in presenza di rimaneggiamenti societari
(ne sia un esempio quello delle Case farmaceutiche) molti elementi di
spicco vengono mobbizzati in maniera rapidissima, facendo intender loro
che è meglio essi si ritirino.
Il mobbing colpisce in maniera tanto più efficace quanto maggiore è il
narcisismo e l'autoinvestimento che una persona ha. Chi ha scarsi
interessi al lavoro, un' autovalutazione modesta, la tendenza a rimanere
nel solco della più banale convenzione raramente viene toccato da
un'azione di "mobbing". Egli si piegherà, come "canna al vento".
Ma il "mobbing" sfronda e decapita gli alberi ad alto fusto. Il
mobbizzato perde il piacere della vita, non ha più piacevoli rapporti
affettivi, diviene irascibile, lunatico, sviluppa sintomi psicosomatici,
tende a darsi all'alcool, ai tranquillanti che ne smorzano la
reattività, è prone ad avere incidenti stradali, ad essere meno attento
ed a subire, pertanto, furti ed essere vittima di imbrogli. Piano piano
si sviluppa in lui una situazione paranoicale per cui egli vede nemici
dappertutto ed, essendo diminuita la sua sicurezza, commette, via via,
piccoli sbagli che, accumulandosi lo rendono sempre di più un facile
bersaglio.
La situazione del mobbizzato è particolarmente pericolosa per chi abbia
incarichi di responsabilità (uffici finanziari, istituzioni statali,
contatti con una popolazione di "clienti" difficili [ pazienti,
militari , imputati, detenuti, viaggiatori]) creando così, a cascata,
una vera e propria situazione di pericolo pubblico.
Tra i mobbizzati prevalgono di gran lunga i maschi, poiché le donne,
spesso, sono un obbiettivo più facile (ma anche più reattivo). La loro
età varia dai 45 ai 60 anni, l'età in cui è difficile trovare impieghi
alternativi ed in cui la dolorosa, ma necessaria scelta, rimane quella
di un lavoro dequalificato e dequalificante.
Non vi è, quindi, da stupirsi se in alcuni, rari, casi il mobbizzato
scelga la via della violenza, che può essere auto- od eterodiretta. Quei
suicidi e quei delitti che lo psichiatra, anche in sede di Tribunale,
non riesce bene a spiegarsi ,tanto tenue e sottile, quindi
indistinguibile, è la ragnatela che avvolge l'autore di questi reati.
Che viene sempre giudicato, quindi, "capace di intendere e di volere",
anche se, un buona sostanza, non lo è, avendo un Disturbo Posttraumatico
da Stress cronico ed anche perché troppo spesso lo psichiatra neglige di
considerare quell'Asse IV del Diagnostic and Statistical Mental
Disorder (DSM-IV) che è dedicato ai "Problemi Psicosociali ed
ambientali" e che, tra questi elenca con molta acribia anche i problemi
collegati al lavoro (paura di perdere il lavoro, tempi ed orari
stressanti, condizioni di lavoro difficili, insoddisfazione sul lavoro,
cambiamento di occupazione, liti con il boss o i suoi colleghi).
Antonio Augusto Rizzoli
Da "La Tribuna" di oggi 28 Marzo 2000.
Visibile anche in
http://www.tribunatreviso.kataweb.it/tribunatreviso/arch_28/treviso/cronaca/tc501.htm
Scatta l'allarme mobbing
«Malattia
in espansione»
Arriva
dalla Marca il maggior numero di richieste d'aiuto
del Nordest:
più
colpite le donne operaie
Giovanni
Baschieri
L'esterofilia non c'entra: la lingua inglese ha il grande
pregio della sintesi e
per
definire una forma di terrore psicologico che viene
esercitata sul posto di
lavoro
attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi o
superiori che si
concretizzano in emarginazione, diffusione di maldicenze,
critiche e
persecuzione, compiti dequalificanti, beh usa una sola
parola, mobbing.
Segnatevela
questa parola perché vittime di questo
fenomeno, in Italia, sono
circa un
milione e mezzo di lavoratori, soprattutto nelle
industrie, nelle
imprese di
servizi e nella pubblica amministrazione,
comunque in aziende
con più di
100 dipendenti. E che del problema si stia
prendendo coscienza
lo
testimoniano i quattro progetti di legge (il primo è
datato 1996) che
«riposano» in Parlamento. Sì, perché al momento il codice
prevede solo il
reato di
molestia, di competenza del pretore.
Osservatorio della situazione veneta è un'associazione,
Contromobbing, nata
ufficialmente nel novembre del '99 a Marghera ma
informalmente attiva da un
anno,
promotrice a fine gennaio 2000 di un seminario che,
attraverso le
centinaia
di richieste d'aiuto giunte per telefono (il
numero è 041/5387343 e
risponde il
martedì e il giovedì, dalle ore 15 in poi), ha
«disegnato» la realtà
del Nordest
e lanciato un messaggio, vale a dire la
necessità di informazione
corretta
sul fenomeno sia alle aziende che ai lavoratori,
il coinvolgimento
degli
organi previsti dalla 626 (sicurezza sul lavoro) e
prevenzione sanitaria
(la Clinica
del Lavoro di Milano segue il fenomeno da 10
anni). Dunque, nel
mitico
Nordest pensano di essere vittime del mobbing più
le donne degli
uomini
(68,44% contro il 31,56%), con un grado di
istruzione medio basso
(75%) e con
qualifica di operaio o impiegato (92,94%). Ed
è proprio dalla
Marca che
provengono la maggior parte delle segnalazioni
rispetto alle altre
province.
«Bisogna però sottolineare un aspetto - spiega
Umberto Billo,
vicepresidente di Contromobbing - Di cento persone che
chiamano, solo due
sono
effettivamente vittime di mobbing. Molti infatti
hanno già problemi a
rapportarsi
con gli altri e denunciano sofferenze
psichiche oppure legano i
loro
disturbi a quelli tipici del mobbing. E ci sono anche
quelli che fanno i
furbi per
far causa all'impresa. Mobizzato? E' chi non
canta nel coro, chi è
troppo
propositivo, è il dirigente "doppione" dopo la
fusione dell'azienda o
quello che
è in ascesa e ha suscitato l'invidia del
collega».
I casi
segnalati dall'associazione veneziana e che
riguardano la Marca
vengono
indirizzati alle strutture pubbliche. Il professor
Antonio Augusto
Rizzoli è
primario di psichiatria all'ospedale di Treviso.
«In un anno e mezzo
ho studiato
una decina di casi di mobbing - spiega - Non
pensiate che sia un
numero
trascurabile: il campanello d'allarme è suonato, il
fenomeno è in
rapida
espansione e i danni che può provocare sono
notevoli. Il mobbing è
infatti
un'elaborata tecnica di gruppo guidata da un capo
con istinti perversi,
di solito
dalla personalità sadica, in base alla quale si
zittiscono o si
eliminano
tutti i lavoratori che non si sottomettono
platealmente alle direttive
dell'azienda. L'accanimento del mobbing porta alla
malattia che procura un
danno
biologico di natura psichica e provoca depressione,
ulcera gastrica,
perdita
dell'appetito, insonnia. In casi particolarmente
gravi induce perfino a
progetti di
suicidio. Molti comunque nascondono le
difficoltà che incontrano
al lavoro
perché si vergognano di denunciarle, specie nel
Trevigiano, dove
esiste
ancora il retaggio di una cultura contadina che
predica obbedienza e
pazienza.
Guai ad alzare la voce. Un mio collega
giapponese considera
Treviso
campagna inurbata. Qui c'è il benessere ma la
struttura sociale è
fragile, la
critica viene vista male».
Antonio Augusto Rizzoli
Un commento a margine dell'articolo sul mobbing nelle strutture
sanitarie inglesi, citato dal collega Rizzoli. Vi si sostiene che buone politiche di
gestione del personale dovrebbero tenere conto del fenomeno del mobbing. Trasposto il
tutto nella situazione italiana, ritengo che siamo anni luce indietro. Purtroppo i criteri
che fanno il bravo "manager" sanitario attualmente sembrano un po' troppo
circoscritti alla capacita' di gestire il budget. Molto poco, nella pratica, si guarda
alla capacita' del dirigente di gestire e valorizzare davvero le persone che compongono lo
staff. Mio marito, che non fa il mio lavoro, giorni fa mi riferiva dell'entusiasmo che un
dirigente straniero gli manifestava per il suo lavoro. Ecco: l'amore per il lavoro che fai
scaturisce anche dal fatto che le condizioni in cui lavori sono piacevoli. Da noi invece
sembra che l'idea del piacere sul lavoro non esista: il lavoro deve essere sacrificio,
altrimenti non e' tale. Potrei sbagliarmi, in fondo ho lavorato solo in tre USL nella mia
vita, ma temo che pochi colleghi potranno portare esperienze diverse dalla mia. Ora,
finche' l'aspetto di soddisfazione del dipendente e' ritenuta una variabile assolutamente
accessoria o addirittura pericolosa, vedo terreno fertile per tutte le forme di
degenerazione dell'ambiente lavorativo, compreso il mobbing. Ma quando sara' che le USL
capiranno che il benessere dei dipendenti e' la risorsa piu' importante in cui investire?
___Silvia Bianconcini________________________________________________
Dice il British Medical Journa (BMJ 1999;318:228-232 ( 23 January
):
38% of staff in a community NHS trust reported being subjected to bullying
behaviours in the workplace in the previous year and 42% had witnessed the
bullying of others
Staff who had been bullied had lower levels of job satisfaction and higher
levels of job induced stress, depression, anxiety, and intention to leave
Support at work may be able to protect people from some of the damaging
effects of bullying.
Employers should have policies and procedures that comprehensively address
the issue of workplace bullying
Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496
> From: "Antonio Augusto Rizzoli" <aarizzoli@ulss.tv.it>
> To: LISTA PSICOLOGIA <psicologia@caen.it>
> Subject: Convegno sul mobbing a Venezia
>
> Venerdì 28 e sabato 29 Gennaio si svolgerà a Venezia il "Primo
Seminario
> Europeo sul Mobbing" con la presenza dei Parlamentari firmatari
> (G.Benvenuto e C. Tapparo) del progetto di Legge sul "Mobbing".
> Sono stati invitati i Magistrati Raffaele Guariniello, Alfonso
Marra,
> Antonio Della Rocca che si sono espressi sul tema delle
molestie sul
> luogo di lavoro.
>
> Il Convegno vedrà anche la partecipazione di psicologi europei
per la
> formazione di un network transnazionale antimobbing.
>
> Il Convegno è patrocinato dal Comune di Venezia in
Collaborazione con
> l'Associazione Onlus "Contromobbing".
>
> Si svolgerà all'Auditorium Monteverdi in Piazzale Giovannacci a
Marghera
> con inizio alle ore 13.00 del 28 Gennaio e chiusura dei lavori,
> organizzati in Seminari, alle ore 18 di sabato 29 Gennaio.
>
> Il mobbing, praticato largamente anche all'interno delle
Organizzazioni
> Sanitarie (ULSS ed ASL) è effettuato, generalmente, da
dirigenti con
> strutture caratteriali di perversione, che approfittano di una
> giustificazione razionale (la "razionalizzazione" dei servizi)
per dare
> sfogo ai loro istinti sadico (non percependo il dolore lo
vogliono
> vedere sugli altri). Si può definire un gioco perverso di
gruppo.
>
> Il mobbing ha un costo sociale e psichico ininmaginabile
provocando
> depressioni, alcolismi, gravi disturbi relazionali familiari,
> aggressioni, omicidi e suicidi.
>
> Una figura metaforica ed emblematica di mobbizzatore è stata
> identificata nel cosiddetto "V.G."
> su cui sono stati effettuati degli studi e delle simulazioni
allo scopo
> di studiarne la psicologia e le motivazioni profonde.
> Tali studi sono ancora in elaborazione e saranno pubblicati su
Riviste
> Internazionali.
>
> Professor Antonio Augusto Rizzoli
> Professore a contratto all'Università di Trieste
> Primario Psichiatra della ULSS n.9, Treviso
> Libero Docente in Fisiologia Umana
> Specialista in Neurologia, Specialista in Psichiatria,
> Specialista in Medicina del Lavoro
> Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni
> Dorsoduro 3623 a
> 30123 Venezia
>
> telefono/fax 041-5209496 ; 5209876
> ospedale 0422-322638 ;322624
> cellulare 0336-606143
> Email: aa.rizzoli@ve.nettuno.it
BMJ 1999;318:228-232 ( 23 January )
>
> Papers
> Workplace bullying in NHS community trust: staff questionnaire survey
> Lyn Quine, reader in health psychology.
>
> Centre for Research in Health Behaviour, Department of Psychology,
> University of Kent at Canterbury, Canterbury CT2 7NP
>
> L.Quine@ukc.ac.uk
>
> Objectives: To determine the prevalence of workplace bullying in an NHS
> community trust; to examine the association between bullying and
> occupational health outcomes; and to investigate the relation between
> support at work and bullying.
> Design: Questionnaire survey.
> Setting: NHS community trust in the south east of England.
> Subjects: Trust employees.
> Main outcome measures: Measures included a 20 item inventory of bullying
> behaviours designed for the study, the job induced stress scale, the
> hospital anxiety and depression scale, the overall job satisfaction scale,
> the support at work scale, and the propensity to leave scale.
> Results: 1100 employees returned questionnairesa response rate of 70%. 421
> (38%) employees reported experiencing one or more types of bullying in the
> previous year. 460 (42%) had witnessed the bullying of others. When
bullying
> occurred it was most likely to be by a manager. Two thirds of the victims
of
> bullying had tried to take action when the bullying occurred, but most
were
> dissatisfied with the outcome. Staff who had been bullied had
significantly
> lower levels of job satisfaction (mean 10.5 (SD 2.7) v 12.2 (2.3),
P<0.001)
> and higher levels of job induced stress (mean 22.5 (SD 6.1) v 16.9 (5.8),
> P<0.001), depression (8% (33) v 1% (7), P<0.001), anxiety (30% (125) v 9%
> (60), P<0.001), and intention to leave the job (8.5 (2.9) v 7.0 (2.7),
> P<0.001). Support at work seemed to protect people from some of the
damaging
> effects of bullying.
> Conclusions: Bullying is a serious problem. Setting up systems for
> supporting staff and for dealing with interpersonal conflict may have
> benefits for both employers and staff.
>
> Key messages
>
> 38% of staff in a community NHS trust reported being subjected to bullying
> behaviours in the workplace in the previous year and 42% had witnessed the
> bullying of others
>
> Staff who had been bullied had lower levels of job satisfaction and higher
> levels of job induced stress, depression, anxiety, and intention to leave
>
> Support at work may be able to protect people from some of the damaging
> effects of bullying
>
> Employers should have policies and procedures that comprehensively address
> the issue of workplace bullying
>
> --------------------------------------------------------------------------
-----
> © British Medical Journal 1999
>
> eLetter responses to this article:
> Read all eLetter responses
>
> Bullying of Junior trainee surgeons
> Pinaki Sen, Medical student , University of liverpool
> eBMJ, 25 Jan 1999 [Response]
> Bullying, harassment and racism in the pharmaceutical industry
> Ishaq Abu-Arafeh, Consultant Paediatrician , Stirling Royal Infirmary
> eBMJ, 5 Feb 1999 [Response]
> Bullying in the NHS
> Dr Peter Bruggen
> eBMJ, 8 Feb 1999 [Response]
> Racism in the BMJ classifieds
> RJ Aspinall, clinical research fellow , ICRF Molecular Oncology Unit,
> Hammersmith Hospital, London W12 0NN, UK.
> eBMJ, 8 Feb 1999 [Response]
> Re: Bullying, harassment and racism in the pharmaceutical industry
> walter Brennan, Lecturer in Conflict and Aggression Management , Centre
for
> Aggression Management, Liverpool
> eBMJ, 20 Mar 1999 [Response]
> When will organisations do something about the bully?
> Gill Rowe, Counsellor/Adviser workplace bullying , from home
> eBMJ, 25 Nov 1999 [Response]
>
>
>
>
> Antonio Augusto Rizzoli
> Venezia
> 041-520949
Con il Centro Antimobbing che ho messo su a Treviso si sta
addensando
una ricca casisistica.
Interessanti, tra le altre, le tecniche (sempre le stesse) adottate nel caso
dei Sanitari
non graditi, perché non schierati.
.
In ULSS di provincia la tecnica è quella di sollecitare a scrivere uno o
più pazienti
( raccoglibili tra i deboli mentali e le strutture paronidee di
personalità), fare un fascio
di queste deliranti missive e promuovere una lettera d' addebito.Talora
metterci qualche
- pagata - delazione infermieristica o segretariale.
Cui poi, per sei mesi, non segue altro.Né una inchiesta né un procedimento
disciplinare.
Dopo sei mesi : si ripete la cosa. Le lamentele sono sempre sulla
sensazione soggettiva del malato. Mai su argomenti tecnici.
Come dire " Il dott. Cirillo mi è antipatico, oggi mi ha medicato e non mi ha
salutato garbatamente" (mica scherzo, ho letto di queste cose).
Talora queste lettere di "protesta" non vengono neppure inviate
all'interessato, che non riceve nemmanco
la lettera d'adebito, ma si ritrova, senza sapere perché, fuori dalla sala
operatoria a far medicazioni.
dopo vent'anni di attività quale primo operatore.Trattasi del noto stile
mafioso.
Egli non ha , così, non ha modo di difendersi.Ma le lettere vengono ostense
in occasioni di concorsi e verifiche.
Tralascio le minacce aperte e le urlate dei Primari e dei Direttori Generali
che hanno trovato...
il pelo nell'uovo!! Frasi come "La sbatterò via di qui" al solito capro
espiatorio non coperto politicamente
sono frequentissime. Peccato il dipendente non sia filato diritto in Pretura
(registratore in tasca).
E, alla fine, viene intimato il LICENZIAMENTO (ammapelo, perché..non è
simpatico, capite ? Null'altro).
Magari in reparti vicini od in ospedali viciniori l'aumento della mortalità
è ingravescente, ma
quello fa parte dell"imprevisto" e su quello cala il silenzio.
Ciao contratti, tutele, ordini professionali e tutte le altre bazzeccole.
Ma nel non trasmettere queste lettere agli interessati vi è qualcosa di più
di una omissione
di atti di ufficio : vi è una correità in diffamazione, per cui si può
tranquillamente adire
il Giudice Penale.
E' questo il consiglio che ho dato ai Colleghi che mi si sono presentati
afflitti da sindrome
del burnt out e del mobbing. Sono ahimé più di quanti non pensassi, segno
del malessere della Sanità
nonostante le qualifiche internazionali che ci vedono al secondo posto..
Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496
Perfezionismo (Perfectionism)
Ammettendo che sia diagnosticato un forte complesso
d`inferiorita`in un
paziente con un profilo di personalita`che non presenta disturbi gravi,
e`possibile, attraverso una psicoterapia, una volta avvenuta la
consapevolizzazione e accettazione,la sua scomparsa totale?
Grazie per un`eventuale risposta.
Cari
saluti, Ofle.
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In 07.21 23/03/00 +0100, ho scritto:
>ma perché l'anoressica è talmente perfezionista da scegliere di limitare il
>suo campo d'azione al controllo del comportamento alimentare, cioè
>restringe la sua vita ad un campo di interessi così estremamente
>semplificato, il cui unico vantaggio (da un punto di vista anoressico) è
>nella auto-evidenza con la quale si può misurare il successo in manirea
>quantificabile (successo=controllo della quantità di cibo)? In altre
>parole, qual è la spiegazione dell'assurdità del disturbo mentale anoressico?
>
>giovanni maria ruggiero
>
cerco di rispondermi da solo. Secondo Vitousek e Ewald (1993), i disturbi
alimentari consistono in un nucleo di idee sopravalutate (overvalued ideas)
concernenti il controllo del peso e dell'aspetto corporeo. Da questo
riuscito controllo la ragazza anoressica e/o bulimica fa dipendere il suo
senso di autostima.
Il problema dell'autostima è abbastanza sfuggente e generico. Un autore
italiano, Castelfranchi (1997), ha cercato di affrontare il problema
scomponendolo in parti. egli individua le seguenti componenti:
appartenenza, differenza, narrazione, valutazione. Le prime quattro
categorie costituiscono il versante cosiddetto definitorio o fattuale,
quello nel quale ci definiamo e ci stimiamo descrivendoci. Questa
descrizione avviene soprattutto in rapporto agli altri, ai quali cerchiamo
in parte di conformarci/appartenere (domain dell'appartenenza), in parte di
differenziarci (domain della differenza). Inoltre, i due assi
dell'appartenenza e della differenza si modificano nel tempo, cosicché si
aggiunge un terzo asse temporale, quello della narrazione di sé. Questi tre
assi insieme finiscono per costituire un articolata teoria di sé, in parte
pienamente esplicita, in parte implicazionale, cioè inferibile dal
comportamento, dalle opinioni espresse non esplicitamente su di sé. A
questa parte implicazionale della teoria di sé corrisponderebbero non dei
pensieri espliciti, ma piuttosto dei modelli operativi interni di tipo
procedurale intuititivi e "sentiti". L'ultimo asse è quello valutativo.
esso esprime giudizi non più solo fattuali, ma di valore. Il soggetto
valuta sé stesso, si dà un valore in vari parametri di tipo sia
socio-relazionale che prestazionale (studio, lavoro).
l'anoressica e la bulimica avrebbero un deficit sia di definizione di sé
che di valutazione di sé. Il deficit di definizione di sé è stato suggerito
da Guidano e Liotti (1983), mentre quello della valutazione di sé da
Fairburn e Wilson (1999), che hanno parlato di negative self-evaluation
(NSE). La NSE sarebbe il nucleo profondo della personalità anoressica.
abbiamo così il low self esteem mind set, che secondo Yellowless (1997) si
articolerebbe in quattro punti:
1. eccessivo bisogno di approvazione
2. problemi di evitamento
3. perfezionismo
4. preoccupazione ansiosa
insomma, si tratta di uno stile di conoscenza di tipo evitante, secondo la
classificazione di Lorenzini e Sassaroli (in press). Il perfezionismo è
probabilmente soltanto l'aspetto più appariscente di questo stile
conoscitivo. come ho già scritto, il perfezionismo è stato misurato da
almeno tre scale importanti, la MPS (Frost e altri, 1990) che identifica 5
dimensioni (Preoccupazione degli errori, Modelli personali, Aspettative dei
genitori, Dubbi riguardanti le proprie azioni, ed Organizzazione, ordine e
precisione), la scala di Hewitt (che misura il perfezionismo orientato
verso il sé, verso gli altri e quello socialmente prescritto) e la scala
Perfezionismo dell'EDI (Eating Disorder Inventory). Un importante studio di
Bastiani e altri (1995) effettutato utilizzando le scale elencate ha
stabilito che il perfezionismo dell'anoressica è esperito come
auto-imposto, e non indotto dagli altri.
Il perfezionismo clinicamente si definisce come bisogno di ipercontrollo su
un parametro scelto per la sua facile quatificabilità e misurabilità,
secondo uno stile di pensiero tipicamente primitivo (Fairburn, 1999). Di
qui la scelta del peso corporeo. Questa scelta però dipenderebbe anche da
altri fattori. Inizialmente, infatti, l'anoressica tenderebbe a svolgere il
suo ipercontrollo anche su altri fattori, scelti sempre però in base alla
loro "quantificabilità" (esempio: il rendimento scolastico), od alla loro
capacita di soddisfare conformisticamente le attese altrui, soprattutto dei
genitori (di qui il carattere pre-morboso di "brava ragazza" dell'anoressica).
Questi altri fattori sarebbero: l'oggettiva importanza che riveste il corpo
nella definzione dlell'identità femminole (Striegel-Moore, 1993), ed il
senso emozionale di euforia e trionfo che dà, almeno inzialmente, la dieta
riuscita (Fairburn, 1999). Si aggiungerebbero poi anche fattori genetici.
Secondo Treasure (2000), gli studi sul gene della leptina suggerirebbero
una oggettiva facilità genetica della anoressica nel dominare i suoi
impulsi di fame. Last but not least, la pressione sociale verso la
magrezza, iniziata negli anni '60. Quest'ultima, tuttavia, non viene più
ritenuta, come un tempo così decisiva, anche se indubbiamente ha rivestito
un ruolo nell'esplosione della bulimia nei tardi anni '70-inizio anni '80
(attualmente vi è una fase di plateau della prevalenza), soprattutto dopo
che studi transculturali hanno dimostrato la presenza di anoressia senza
paura di ingrassare in zona rurali del mondo (Lee, 1993; Nasser, 1984;
Ruggiero, 2000).
Aggiungiamo poi l'influenza della famiglia e dei peers. E' soprattutto in
questi due ambienti che la ragazza anoressica apprende le sue distorsioni
cognitive. Lo stimolo alla dieta da parte della madre, il controllo
esercitato sul proprio peso e su quella della figlia da parte della madre,
e di infine il teasing (il prendere in giro) sadicamente effettuato dalle
coetanee (peers) hanno un potente effetto di insegnamento del sintomo
(storia di apprendimenti, secondo la terminologia di Sassaroli e Lorenzini,
in press).
L'influenza della famiglia agirebbe anche sui sentimenti di scarsa
definizione di sé, già invocati da Liotti e Guidano. Non è altro che la
vecchia teoria di Minuchin e Selvini-Palazzoli, della famiglia
psicosomatica "enmeshed". Tuttavia, questo approccio è oggi criticato, e si
ritiene che questo tipo di relazione familiare sia piuttosto conseguenza
che antecedente della malattia. Si ammette, tuttavia, che atteggiamenti
invadenti della privacy e della intimità corporea e sessuale e della
ragazza non ancora anoressica (parental intrusiveness), da parte sia della
madre che del padre, nonchè sentimenti di gelosia della madre verso la
femminilità della figlia, possano giocare un ruolo predisponente.
Gli stati emotivi della anoressica sono caratteristicamente negativi:
tristezza, paura e disgusto. Quest'ultimo, in particolare, è collegato con
il disprezzo di sé ed è molto studiato ultimamente (Troop, 1999), dopo che
era stato definito "l'emozione dimenticata della psichiatria" (non ricordo
al momento gli autori dell'articolo).
***********************************
Giovanni Maria Ruggiero
Psichiatra Contrattista U.O.P. Bergamo
Locum Psychiatrist Bergamo General Psychiatry
Consulente Scientifico Unità Distubi Alimentari Università di Milano e Zurigo
Scientific Counseling Eating Disorder Unit of Milano and Zuerich Universities
Private address: via Fratelli Cervi 16G, 20068 PESCHIERA BORROMEO (Milano).
Editorial staff member di www.psychomedia.it
***********************************
>Il tema che introdurrò nel prossimo messaggio sarà:
autostima e
>perfezionismo come cuore psichico dell'anoressia.
>
>a presto
>
>giovanni ruggiero
>
Mi scuso per il ritardo con il quale vi spedisco questa mail. Sono stato
preso dapprima da un concorso in Bergamo, e poi da un lavoro scientifico
intenso.
Questa mia mail di esordio come rianimatore della lista parte da uno
scambio "in vivo" con Tullio Carere, il quale aveva osservato come i
disturbi alimentari condividano, con altri disturbi cosiddetti dell'area
ansiosa, il tema strutturale dell"ansia superegoica".
Questo tema mi sembra in rapporto con il tema molto dibattuto del
perfezionismo e dell'autostima nell'anoressia. Il pefezionismo viene da
tempo indicato come importante fattore di rischio dei disturbi alimentari.
Si tratta evidentemente di un tratto di personalità, quella che una volta
si chiamava personalità anancastica. In genere si dice che nei disturbi
alimentari si sa molto dei cosiddetti fattori di rischio prossimali (nel
tempo), di cui il principale è il semplice atto di mettersi a dieta, ma
poco di quelli distali (sempre riferito al tempo). Eppure intuitivamente il
perfezionismo, come fattore di rischio personologico, affonda le sue radici
in un tempo più lungo e profondo di quello prossimale. La personalità si
sviluppa sulla lunga distanza. Tuttavia, non sappiamo bene dove inizi
questa lunga distanza. Se abbia le sue radici nel terreno freudiano della
prima infanzia, oppure più in là.
Storicamente, il perfezionismo fu introdotto nella riflessione sui disturbi
alimentari da Hilde Bruch (1978) e poi da Slade (1982). Il perfezionismo è
stato descritto come "L'aspettativa da parte di sè stessi e degli altri di
prestazioni più elevate di quelle richieste dalla situazione" (English ed
English, 1958). Questa aspettativa si accompagna alla tendenza di valutare
ipercriticamente il proprio comportamento (Frost e altri, 1990). In
aggiunta, il perfezionismo include "stabilire modelli irrealistici e
lottare strenuamente per realizzarli, una attenzione selettiva verso ed una
distorsione cognitiva ipergeneralizzante verso il fallimento, una
auto-valutazione sempre severa ed una tendenza ad impegnarsi nel pensiero
tutto-o-nulla per il quale gli unici esiti possibili sono il fallimento
totale od il successo assoluto" (Hewitt e Flett, 1991).
Il perfezionismo è stato misurato da almeno tre scale importanti, la MPS
(Frost e altri, 1990) che identifica 5 dimensioni (Preoccupazione degli
errori, Modelli personali, Aspettative dei genitori, Dubbi riguardanti le
proprie azioni, ed Organizzazione, ordine e precisione), la scala di Hewitt
(che misura il perfezionismo orientato verso il sé, verso gli altri e
quello socialmente prescritto) e la scala Perfezionismo dell'EDI (Eating
Disorder Invenotory).
Un importante studio di Bastiani e altri (1995) effettutato utilizzando le
scale elencate ha stabilito che il perfezionismo dell'anoressica è esperito
come auto-imposto, e non indotto dagli altri.
Penso che come primo messaggio possa bastare. Le curiosità che mi stimolano
questi dati e queste riflessioni sono molteplici. La prima di tutte è: ma
perché l'anoressica è talmente perfezionista da scegliere di limitare il
suo campo d'azione al controllo del comportamento alimentare, cioè
restringe la sua vita ad un campo di interessi così estremamente
semplificato, il cui unico vantaggio (da un punto di vista anoressico) è
nella auto-evidenza con la quale si può misurare il successo in manirea
quantificabile (successo=controllo della quantità di cibo)? In altre
parole, qual è la spiegazione dell'assurdità del disturbo mentale anoressico?
giovanni maria ruggiero
Depressione (Depression)
Sto scivendo a tutti voi.Non vi conosco,non so se e
quando mi leggerete,non so nulla dei vostri
sogni,delle vostre speranze e dei tanti mostri che
popolano la parte che ognuno di noi non ama mostrare
all'altro.
Paura? Vergogna? Mancanza di tempo?
Posso dirvi con tutta sincerita' il MIO rapporto con
la parte in ombra che mi accompagna ogni attimo della
mia giornata,mi osserva,mi spinge a rivedere le mie
scelte,molto spesso mi confonde.
Guardo le persone che mi sono vicino,noto in loro una
immensa capacita' di controllarsi;dicono esattamente
cio' che vogliono,mai un gesto fuori posto,mai una
sbavatura.
Mi guardo:vedo una monade staccata dal contesto in cui
e' immersa,uno spazio fisico ben delimitato mi separa
da cio' che sta "fuori".
"Fuori" e "dentro" sono espressioni che non rispettano
la geografie dei rapporti umani,ma a me servono per
spiegare,per verbalizzare una cosa altrimenti
inesprimibile:due membrane,separate da uno spazio
vuoto.Al di la' della seconda membrana c'e' l'immensa
bellezza della vita.
Colori,suoni,sapori che nessuno puo' arrogare il
diritto di classificare,inscrivere in una tabella.
Io sono "al di qua".
Schegge di felicita' mi trafiggono,quando meno me lo
aspetto.Ma sono sempre li'.
A.
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... che la forza sia con te!
Speriamo di aver avuto, con il nostro inpegno quotidiano nel sito, una
piccola parte nella tua decisione di metterti in viaggio.
Auguri dalla Redazione
----- Original Message -----
From: "rossy damico" <damicoross@hotmail.com>
To: <psiconline@ecircle.it>
Sent: Wednesday, October 18, 2000 10:54 PM
Subject: [psiconline-it] Re: Re: ofle
> Buongiorno a tutti!Sono Ofle.
> Malinka e`riuscita a iniziare il suo viaggio, la sua corazza e`stata piano
> piano scalfita. Il silenzio e`assordante e mi distrugge, mi
> spaventa...e`come essere in una cabina piena di gas dove perdi il fiato e
> rischi di soffocare.
> NB: Malinka e`la protagonista di un bellissimo libro.
>
> _________________________________________________________________________
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Ciao Ofle,
sono Luigi, piacere di conoscerti.
Sono stato anch'io in terapia per circa otto mesi, con una psicologa.
Indipendentemente da come sia finita mi sento di darti un consiglio che a
me, all'epoca, servì parecchio.
Anch'io temevo di essere giudicato per alcuni pensieri e atteggiamenti che
adottavo spesso senza pensarci.
Gli effetti negativi di questo comportamento erano diversi e di varie
intensità, riflettendosi anche nel sogno, sempre piuttosto turbato.
Fu un momento particolare quello in cui decisi che sarebbe cambiato il mio
rapporto con colei che mi visitava.
Uno dei motivi per cui ero in terapia si identificava in una grossa quantità
di rabbia, di cui io sapevo benissimo l'entità e la potenzialità, che io
temevo e reprimevo costantemente.
Adottai allora questa rabbia e provai ad "usare" la mia terapeuta come uno
specchio, una superficie riflettente, capace di rivelare me stesso a me
nella misura di quanto io lo facessi a lei.
Adoperai questa rabbia come una enrgia, non mi interessai neppure di che
qualità fosse, lo feci senza considerare la persona a me di fronte come un
oggetto, ignorandone le possibilità relazionali e le capacità di giudizio.
"Adesso io sono qui davanti a te" pensavo "tu hai gli strumenti e MI DEVI
AIUTARE a venirne fuori".
Lo feci più volte, senza neppure pormi il problema dell'ira manifestata,
dell'aggressività e delle parolacce.
Divenne man mano più semplice, più scorrevole ed anche più gradevole, quasi
simpatico farlo.
Non seppi mai che reazioni effettivamente avesse sortito questo modo di fare
ma devo dire che funzionò alla grande.
E' solo un salto, un momento in cui tu ti fermi e ti guardi per intero,
completamente senti tutto di te, avverti ogni cosa sensorialmente.
Ti fermi, domini e pacatamente, senza fretta lasci che tutto salga dal basso
di te, da quel pozzo nero che ogni tanto vomita qualcosa di indigesto, di
inaccettabile, di curioso e di assurdo pure.
Pensa solo che, quando partirai con questo tipo di tecnica, prenderai
contatto con energie che ti appartengono di cui ignoravi perfino l'esistenza
e la possibilità.
E' solo un salto, devi solo desiderare e assecondare il desiderio di
saltare.
Tutto il resto diverrà solo un film di ricordi e segreti.
In bocca al lupo.
Luigi
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At 10.46 05/10/00 +0000, you wrote:
Questo viaggio,pero`,non riesce a decollare contro tutte le mie previsioni e desideri.
Paura del giudizio, pensiero, idea che la mia psiche possa essere visibile e
interpretabile da chi potrebbe farlo realmente e senza alcun preconcetto, una persona in
cui confido, stimo. Ma allora perche`non ce la faccio?
...forse perché vorresti già trovarti tu dall'altra parte.
Il Signore disse:"Non giudicare se non vorrai essere giudicato".
Se ti va leggi qualcuno dei miei racconti. Ti suggerisco "L'esordiente".
Forse ti aiuterà a fare "il paziente".
Ciao,
Mario Trovarelli
www.narrare.it
Ciao Ofle, ho letto il tuo messaggio ed ho letto la
mia stessa paura ad affrontare un percorso di terapia
psicoanalatica. Tu ti fidi di chi ti sei affidata?
Credo che si abbia paura di scoprirsi totalmente e
conoscere quello che si ha dentro e si ha paura che
qualcuno ne possa rimanere deluso o manipolare.
Forse sono queste le paure recondite.
Mi viene in mente una scena del film "La Storia
Infinita" dove un adolescente doveva affrontare delle
prove di coraggio ed una d queste era quella di
guardarsi ad uno specchio, dove avrebbe visto come era
veramente e chi lo aveva preceduto era scappato via
urlando - chi si credeva coraggioso vedeva che in
realta' era un vile e cosi' via. E' questo il paragone
che penso ogni volta che mi dico di andare da uno
psicologo.
ciao Donatella
--- rossy damico <damicoross@hotmail.com>
ha scritto:
> Ciao a tutti! Sono Ofle.
> E`da 2 mesi che ho intrapreso il mio viaggio dentro
> me stessa. Sono in
> terapia psicoanalitica da due mesi. Questo
> viaggio,pero`,non riesce a
> decollare contro tutte le mie previsioni e desideri.
> Paura del giudizio,
> pensiero, idea che la mia psiche possa essere
> visibile e interpretabile da
> chi potrebbe farlo realmente e senza alcun
> preconcetto, una persona in cui
> confido, stimo. Ma allora perche`non ce la faccio?
> N.B. Sono studentessa in psicologia, la mia
> piu`grande passione.
> Se qualcuno vorra`rispondermi saro`molto felice.
> ofle.
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Ciao a tutti! Sono Ofle.
E`da 2 mesi che ho intrapreso il mio viaggio dentro me stessa. Sono in
terapia psicoanalitica da due mesi. Questo viaggio,pero`,non riesce a
decollare contro tutte le mie previsioni e desideri. Paura del giudizio,
pensiero, idea che la mia psiche possa essere visibile e interpretabile da
chi potrebbe farlo realmente e senza alcun preconcetto, una persona in cui
confido, stimo. Ma allora perche`non ce la faccio?
N.B. Sono studentessa in psicologia, la mia piu`grande passione.
Se qualcuno vorra`rispondermi saro`molto felice.
ofle.
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Ho spesso parlato del fenomeno suicidio e delle responsabilità
che
possono essere imputate allo
psichiatra. Ne ho parlato perchè sono stato testimone di diversi casi
accaduti nel Servizio Pubblico
ove la Magistratura - fino ad ora - è stata di opinione diversa.
Nel caso di un famoso ed anziano psichiatra, Direttore di una Casa di
Cura, è stata invece comminata
una severa condanna.E' necessario attendere la stesura completa della
sentenza.
L'opinione, comunque, dei difensori dello psichiatra (in fondo
all'articolo) è da prendere in seria considerazione.
Andate a leggere il "Corriere della Sera" al sito:
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=INTERNI&doc=INC
Scrive il "Corriere" in data odierna:
APPIANO
GENTILE (Como) - La paziente si
è uccisa, lo psichiatra è stato
condannato:
omicidio colposo. È successo al
fondatore e direttore della clinica dei
vip,
«Le betulle», di Appiano Gentile.
Secondo il giudice di Como il medico sarebbe
responsabile
del suicidio di una paziente
affetta da gravissimi disturbi psichici.
Augusto
Guida, 78 anni, psichiatra milanese,
responsabile della clinica avrebbe
«cagionato
il decesso per colpa» di una
donna di 64 anni, reduce da tre tentativi di
suicidio
e «affetta da sindrome depressiva
psicotica». Ne è convinto il sostituto
procuratore
Claudio Galoppi, che in aula ha
chiesto la condanna dell'imputato a un
anno
e nove mesi. E ne è convinto anche il
giudice Mauro Ianigro, che ha abbassato
la
pena a un anno di reclusione (con la
sospensione condizionale), ma che comunque
ha
riconosciuto il dottor Guida colpevole di
omicidio colposo.
«Il
nostro assistito è innocente -
commentano convinti gli avvocati difensori, i legali
milanesi
Federico Stella e Fulvio Simoni -.
Il professor Guida ha realizzato e messo
in
atto con scrupolo la legge Basaglia, che
sta alla base dell'ordinamento per il
trattamento
delle malattie mentali».
I
fatti risalgono a tre anni fa. Il 30
giugno del '97 Clara Piccinetti, 64enne comasca,
viene
affidata dalla figlia ai medici della
casa di cura di Appiano Gentile.
La
donna ha
già
tentato il suicidio, e nei dieci giorni
trascorsi nella clinica viene salvata in
extremis
altre tre volte. Secondo la
diagnosi medica la 64enne di origini toscane
soffre
di sindrome depressiva psicotica.
Neppure due settimane più tardi, però,
Clara
Piccinetti muore. Suicida dopo un volo
dal quarto piano di un'abitazione.
Secondo
quanto accertato dall'inchiesta
della Procura di Como la paziente, il 10
luglio,
viene affidata dai medici della
clinica di Appiano Gentile alla custodia di
un'accompagnatrice
volontaria, priva di
specializzazione medica o infermieristica. Il
direttore
delle Betulle, stando alle
contestazioni del pm Claudio Galoppi, non
avrebbe
informato l'accompagnatrice, Maria
Morandi, volontaria della cooperativa
di
servizio Gaia, della propensione al
suicidio della paziente. Clara Piccinetti e la
volontaria
(inizialmente indagata dalla
magistratura, ma poi prosciolta da ogni
accusa)
vengono autorizzate a uscire dalla
clinica. Un fatto che, secondo l'accusa,
avrebbe
determinato un «aumento del rischio»
di suicidio della donna.
È
stata proprio questa autorizzazione a
mettere nei guai il fondatore della clinica.
La
64enne viene accompagnata nell'abitazione
della volontaria, a Luisago. Una volta
all'interno
della casa chiede di poter
andare in bagno, si chiude all'interno, apre la
finestra
e si getta nel vuoto. Un volo di
quattro piani. Fatale per la paziente, che è
morta
sul colpo.
Il
processo era iniziato nel marzo scorso.
Un dibattimento lungo e complesso. Con
la
difesa che ha portato avanti la tesi
secondo la quale con la legge Basaglia del '78
lo
psichiatra non può trattenere
coattivamente chi si sottopone volontariamente a
una
terapia, dunque il direttore delle
Betulle, secondo i legali, non aveva alcun
potere
di controllo nei confronti della
paziente. E con l'accusa che, per contro, ha
sempre
sostenuto che quel potere esiste,
tanto che il pm ha espressamente
contestato
all'imputato l'omissione
dell'obbligo di sorveglianza da parte del
direttore
della clinica dei vip. Schermaglie
terminate soltanto con la lettura delle
decisioni
del giudice: colpevole. Un anno di
reclusione e pagamento del danno alla
figlia
della donna, che si è costituita
parte civile.
Quasi
certo il ricorso in appello. «Ora
attendiamo di leggere le motivazioni della
sentenza»,
precisa l'avvocato Federico
Stella, legale di Augusto Guida, nonché tra
gli
estensori della legge Basaglia. Che
conclude: «Ho intenzione di aprire un
dibattito
per vedere come la normativa sulle
malattie mentali è stata realizzata in
tutti
i presidi italiani».
""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""
PSICONLINE® NEWS
http://www.psiconline.it
La prima newsletter italiana dedicata alla psicologia
ed agli psicologi
""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""
-------------------------------
>> n. 32 - 5 novembre 2000
-------------------------------
Caro cisat@istitalianodicultura.org,
benvenuto al nuovo appuntamento con PSICONLINE® NEWS e le novità del mondo della
psicologia.
Prima di invitarti a leggere quello che segue ti invitiamo a scriverci (redazione@psiconline.it) per esprimerci le tue
opinioni, conoscere le tue proposte ed i tuoi suggerimenti, sapere a cosa sei interessato.
Avere un continuo feedback con i nostri Ospiti ci aiuta a crescere sempre di più e sempre
meglio.
>>> SOMMARIO
-------------------
1 - L'arrivo del primo figlio può essere causa di problemi per la coppia?
2 - Infanzia e depressione
3 - Le novità di Psiconline.it
- L'arrivo del primo figlio può essere causa di problemi per la coppia?
----------------------------------------------------------------------------
L'arrivo del primo figlio di una coppia è un'occasione di grande gioia frequentemente
seguita da un certo declino in termini di soddisfazione nel rapporto coniugale da parte
dei partner. Gli studiosi conoscono da tempo questa realtà e ribadiscono che tale stato
può essere una delle cause di separazione dei coniugi.
Nelle ricerche sono state seguite 82 nuove coppie per un periodo compreso tra 4 e 6anni;
durante questo tempo 43 coppie sono diventate genitori per la prima volta.Le ricerche
hanno avuto come obiettivo quello di rilevare eventuali cambiamenti nella soddisfazione
coniugale e di identificare i meccanismi che insorgono nelle dinamiche di coppia durante
la transizione dall'unione matrimoniale alla genitorialità..
Le coppie sono state reclutate tra quelle sposate da un anno, sottoposte a questionari sul
grado di soddisfazione riguardo al proprio matrimonio e intervistate per approfondire
molteplici aspetti circa la relazione di coppia.
Le ricerche condotte dal Prof. John Gottman dell'Università di Washinton e
pubblicate sul Giornale di Psicologia Familiare sui neo-genitori hanno scoperto una
"ricetta" per mantenere e migliorare la soddisfazione coniugale; i risultati
ribadiscono l'importanza di costruire un forte legame coniugale fondato sulla amicizia tra
i coniugi secondo i seguenti obiettivi:
- stimolare sentimenti di affetto per il partner
- essere al corrente di ciò che accade nella vita del proprio coniuge e diventare più
sensibile alle sue richieste.
- sviluppare un approccio ai problemi considerandoli come qualcosa su cui intervenire in
coppia e risolverli insieme.
- INFANZIA E DEPRESSIONE
--------------------------
La depressione infantile può insorgere in età precoce e originare problematiche che si
intensificano con la crescita.
In un recente studio della cattedra di Neuropsichiatria Infantile dell'Università La
Sapienza di Roma condotto su bambini da tre a sei anni è emerso che circa il 2% dei
bambini in età scolare dei paesi occidentali potrebbe soffrire di disturbi di natura
depressiva, disturbi che non vengono solitamente rilevati in tempo utile ma si
trascinano invece per anni creando problemi psicologici che divengono progressivamente
più difficili da superare.
Una delle cause di tale condizione sembra risiedere nel sentimento di non essere amato
abbastanza dai propri genitori e dagli altri adulti del proprio ambiente familiare, ciò
che porta il bambino a provare tristezza, sentimenti di rabbia e sensi di colpa, timore di
manifestare le proprie emozioni.
Il malessere "silenzioso" del bambino sarebbe più spesso conseguenza di
disorganizzazione della famiglia, di conflittualità tra i genitori e della presenza di
malattie croniche di suoi membri.
La ricerca mostra inoltre che, sulla base di dati anamnestici riscontrati in un campione
di adolescenti, circa il 25% presentava problematiche di questo tipo già prima dei 6 anni
di età, confermando così che l'inizio del vissuto depressivo può fare la sua comparsa
in età precoce ed aumentare la propria intensità negli anni dell'infanzia e
dell'adolescenza.
La questione dell'attenzione rivolta dagli adulti al malessere psichico del bambino
diviene di conseguenza il punto centrale del discorso, sia in ambito familiare che
scolastico, poichè se genitori ed insegnanti possono accorgersi solitamente che il
bambino presenta difficoltà di tipo relazionale o affettivo, non è purtroppo ancora
possibile ricorrere a chiare scelte operative e ad un intervento tempestivo, come sarebbe
auspicabile in questi casi.
Le Novità di Psiconline.it
----------------------------
>>> Ottobre è stato un mese ricco per il nostro sito: 250.000 pagine lette,
oltre 60.000 visitatori, il numero degli iscritti nel Registro degli Ospiti che sale
costantemente.
Numeri che ci fanno pensare che il nostro lavoro è certamente apprezzato dai navigatori
di internet e che ci spingono ogni giorno di più a potenziare i nostri sforzi per rendere
un servizio sempre migliore e sempre più ricco ai nostri amici on line.
>>> Abbiamo bisogno di nuovi collaboratori per proseguire costantemente nel
nostro impegno; se sei uno psicologo ed in particolare se operi in campi diversi dalla
"clinica", scrivici ed unisciti al nostro gruppo. Molti progetti sono in corso
di sviluppo e l'apporto spontaneo e volontario dei nostri collaboratori è fondamentale
per crescere ulteriormente e realizzare tutto ciò che abbiamo in mente.
>>> Due importantissimi accordi sono stati siglati da Psiconline in questa
settimana appena trascorsa. Due partnership significative che aumenteranno sensibilmente
la visibilità del nostro lavoro e ci porteranno a sviluppare ulteriormente il
nostro impegno.
Ne parleremo più diffusamente nella prossima newsletter.
>>> Sul sito in questi 7 sette giorni molte novità: articoli, informazioni,
convegni, aggiornamenti bibliografici e, infine, "Le Risposte dell'Esperto".
Collegatevi con il sito e date un'occhiata al tutto (se non lo avete già fatto):
http://www.psiconline.it/notizie.htm
Ancora una volta ci fermiamo per non rubarvi altro tempo ma vi salutiamo con la speranza
di esservi stati ancora una volta utili. Scriveteci e fateci conoscere le vostre opinioni.
Una Buona Domenica a tutti.
La Redazione di Psiconline.it
What types of drug therapies are available
to treat children or adolescents for depression?What types of drug therapies are available
to treat children or adolescents for depression?
------------------------------------------------------------------------
Drug therapies in children and adolescents can include the following: 1. Tricyclic
antidepressants, which have been shown to work in open studies but not in blinded studies.
Their side effects are also significant. 2. Selective serotonin reuptake inhibitors
(SSRIs) are commonly prescribed by family physicians and pediatricians. Of the physicians
surveyed recently, 72% had prescribed an SSRI for a child or adolescent, while only 8%
felt that they had adequate knowledge regarding childhood depression and its therapy.[1] A variety of SSRIs for the treatment of childhood depression now
exist. Fluoxetine, 20 mg/day for 8 weeks, was shown to produce improvement in 56% of
depressed patients vs 33% improvement in patients on placebo.[2]
The clinical benefits and safety of paroxetine (PXT) in a group of patients younger than
14 years old with a diagnosis of major depressive disorder have been studied in an
open-label trial. All patients experienced marked improvement by 2 months with a complete
remission of symptoms by the end of treatment (mean 8.4 months). PXT was well tolerated.[3] Sertraline produced improvement in 40% to 60% of patients by 6 weeks
and 70% to 80% of patients by 10 weeks. Adult dosages should be prescribed for
adolescents. There were no echocardiogram or blood pressure changes noted using sertraline
200 mg/day. Side effects associated with serotonergic agents include insomnia, anxiety,
and agitation, as well as reduced libido and anorgasmia.[4-6] 3.
5HT2 and 5HT2,3 antagonists -- nefazodone and mirtazapine -- have a combined noradrenergic
and serotonergic effect and appear to be as effective as SSRIs, with fewer adverse
effects.[7] Depression in childhood is a significant disorder and
differs from adult depression in several ways. Children exhibit more somatic symptoms, a
more chronic course, and a different pharmacologic response (serotonergic drugs being more
effective in children than in adults).
Source: Inder T.: Advances and application of psychopharmacology in pediatrics.
Conference summary from Advancing Children's Health 2000: Pediatric Academic Societies
(PAS) and the American Academy of Pediatrics (AAP) Year 2000 Joint Meeting. Medscape
Pediatrics, 2000.
References
1. Rushton JL, Clark SJ, Freed GL. Pediatrician and family
physician prescription of SSRIs. Pediatrics. 2000;105:E82.
2. Emslie GJ, Rush AJ, Weinberg WA, et al. A double blind randomised
placebo controlled trial of fluoxetine in children and adolescents with depression. Arch
Gen Psychiatry. 1997;54:1031-1037.
3. Rey-Sanchez F, Gutierrez-Casares JR. Paroxetine in children with major depressive
disorder: an open trial. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 1997;36:1443-1447.
4. Ambrosini PJ, Wagner KD, Biederman J, et al. Multicenter
open-label sertraline study in adolescent outpatients with major depression. J Am Acad
Child Adolesc Psychiatry. 1999;38:566-572.
5. Alderman J, Wolkow R, Chung M, Johnston HF. Sertraline treatment of
children and adolescents with obsessive-compulsive disorder or depression:
pharmacokinetics, tolerability and efficacy. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry.
1998;37:386-394.
6. Wilens TE, Biederman J, March JS, et al. Absence of
cardiovascular adverse effects of sertraline in children and adolescents. J Am Acad Child
Adolesc Psychiatry. 1999;38:573-577.
7. Holm KJ, Markham A. Mirtazapine: a review of its use in major
depression. Drugs. 1999;57:607-631.
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Column Index
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Psychiatry
--
Francesco Bollorino
DIPARTIMENTO DI SCIENZE PSICHIATRICHE
UNIVERSITA' DI GENOVA
Editor of "POL.it, Psychiatry on line - Italia" - ISSN 1591-0598.
*** - The October 2000 Issue is on
the NET - ***
Italian Site: http://www.pol-it.org
English Site: http://www.priory.com/ital.htm
Book's Site: http://www.pol-it.org/ital/terzo_stato/indice.htm
Via Provana di Leyni' 13/2 16167 GENOVA
16167 Genova - Italia
Tel. 010-3203639
0348-7117284
Fax: 010-3537669
ICQ : 22413547
***********************************************
"La vita e' troppo breve, per sprecarla
a cercare di realizzare i sogni degli
altri"
(Oscar Wilde)
----- Original Message -----
From: Dott. Giacomini <giacomin@libero.it>
To: Psychomedia Salute Mentale e Comunicazione <PM-SMC@LISTSERVER.SICAP.IT>
Sent: Tuesday, August 29, 2000 5:10 PM
Subject: DISTIMIA, DSM E DINTORNI (IV) Risposta
In data 18 agosto 2000 Anna Abbate Fubini ha scritto:
>Personalmente apprezzo il sostegno professionale che mi offre la
>consultazione del DSM, ma ne ho pure una convalida inaspettata
> dall'apprezzamento
>entusiastico dei pazienti stessi. In molti casi la lettura descrittiva
>dei "propri disturbi"
>dà loro un enorme sollievo . .
>sono molto interessata, guarderò il sito web, ma non potrei avere una
>copia cartacea?
Riposta:
DISTIMIA, DSM E DINTORNI (V)
Il fatto che il DSM possa essere utilizzato, da qualche volenteroso, per
dare sollievo alle ansie dei pazienti, non è certo sufficiente a
conferirgli
una dignità teoretica e scientifica.
Personalmente ritengo che per una psicoterapia (sia di sostegno, sia
sistematica) siano assai più efficaci altre forme di intervento, basate su
seri principi epistemologici.
Rispondendo alla sua richiesta, le sarà inviata prossimamente in omaggio
una copia della nostra Rassegna "Psicoterapia Professionale" del 1994, dove
è
presente l'articolo: "Il manuale "diagnostico" e
"statistico" DSM III-IV:
analfabetismo epistemologico, nichilismo metodologico e insipienza
clinico-diagnostica in psicopatologia".
Nello stesso numero della Rassegna, riferimenti e commenti sul DSM si
trovano anche nell'articolo:
"L'istituzionalizzazione della psicoterapia professionale e il fallimento
delle discipline accademiche, psicologiche e psicopatologiche, in Italia.
I: Il fallimento della psichiatria accademica italiana e il problema del
metodo in psicopatologia e in psicoterapia".
Cordiali saluti.
G.Giacomo Giacomini
G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
Sistematica CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
Internet: http://members.xoom.it/istpsico
----- Original Message -----
From: Dott. Giacomini <giacomin@libero.it>
To: <psic-ita@psichiatria.unige.it>
Sent: Tuesday, August 29, 2000 5:12 PM
Subject: DISTIMIA, DSM E DINTORNI (IV) Risposta
> In data 18 agosto 2000 Gaetano Rossi ha scritto:
>
> >al di là dell'accademia il dott. Giacomini può indicare una griglia di
> >sintomi per cui si potrebbe fare diagnosi di distimia?
>
> Risposta:
>
DISTIMIA, DSM E DINTORNI (VI)
>
> Il discorso epistemologico in psicopatologia non è astratta "accademia" ma
> ha la funzione di chiarire i concetti e i termini che si usano anche nella
> pratica clinica, quali "sintomo", sindrome", "malattia",
"diagnosi", ecc.
> Concetti e termini clinici mutano il loro significato in ragione dei
> presupposti epistemologici che (consapevolmente o inconsapevolmente)
abbiano
> deciso di adottare per il discorso psicopatologico e psichiatrico.
> Nel caso, per esempio, della psicopatologia classica nella sua accezione
> strutturalistica, il termine "sintomo" riveste il significato di fenomeno
> che "segnala" la presenza di una malattia dell'organismo biologico.
> Un "disturbo" come tale, cioè come un semplice disagio soggettivo (ad es.
un
> senso di tristezza o di pessimismo) o un disordine funzionale (una dispnea
o
> una tachicardia) non è, di per sè, un "sintomo": lo diviene solo quando,
sul
> piano clinico, riteniamo possa essere la conseguenza e la "spia" di una
> patologia somatica (considerata come la "vera malattia").
> Pertanto, in questa impostazione epistemologica (psicopatologia della
> spiegazione), pertanto, il "sintomo" presenta una rilevanza clinica tanto
> maggiore, non in quanto comporti, per il paziente, una grave sofferenza
> psicofisica o una appariscente limitazione funzionale, ma in quanto si
> dimostri "patognomonico", cioè rivelatore specifico di una ben precisa
> malattia (somatica): il sintomo di Argyll Robertson, ad esempio, non
> comporta nè gravi sofferenze nè rilevanti limitazioni funzionali per il
> paziente, ma ha un importante valore clinico per la sua specificità
> diagnostica.
> Seguendo questo orientamento, pertanto, si può parlare di "Sintomi"
> psicopatologici (con la speranza di reperirne qualcuno "patognomonico")
> soltanto in rapporto alle DISTIMIE PSICOTICHE (malattia maniaco-depressiva
> secondo Kraepelin, psicosi ciclotimica secondo K.Schneider, ecc.) che si
> caratterizzano, sul piano formale, per la loro "INCOMPRENSIBILITÀ" e per
le
> quali è lecito parlare di "DIAGNOSI" clinica. K.Schneider, ad esempio,
> indica come "sintomo" tipico della psicosi ciclotimica (in quanto malattia
> neurobiologica) la tristezza che colpirebbe lo strato timico "vitale"
> (secondo N.Hartmann e M.Scheler) e che pertanto denomina "tristezza
vitale".
> Egli però non considera questo sintomo come specificamente "patognomico".
> Per quanto concerne, invece, le DISTIMIE PSICOPATICHE non avrebbe senso,
in
> questa prospettiva epistemologica (psicopatologia della comprensione),
> parlare di "SINTOMI" e neppure di "DIAGNOSI" clinica. In questi
casi,
> infatti, la distimia (cioè il disturbo dell'umore) si presenta
COMPRENSIBILE
> in rapporto alle vicende ambientali e/o alle caratteristiche della
> personalità (con le loro diverse modalità di elaborazione dell'esperienza
> interiore), senza che ciò comporti la necessità di un rinvio
"esplicativo"
> ad una malattia cerebrale.
> Nello stato distimico "psicopatico" i fenomeni del quadro clinico (quali
la
> perdita dell'autostima, l'autocritica esasperata, il senso di inutilità
per
> ogni cosa e per se stessi, i sentimenti di colpa, gli stati d'animo di
> estraneità, di alienazione e perfino di annichilimento, ecc.) non dovranno
> essere "spiegati" come conseguenze ("sintomi") di una malattia
> neurobiologica (vista come "causa" del quadro clinico) ma dovranno essere
> "compresi" in funzione della possibilità dell'osservatore di
identificarsi,
> empaticamente e riflessivamente, con la soggettività dell'interlocutore e
> con le sue problematiche interiori. In una PSICOPATOLOGIA DELLA
> COMPRENSIONE, qual è quella delle DISTIMIE PSICOPATICHE, i fenomeni dell'
> osservazione clinica sono concepiti non come effetti naturali di un
processo
> somatico, ma come espressione di un'interiorità soggettiva, manifestazione
> della sua personalità e dei sentimenti dell'Io ad essa correlati.
> Se non si accentua eccessivamente la tesi della cosiddetta "costituzione
> biologica" e se, al contrario, si sviluppa la tematica dialettica dell'
> interiorità soggettiva, la teoria delle psicopatie e il metodo della
> comprensione, che le è pertinente, possono costituire il fondamento
> teoretico per una psicoterapia sistematica.
> Rimanendo nel campo della psicopatologia classica, il termine di sintomo
> (così come quello di sindrome) assume un significato differente nella
> psicopatologia funzionalistica (secondo K.Bonhöffer, A,Hoche, O.Bumke,
> E.Bleuler, ecc.) dove, in un contesto epistemologico meno rigoroso, viene
> inquadrato nella teoria della malattia intesa come "sindrome funzionale di
> adattamento" e "tipo di reazione" (secondo A.Mayer).
> E' ovvio che, in un contesto epistemologico funzionalistico, il
significato
> clinico dei "disturbi distimici" assume differenti connotazioni rispetto
> alla psicopatologia strutturalistica.
> In particolare, i fenomeni distimici vengono inquadrati conformemente alla
> teoria della "sindrome funzionale" e dei corrispondenti modelli di
> adattamento predisposti nell'organismo secondo diversi livelli di
> integrazione.
> Ciò comporta, tra l'altro, una distinzione tra sintomi distimici primari
> (negativi) e sintomi distimici secondari (positivi e compensatori).
> Nella versione funzionalistica adottata dal A.Meyer (e molto diffusa nella
> psichiatria anglosassone) viene abbandonata del tutto la rigorosa
> impostazione diagnostica della psicopatologia strutturalistica: non vi è
più
> una netta distinzione nosografica tra il tipo neurotico e quello psicotico
> di "reazione depressiva", ma solo una differenza di grado, in rapporto
alle
> più o meno limitate possibilità di "adattamento" all'ambiente sociale.
> Com'è noto, nella sua prima edizione il DSM si è conformato
all'impostazione
> psicopatologica funzionalistica dei "tipi di reazione" (secondo A.Meyer)
e,
> conseguentemente, si è attenuto alla dizione della cosiddetta "depressione
> nevrotica".
> Tuttavia questa pur labile impostazione epistemologica è stata
> progressivamente abbandonata con le successive edizioni del DSM, così che,
> dopo il 1980, anche la categoria della "depressione nevrotica" è stata
> abolita per dar luogo ad una presunta "diagnosi" di "distimia",
priva di
> qualsiasi fondamento teoretico.
> E' necessario sottolineare che, in assenza di un ben definito orientamento
> epistemologico (sia esso di ordine strutturalistico o funzionalistico,
> riduzionistico o integrazionistico, naturalistico o dialettico) la
> terminologia clinica (sintomo, sindrome, diagnosi, malattia, nosografia,
> ecc.) resta priva di un preciso significato e, pertanto, viene meno
> qualsiasi termine di riferimento per un coerente discorso psicopatologico,
> non solo nella teoria, ma anche nella pratica clinica e nella ricerca.
>
> N.B.: In questa sede posso solo accennare a questi temi fondamentali che
ho
> trattato in lavori specifici. A chi fosse interessato e ne facesse
> richiesta, saranno inviati, via e-mail:
> - - "Per un glossario critico: sintomo, sintomatologia, sindrome, sindrome
> psicorganica".
> - - "La psichiatria funzionalistica e il problema del metodo in
> psicopatologia".
> - - "Il problema delle psicopatie nella psicopatologia strutturalistica.".
>
> G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
> Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
> Sistematica - CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
> Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
> 16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
> Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
> Internet: http://members.xoom.it/istpsico
>
>
Non sono tra coloro che usano abitualmente il DSM, anzi le
etichette non mi
appassionano anche se riconosco la utilità del manuale soprattutto nella
ricerca e quindi nell'orientamento diagnostico insieme all'ICD 10, ma al di
là dell'accademia il dott.Giacomini può indicare una griglia di sintomi per
cui si potrebbe fare diagnosi di distimia?E' o sarebbe possibile con i
colleghi via e-mail stabilire una batteria di sintomi,secondo la loro
osservazione, che può consentire delle differenze psicopatologiche tra ciò
che noi osserviamo e ciò che è descritto sui manuali? Invidio Messina sullo
Ionio.
Gaetano Rossi
In data 05/08/2000 A.A.Rizzoli ha scritto:
>Invito il dott. GIACOMINI, dopo aver letto le Sue affermazioni:
>DISTIMIA, DSM E DINTORNI
>La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è
profonda e sostanziale.
>Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto
teorico, definendosi >programmaticamente "ateoretico".
>a leggere i seguenti articoli: (segue un elenco di dieci pubblicazioni in
lingua inglese)
Risposta:
DISTIMIA, DSM E DINTORNI (IV)
Il messaggio di A.A.Rizzoli non è chiaro.
Se, col suo elenco di ricerche e di ricercatori seguaci del DSM intende
comunicarci che molti psichiatri sono oggi concordi con l'impostazione
metodologica del DSM, il suo elenco è incompleto. E' generalmente noto,
infatti, come non "molti", ma "moltissimi" anzi, la maggioranza degli
psichiatri, a livello nazionale e internazionale, si è convertita al DSM e
lo adotta come supremo modello per la clinica e per la ricerca. In Italia,
in particolare, la ricerca non conforme ai canoni DSM non viene neppure
considerata valida per le prove concorsuali, per cui chi non è "allineato"
non ha speranza di accedere alle docenze universitarie o ai posti apicali
nei servizi pubblici, oltre che, s'intende, alle grazie delle Ditte
farmaceutiche che forniscono i protocolli (e non solo i protocolli) per le
"ricerche".
Se, invece, col suo messaggio, A.A.Rizzoli intendeva informarci che taluni
dei ricercatori del suo elenco (o anche fuori elenco) hanno dimostrato che
il DSM non è "ateoretico" e che, al contrario, segue un orientamento
epistemologico concorde con la psicopatologia classica, gradiremmo che ce li
indicasse e che ci riferisse con quali argomenti essi hanno sostenuto una
tale tesi.
Occorre tenere presente, in proposito, che il discorso teoretico (o
epistemologico) riguarda la verifica preliminare dei concetti e dei metodi
impiegati per la ricerca empirica, per cui, qualora concetti e metodi
dovessero risultare inadeguati, qualsiasi risultato della ricerca, per
quanto "corposo" e corpulento possa essere, non potrebbe, a sua volta,
essere considerato appropriato.
Ciò premesso, non credo di aver asserito nulla di nuovo definendo come
"ateoretica" l'impostazione "epistemologica" del DSM. Per rendersi
conto di
ciò, è sufficiente leggere l'introduzione dello stesso Manuale DSM - III R
compilata da R.L.Spitzen, M.D., Chair, Work Group to Revise DSM III e da
J.B.Williams DSW Text Editor.
Mi limito a citare alcuni passi tratti dall'edizione italiana del DSM III R
(Masson, Milano, 1988):
Pagina 4:
<<DSM-I . La prima edizione del "Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali dell'Associazione Psichiatrica <Americana è apparsa nel
1952. L'uso del termine "reazione" in questa classificazione rifletteva
l'influenza della concezione <psicobiologica di Adolf Meyer, secondo la
quale i disturbi mentali rappresentano reazioni della personalità a fattori
<psicologici, sociali e biologici.>>
<<DSM-II: Sia il DSM II che l'ICD8 sono entrati in vigore nel 1968.
<La classificazione del DSM II non usava il termine di "REAZIONE" e, ad
eccezione del termine di NEVROSI usava <TERMINI DIAGNOSTICI CHE NELL'INSIEME
NON IMPLICAVANO SCHEMI DI RIFERIMENTO TEORICO <PARTICOLARI PER I DISTURBI
MENTALI "NON <ORGANICI">>
Pagina 9:
<<Nel DSM-III-R ciascuno dei disturbi mentali è concepito come una SINDROME
O <MODALITA' COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA clinicamente significativa che si
<manifesti in un individuo, o che sia tipicamente associata o con malessere
attuale (sintomi dolorosi), o con menomazione <(alterazione in una o più
importanti aree del funzionamento), o con rischio significativamente
aumentato di andare incontro a <morte, a dolore, a invalidità o a
un'importante "perdita di libertà".>>
Pagina 11:
<<Il DSM III-R PUO' DEFINIRSI "DESCRITTIVO" nel senso che le definizioni
dei
disturbi generalmente si limitano alla <descrizione delle caratteristiche
cliniche dei disturbi.
<L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R alla classificazione e
<definizione dei disturbi mentali non implica che le teorie sull'eziologia
dei vari disturbi mentali non siano importanti in altri <contesti.>>
In margine a tali citazioni si possono fare alcune osservazioni a conferma
di quanto già rilevato nei precedenti messaggi e-mail sullo stesso tema:
1) Non solo il DSM è nato con una impostazione "ateoretica", ma ha
accentuato tale sua impostazione con le successive edizioni.
Già nella seconda edizione viene abolito il pur labile inquadramento
epistemologico basato sui "tipi di reazione" secondo l'impostazione
funzionalistica di A.Meyer.
2) E' evidente, dalla definizione che il DSM conferisce al cosiddetto
"disturbo mentale", che il Manuale non è interessato al punto di vista
patogenetico ma a fornire una descrizione puramente empirica dei quadri
clinici.
La stessa descrizione della SINDROME PSICOPATOLOGICA COME UNA "MODALITA
COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA" esclude la possibilità di inquadrarla anche
solo secondo il modello funzionalistico dei "tipi di reazione" secondo
A.Meyer.
Il DSM non nega la possibilità che il problema delle psicogenesi possa
essere importante per "altri contesti", ma esclude che un simile interesse
possa riguardare L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R.
3) Si deve sottolineare, inoltre, che con l'abolizione, da parte del DSM IV,
perfino della categoria del "disturbi mentali organici" (cui si preferisce,
ora, la qualifica più "neutra", dal punto di vista patogenetico, di
"Delirium, demenza e altri disturbi cognitivi) VIENE ANCHE SOPPRESSA OGNI
POSSIBILITA' DI DISTINZIONE TEORETICA TRA PSICOSI "ORGANICHE" (QUALIFICATE,
SOTTO IL PROFILO EPISTEMOLOGICO, DAL METODO DELLA SPIEGAZIONE) E PSICOPATIE
(METODO DELLA COMPRENSIONE).
Pertanto, dal punto di vista epistemologico, viene meno ogni possibilità di
stabilire qualsiasi correlazione tra il DSM IV e la psicopatologia classica.
4) In linea con la sua impostazione "ateoretica" IL DSM, NEL1980, ABOLISCE
LA CATEGORIA TRADIZIONALE DELLA "DEPRESSIONE NEVROTICA" (alla quale, nella
psicopatologia funzionalistica classica, viene attribuita una prevalente
origine "psicogena" in contrapposizione con le depressioni
"psicotiche",
fondabili su basi somatiche, conosciute o sconosciute).
A partire da tale data, le depressioni "nevrotiche" (o "psicopatiche")
vengono omologate sotto l'unica denominazione di "distimia" e "disturbo
distimico" (DSM III-R e DSM IV) adducendo una presunta utilità clinica, che
però non viene dimostrata.
In realtà, in conformità all'etimologia della parola, il termine di
distimia, nella psicopatologia classica, viene usato per indicare TUTTI i
disturbi dell'umore, della più diversa tipologia. L'"innovazione" arbitraria
(e puramente lessicale) di impiegare il termine di "distimia" limitatamente
alle "depressioni nevrotiche" (terminologia usata dallo stesso DSM sino al
1980)
non trova alcuna giustificazione nè teoretica, nè clinica. Potrebbe però
avere altre giustificazioni, come quella di omologare, in un'unica
indifferenziata categoria pseudonosografica, il vastissimo campo delle
depressioni psicopatiche (che, in realtà, sono molto differenziate dal punto
di vista della psicopatologia comprensiva e della psicoterapia),al fine di
sottoporle a programmi psicofarmacologici standardizzati secondo gli auspici
delle Aziende farmaceutiche. Perfino taluni congressi della Società Italiana
di Psichiatria (come il XXXIX Congresso Nazionale dell'ottobre 1994) si sono
prestati a questi fini di promozione aziendale (v. JAMA, ed. italiana,
dicembre 1994, vol.6, n.9).
Ritengo però che qualche dubbio debba aver sfiorato anche A.A.Rizzoli, dal
momento che, in altri messaggi e-mail, egli si chiede come mai il DSM
rinnovi così frequentemente le sue edizioni e classificazioni.
N.B.: A tutti coloro che fossero veramente interessati al problema del
rapporto tra l'epistemologia della psicopatologia classica e quella del DSM,
verrà inviato a richiesta, via E-mail, il file dell'articolo (già pubblicato
su "Psicoterapia Professionale" del 1994, A. XI) dal titolo " Il manuale
"diagnostico" e "statistico" DSM III-IV: analfabetismo epistemologico,
nichilismo metodologico e insipienza clinico-diagnostica in psicopatologia."
P.S.: A.A.Rizzoli ha citato solo le prime quattro righe del III messaggio
sul tema : DISTIMIA, DSM E DINTORNI. Il testo completo del III messaggio è
il seguente:
DISTIMIA, DSM E DINTORNI (04/08/2000)
La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia classica è
profonda e sostanziale.
Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto
teorico, definendosi programmaticamente "ateoretico".
Tutta la psicopatologia classica, nelle sue diverse formulazioni, è invece
costituita su ben precisi fondamenti teoretici. Nel caso di Kraepelin (e dei
suoi maestri e seguaci), ad esempio, la
psicopatologia in generale (e quella delle distimie in particolare) è
fondata sui principi epistemologici del riduzionismo strutturalistico e sul
concetto di entità nosografica.
Perciò, per Kraepelin, tutte le forme di distimia, dalle più gravi alle più
leggere, da quelle manifestamente circolari a quelle croniche, sono incluse
nella psicosi maniaco-depressiva, cui viene attribuito un fondamento
patologico somatico specifico (anche se al momento non è conosciuto).
Nella concezione di C.Wernicke e della sua scuola (K.Kleist, K.Leonard,
ecc.) che pure appartengono allo stesso orientamento epistemologico
(riduzionismo strutturalistico) si dovrebbero invece cercare differenti
fondamenti neurobiologici (come patologia neurobiologica e, soprattutto,
come localizzazione cerebrale) in funzione delle differenti caratteristiche
dei quadri clinici.
In questo contesto epistemologico (riduzionismo strutturalistico) è ovvio
che la soluzione del problema clinico delle distimie venga ricercata, in
ogni caso, sul terreno neuropatologico e che, pertanto, il metodo della
spiegazione sia considerato come l'unico legittimo per la ricerca in questo
campo.
La versione integrazionistica della psicopatologia classica .(strutturalismo
fenomenologico secondo K.Jaspers e K.Schneider) condivide la concezione
Kraepeliniana della "malattia" (neurobiologica) maniaco-depressiva solo in
relazione a quelle distimie che si presentano formalmente incomprensibili (e
che K.Schneider definisce, in genere, "psicosi ciclotimiche").
Per quanto riguarda, invece, quelle distimie che risultino formalmente
comprensibili (reazioni depressive o euforiche agli avvenimenti,
personalitàpsicopatiche, ipertimiche o depressive, depressioni o ipertimie
endoreattive, ecc.) la psicopatologia integrazionistica ritiene che si possa
soltanto parlare di tipologie "psicopatiche" (varianti comprensibili
rispetto alla norma) che non comportano valutazioni di ordine "patologico"né
"diagnostico".
Sotto questo profilo epistemologico K.Schneider si esprime in modo molto
esplicito e perentorio:
"LA MALATTIA, IN QUANTO TALE, ESISTE SOLO NELLA SFERA SOMATICA E CHIAMIAMO
"PATOLOGICO" L'ABNORME PSICHICO ALLORQUANDO ESSO E' RICONDUCIBILE A PROCESSI
MORBOSI ORGANICI. DESIGNARE COME PATOLOGICHE, SENZA UN SIMILE FONDAMENTO,
TUTTE LE STRANEZZE PSICHICHE O SOCIALI, HA SOLO IL SIGNIFICATO DI UN QUADRO,
NON HA ALCUN VALORE METODOLOGICO". (Psicopatologia clinica, trad.it., 1954,
pag. 7).
In questo senso, la psicopatologia strutturalistica integrazionistica
(fenomenologica) da un lato, considera sempre valido il concetto di entità
nosografia come categoria autenticamente diagnostica anche se non gli
attribuisce un significato ontologico-naturalistico (come accade in
Kraepelin e in Wernicke) ma soltanto quello di un'idea normativa di tipo
Kantiano (vedi K,Jaspers, "Psicopatologia generale", trad. it., 1959, pag.
612).
Perciò, in questa prospettiva, la depressione "ciclotimica" (secondo
ladefinizione di K.Schneider) è una "vera" malattia (equivalente alla
malattia maniaco-depressiva di Kraepelin).
Dall'altro lato, invece, la psicopatologia strutturalistica
integrazionistica, applicando il metodo della comprensione, inquadra gli
stati psichici "psicopatici" (e, perciò, anche le distimie
"psicopatiche")
in funzione dei sentimenti comprensibili della personalità, definiti come
STATI DELL'IO. Per questa via, K.Schneider perviene ad una "patopsicologia"
che trova il suo punto di riferimento nelle teorie del strati timici di
N.Hartmann e di M.Scheler. Secondo lo Schneider, (Psicopatologia
clinica,trad. it., 1954, pag. 154 e 162) "le personalità abnormi sono
caratterizzate dal predominio di alcuni sentimenti psichici: l'ipertimico è
dominato dalla contentezza, il depresso dalla tristezza. Numerosi sentimenti
psichici sono inclinazioni abituali e comportamenti durevoli della
personalità. GLI PSICOPATICI SONO ANZITUTTO DEGLI ABNORMI DEL SENTIMENTO,
SONO DEI "TIMOPATICI".
E' a tutti evidente come questa distinzione epistemologica tra la "psicosi"
(cui di applica il metodo naturalistico della spiegazione) e le "psicopatie"
(cui è specificamente pertinente il metodo della comprensione) è
diimportanza decisiva non solo agli effetti della diagnostica differenziale
ma anche per una giustificazione della psicoterapia sistematica, come teoria
e come prassi.
Anche nella sua versione funzionalistica (K.Bonhöffer, A.Hoche. O.Bumke.,
E.Bleuler, A.Meyer, H.Ey, ecc.) la psicopatologia classica non intende
rinunciare del tutto all'ideale dell'entità nosografica, anche se, per
motivi di ordine pratico, preferisce inquadrare il discorso clinico secondo
i modelli della "sindrome funzionale" e dei "tipi di reazione".
Occorre però sottolineare che neanche nella psicopatologia funzionalistica
classica tali modelli sono considerati come equivalenti ad autentiche
"diagnosi cliniche" ma soltanto come inquadramenti clinici che, per quanto
meno rigorosi sotto il profilo epistemologico, possono tuttavia presentare
un'utilità pratica ai fini di un ordinamento nosografico basato sui criteri
dell'"adattamento funzionale" all'ambiente naturale e sociale. (Ma anche la
psicopatologia funzionalistica ha i suoi presupposti teoretici nel
neojacksonismo).
Il manuale DSM, viceversa, non solo rifiuta ogni impostazione teoretica
rigorosa, ma nelle sue ultime edizioni, rifiuta perfino il modello
pragmatistico dei "tipi di reazione" (che aveva adottato nelle prime
edizioni) evidentemente giudicandolo troppo "teoretico".
Tuttavia, presumere di risolvere i problemi teoretici della psicopatologia
semplicemente ignorandoli o aggirandoli con espedienti fittizi equivale a
cavarsi gli occhi per vederci meglio.
Sostenere che in psicopatologia clinica il problema della diagnosi possa
risolversi con l'espediente della "diagnosi sindromica" e che di tale
espediente bisogna "accontentarsi" non è molto convincente.
In un caso clinico di paraplegia vogliamo "accontentarci" di una diagnosi
come "disturbo paraplegico" o dobbiamo indagare per verificare se il
disturbo abbia una patogenesi neurologica oppure psicogena?.
Valutazioni cliniche come "paraplegia da sclerosi multipla", "sindrome
paraplegica funzionale in personalità psicopatica", "disturbo paraplegico"
dovrebbero collocarsi su uno stesso piano di rigore diagnostico?
Se la medicina occidentale avesse dovuto "accontentarsi" di "diagnosi"
come
"disturbo febbrile" e simili, anche le terapie non sarebbero andate molto
più in là dei clisteri e dei salassi.
Certo, non disponendo di monete d'oro, talvolta ci si deve "accontentare" di
monete di bronzo, ma sostenere che, in assenza di monete d'oro, si debbano
denominare così quelle di bronzo, non equivale ad "accontentarsi", bensì a
qualcosa di peggio, ad una vera e propria mistificazione.
Purtroppo, non posso fare a meno di consigliare nuovamente, per coloro che
siano realmente interessati a questi temi, la consultazione del mio scritto
"Psicopatologia clinica, diagnosi psichiatrica, tipologia delle psicopatie,
teoria della personalità e giustificazione teoretica della psicoterapia, in
un inquadramento dialettico", presente on-line nel sito Internet
http://members.xoom.it/istpsico
dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e
la Psicoterapia Sistematica e della Rassegna "Psicoterapia Professionale".
P.S.: Qualora si verificassero disfunzioni nelle pagine web, l'articolo
sarà inviato via e-mail ai Colleghi che ne faranno richiesta.
G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
Sistematica - CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
Internet: http://members.xoom.it/istpsico
In data 05/08/2000 A.A.Rizzoli ha scritto:
>Invito il dott. GIACOMINI, dopo aver letto le Sue
affermazioni:
>DISTIMIA, DSM E DINTORNI
>La differenza epistemologica tra il DSM e la psicopatologia
classica è profonda e sostanziale.
.......
Il messaggio di A.A.Rizzoli non è chiaro.
At 7:04 +0100 18-08-2000, Anna Abbiate Fubini wrote:
Se, col suo elenco di ricerche e di ricercatori seguaci del DSM
intende comunicarci che molti psichiatri sono oggi concordi con l'impostazione
metodologica del DSM, il suo elenco è incompleto. E' generalmente noto, infatti, come non
"molti", ma "moltissimi" anzi, la maggioranza degli psichiatri, a
livello nazionale e internazionale, si è convertita al DSM e lo adotta come supremo
modello per la clinica e per la ricerca
.......
Ciò premesso, non credo di aver asserito nulla di nuovo
definendo come "ateoretica" l'impostazione "epistemologica" del DSM.
Per rendersi conto di ciò, è sufficiente leggere l'introduzione dello stesso Manuale DSM
- III R compilata da R.L.Spitzen, M.D., Chair, Work Group to Revise DSM III e da
J.B.Williams DSW Text Editor.
<<Il DSM III-R PUO' DEFINIRSI "DESCRITTIVO"
nel senso che le definizioni dei disturbi <generalmente si limitano alla descrizione
delle <caratteristiche cliniche dei disturbi.
Anch'io sono fra gli utilizzatori - tutto sommato: entusiasti -
dei DSM dei quali conto sul prossimo - V° - per veder impostato meglio quello che
mi sembra l'unico capitolo difettoso cioé proprio quello sui "DISTURRBI
DELL'UMORE" : si tratta di ben ottanta pagine in cui si si rincorrono tautologie su
tautologie solo lasciando intuire senza menzionare minimamente il "disturbo"
principale e fondante che è la perdita del senso del tempo e l'incapacità a
vivere VERI rapporti, scambiando invece per rapporto quello che è la propria
sensazione interna.
Ma scusate colleghi: vi par poco questo?????
COSA SONO SE NON "SENTIMENTI" immaturi SCAMBIATI PER
"RAPPORTI" I SUICIDI ALLARGATI????? o almeno gli affetti
"esclusivi", le possessività escludenti così comunque distruttivi - come
se fossero contagiosi - su tutti i circostanti, colleghi, familiari, partners, figli?
Trovo assolutamente corretto e in linea con un approccio - ben
teoretico questo! - di RISPETTO per i pazienti quello di cancellare i termini che
definiscono i "pazzi" o i "nevrotici" con delle qualifiche personali -
come "schizofrenia", "depressione", "isteria" ecc. -
puntando invece sul concetto basilare di DISTURBI, il che permette così alla psichiatria
di rientrare nel campo delle "normali" discipline della medicina
"normale".
Sarà o meno "ateoretica" un'impostazione esplicita che
- come mi sembra assolutamente logico - non può implicare né eziologie, né tanto meno
terapie; ma, come vi si legge bene tra le righe, quanto vi è puntualizzabile il concetto
teoretico - non "depressivo"! questo - di possibile TRANSITORIETA' di
quasi ciascuno dei "disturbi" elencati e di Valutazione Globale del
Funzionamento temporanea!
Quanto quindi vi si implica un concetto di
"curabilità"!
<L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R alla
classificazione e
<definizione dei disturbi mentali non implica che le teorie
sull'eziologia dei vari disturbi mentali <non siano importanti in altri
contesti.>>
......
2) E' evidente, dalla definizione che il DSM conferisce al
cosiddetto "disturbo mentale", che il Manuale non è interessato al punto di
vista patogenetico ma a fornire una descrizione puramente empirica dei quadri clinici.
Personalmente apprezzo il sostegno professionale che mi offre la
consultazione del DSM, ma ne ho pure una convalida inaspettata dall'apprezzamento
ENTUSIASTICO dei pazienti stessi. In molti casi la lettura descrittiva dei "propri
disturbi" - classificati pertanto soltanto come "disturbi" e come tali
segnalati di larga diffusione - dà loro un ENORME sollievo: il fatto stesso che
siano così in fondo ovvii, il fatto che siano "disturbi" e non qualifiche -
squalificanti di "personalità abnormi" - personali, il fatto stesso che siano
ampiamente condivisi dà loro una sensazione di conforto, e perfino in alcuni casi
(soprattutto nei gravi "disturbi post-traumatici" e talvolta "crisi di
panico") risveglia ricordi, o almeno offre nuovi spunti - terapeutici! - di
chiarificazione delle idee.
Il DSM non nega la possibilità che il problema delle psicogenesi
possa essere importante per "altri contesti", ma esclude che un simile interesse
possa riguardare L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM III-R.
.......
Pertanto, dal punto di vista epistemologico, viene meno ogni
possibilità di stabilire qualsiasi correlazione tra il DSM IV e la psicopatologia
classica.
N.B.: A tutti coloro che fossero veramente interessati al
problema del rapporto tra l'epistemologia della psicopatologia classica e quella del DSM,
verrà inviato a richiesta, via E-mail, il file dell'articolo (già pubblicato su
"Psicoterapia Professionale" del 1994, A. XI) dal titolo " Il manuale
"diagnostico" e "statistico" DSM III-IV: analfabetismo epistemologico,
nichilismo metodologico e insipienza clinico-diagnostica in psicopatologia."
SONO MOLTO INTERESSATA, guarderò il sito Web, ma non ìpotrei
avere anche una copia cartacea?
===================
"le personalità abnormi sono caratterizzate dal
predominio di alcuni sentimenti psichici: l'ipertimico è dominato dalla contentezza, il
depresso dalla tristezza. Numerosi sentimenti psichici sono inclinazioni abituali e
comportamenti durevoli della personalità. GLI PSICOPATICI SONO ANZITUTTO DEGLI ABNORMI
DEL SENTIMENTO, SONO DEI "TIMOPATICI".
In data 05/08/2000 A.A.Rizzoli ha scritto:
>Invito il dott. GIACOMINI, dopo aver letto le Sue affermazioni:
>DISTIMIA, DSM E DINTORNI
>La differenza epistemologica tra il DSM
e la psicopatologia classica è profonda e sostanziale.
>Basterà pensare che il
DSM pretenderebbe di astrarsi da ogni presupposto teorico, definendosi >programmaticamente
"ateoretico".
>a leggere i seguenti articoli: (segue un
elenco di dieci pubblicazioni in lingua inglese)
Risposta: DISTIMIA, DSM E DINTORNI (IV)
Il messaggio
di A.A.Rizzoli non è chiaro.
Se, col suo elenco di ricerche e di
ricercatori seguaci del DSM intende comunicarci che molti psichiatri sono oggi concordi
con l'impostazione metodologica del DSM, il suo elenco è incompleto. E' generalmente
noto, infatti, come non "molti", ma "moltissimi" anzi, la maggioranza
degli psichiatri, a livello nazionale e internazionale, si è convertita al DSM e lo
adotta come supremo modello per la clinica e per la ricerca. In Italia, in particolare, la
ricerca non conforme ai canoni DSM non viene neppure considerata valida per le prove
concorsuali, per cui chi non è "allineato" non ha speranza di accedere alle
docenze universitarie o ai posti apicali nei servizi pubblici, oltre che, s'intende, alle
grazie delle Ditte farmaceutiche che forniscono i protocolli (e non solo i protocolli) per
le "ricerche".
Se, invece, col suo messaggio, A.A.Rizzoli
intendeva informarci che taluni dei ricercatori del suo elenco (o anche fuori elenco)
hanno dimostrato che il DSM non è "ateoretico" e che, al contrario, segue un
orientamento epistemologico concorde con la psicopatologia classica, gradiremmo che ce li
indicasse e che ci riferisse con quali argomenti essi hanno sostenuto una tale tesi.
Occorre tenere presente, in proposito, che
il discorso teoretico (o epistemologico) riguarda la verifica preliminare dei concetti e
dei metodi impiegati per la ricerca empirica, per cui, qualora concetti e metodi dovessero
risultare inadeguati, qualsiasi risultato della ricerca, per quanto "corposo" e
corpulento possa essere, non potrebbe, a sua volta, essere considerato appropriato.
Ciò premesso, non credo di aver asserito
nulla di nuovo definendo come "ateoretica" l'impostazione
"epistemologica" del DSM. Per rendersi conto di ciò, è sufficiente leggere
l'introduzione dello stesso Manuale DSM - III R compilata da R.L.Spitzen, M.D., Chair,
Work Group to Revise DSM III e da J.B.Williams DSW Text Editor.
Mi limito a citare alcuni passi tratti
dall'edizione italiana del DSM III R (Masson, Milano, 1988):
Pagina 4:
<<DSM-I
. La prima edizione del "Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali
<dell'Associazione Psichiatrica Americana è apparsa nel 1952. L'uso del termine
"reazione" in questa classificazione <rifletteva l'influenza della concezione
psicobiologica di Adolf Meyer,
<secondo la quale i disturbi mentali rappresentano reazioni
della personalità a fattori psicologici, sociali e biologici.>>
<<DSM-II: Sia il DSM II che l'ICD8
sono entrati in vigore nel 1968.
<La classificazione del DSM II non usava il termine di "REAZIONE" e,
ad eccezione del termine <di NEVROSI usava TERMINI DIAGNOSTICI CHE NELL'INSIEME NON
IMPLICAVANO <SCHEMI DI RIFERIMENTO TEORICO PARTICOLARI PER I DISTURBI MENTALI "NON
<ORGANICI">>
Pagina 9:
<<Nel DSM-III-R ciascuno dei disturbi
mentali è concepito come una SINDROME O <MODALITA' COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA
clinicamente significativa che si
<manifesti in un individuo, o che sia
tipicamente associata o con malessere attuale (sintomi <dolorosi), o con menomazione
(alterazione in una o più importanti aree del funzionamento), o con <rischio
significativamente aumentato di andare incontro a morte, a dolore, a invalidità o a
<un'importante "perdita di
libertà".>>
Pagina 11:
<<Il DSM III-R PUO' DEFINIRSI
"DESCRITTIVO" nel senso che le definizioni dei disturbi <generalmente si
limitano alla descrizione delle <caratteristiche cliniche dei disturbi.
<L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM
III-R alla classificazione e
<definizione dei disturbi mentali non
implica che le teorie sull'eziologia dei vari disturbi mentali <non siano importanti in
altri contesti.>>
In margine a tali citazioni si possono fare
alcune osservazioni a conferma di quanto già rilevato nei precedenti messaggi e-mail
sullo stesso tema:
1) Non solo il DSM è nato con una
impostazione "ateoretica", ma ha accentuato tale sua impostazione con le
successive edizioni.
Già nella seconda edizione viene abolito il
pur labile inquadramento epistemologico basato sui "tipi di reazione" secondo
l'impostazione funzionalistica di A.Meyer.
2) E' evidente, dalla definizione che il DSM
conferisce al cosiddetto "disturbo mentale", che il Manuale non è interessato
al punto di vista patogenetico ma a fornire una descrizione puramente empirica dei quadri
clinici.
La stessa descrizione della SINDROME
PSICOPATOLOGICA COME UNA "MODALITA
COMPORTAMENTALE O PSICOLOGICA" esclude
la possibilità di inquadrarla anche solo secondo il modello funzionalistico dei
"tipi di reazione" secondo A.Meyer.
Il DSM non nega la possibilità che il
problema delle psicogenesi possa essere importante per "altri contesti", ma
esclude che un simile interesse possa riguardare L'APPROCCIO GENERALE ATEORETICO DEL DSM
III-R.
3) Si deve sottolineare, inoltre, che con
l'abolizione, da parte del DSM IV, perfino della categoria del "disturbi mentali
organici" (cui si preferisce, ora, la qualifica più "neutra", dal punto di
vista patogenetico, di "Delirium, demenza e altri disturbi cognitivi) VIENE ANCHE
SOPPRESSA OGNI POSSIBILITA' DI DISTINZIONE TEORETICA TRA PSICOSI "ORGANICHE"
(QUALIFICATE, SOTTO IL PROFILO EPISTEMOLOGICO, DAL METODO DELLA SPIEGAZIONE) E PSICOPATIE
(METODO DELLA COMPRENSIONE).
Pertanto, dal punto di vista epistemologico,
viene meno ogni possibilità di stabilire qualsiasi correlazione tra il DSM IV e la
psicopatologia classica.
4) In linea con la sua impostazione
"ateoretica" IL DSM, NEL1980,
ABOLISCE LA CATEGORIA TRADIZIONALE DELLA "DEPRESSIONE NEVROTICA" (alla quale,
nella
psicopatologia funzionalistica classica,
viene attribuita una prevalente origine "psicogena" in contrapposizione con le
depressioni "psicotiche", fondabili su basi somatiche, conosciute o
sconosciute).
A partire da tale data, le depressioni
"nevrotiche" (o "psicopatiche") vengono omologate sotto l'unica
denominazione di "distimia" e "disturbo distimico" (DSM III-R e DSM IV) adducendo una presunta
utilità clinica, che però non viene dimostrata.
In realtà, in conformità all'etimologia
della parola, il termine di distimia, nella psicopatologia classica, viene usato per
indicare TUTTI i disturbi dell'umore, della più diversa tipologia.
L'"innovazione" arbitraria (e puramente lessicale) di impiegare il termine di
"distimia" limitatamente alle "depressioni nevrotiche" (terminologia
usata dallo stesso DSM sino al 1980)
non trova alcuna giustificazione nè
teoretica, nè clinica. Potrebbe però avere altre giustificazioni, come quella di
omologare, in un'unica indifferenziata categoria pseudonosografica, il vastissimo campo
delle depressioni psicopatiche (che, in realtà, sono molto differenziate dal punto di
vista della psicopatologia comprensiva e della psicoterapia),al fine di sottoporle a
programmi psicofarmacologici standardizzati secondo gli auspici delle Aziende
farmaceutiche. Perfino taluni congressi della Società Italiana di Psichiatria (come il
XXXIX Congresso Nazionale dell'ottobre 1994) si sono prestati a questi fini di promozione
aziendale (v. JAMA, ed. italiana, dicembre 1994, vol.6, n.9).
Ritengo però che qualche dubbio debba aver
sfiorato anche A.A.Rizzoli, dal momento che, in altri messaggi e-mail, egli si chiede come
mai il DSM rinnovi così frequentemente le sue edizioni e classificazioni.
N.B.: A tutti coloro che fossero veramente
interessati al problema del rapporto tra l'epistemologia della psicopatologia classica e
quella del DSM, verrà inviato a richiesta, via E-mail, il file dell'articolo (già
pubblicato su "Psicoterapia Professionale" del 1994, A. XI) dal titolo " Il manuale "diagnostico" e "statistico" DSM
III-IV: analfabetismo epistemologico, nichilismo metodologico e insipienza
clinico-diagnostica in psicopatologia.
P.S.: A.A.Rizzoli ha citato solo le prime
quattro righe del III messaggio sul tema : DISTIMIA, DSM E DINTORNI. Il testo completo del
III messaggio è il seguente:
DISTIMIA,
DSM E DINTORNI (04/08/2000)
La differenza epistemologica tra il DSM e la
psicopatologia classica è profonda e sostanziale.
Basterà pensare che il DSM pretenderebbe di
astrarsi da ogni presupposto teorico, definendosi programmaticamente
"ateoretico".
Tutta la psicopatologia classica, nelle sue
diverse formulazioni, è invece costituita su ben precisi fondamenti teoretici. Nel caso
di Kraepelin (e dei suoi maestri e seguaci), ad esempio, la
psicopatologia in generale (e quella delle
distimie in particolare) è fondata sui principi epistemologici del riduzionismo
strutturalistico e sul concetto di entità nosografica.
Perciò, per Kraepelin, tutte le forme di
distimia, dalle più gravi alle più leggere, da quelle manifestamente circolari a quelle
croniche, sono incluse nella psicosi maniaco-depressiva, cui viene attribuito un
fondamento patologico somatico specifico (anche se al momento non è conosciuto).
Nella concezione di C.Wernicke e della sua
scuola (K.Kleist, K.Leonard, ecc.) che pure appartengono allo stesso orientamento
epistemologico (riduzionismo strutturalistico) si dovrebbero invece cercare differenti
fondamenti neurobiologici (come patologia neurobiologica e, soprattutto,
come localizzazione cerebrale) in funzione
delle differenti caratteristiche dei quadri clinici.
In questo contesto epistemologico
(riduzionismo strutturalistico) è ovvio che la soluzione del problema clinico delle
distimie venga ricercata, in ogni caso, sul terreno neuropatologico e che, pertanto, il
metodo della spiegazione sia considerato come l'unico legittimo per la ricerca in questo
campo.
La versione integrazionistica della
psicopatologia classica .(strutturalismo fenomenologico secondo K.Jaspers e K.Schneider)
condivide la concezione Kraepeliniana della "malattia" (neurobiologica)
maniaco-depressiva solo in relazione a quelle distimie che si presentano formalmente
incomprensibili (e che K.Schneider definisce, in genere, "psicosi
ciclotimiche").
Per quanto riguarda, invece, quelle distimie
che risultino formalmente comprensibili (reazioni depressive o euforiche agli avvenimenti,
personalitàpsicopatiche, ipertimiche o depressive, depressioni o ipertimie endoreattive,
ecc.) la psicopatologia integrazionistica ritiene che si possa
soltanto parlare di tipologie
"psicopatiche" (varianti comprensibili rispetto alla norma) che non comportano
valutazioni di ordine "patologico"né "diagnostico".
Sotto questo profilo epistemologico
K.Schneider si esprime in modo molto esplicito e perentorio:
"LA MALATTIA, IN QUANTO TALE, ESISTE
SOLO NELLA SFERA SOMATICA E CHIAMIAMO "PATOLOGICO" L'ABNORME PSICHICO
ALLORQUANDO ESSO E' RICONDUCIBILE A PROCESSI MORBOSI ORGANICI. DESIGNARE COME PATOLOGICHE,
SENZA UN SIMILE FONDAMENTO, TUTTE LE STRANEZZE PSICHICHE O SOCIALI, HA SOLO IL SIGNIFICATO
DI UN QUADRO, NON HA ALCUN VALORE METODOLOGICO". (Psicopatologia clinica, trad.it.,
1954, pag. 7).
In questo senso, la psicopatologia
strutturalistica integrazionistica (fenomenologica) da un lato, considera sempre valido il
concetto di entità nosografia come categoria autenticamente diagnostica anche se non gli
attribuisce un significato ontologico-naturalistico (come accade in Kraepelin e in
Wernicke) ma soltanto quello di un'idea normativa di tipo Kantiano (vedi K,Jaspers,
"Psicopatologia generale", trad. it., 1959, pag. 612).
Perciò, in questa prospettiva, la
depressione "ciclotimica" (secondo ladefinizione di K.Schneider) è una
"vera" malattia (equivalente alla malattia maniaco-depressiva di Kraepelin).
Dall'altro lato, invece, la psicopatologia
strutturalistica integrazionistica, applicando il metodo della comprensione, inquadra gli
stati psichici "psicopatici" (e, perciò, anche le distimie
"psicopatiche")
in funzione dei sentimenti comprensibili
della personalità, definiti come STATI DELL'IO. Per questa via, K.Schneider perviene ad
una "patopsicologia" che trova il suo punto di riferimento nelle teorie del
strati timici di N.Hartmann e di M.Scheler. Secondo lo Schneider, (Psicopatologia
clinica,trad. it., 1954, pag. 154 e 162)
"le personalità abnormi sono caratterizzate dal predominio di alcuni sentimenti
psichici: l'ipertimico è dominato dalla contentezza, il depresso dalla tristezza.
Numerosi sentimenti psichici sono inclinazioni abituali e comportamenti durevoli della
personalità. GLI PSICOPATICI SONO ANZITUTTO
DEGLI ABNORMI DEL SENTIMENTO,
SONO DEI "TIMOPATICI".
E' a tutti evidente come questa distinzione
epistemologica tra la "psicosi" (cui di applica il metodo naturalistico della
spiegazione) e le "psicopatie" (cui è specificamente pertinente il metodo della
comprensione) è diimportanza decisiva non solo agli effetti della diagnostica
differenziale ma
anche per una giustificazione della
psicoterapia sistematica, come teoria e come prassi.
Anche nella sua versione funzionalistica
(K.Bonhöffer, A.Hoche. O.Bumke., E.Bleuler, A.Meyer, H.Ey, ecc.) la psicopatologia
classica non intende rinunciare del tutto all'ideale dell'entità nosografica, anche se,
per motivi di ordine pratico, preferisce inquadrare il discorso clinico secondo
I modelli della "sindrome
funzionale" e dei "tipi di reazione".
Occorre però sottolineare che neanche nella
psicopatologia funzionalistica classica tali modelli sono considerati come equivalenti ad
autentiche "diagnosi cliniche" ma soltanto come inquadramenti clinici che, per
quanto meno rigorosi sotto il profilo epistemologico, possono tuttavia presentare un'
utilità pratica ai fini di un ordinamento
nosografico basato sui criteri dell'"adattamento funzionale" all'ambiente
naturale e sociale. (Ma anche la psicopatologia funzionalistica ha i suoi presupposti
teoretici nel neojacksonismo).
Il manuale DSM, viceversa, non solo rifiuta
ogni impostazione teoretica rigorosa, ma nelle sue ultime edizioni, rifiuta perfino il
modello pragmatistico dei "tipi di reazione" (che aveva adottato nelle
primeedizioni) evidentemente giudicandolo troppo "teoretico".
Tuttavia, presumere di risolvere i problemi
teoretici della psicopatologia semplicemente ignorandoli o aggirandoli con espedienti
fittizi equivale a cavarsi gli occhi per vederci meglio.
Sostenere che in psicopatologia clinica il
problema della diagnosi possa risolversi con l'espediente della "diagnosi
sindromica" e che di tale espediente bisogna "accontentarsi" non è molto
convincente.
In un caso clinico di paraplegia vogliamo
"accontentarci" di una diagnosi come "disturbo paraplegico" o dobbiamo
indagare per verificare se il disturbo Valutazioni cliniche come "paraplegia da
sclerosi multipla", "sindrome paraplegica funzionale in personalità
psicopatica", "disturbo paraplegico" dovrebbero collocarsi su uno stesso
piano di rigore diagnostico?
Se la medicina occidentale avesse dovuto
"accontentarsi" di "diagnosi" come "disturbo febbrile" e
simili, anche le terapie non sarebbero andate molto più in là dei clisteri e dei
salassi.
Certo, non disponendo di monete d'oro,
talvolta ci si deve "accontentare" di monete di bronzo, ma sostenere che, in
assenza di monete d'oro, si debbano denominare così quelle di bronzo, non equivale ad
"accontentarsi", bensì a qualcosa di peggio, ad una vera e propria
mistificazione.
Purtroppo, non posso fare a meno di
consigliare nuovamente, per coloro che siano realmente interessati a questi temi, la
consultazione del mio scritto "Psicopatologia clinica, diagnosi psichiatrica,
tipologia delle psicopatie, teoria della personalità e giustificazione teoretica della
psicoterapia, in un inquadramento dialettico", presente on-line nel sito Internet
http://members.xoom.it/istpsico dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la
Psicoterapia Sistematica e della Rassegna "Psicoterapia Professionale".
P.S.: Qualora si verificassero disfunzioni
nelle pagine web, l'articolo sarà
inviato via e-mail ai Colleghi che ne
faranno richiesta.
G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
Direttore dell'Istituto per le Scienze
Psicologiche e la Psicoterapia
Sistematica
- CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
Direttore della Rassegna: "Psicoterapia
Professionale"
16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
Tel/fax: 010580903 - e-mail:
giacomin@libero.it
Internet: http://members.xoom.it/istpsico
Spesso negli iniziali deficit cognitivi v'è associato un
elemento
depressivo (e, di converso, spesso nei depressi si evidenziano deficit
cognitivi).
F. M. Reischies e P. Neu hanno studiato un centinaio di depressi ed
hanno trovato dei deficit cognitivi, deficit che non ritornavano alla
norma dopo la scomparsa dei sintomi depressivi (contrariamente a quanto
sin'ora affermato in letteratura).
Non vi era correlazione tra durata della malattia ed i deficit
cognitivi. Se ne deduce che la depressione non ha una grande influenza
sui sintomi cognitivi (ricordo che anni addietro nelle demenze iniziali
si somministravano anche TCA!) e che spesso nei depressi vi sono
elementi di
deterioramento cognitivo.
***Commento : Purtroppo il riassunto, qui allegato, non porta l'ETA'
media dei pazienti.
European Archives of Psychiatry and Clinical Neurosciences
Abstract
Volume 250 Issue 4 (2000) pp 186-193
Comorbidity of mild cognitive disorder and
depression - a neuropsychological analysis
F. M. Reischies, P. Neu
Psychiatrische Klinik der Freien Universität Berlin,
Eschenallee
3, D-14050 Berlin,
Germany, e-mail: reischie@zedat.fu-berlin.de
Received: 4 August 1999 / Accepted: 10 April 2000
Abstract Mild cognitive impairment is found in many
cases of
depression, and it is mostly
assumed to improve during the time course of
depression
remission.
Recent data question the reversibility of low
cognitive test
performance in depression. The
aim of this study is to determine the degree of
reversibility and
the proportion of patients
who will not demonstrate reversibility of cognitive
dysfunction.
Consecutive inpatients suffering from depression
(N=102) were
investigated and N=82
matched control subjects. N=57 of the patients were
diagnosed as
major depression
according to DSM-IV. A total of N=67 could be
retested after
remission of depression
(N=32 of the patients with major depression) and a
matched
control group (N=62).
Neuropsychological tests were applied in a test
session which
avoids the effects of fatigue in
the patients by the short duration of strenuous
tests.
For most neuropsychological tests an impaired
performance in the
depressed patients was
found. About one third of the depression subjects
performed in an
impaired level in tests of
averbal memory and verbal fluency (below 5th
percentile). In the
follow-up investigation, a
slight improvement in performance could be assessed
for both the
depression and the
control group, which was, however, attributed to a
general test
training effect. No
normalization of cognitive test performance was found
in spite of
complete recovery of the
affective symptoms. No correlation between the
duration of the
disease before the index
episode or number of episodes and cognitive deficits
could be
found.
The data of the neuropsychological deficits of
depressed
patients, which are stable in the
time course of the affective disorder, may indicate
that these
patients may suffer from
comorbidity of both depression and mild cognitive
disorder. The
findings are discussed as
1) indicating only a minor impact of the depressed
mood on the
cognitive performance and
2) they are consistent with a role of brain lesions
which have
been reported in several
studies in a subgroup of depression.
DISTIMIA, DSM E DINTORNI
Alcuni recenti interventi (A.A.Rizzoli, G.Esposito) hanno fatto riferimento
al problema delle distimie. In realtà, al giorno d'oggi, il primo problema è
costituito dall'intento del manuale DSM di imporre la "distimia" come una
vera e propria "diagnosi" psichiatrica, pur rifiutando il concetto di
"entità nosografica" della psicopatologia classica.
Secondo la prospettiva sostenuta dal DSM, la "distimia" dovrebbe
rappresentare una sorta di depressione "minore", distinta dalla cosiddetta
depressione maggiore" o ciclotimia.
Nella psicopatologia classica, in realtà, la distimia è concepita, in
generale, come un disturbo dell'umore sintomatico che, qualora presenti
caratteristiche "ciclotimiche" può legittimare il sospetto diagnostico di
una vera e propria malattia cerebrale; quando, invece, si presenti con
tipologie meno gravi e riferibili ad avvenimenti vissuti (Erlebnisse) o a
caratteristiche conflittuali della personalità, viene definita come
"psicopatica", "reattiva", "nevrotica", ecc.
Com'è noto, la psicopatologia classica si riproponeva, giustamente, di
introdurre nella clinica psichiatrica e perciò anche nel vastissimo campo
dei quadri "distimici", i ben noti criteri diagnostici differenziali della
comprensione ("Verstehen") e della spiegazione ("Erklären").
In base a questi criteri, distingueva tra due classi di distimie: le une
"ciclotimiche", diagnosticabili come "psicotiche" (in quanto
formalmente
"incomprensibili" e, pertanto, "spiegabili" solo ipotizzando la
presenza di
una malattia cerebrale); le altre, semplicemente "psicopatiche" (in quanto
formalmente "comprensibili" in funzione degli avvenimenti vissuti e dalle
caratteristiche conflittuali della personalità.
Questa distinzione della psicopatologia classica è di fondamentale
importanza sotto ogni profilo (ricerca, concettualizzazione teoretica,
diagnosi, terapia), perché è ovvio che, qualora il quadro "distimico"
osservabile clinicamente sia considerato riferibile ad una patologia
cerebrale, esso, dal punto di vista metodologico, deve essere inquadrato nei
termini di una psicopatologia neuropatologica (e del metodo della
"spiegazione" causale naturalistica); viceversa, qualora non sia ritenuto
derivabile da patologie neurobiologiche significative, sarà di pertinenza
della psicopatologia comprensiva e della psicoterapia sistematica
(personologica).
Tale fondamentale differenziazione diagnostica della psicopatologia classica
è stata ignorata, soprattutto negli ultimi decenni, dalla psichiatria
accademica nostrana, con l'adozione indiscriminata e acritica del manuale
DSM, tanto nella clinica, come nella cosiddetta "ricerca".
La principale caratteristica del DSM risulta quella di definire
arbitrariamente come "diagnosi" i più disparati complessi sintomatici
psicopatologici (o sindromi psicopatologiche) senza alcuna preoccupazione
per la diagnostica differenziale tra neuropatogenesi (psicopatologia della
spiegazione) e psicogenesi (psicopatologia della comprensione).
In realtà, l'unica preoccupazione del DSM sembra essere quella di fornire,
sbrigativamente, una lista standardizzata di complessi psicopatologici
"sintomatici" (definiti impropriamente come "diagnosi") idonei per la
ricettazione, altrettanto standardizzata, di determinate categorie di
psicofarmaci (secondo gli auspici delle ditte farmaceutiche produttrici).
In tal modo, alle "diagnosi computerizzate" fanno riscontro le terapie
psicofarmacologiche, a loro volta computerizzate.
In psichiatria, psicopatologia e psicoterapia, è necessario, oggi,
riprendere e sviluppare il discorso già avviato dalla psicopatologia
classica (K.Jaspers, K.Schneider, E.Bleuler, ecc.), se si vuole porre un
freno all'attuale degrado della clinica psichiatrica e al progressivo
imbarbarimento della cultura psicopatologica.
G. Giacomo Giacomini - Medico psicoterapeuta
Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia
Sistematica
CESAD - Centro Studi per l'Analisi Dialettica
Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale"
16121 Genova - Via A.M.Maragliano, 8/5
Tel/fax: 010580903 - e-mail: giacomin@libero.it
Internet: http://members.xoom.it/istpsico
Durante i cinque anni dell'osservazione solo il 35-30 % dei
pazienti
distimici aveva ricevuto un trattamento farmacologico adeguato. Ma non è
possibile chiarire se questa percentuale fosse dovuta ad un nucleo
compatto di pazienti che prendevano i farmaci oppure fosse una percentuale
"dinamica"
(pazienti che smettevano di prendere i farmaci venivano sostituiti da altri
che iniziavano
a prendere i farmaci).
Molti pazienti avevano anche un trattamento psicoterapico mono o
bisettimanale : ma con l'andar del tempo
la frequenza del trattamento psicoterapico diminuì. Come da referenza
interna nella pubblicazione
si tratta di una psicoterapia d'appoggio della durata, in più della metà dei
casi, di meno di mezz'ora.
Nulla viene detto sulla tecnica scelta.Del pari nulla viene detto sui
farmaci erogati limitandosi in
ambedue i casi a definire come adatto o non adatto (su una scala da 0 a 3)
sia il trattamento farmacologico che quello psicoterapico
L'importanza di questo studio naturalistico durato cinque anni è che ci dice
che il 73.7% dei distimici
nel corso di 5 anni - non avendo MAI - avuto un Episodio Depressivo Maggiore
in vita loro, ebbe un
Episodio Depressivo Maggiore., la Depressione Doppia, come già detto.
E' interessante notare che i pazienti con Disturbo Distimico ebbero
un'attenzione terapeutica MAGGIORE di quelli con Episodio Depressivo Maggiore.
I Tentativi di suicidio furono 19 % e i ricoveri in Ospedale 22.4% Alla
fine dello stuido erano ancora in trattamento il 50% dei pazienti.
Sarebbe interessante replicare lo studio in Italia.
AAR
Giuseppe Messina ha scritto:
>Condivido in pieno quanto da te affermato sul disturbo distimico. Nel nostro
>CSM, nell'ambito di un programma di incontri con i medici di famiglia che
>operano nel distretto di Reggio Calabria, abbiamo dibattuto a lungo il
>problema della distimia.
>Si è evidenziato soprattutto
>1) che la ricaduta del disturbo è certamente sottostimata
>2) che determina disagio personale e lavorativo decisamente elevati
>3) che spesso il medico di famiglia ne affronta gli aspetti sintomatologici
>in modo empirico senza porsi il problema della diagnosi
>4) che la percentuali di questi pazienti che viene inviata a un centro di
>salute mentale è molto bassa
>Per quanto riguarda "l'integrazione con la psicoterapia" segnalata da
>Esposito non ho ben compreso se si tratta di un sostegno psicoterapico alla
>terapia farmacologica o di un protocollo originale di tipo psicoterapico
>integrato. In quest'ultimo caso mi piacerebbe conoscerne i particolari.
>
Antonio A.Rizzoli aveva scritto
>> Il Disturbo Distimico
>>
>> Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi, esso è spesso
>l'araldo
>> di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione
>Doppia".
>>
>> Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
>> "normali" e dal 22-al 36 %
>> dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
>> sua storia naturale.
>>
>> Uno studio pubblicato sul numero
>> di Giugno dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni)
>del 53%.
>> Sono elevate le possibilità di ricaduta.
>> (Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
>>
>>
>> L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
>> prospettiva
>> preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti
>non
>> specialistici
>> (anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai
>MDMG
>> una serie
>> di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
>>
>> Attendo Vostre osservazioni.
>>
>> AAR
>>
>>
>>
>> --------------------------------------------------------------------------
>------
>>
>> Article
>>
>> Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
>> Naturalistic Follow-Up Study
>> Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
>> Julie B. Leader, Ph.D.
>>
>>
>> OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
>> disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
>> disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal
>follow-up
>> study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
>> outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
>> 30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
>> Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton
>Rating
>> Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
>> dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
>> risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
>> Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
>> period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
>> the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
>> greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly
>more
>> likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
>> episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
>> disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
>> into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
>> depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
>> condition with a protracted course and a high risk of relapse. In
>addition,
>> almost all patients with dysthymic disorder eventually develop
>superimposed
>> major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend
>to
>> show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
>> condition is severe.
>>
>>
>>
>>
>> Antonio Augusto Rizzoli
>> Venezia
>> 041-5209496
>>
>
>
>
Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496
Condivido in pieno quanto da te affermato sul disturbo distimico. Nel nostro
CSM, nell'ambito di un programma di incontri con i medici di famiglia che
operano nel distretto di Reggio Calabria, abbiamo dibattuto a lungo il
problema della distimia.
Si è evidenziato soprattutto
1) che la ricaduta del disturbo è certamente sottostimata
2) che determina disagio personale e lavorativo decisamente elevati
3) che spesso il medico di famiglia ne affronta gli aspetti sintomatologici
in modo empirico senza porsi il problema della diagnosi
4) che la percentuali di questi pazienti che viene inviata a un centro di
salute mentale è molto bassa
Per quanto riguarda "l'integrazione con la psicoterapia" segnalata da
Esposito non ho ben compreso se si tratta di un sostegno psicoterapico alla
terapia farmacologica o di un protocollo originale di tipo psicoterapico
integrato. In quest'ultimo caso mi piacerebbe conoscerne i particolari.
Giuseppe Messina
-----Messaggio Originale-----
Da: Antonio Augusto Rizzoli <aa.rizzoli@ve.nettuno.it>
A: <psic-ita@psichiatria.unige.it>
Data invio: sabato 24 giugno 2000 15.22
Oggetto: [PSIC-ITA #3034] Il Disturbo Distimico
> Il Disturbo Distimico
>
> Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi, esso è spesso
l'araldo
> di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione
Doppia".
>
> Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
> "normali" e dal 22-al 36 %
> dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
> sua storia naturale.
>
> Uno studio pubblicato sul numero
> di Giugno dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni)
del 53%.
> Sono elevate le possibilità di ricaduta.
> (Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
>
>
> L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
> prospettiva
> preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti
non
> specialistici
> (anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai
MDMG
> una serie
> di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
>
> Attendo Vostre osservazioni.
>
> AAR
>
>
>
> --------------------------------------------------------------------------
------
>
> Article
>
> Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
> Naturalistic Follow-Up Study
> Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
> Julie B. Leader, Ph.D.
>
>
> OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
> disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
> disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal
follow-up
> study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
> outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
> 30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
> Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton
Rating
> Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
> dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
> risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
> Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
> period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
> the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
> greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly
more
> likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
> episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
> disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
> into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
> depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
> condition with a protracted course and a high risk of relapse. In
addition,
> almost all patients with dysthymic disorder eventually develop
superimposed
> major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend
to
> show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
> condition is severe.
>
>
>
>
> Antonio Augusto Rizzoli
> Venezia
> 041-5209496
>
Antonio Augusto Rizzoli wrote:
>
> Il Disturbo Distimico
>
> Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi, esso è spesso
l'araldo
> di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione
Doppia".
>
> Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
> "normali" e dal 22-al 36 %
> dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
> sua storia naturale.
>
> Uno studio pubblicato sul numero
> di Giugno dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni) del 53%.
> Sono elevate le possibilità di ricaduta.
> (Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
>
> L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
> prospettiva
> preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti non
> specialistici
> (anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai MDMG
> una serie
> di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
>
> Attendo Vostre osservazioni.
Nella mia esperienza (non ho dati evidence based sottomano)
l'integrazione con la psicoterapia da risultati di guarigione
sensibilmente superiori rispetto al solo trattamento farmacologico.
Naturalmente, considerato l'andamento cronico remittente del disturbo,
la sua relativa gravita'rispetto al disturbo depressivo maggiore, si
spiega come mai questi pazienti finiscono dal medico di famiglia o dagli
internisti.
passo...
>
> AAR
>
> --------------------------------------------------------------------------------
>
> Article
>
> Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
> Naturalistic Follow-Up Study
> Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
> Julie B. Leader, Ph.D.
>
> OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
> disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
> disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal follow-up
> study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
> outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
> 30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
> Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton Rating
> Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
> dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
> risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
> Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
> period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
> the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
> greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly more
> likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
> episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
> disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
> into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
> depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
> condition with a protracted course and a high risk of relapse. In addition,
> almost all patients with dysthymic disorder eventually develop superimposed
> major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend to
> show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
> condition is severe.
>
> Antonio Augusto Rizzoli
> Venezia
> 041-5209496
--
Gennaro Esposito
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Dr.GENNARO ESPOSITO
Specialista in Neurologia - Psicoterapeuta
legittimato
Medico formato in M.G. CEE - Medico fiscale INPS - Counselor online
SAVIANO (NAPOLI),via Molino,6 - 80039 - telefono e fax: 081-5113481
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Il Disturbo Distimico
Largamente sottovalutato, in buona parte dei casi, esso è spesso l'araldo
di un Episodio Depressivo Maggiore. Realizzandosi così la "Depressione Doppia".
Il Disturbo Distimico è comune poichè colpisce dal 3 al 6% delle persone
"normali" e dal 22-al 36 %
dei pazienti già in trattamento ambulatoriale. Vi sono poche nozioni sulla
sua storia naturale.
Uno studio pubblicato sul numero
di Giugno dell'Am.J. Psychiatry trova una guarigione (nei cinque anni) del 53%.
Sono elevate le possibilità di ricaduta.
(Am J Psychiatry 157:931-939, June 2000)
L'argomento, poco trattato in Italia, merita un approfondimento in una
prospettiva
preventiva : purtroppo i pazienti distimici vengono gestiti in ambienti non
specialistici
(anche per le pressioni delle Ditte Farmaceutiche che hanno affidato ai MDMG
una serie
di antidepressivi, onde aumentare il fatturato).
Attendo Vostre osservazioni.
AAR
--------------------------------------------------------------------------------
Article
Five-Year Course and Outcome of Dysthymic Disorder: A Prospective,
Naturalistic Follow-Up Study
Daniel N. Klein, Ph.D., Joseph E. Schwartz, Ph.D., Suzanne Rose, M.A. and
Julie B. Leader, Ph.D.
OBJECTIVE: There have been few naturalistic follow-up studies of dysthymic
disorder. This study describes the 5-year course and outcome of dysthymic
disorder.METHOD: The authors conducted a prospective, longitudinal follow-up
study of 86 outpatients with early-onset dysthymic disorder and 39
outpatients with episodic major depressive disorder. Follow-ups, conducted
30 and 60 months after entry into the study, rated patients on the
Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation and the Modified Hamilton Rating
Scale for Depression.RESULTS: The estimated 5-year recovery rate from
dysthymic disorder was 52.9%. Among patients who recovered, the estimated
risk of relapse was 45.2% during a mean of 23 months of observation.
Patients with dysthymic disorder spent approximately 70% of the follow-up
period meeting the full criteria for a mood disorder. During the course of
the follow-up the patients with dysthymic disorder exhibited significantly
greater levels of symptoms and lower functioning and were significantly more
likely to attempt suicide and to be hospitalized than were patients with
episodic major depressive disorder. Finally, among patients with dysthymic
disorder who had never experienced a major depressive episode before entry
into the study, the estimated risk of having a first lifetime major
depressive episode was 76.9%.CONCLUSIONS: Dysthymic disorder is a chronic
condition with a protracted course and a high risk of relapse. In addition,
almost all patients with dysthymic disorder eventually develop superimposed
major depressive episodes. Although patients with dysthymic disorder tend to
show mild to moderate symptoms, from a longitudinal perspective, the
condition is severe.
Antonio Augusto Rizzoli
Venezia
041-5209496
Grazie!!
Mi informo subito per dove posso e come posso far reperire il materiale.
Se tu hai i libri, non potresti mandarmi qualche immagine (se esiste) per
fax?
Così vedo se può essermi utile.
Per ciò che concerne il tuo interesse sulla scrittura ed apprendimento dimmi
cosa ti serve nello specifico ed io ti darò una mano.
Grazie per la tua disponibilità
Ciao Marisa
-----Messaggio Originale-----
Da: Luisa Di Sarno <luisaok@libero.it>
A: <psiconline-it@egroups.com>
Data invio: martedì 6 giugno 2000 21.37
Oggetto: Re: [psiconline-it] materiale sul suicidio
> Ciao, sono Luisa, non sono di sicuro un' esperta, ma mi viene subito in
> mente il caso di Michedstedter (si scrive così?) un filosofo che all'
inizio
> del secolo si è suicidato dopo aver spedito la sua tesi in filosofia "La
> persuasione e la rettorica". E' famoso anche perchè commentava i testi che
> leggeva nella lingua originale ( quelli in greco antico in greco
antico...).
> A Gorizia, credo, c'è un museo che raccoglie anche i suoi disegni. All'
> inizio del secolo molti filosofi si sono suicidati (che ne è stato di
> Godell?). So che un esperto di Michestedter è Giorgio Brianese, un
> ricercatore della facoltà di filosofia di Venezia che si è laureato con E.
> Severino (il cui fratello, nello stesso periodo si è suicidato). Non so se
> ti posso essere stata di aiuto, ma io cercherei nella filosofia e nella
> letteratura di inizio secolo. Ad esempio una nobildonna, amante di
> D'Annunzio, si suicidò: il poeta ne ricavò un diario "Solus ad Solam"
> (l'edizione mondadori racconta con dettaglio i fatti)
> Saluti e in bocca al lupo per il tuo convegno.
> P.S.: io mi interesso di scrittura ed apprendimento, se hai qualche
> indicazione iteressante fammelo sapere se ti capita! :o))
> ----- Original Message -----
> From: "marisa" <aloia@dada.it>
> To: <psiconline-it@egroups.com>
> Sent: Tuesday, June 06, 2000 5:46 PM
> Subject: [psiconline-it] materiale sul suicidio
>
>
> Salve, sono Marisa, una psicologa con specializzazione in Psicodiagnosi
> grafica, dal disegno alla scrittura.
> Sto preparando un intervento per un convegno, dove vorrei analizzare le
> motivazioni che spingono al suicidio, ma in particolare mi interesserebbe
> reperire materiale circa persone che si sono tolte la vita, ma che hanno
> lasciato o un disegno o uno scritto.
> Il titolo dell'intervento è: "l'ultimo tratto" dove per trattoi si intende
> anche l'analisi del tratto grafico lasciato dalla penna sulla carta.
> Al microscopio il tratto assume connotazioni diverse ma costanti per ogni
> persona al di là dello strumento usato.
> In prtaica queste variazioni dipendono dal movimento di ritazione del
polso
> e dal tipo di prensione del mezzo scrivente.
>
> So che la richesta è forse un pò insolita, ma proprio per queste
motivazioni
> non riesco a trovare molto materiale, neppure come bibliografia.
> Qualcuno può aiutarmi?
> Grazie Marisa
>
>
> [Non-text portions of this message have been removed]
>
>
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Ciao, sono Luisa, non sono di sicuro un' esperta, ma mi
viene subito in
mente il caso di Michedstedter (si scrive così?) un filosofo che all' inizio
del secolo si è suicidato dopo aver spedito la sua tesi in filosofia "La
persuasione e la rettorica". E' famoso anche perchè commentava i testi che
leggeva nella lingua originale ( quelli in greco antico in greco antico...).
A Gorizia, credo, c'è un museo che raccoglie anche i suoi disegni. All'
inizio del secolo molti filosofi si sono suicidati (che ne è stato di
Godell?). So che un esperto di Michestedter è Giorgio Brianese, un
ricercatore della facoltà di filosofia di Venezia che si è laureato con E.
Severino (il cui fratello, nello stesso periodo si è suicidato). Non so se
ti posso essere stata di aiuto, ma io cercherei nella filosofia e nella
letteratura di inizio secolo. Ad esempio una nobildonna, amante di
D'Annunzio, si suicidò: il poeta ne ricavò un diario "Solus ad Solam"
(l'edizione mondadori racconta con dettaglio i fatti)
Saluti e in bocca al lupo per il tuo convegno.
P.S.: io mi interesso di scrittura ed apprendimento, se hai qualche
indicazione iteressante fammelo sapere se ti capita! :o))
----- Original Message -----
From: "marisa" <aloia@dada.it>
To: <psiconline-it@egroups.com>
Sent: Tuesday, June 06, 2000 5:46 PM
Subject: [psiconline-it] materiale sul suicidio
Salve, sono Marisa, una psicologa con specializzazione in Psicodiagnosi
grafica, dal disegno alla scrittura.
Sto preparando un intervento per un convegno, dove vorrei analizzare le
motivazioni che spingono al suicidio, ma in particolare mi interesserebbe
reperire materiale circa persone che si sono tolte la vita, ma che hanno
lasciato o un disegno o uno scritto.
Il titolo dell'intervento è: "l'ultimo tratto" dove per trattoi si intende
anche l'analisi del tratto grafico lasciato dalla penna sulla carta.
Al microscopio il tratto assume connotazioni diverse ma costanti per ogni
persona al di là dello strumento usato.
In prtaica queste variazioni dipendono dal movimento di ritazione del polso
e dal tipo di prensione del mezzo scrivente.
So che la richesta è forse un pò insolita, ma proprio per queste motivazioni
non riesco a trovare molto materiale, neppure come bibliografia.
Qualcuno può aiutarmi?
Grazie Marisa
[Non-text portions of this message have been removed]
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Salve, sono Marisa, una psicologa con specializzazione in Psicodiagnosi grafica, dal
disegno alla scrittura.
Sto preparando un intervento per un convegno, dove vorrei analizzare le motivazioni che
spingono al suicidio, ma in particolare mi interesserebbe reperire materiale circa persone
che si sono tolte la vita, ma che hanno lasciato o un disegno o uno scritto.
Il titolo dell'intervento è: "l'ultimo tratto" dove per trattoi si intende
anche l'analisi del tratto grafico lasciato dalla penna sulla carta.
Al microscopio il tratto assume connotazioni diverse ma costanti per ogni persona al di
là dello strumento usato.
In prtaica queste variazioni dipendono dal movimento di ritazione del polso e dal tipo di
prensione del mezzo scrivente.
So che la richesta è forse un pò insolita, ma proprio per queste motivazioni non riesco
a trovare molto materiale, neppure come bibliografia.
Qualcuno può aiutarmi?
Grazie Marisa
[Non-text portions of this message have been removed]
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Dal 1976 si sa che la serotonina è diminuita nel liquor c.s. dei suicidi.
Con l'aiuto della PET si è visto che la serotonina è globalmente diminuita
nella corteccia frontale Si tratta di un'area che viene considerata come "la
cintura di sicurezza
emotiva".
Un uso allargato della PET nei pazienti a rischio di suicidio potrebbe
rivelarsi non solo utile,
ma predittiva delle potenzialità di suicidio stesso.
Linguaggio, psicoanalisi ed arte (Language,
psychoanalysis and art)
Cari Amici della Lista,
riprendendo l'interessante intervento del gentile collega Simone, vorrei
sottolineare come l'ambito al quale egli fa riferimento sia in effetti
quello dell'Arteterapia (poiesiterapia ed iconoterapia), a me
particolarmente caro!
Già Hugo diceva, nel 1834, "Jusqu'à quel point le chant appartient à la
voix, et la poésie au poète?". In una parola, una psicoanalisi dell'arte è
senz'altro possibile, purché non si cada nell'ingenuità di considerare l'
opera d'arte come le risposte del paziente sul lettino dello psicoanalista:
non bisogna mai dimenticare - e ciò vale specialmente per l'arte classica
greco-latina - quali e quanto grandi siano le convenzioni e le tecniche
letterarie con cui l'artista è in un modo o nell'altro costretto a fare i
conti, insomma la letterarietà dell'opera d'arte. Il principio di
tensione/distensione, ad esempio, viene felicemente a inquadrarsi nel
contrasto di Eros e Thanatos e nel conseguente «disagio della civiltà» di
freudiana memoria. Si può stabilire questo triplice parallelo (che riprendo
nel mio libro, in corso di stampa presso gli Istituti Editoriali e
Poligrafici Internazionali, Le "muse bendate": la poesia del '900 contro la
modernità) : Super-Io > convenzioni e tecniche letterarie; Io > opera in
quante identificantesi pareysonianamente con l'artista; Es > pulsioni
istintuali dell'artista. Fónagy individua nella «situazione edipica il
focolaio primitivo e naturale» del chiasmo e della struttura ternaria che è
alla base di molte pièce: dimentica però di rilevare la classica
tripartizione contrastiva dei movimenti di molte composizioni musicali
(allegro-largo-allegro è il typos fondamentale). Del resto, il 3 è come il 7
un numero magico in tutto il Mediterraneo antico (si pensi anche alla
configurazione ternaria di molte divinità).
Come dice Flavio Manieri, "Le nevrosi del genio, cioè le aliquote di nevrosi
che vi troviamo onnipresenti, sarebbero, secondo quanto abbiamo detto,
direttamente collegate al residuo di tendenza parziale che questi non è
riuscito a sublimare (come soddisfazioni sostitutive di compromesso
realizzate attraverso la sintomatologia morbosa); ed appunto, a loro volta,
le idiosincrasie, che spesso troviamo riguardare il suo lavoro, al
riassorbimento di un'altra porzione di tendenza parziale nel meccanismo
delle formazioni reattive". Fondamentali sono anche le parole del grande (mi
sia qui consentito l'omaggio) Luigi Pareyson in quella che potremmo chiamare
"estetica dell'equilibrio": "fra la spiritualità dell'artista e il suo
modo
di formare c'è addirittura identità, e così la stessa materia formata è di
per sé contenuto espresso. [...] Spiritualità e modo di formare, cioè
umanità e stile s'identificano: nell'attività artistica esprimere e fare,
dire e produrre sono la stessa cosa." E più avanti lo stesso estetologo
aggiunge: "E se nell'operare artistico la persona dell'artista è diventata
essa stessa il suo proprio e insostituibile modo di formare, e se l'arte non
ha altro contenuto che la persona stessa che ne è energia formante, si può
ben dire che l'opera cui mette capo il processo artistico è la stessa
persona dell'artista incarnatasi completamente in un oggetto fisico e reale,
qual è, appunto, l'opera formata."
In attesa di qualche ulteriore intervento sulla quaestio arte, letteratura e
psiconalisi, un cordiale saluto a tutti i membri della lista da
Roberto Pasanisi
----- Original Message -----
From: Simone
To: Psicoanalisi Mailing list
Sent: Saturday, February 26, 2000 11:41 AM
Subject: [psicoanalisi] linguaggio e psicoanalisi
Concludo con un interrogativo: è possibile che l'espressione attraverso le
immagini pittoriche, nonostante sia sempre presente una forma di mediazione
relativa all'uso dei materiali e ad altri fattori, sia un metodo che
consenta un avvicinamento maggiore all'esperienza soggettiva rispetto al
linguaggio ?
Saluti
Simone
Cari Colleghi,
ancora intorno a Fonagy ed alle questioni connesse (sempre sul versante
intermedio dei rapporti fra psicologia e letteratura), dopo la segnalazione
di alcuni miei lavori nel mio precedente intervento, mi permetto di
riportare un passo tratto da essi (dietro opportuna sollecitazione
dell'amico e "grande capo" della lista Marco Longo...): "Ricordiamo
anzitutto ciò che scrive Aldo Rossi: «Il ritmo, in senso generale, è
movimento, ovvero tutto ciò che si succede nel tempo con un certo ordine. Il
moto ordinato dei suoni, ossia la successione regolare dei suoni nel tempo,
costituisce il ritmo musicale.»
D'altra parte, Rubina Giorgi rileva: «Quando ha scoperto la pulsione di
morte o il pricipio di un `al di là del piacere', Freud ha postulato una
regressività della pulsione verso primordi dell'inorganico o verso una
fattura androginica dell'animale uomo [tensione/distensione?], piuttosto che
risolversi ad accettare il legame della psiche col tempo». Ma, come scrive
Fónagy, «La ripetizione è l'immobilità nel movimento. Le strutture
ripetitive, a tutti i livelli dell'opera letteraria, sono forme derivate
della pulsione di morte postulata da Freud.» Ergo, se il ritmo è alterità
dal silenzio e ritorno sistematico di un quid, esso è a mio avviso frutto
della pulsione di morte, tentativo supremo di dominio sul tempo e di ritorno
«allo stato di perfetto equilibrio che caratterizza la materia inerte.»
Il piacere del verso (metro) è infatti determinato anche dal fatto che la
ripetizione (costanza) ritmica consente il minimo dispendio di energia
fisica (fonazione) e psichica (previsione, in quanto anche le connesse
variazioni sono pur sempre nell'àmbito dello schema)."
Un grazie per l'attenzione ed un carissimo saluto a tutti gli amici della
lista da
Roberto Pasanisi
Vorrei introdurre un ulteriore elemento di discussione rispetto a
quanto detto sui rapporti tra psicoanalisi e fenomenologia. Le esperienze che noi viviamo
soggettivamente " in silenzio e solitudine ", le nostre sensazioni, le nostre
emozioni e così via, non coincidono con le descrizioni linguistiche che diamo delle
stesse. Questo accade perchè il linguaggio rappresenta un filtro che separa il visibile (
la comunicazione di ciò che era soggettivo ) e l'invisibile (
l'esperienza soggettiva ). Siamo tutti d'accordo nel dire che il linguaggio,
qualunque esso sia, è un insieme di convenzioni i cui segni non hanno nessun nesso con
ciò che vogliono rappresentare. Attraverso il linguaggio si introduce una dimensione
lineare nell'esperienza soggettiva che però a causa di ciò, proprio perchè l'inconscio
è non lineare, perde il suo vero significato.
Concludo con un interrogativo: è possibile che
l'espressione attraverso le immagini pittoriche, nonostante sia sempre presente una
forma di mediazione relativa all'uso dei materiali e ad altri fattori, sia un metodo che
consenta un avvicinamento maggiore all'esperienza soggettiva rispetto al linguaggio ?
Cari Colleghi,
intorno a Fonagy ed alle questioni connesse (ma sul versante intermedio dei
rapporti fra psicologia e letteratura), mi permetto di segnalare alcuni miei
articoli, che saranno raccolti nel volume, in corso di stampa, Le "muse
bendate". La poesia del '900 contro la modernità, Pisa-Roma, Istituti
Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000: La ripetizione creativa, in
"Il letterato", 1-3, 1985, pp. 3-5; Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione
creativa. Ridondanze espressive nell'opera poetica, Dedalo, Bari, 1982, in
"Annali dell'Istituto Universitario Orientale" Sezione Romanza, XXVIII, 1,
1986, pp. 407-410; La 'ripetizione onirica': la rima del Poema Paradisiaco
fra psicoanalisi e metricologia, in "Alla bottega", 3, 1987, pp. 20-22.
Un grazie per l'attenzione ed un carissimo saluto a tutti membri della lista
da
Roberto Pasanisi
|