A crumpà a crèdet
sha crómpô n dèbet |
A comperare a credito si compera un
debito. |
A cumandà n tancc
sa 'à n malùrô |
A comandare in tanti si va in malora.
Troppi che comandano sono inconciliabili con una buona amministrazione: tutti spendono e
si va in malora. |
A fabricà e a begà
sha cünsümô
töt chel che sha gh'à |
A fabbricare e a litigare si consuma
tutto quel che si ha.
Quando stai edificando la tua casa ci metti tutto il tuo impegno e tutti i tuoi soldi; se,
invece, stai litigando pensano gli avvocati a tenerti le tasche pulite. |
A fa trop tant el
generùs
sha ga manté i véshe ai usiùs |
A (voler) fare troppo il generoso si
mantengono i vizi agli oziosi. |
A fórsô de góshe
sha sbüzô la prédô |
A forza di gocce si buca la pietra.
Spesso il lavoro non si vede. Con la pazienza e la perseveranza si riesce ad ottenere
anche ciò che si crede impossibile e col tempo si noteranno i cambiamenti.
Non desistere! Chi la dura la vince. |
Al prüm cùlpo
la 'à mìô zó la piàntô |
Al primo colpo non va giù la pianta.
Simile al precedente, ma per dire che non si può pretendere di concludere subito un
contratto, serve una trattativa. |
A laurà de capréshe
sha pàgô de bórsô |
A lavorare di capriccio si paga di
borsa.
Si dice a chi, testardo, persiste nel mantenere una posizione o atteggiamento che sa di
non poter sostenere a lungo. Chi non vuol sentire consigli ...finché capirà a proprie
spese!
Vedi anche tu che è inutile, anzi, è dannoso insistere... |
A mìô leà shô
dìnô(*)
ta n fét mìô de farìnô |
Se non ti alzi (*) non ne fai di
farina.
(*dìnô = prima ora chiara del giorno).
Combini poco. Pigrone! |
A nà sha bècô,
a sta sha shècô |
Andando si becca, stando si secca.
Datti da fare! Sei tu che devi badare ai tuoi interessi. |
A parlà sha
ntènt,
a maià sha spènt |
A parlare ci si intende, a mangiare si
spende.
La seconda parte del detto non sempre è aggiunta, infatti non ha apparenti relazioni con
la prima. Si usa come rafforzativo. Se tanto mi dà tanto... |
A runcà(*) e a fabricà
ta gh'ét mai
i shólcc en mà |
A (*) e a fabbricare non hai mai i
soldi in mano.
(*runcà significa anche "russare", ma qui significa dissodare, per renderlo
coltivabile, il «rùc» o «rónc» (colle, dosso). Questa operazione consisteva
nel tagliare il terreno incolto scavando con «sapù e badìl» (piccone e badile)
fino ad una profondità di almeno 40 - 50 centimetri e togliendo sassi e radici).
Il detto fa capire che a (*) ci guadagni poco e se fabbrichi continui a spendere. |
Al piö tat la pràticô
che la gramàticô |
Vale di più la pratica che la
grammatica.
Più la pratica che la teoria. Lo dice, anche per farsi coraggio, la persona che si
avvicina per la prima volta ad un mestiere e si sente inferiore a chi ha già esperienza. |
Bizògnô fa l
pàs
a shegónt de la gàmbô |
Bisogna fare il passo secondo la gamba.
Fare, ma non strafare. Vale anche per il seguente... |
Bizògnô spènder
a shegónt de la scarsèlô |
Bisogna spendere secondo la tasca.
Devi contenerti nelle tue possibilità economiche |
Caài, zöc e s-cète
i manté le scarsèle nète |
Cavalli, gioco (d'azzardo) e ragazze
mantengono le tasche pulite. |
L'è 'na bügàdô(*) |
È una (*«bügàdô» in questo
caso significa grande fatica o cosa laboriosa, ma letteralmente significa bucato nel senso
di pulizia straordinaria).
La «bügàdô» era il colmo dei lavori di ripulitura ed era un lavoro che le donne
facevano ogni due o tre mesi. Era un po' un rito che consisteva nel «sgürà» (pulire
a fondo dal sudiciume, dalla sporcizia che noi chiamiamo «rüc»), stendere, far
asciugare e quindi stirare la biancheria.
Le donne si alzavano di buon'ora per accendere il fuoco sotto il «peröl» (paiolo
grande di rame) per «la bügàdô» che sarebbe durata tre giorni. Prima si faceva la
«lishìô» (lisciva) per dare una lavata alla biancheria in un «sòi» (mastello,
bigoncia o tinozza). Quando l'acqua del «peröl» era bollente vi si buttava la
cenere che avrebbe bollito almeno tre ore. Il tutto, dopo essere stato filtrato col
«cularöl» (pezzo di tela bianca e resistente), sarebbe stato versato nel
«sòi» in cui era già stata messa la biancheria passata con la lisciva. Questo
«shòi» aveva un buco sul fondo di modo che l'acqua usciva e veniva raccolta in una
«shuìnô» (piccolo mastello) e da lì nuovamente versata nel paiolo a far
bollire. E così per diverse volte. Quindi si passava alla sbattitura della biancheria
sulle assi in modo che lo sporco si muovesse e mano a mano si continuava a «'nsuià» (mettere
nel «sòi»).
La biancheria veniva stesa sulle corde che gli uomini avevano già preparato nei prati ben
sostenute da appositi pali. |
Chi che fàbricô
n inverno
i fàbricô n etèrno |
Chi fabbrica in inverno fabbrica in
eterno.
Detto dei muratori. La temperatura invernale è ideale per una buona presa del cemento,
mentre col caldo bisogna continuare a tenerlo bagnato. |
Chei che gh'à
l mistér en mà
i rèstö mìô shènsô pa |
Quelli che hanno un mestiere in mano
non restano senza pane.
È detto, come consiglio, a chi si avvicina all'attività lavorativa: chi impara un
mestiere non resta senza clienti. «Chei che gh'à l mistér en ma
i la óltô e i la pìrlô a shò möt» (Quelli che hanno il mestiere in mano
la voltano e la girano a loro modo). è un altro modo per dire che chi ha un lavoro in
proprio, ha il coltello dalla parte del manico e, se vuole, è capace di farti credere la
sua verità.
Immaginando di trovarci di fronte ad un fallimento dell'attività produttiva, e giocando
col doppio senso, delle parole, «èl mistér» prende il significato di "pene"
e questa espressione ironizza abbastanza pesantemente su chi è stato incapace e «'l büzô shö» («buca su», fallisce). |
Chei che laùrô
i gh'à na camìzô,
chei che laùrô mìô
i ga n'à dò |
Quelli che lavorano hanno una camicia,
quelli che non lavorano ne hanno due.
Chi lavora ha caldo, chi non lavora ha freddo ed ha bisogno di doppi indumenti.
Altro significato: chi lavora, il povero, può avere solo l'essenziale, mentre chi non
lavora, il ricco, può permettersi... |
Chei che stìmô
i crómpô mìô |
Quelli che stimano non comperano.
Si dice del mediatore. È usato anche per dire che la buona amicizia non diventa mai
amore. |
Chei scartàcc del
Guèrno
g'è bu
gnè d'istàt, gnè d'invèrno |
Quelli scartati dal Governo non sono
buoni (validi) né d'estate né d'inverno.
Ormai si dice per riderci su, ma essere esonerati dal fare il militare significava avere
proprio una seria limitazione fisica, morale o intellettuale e perciò incapaci anche di
lavorare. |
Chel del mistér
el pöl dì l sò parér |
Quello (che è) del mestiere può dire
il suo parere.
È competente. |
Chi che 'à shö,
chi che 'à zó,
chi che rèstô a cül büzù(*) |
Chi va su, chi va giù, chi resta
(*a cül büzù = è la posizione di quando si è piegati in avanti a novanta gradi.
«Büzù», nel significato di "fortunato", ora è in disuso e al suo posto si
dice «cülatù» (culattone). "Busone", in Romagnolo significa sia
"omosessuale" che "fortunato" ed il doppio significato è
riscontrabile anche nel nostro «Chè cül!» (Che culo, che fortuna!). Il detto
sottolinea le alterne fortune della vita. La vita è fatta a scale, c'è chi scende e c'è
chi sale ...e chi resta a mezz'asta. |
Chi che öl fa ergótô
i tróô l sistémô,
chi che öl fa negótô(*)
i tróô la scüzô |
Chi vuole fare qualcosa trova il
sistema, chi non vuol far niente trova la scusa. |
Che 'n fét d'i
shólcc...
che i-a bècô gnè le galìne! |
Cosa ne fai dei soldi... che non li
beccano neanche le galline!
Si dice per sottolineare un eccessivo attaccamento al denaro. |
Chi che öl prüà
le péne de linfèrno
i faghé l cógo distàt
e l caretér dinvèrno |
Chi vuol provare le pene dell'inferno
faccia il cuoco d'estate ed il carrettiere d'inverno.
A Colombaro la figura del «cógo» è frequentemente sostituita da quella del «fugarì»
che, nel lavoro delle fornaci, è l'addetto all'alimentazione del forno per la cottura dei
mattoni. |
Chi che rispàrmiô
gnè n dos gnè n bócô
i sha shàlvô mai nigótô |
Chi non risparmia né indosso né in
bocca non si salva mai niente.
Non invidiare lo spreco. |
Chi gh'à shólcc
i fa shólcc |
Chi ha i soldi fa soldi.
Chi ne ha può farli fruttare. Investi i tuoi talenti. |
Chi nó i la mizürô
nó i la dürô
(e chi i la dürô i la èns) |
Chi non la misura non la dura (e chi la
dura la vince).
è una piccola lezione di risparmio. Usa le risorse con oculatezza e parsimonia. |
Co le ciàcere
bói mìô la pignàtô |
Con le chiacchiere la pentola non
bolle.
Servono fatti, non parole. |
Co le mìgule
sha manté la ca |
Con le briciole si mantiene la casa.
Non sprecare. |
Coi sólcc en bórsô
ta fét balà lórso e lórsô |
Con i soldi in borsa fai ballare l'orso
e l'orsa.
Chi ha i soldi può far quel che vuole. «Ta fét cantà a l'òrp»
(fai cantare anche l'orbo) dice qualcun altro.
Più chiaro è: «Coi sólcc sha fa töt, e shènsô sha fa nient del
töt» (Con i soldi si fa tutto e senza si fa niente del tutto). |
...Cumpagn de
cagà n de la shés
col cül de förô |
...Come cacare nella siepe (stando) col
culo di fuori.
Si dice ironicamente di un lavoro incompleto, di cose fatte a metà o di cose concepite
male e fatte peggio, di chi riesce a palesare anche ciò che avrebbe voluto tener
nascosto. |
Dàgô dét
a mànec mölô(*) |
Dagli dentro (*a mànec mölô =
velocemente come quando fai girare la manovella della mola).
La mola è una pietra rotonda con al centro un perno che serve a tenerla in equilibrio su
un apposito cavalletto e che viene fatta girare con la manovella attaccato ad una
estremità del perno. L'affilatura di roncole e lame varie è affidata alla capacità di
chi sa dosare la passata della lama sulla pietra che deve essere tenuta bagnata, ma anche
dalla velocità costante che deve mantenere chi è addetto al suo movimento. Accelerare o
rallentare improvvisamente la velocità, oltre a «brüzà» (bruciare, surriscaldare
il ferro) o «'mpecà» (fare delle tacche che tolgono l'affilatura), può
provocare ferite a chi tiene l'attrezzo.
Il detto richiama questa tenuta di ritmo, sollecitando un ritmo sostenuto e costante.
Questa pietra non era difficile da trovare.
Gabriele rosa in "Storia del bacino del lago d'Iseo" dice che già
dal 1279 i signori Lantieri, possedevano cave di pietra arenaria per arrotini, "le
molere", da cui deriva il nome della località tra Paratico e Capriolo «...nel
monte "Romenino" (ora Roveda)», cioè su quello che noi oggi chiamiamo
Monte Alto. Dal 1400 si comincia a cavare quell'arenaria grigia del periodo cretaceo (era
mesozoica) "a grani quarzosi o calcari con cemento argilloso" per abitazioni
civili che va sotto il nome «prédô de Shàrnec» (pietra di Sarnico). |
De töt...
e pò amò |
Di tutto... e poi ancora.
Si usa per dire: «Tanto e abbondante». |
Dumàndegô al gat
she lè bu l làt |
Domanda(gli) al gatto se è buono il
latte.
Non chiedere consiglio alla persona sbagliata. Vai a chiedere un parere proprio alla
persona che ti darà una risposta solo in funzione del suo interesse? «L'è
come dumandàgô a l'ustér se 'l vì l'è bu» (è come domandare all'oste se
il vino è buono). |
el bel ciapà
lè n bu spènder |
Il bel prendere è un buon spendere.
Un bel guadagno, si dice, ti permette (o ti mette sull'occasione) di spendere, ma
attenzione perché... |
el "bu mercat"
el vödô l bursì |
Il "buon mercato" vuota il
borsellino.
Qui costa poco, là è in offerta, conviene, è un'occasione... finché il borsellino «'l
sbaràciô» (sbadiglia).
E poi, attenzione perché: «Bu e a bu mercàt i và mìô decórde»
(Buono e a buon mercato non vanno d'accordo). |
el calt de l
lensöl
el fa mìô bóer la pignàtô |
Il caldo del lenzuolo non fa bollire la
pignatta.
Se sei a letto e dormi non combini niente di buono. Poltrone! Scansafatiche!
Gli ammalati sono giustificati, ma restano improduttivi. |
el cóstô
'n öcc del có |
Costa un occhio della testa.
Costa caro. |
el fa
'l mistér del Michelàs:
maià, béer e nà a spàs |
Fa il mestiere del Michelaccio:
mangiare, bere e andare a spasso.
Il fannullone.
Certamente non apparteneva a questa categoria «Giuanì de Predùr», l'uomo che vendeva
la "spolverina", pietra "suca" macinata fine come sabbia per lucidare
cucchiai e posate che una volta erano di ottone. Chi voleva lucidare il rame,
generalmente, lo faceva da sè con aceto, sale e crusca o farina di granoturco. |
el gh'à bütàt vià 'l
capèl |
Ha buttato via il cappello.
Si dice di un affare che è costato, ma ne è valsa la pena. Si usa in modo ironico verso
l'avaro che "piange" sulla piccola spesa. |
el gh'à piö
gnè 'n credo |
Non ha più neanche un credo.
è talmente preso, dagli impegni o dal lavoro che non ha più tempo neanche per un
"Credo", per una preghiera. |
el laurà fat per
fórsô
l val 'na scórsô |
Il lavoro fatto per forza vale una
scorza.
Non vale niente. Nella migliore delle ipotesi ha poca sostanza esattamente come la buccia
di un frutto o la corteccia di una pianta. |
el l'à pagàt
'na cansù de carneàl |
Lo ha pagato (quanto) una canzone di
carnevale.
Poco o niente. |
el laurà
l còpô i véshe |
Il lavoro ammazza i vizi.
Quando lavori non hai tempo per pensieri strani. |
el laurét del ràô(*)
a maià l südàô
e a laurà l zelàô |
Il lavoratore del (*) a mangiare sudava
e a lavorare gelava. (*«Ràô», letteralmente "rapa", qui significa
"chiacchierone", ma è ciò che rimane del modo di dire «...la
ràô e la fàô» (...la rapa e la fava) che sta ad indicare chi non lavora
e si perde in chiacchiere).
Chi non lavora, ma si dà da fare a tavola. Questo detto rende bene ed in maniera ironica
l'immagine di colui che fa le cose in modo sbagliato.
Sempre a proposito del «laurét del ràô» qualcuno dice: «Quan' che 'l sul el tramuntàô, lü 'l cuminciàô» (Quando il
sole tramontava, lui cominciava). Tutto diventa più esplicito quando, più
frequentemente, si dice... |
Quan che l
sul el tramóntô
l catìf laurét el spóntô |
Quando il sole tramonta il cattivo
lavoratore spunta.
Il vero lavoratore, al tramonto, è stanco o, meglio, «l'è ulòt» (come una olla
svuotata). |
el pa d'i óter
el gh'à shèt cröste
e shèt crüstù |
Il pane degli altri ha sette croste e
sette crostoni.
Lo dice il «famèi» (famiglio) e, come lui, tutti coloro che lavorano alle
dipendenze. Il pane che si guadagna sotto gli altri è molto duro. |
el sólt piö bel
guadignàt
lè chel risparmiàt |
Il soldo (più bello) meglio guadagnato
è quello risparmiato.
Risparmiare è il primo investimento. Si dice anche: «ògne palàncô
risparmiàdô lè dói vólte guadignàdô» (Ogni "palanca",
soldo o lira risparmiata è due volte guadagnata). |
el sólt sótô l
purteghèt
lè shant e benedèt |
Il soldo sotto il portichetto è santo
e benedetto.
Il lavoro in casa (artigiano) o vicino a casa non crea i disagi delle trasferte dei
pendolari. Si usa anche tra i contadini per dire che non c'è più l'ansia di prima
perché, ora, il raccolto è finalmente al sicuro. |
el val 'na cìcô de
bàgól(*) |
Vale una (*è detto «Bàgol» quel
che rimane nel fornello della pipa dopo un esauriente sfuttamento del tabacco e cioè una
piccola quantità, una «cìcô» (pallina) di tabacco umido e incombusto. Questo
"scarto" era poi «cicàt» (masticato per un po' e poi sputato) dagli
stessi fumatori o ceduto ad altri accaniti masticatori di tabacco. Oggi si dice «cìcô»
al mozzicone di sigaretta e alla gomma da masticare).
Di nessun valore. |
en de l mestér
del pescadùr,
na fürtünô e shèt dulùr |
Nel mestiere del pescatore, una fortuna
e sette dolori.
Più la fatica che la fortuna.
Gabriele rosa (Storia del bacino del lago d'Iseo) afferma che «...nel 1888
erano impiegati per la pesca 153 battelli (naec) a due remi governati da due persone...».
Il «naèt», imbarcazione tipica dei pescatori del lago d'Iseo, oggi è conosciuto più
che altro per le competizioni sportive che si svolgono in estate sul lago. |
en laùr fat en frèshô
l val na sbèshô |
Una cosa fatta in fretta vale una cispa
degli occhi.
Si mostra con vergogna. Inutilizzabile. Si può solo buttare. |
èndem ó tèndem
(i dìs i mistér) |
Vendimi o sorvegliami (dicono i
mestieri).
Un mestiere va fatto come si deve. Si dice a chi non sa prendere una decisione: «...o
sì, o no». |
Fa i mestér
a la ruèrsô |
Fare i mestieri alla rovescia.
Senza un ordine logico. Male. Da rifare. |
Fa e desfà
lè töt laurà |
Fare e disfare è tutto lavorare.
Sarebbe l'estrema sintetizzazione della teoria economica Keynesiana. Ma è una frase
autoironica usata da chi si vede costretto, suo malgrado, a rifare un lavoro già fatto. |
Fa ndà
la ròbô a égher(*) |
Far andare la roba a (*égher =
incolto, inutilizzato a male).
In malora. Per dire che si vanifica uno sforzo. |
Fidàs puchì del padrù
che l fa l mignì(*) |
(C'è da) fidarsi pochino del padrone
che fa il (*mignì, o «minì» è diminutivo di «mógnô» e significa persona di
poco conto, inoffensiva; letteralmente è «cencio molle del lavandino» - vedi "Nuovo
vocabolario ortografico bresciano" di Giovanni scaramella).
In questo caso «mignì» significa gattino ed è comunque un termine che si usa per
indicare il falso indifeso. Del padrone non devi fidarti mai, neanche quando fa il buono
o, addirittura, fa le fusa come i gatti.
Si sente dire anche: «el padrù l'è come 'l ca, she 'l pìô mìô 'n
cö 'l pìô dumà» (il padrone è come il cane, se non morde oggi morde
domani). |
Gacc enquaciàcc(*)
nó i ciàpô racc |
Gatti (*) non prendono topi (*«enquaciàcc»
o «'ncuciàcc» significa accosciati, seduti sulle gambe posteriori).
Datti da fare! |
I frà de Shaià,
coi gra,
i gh'à fat
shènto zèrle de 'ì |
I frati di Saiano, con i grani (acini
di uva), hanno fatto cento gerle di vino.
Una gerla sono 50 litri. è un detto facile a sentirsi nel periodo della vendemmia e
sollecita l'attenzione nel maneggiare i grappoli d'uva. Una volta non si mettevano nei
secchi di plastica, come oggi, ma nelle ceste di vimini da dove il succo perso dal
grappolo maneggiato incautamente, si sarebbe sicuramente perso.
I frati Olivetani di Saiano (ma anche i Carmelitani di Adro, i Frati dell'Annunciata di
Rovato e qualcuno che veniva da Cividino) erano molto conosciuti perché, pur lavorando la
terra, passavano di casa in casa col loro sacco a spalle e "chiedevano la
carità" (frumento, granoturco, vino...) ma erano famosi per la grande quantità di
vino prodotta con la paziente raccolta degli acini lasciati in giro durante la vendemmia.
La gerla è detta anche «brèntô». |
I giurnài g'è come
i àzegn del mulinér:
chel che ta ga mètet i pórtô |
I giornali sono come l'asino del
mugnaio: quel che ci metti portano. |
I malfàcc, töcc i a
èt
(e 'l tép i la èt nishü ) |
I (mestieri) malfatti, tutti li vedono
(e il tempo non lo vede nessuno).
Lavora bene perché le cose fatte male si vedono. Se sbagli è un lavoro fatto per niente
ed il tempo che impieghi in più per riparare all'errore non si vede. |
I shertùr
i gh'à le bràghe róte |
I sarti hanno le braghe rotte.
Sono i sarti bravi: han talmente tanto lavoro che non hanno il tempo per aggiustare i
propri pantaloni. Si dice anche dei calzolai che, per lo stesso motivo, avrebbero le
scarpe rotte. |
I shas
i ga 'à ré a lé müràche(*) |
I sassi vanno a finire con le
(*müràche = muri a secco).
Fateci caso. Se trovate sulla vostra strada un sasso, gli date un calcio e lo sbattete
contro un muro. Il detto significa che dove ce n'è già abbastanza ne va ancora, come
"l'acqua al mare" o "la pioggia sul bagnato". I piccoli sono sempre
all'ombra dei grandi, nel bene (difesi) o nel male (oppressi). |
I shólcc del zöc
i tùrnô 'ndré al sò löc |
I soldi del gioco ritornano al proprio
luogo.
«Löc» ha anche un significato più ampio. Si può usare per: "cortile, casa con
cortile, insieme di famiglie abitanti in un unico agglomerato di case con un unico
cortile" (ma era altra cosa rispetto alla vita negli odierni condomini).
Da noi, i «löc» erano facilmente individuabili perché avevano i nomi delle località o
delle famiglie che li abitavano.
Ritornando al detto: «Non ti illudere dei guadagni troppo facili e non sudati». |
I ustér i sha mai
she fa l vì
o schishà lóô |
Gli osti non sanno mai se fare il vino
o schiacciare l'uva.
Una volta gli osti compravano l'uva e si facevano il vino. Oggi che non schiacciano più
l'uva, hanno sì il vino, ma...
Quando il vino era annacquato si diceva che era «'na sbrómbô». |
La régulô
la manté l cunvènt |
La regola mantiene il convento.
Di che ti lamenti? La regola vale per tutti e permette al "convento" di vivere. |
Làshegô fa i füs
a chei che g'è üs |
Lascia fare i fusi a quelli che sono
usi.
"Come era difficile filare la «baèlô», cioè la bava, lo scarto della seta dei
bozzoli!"
Nell'odierna organizzazione del lavoro, questo lavoro sarebbe sicuramente classificato tra
quelli più qualificati, da esperto.
«..."Füs" a Pisogne e a Sarnico erano luoghi ove fondevasi il ferro, e dal
nome ove estraevasi, chiamossi Fusia l'antico canale... Prima della scoperta dell'America
e dello sviluppo della siderurgia nell'Inghilterra e nella Germania i valori comparativi
dei metalli preziosi e del ferro e del rame, erano assai più elevati e consigliavano
quindi la coltivazione ovunque se ne trovassero tracce, anche nei monti cingenti il
Sebino. Specialmente del ferro, della cui coltivazione rimasero segni sul Gölem
(Guglielmo), sul Burunsù (Bronzone, nell'antico tedesco "Burun" = ferro), sul
monte di Iseo, su quello di Clusane, a Viadanica. Si fondeva in piccoli forni detti
"Sabbattini", perchè chiudevansi il sabato, e s'abbandonavano quando s'esauriva
il carbone tratto dalle selve e dai boschi vicini.» (Gabriele rosa "La storia
sul bacino del lago d'Iseo").
Fosio è il nome della località che si trova all'emissario del lago d'Iseo ed il
vecchissimo canale irriguo che si trova alla bocca dell'Oglio, sotto il monte Fuso di
Paratico, si chiama Fusia. L'opera di canalizzazione fu rinnovata ed ampliata nel 1369 da
Cristoforo Oldofredi di Iseo nonostante l'opposizione di Chiari che temeva un dimagrimento
della sua Seriola "Vetera".
Torniamo a noi. Il detto si riferisce a chi, senza perizia, cerca di riparare qualcosa o
tenta di rimediare a situazioni instabili, ma non fa altro che peggiorare la situazione. |
La matìnô
la àidô l dé |
La mattina aiuta il giorno.
Le energie fresche del mattino rendono più produttivo il lavoro perciò bisogna
sfruttare la prima parte della giornata. |
Lè bàshô la
tèrô! |
è bassa la terra!
Lo si dice ironicamente a chi non ha voglia di lavorare, a chi non vuole piegare la
schiena, a chi non ha voglia di "abbassarsi" a fare un lavoro. |
L'è büzàt sö(*)
coi sólcc en scarsèlô |
è (*) coi soldi in tasca.
(*«büzàt sö», letteralmente è "bucato su" e significa fallito).
Si dice di un fallimento di comodo, di facciata, con un tornaconto. |
Lè mìô farìnô
she nó lè n de l sac |
Non è farina se non è nel sacco.
Non parlare finché non sei certo della conclusione positiva della cosa. Non vendere un
prodotto se non hai la certezza di poter poi tenere fede all'impegno contrattuale che ti
assumi. |
Lè mei en bröt
tacù(*)
che n bel sbragù |
è meglio un brutto (*) che un bello
strappo (* tacù = rattoppo). Al posto della tela gommata che si mette oggi nel letto
del bambino che soffre di enuresi notturna, di chi ha problemi di incontinenza o degli
ammalati, si usava mettere il «tacù», cioè quello spesso quadrato fatto di pezze di
tela bianca altrimenti inutilizzabile, cucite una sull'altra. Aveva l'unica funzione di
assorbire l'urina ed impedirle di penetrare nel materasso. Le capacità economiche di una
famiglia dipendevano in gran parte dall'abilità della donna nel saper riutilizzare tutti
gli avanzi, dalla cucina al vestire.
Nel gergo dei muratori «fa i tacù» fa capire che si è addetti ai lavoretti di poco
conto a causa del maltempo o della scarsità di lavoro.
Il proverbio sembra dire: «starà male, ma...».
Questo detto è in buona compagnia, infatti si dice: «La óciô e la
peshulìnô le manté la puarìnô» (L'ago e la pezzolina mantengono la
poverina); «Lis e lis, en và aànti amò 'n bris» (con
due pezze lise, andiamo avanti ancora un pochino); «Mei pèshô
diferènt che 'n bel büs de ardà dent» (meglio pezza differente che un bel
buco da guardarci dentro). |
Lè mórt de fam
col pa n scarsèlô |
è morto di fame col pane in tasca.
Si dice del fannullone. Era così scansafatiche che non ha fatto neanche lo
"sforzo" di prender il pane che aveva in tasca.
è anche l'avaro che, pur avendo le possibilità, non le usa per risparmiare... fino
all'osso, ma si usa soprattutto per sottolineare l'imprevidenza nell'uso delle risorse
disponibili. |
Lòm dei sènto
mestér
lè n braghér(*) |
L'uomo dai cento mestieri è un
(*braghér = inetto, scansafatiche, persona da poco).
Chi vuole fare troppe cose non riesce a concluderne proficuamente neanche una. |
Lòm lè
l ciós,
la fónnô lè la shés |
L'uomo è il campo, la donna è la
siepe.
è un'immagine poetica della divisione dei compiti all'interno della famiglia. L'uomo,
come il campo, produce e la donna, come la siepe, fa da argine, cioè risparmia, controlla
le uscite. |
Maià fò ca e ciós(*) |
"Mangiar fuori" (vendere)
casa e campi (*«ciós» viene da "chioso", che significava campo recintato,
chiuso).
Vendere tutto ciò che si ha. Restare sul lastrico. |
Maià fò la pàiô de
'l bast |
Mangiar fuori la paglia dal basto.
L'esempio dell'asino che mangia la paglia che imbottisce il suo basto, la sella rustica
per bestie da soma, è un richiamo al buon senso, a rivedere criticamente una conduzione,
che si giudica scriteriata, di un affare. |
Nà co la mà deré |
Andare con la mano di dietro.
Peggio che chiedere la carità. Si dice quando si è in una posizione di netta
subordinazione per lamentarsi che la paga, il compenso, è insufficiente e si va a batter
cassa con l'idea che, arrivati a quel punto, "quel che butta... butta!". |
n de 'l bel de
uzèlà
gh'è scapàt la shiètô |
Nel bello di uccellare è scappata la
civetta.
Si dice quando pensi di aver già concluso un affare ed invece, all'ultimo momento,
sfuma. |
ndó che nó gh'è
rezù
lè nütèl fa quis-ciù |
Dove non c'è ragione è inutile fare
questioni.
è inutile discutere con chi non vuol sentir ragioni. |
Ògne peshàdô n
de 'l cül
la pórtô aànti n pàs |
Ogni calcio nel culo porta avanti un
passo.
Qualche soldino in più, anche se è cosa da poco, è comunque un andare avanti. |
Òiô de laurà
shàltem adòs! |
Voglia di lavorare saltami addosso!
Si dice interpretando l'atteggiamento dello scansafatiche. |
Per tègner a mà
n ciót
sha nsòpô l caàl |
Per risparmiare un chiodo si azzoppa il
cavallo.
Questo non è risparmio! La tirchiaggine è antieconomica. |
Pèrder...
l'è fredèl de piànzer |
Perdere... è fratello di piangere.
E chi vorrebbe perdere? Ma per riuscire a stare nel bilancio devi fare una buona
programmazione ed essere rigido nella sua realizzazione. |
Piöme de uzilì,
pél de ligursì
e pescà co lam,
g'è mistér de mörer de fam |
Piume di uccellino, pelle di leprotto e
pescare con l'amo, sono mestieri da morir di fame.
Andare a caccia e pescare senza la rete, sono passioni da perdigiorno perché
non
producono reddito. |
Pochèti, ma tochèti(*)
ciàpô e scàpô |
Pochetti ma (*) prendi e scappa.
(*tochèti = concreti, toccabili, palpabili, immediati).
è meglio prendere pochi soldi subito piuttosto che sperare di averne tanti... chissa
quando. Come dire: "Meglio un uovo oggi che una gallina domani". |
Quat defà...
e l'è mai sérô |
Quanto (darsi) da fare... e non è mai
sera.
Così si dice di chi porta avanti contemporaneamente ed in modo disordinato molte
iniziative col risultato di non concluderne efficacemente neanche una. Non finisce più. |
Scàpô Shignùr
che gh'è sha i müradùr |
Scappa Signore che ci sono qui i
muratori.
Quando i muratori entrano in casa, dicono le donne, sporco, polvere e disordine sono
garantiti. |
Sha cumìnciô de
nsìmô
a tègner a mà la farìnô |
Si comincia da sopra, dall'inizio, a
risparmiare la farina.
A fare economia si comincia quando si ha ancora qualcosa, cioè da subito. L'economia di
chi ha poco o niente è "causa di forza maggiore". |
She ta pöt mìô fa
come ta öt,
fa come ta pöt |
Se non puoi fare come vuoi, fai come
puoi.
Secondo le tue possibilità. |
Shö l fet
el tumpèstô mai |
Sull'affitto non tempesta mai.
Così dice con rabbia il conduttore che vede il suo raccolto decimato o distrutto
dall'inclemenza del tempo, ma deve corrispondere comunque l'affitto che per il locatore è
una rendita sicura. |
Sta schìs(*) |
Stare (*schìs = schivo, colui che
non vuole apparire).
Dare qualcosa col contagocce. Essere risparmiatore, avaro, troppo cauto nello spendere. |
Stupelà(*) |
Pagare in natura (*«stupelà» dal
tedesco "stoppeln" che significa spigolare, racimolare il grano).
I «casharì» (mugnai) di una volta erano molto preziosi perché
col loro
mulino macinavano frumento e granoturco per tutto il paese; qualcuno pestava anche l'orzo
che i nostri vecchi usavano per fare la minestra come oggi si usa fare col riso. La gente
diceva che i mugnai «i stupelàô 'n pó tròp» e, a proposito, aveva anche inventato
una specie di giaculatoria: «Shàntô Marìô benedètô... dàmen
amò 'na palètô» (Santa Maria benedetta... dammene
ancora una paletta).
Giovanni scaramella (Nuovo vocabolario ortografico bresciano) scrive: «"Stopèl";
misura per cereali di cui si è perso il valore / lo usavano i montanari quando
scambiavano, con i contadini della bassa, castagne e noci con frumento e granoturco»,
ma da noi lo «stupelà», era una specie di baratto per pagare in natura il mugnaio,
"codificato", ad esempio, in sei chilogrammi di farina per quintale di frumento. |
Tègner a mà de la
spìnô
e lashà nà del burù(*) |
Tenere a mano dalla spina e lasciar
andare dal (*«burù» significa cocchiume, grosso turacciolo di legno per botti e
mastelli).
Tieni d'occhio e ti preoccupi delle gocce e non ti accorgi delle perdite più importanti. |
Tö le ca fàde
e i teré desfàcc |
Prendi le case fatte ed i terreni
disfatti.
Le case fatte sono un costo certo, non si acquista al buio; i terreni disfatti costano
poco.
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