A ardà la lünô
sha 'à n de l fòs |
A guardare la luna si va nel fosso.
Non montarti la testa! Bada a quel che fai! |
A nüminà l
Diàol
cumparés la pèl |
A nominare il diavolo compare la pelle.
Si dice quando, imprevista, vedi comparire, quasi materializzare, la persona di cui stai
parlando con qualcuno. |
A ìghen 'na
còlô...(*) |
Ad averne una (*còlô = è quel
fazzoletto di terra «nculmàdô» (rincalzata), cioè a forma di dosso ed ai
cui lati ci sono due solchi che permettono di avvicinarsi agevolmente).
Questo detto fa riferimento alle «grèm» (gramigna) contro le quali, chi lavora
nell'orto, deve continuamente lottare: averne una o due va bene, averne una «còlô»,
non se ne viene più a capo. Per dire di non fidarsi della tal persona si dice che «l'è malégn come le grèm» (è maligno come la gramigna). |
el và a béshô bóô |
Va a zig-zag.
È l'andatura tipica degli ubriachi. «A béshô bóô» sono le strade di montagna. |
A maià candéle
sha càgô stupì. |
A mangiar candele si cacano stoppini.
Quel che si semina si raccoglie. Se parli male degli altri... ti ritrovi con qualcosa di
indigesto. «Chel l'è a' de shaì» (quello è da sapere) aggiunge chi improvvisa
un commento in rima. |
A pishà cùtrô ènt
sa mìshô shô le bràghe |
A pisciare contro vento ti bagni i
pantaloni.
Si dice quando non si fanno le cose «shö 'l sò rét» (sul loro dritto) come si
dovrebbe; non sfidare cose più grandi di te. |
A sbaglià sha
mpàrô |
A sbagliare si impara.
Non scoraggiarti, non tutto viene per nuocere. |
A sta férem
sha fa la möfô
e sha deèntô 'nférem |
A star fermi si fa la muffa e si
diventa infermi.
Più che una constatazione, questo è un ammonimento diretto a chi rimane inattivo, allo
scansafatiche, a chi non lavora. |
Ardóm mò!? |
Può significare sia «verifichiamo,
controlliamo» che «visto!?...chi aveva ragione?». |
Bandiérô rótô
lè lunùr del capitàno |
Bandiera rotta è l'onore del capitano.
Ha fatto qualcosa... e si vede. Si usa in senso ironico nel giudicare disastrosa
l'attività di qualcuno. Sarebbe come dire: «è cosa di cui va fiero, ma...».
|
La bàrbô 'nsaunàdô
l'è mèzô fàdô |
Barba insaponata è mezza fatta.
Come in italiano si direbbe: «Chi comincia è a metà dell'opera», ma, si
sottintende, non si può vivere di rendita e compiacersene troppo perché c'è ancora
l'altra metà da fare. |
Bàter el bastù
per la zèrlô |
Battere il bastone per la gerla.
Fingere di sapere o non sapere qualcosa per riuscire a sapere da altri. Tanti giri di
parole per non dire la verità. |
Burlàgô n bócô
al luf |
Cadere in bocca al lupo.
Cadere in trappola. |
Che dìtô...! |
Che ditta...!
Che tipo! Si dice della persona sveglia, furba e intraprendente. Assomiglia molto a «che gàgio!», ma la "performance" del «gàgio» è più
rara ed estemporanea. Con lo stesso significato si dice anche: «Che
cérô», «che cerulìnô», «che cartulìnô» (che cera, che cera da furbo,
che cartolina). |
Che fét che fói |
Che fai che faccio.
Ogni poco. È un intercalare simile a «óltet pìrlet» (girati
e rigirati). Altri intercalare usati sono: «tim-tóm - tim-tam»,
«tìrô mòlô e tambàlô», «nèh!?» e al più classico «pòtô»
usati a seconda del momento. |
Chel che 'à mìô
n sölô,
l va n tumérô |
Quello che non va in suola va in
tomaia.
Come ogni pezzo di cuoio viene usato per fare tutte le parti della calzatura, così, per
ogni situazione, si deve trovare la giusta sistemazione usando in modo appropriato ed
efficace la realtà. |
Chel prüibìt
lè l piö gradìt |
Quello proibito è il più gradito.
Il gusto del proibito. Le regole sono fatte anche per essere infrante. |
Che Talécc...! |
«Talécc», plurale di «talét» =
talento, nel senso di cosa rara, fuori dall'ordinario. Voglia).
Essere "affetti" da un insistente desiderio di qualcosa di particolare, ad
esempio di una primizia. Le donne incinte sono le più famose "vittime" dei
«talécc». Più la voglia è strana, più il tono di questa esclamazione prende il
significato di "Che pretesa assurda!".
«Talécc» sono dette anche le "voglie", le macchie della pelle. |
Chi capés
cumpatés |
Chi capisce compatisce.
Mettersi nei panni dell'altro. In una contesa, a volte, chi si ritira dimostra più
maturità e buon senso. |
De che e là...
chishà che scarpe che i vüzô |
Da qui a là... chissà che scarpe
useranno!
È inutile preoccuparsi ora, cercando di prevedere quel che succederà; dobbiamo agire
tenendo presente la realtà di oggi. |
Chi öl vàghe,
chi nó öl mànde |
Chi vuole vada, chi non vuole mandi.
Se vuoi definire una situazione devi andarci di persona. Solo tu puoi badare proficuamente
ai tuoi interessi. Se, invece, non hai premure, né di tempo né di contenuti, manda pure
qualcun altro. |
Ciapà 'l sac en sìmô |
Prendere il sacco in cima.
Cercare di chiudere una questione fingendo di non sapere cosa c'è dentro ed evitando di
affrontare le situazioni che hanno fatto nascere la controversia. |
Ciapàl sot gàmbô |
Prenderlo sotto gamba.
Essere superficiali nel valutare qualcosa. Prendere troppo alla leggera. |
Ciàpen en óter |
Prendine un altro.
Mi hai preso per stupido? Non sono un allocco. Non raccontar balle! |
Col tép e co la pàiô
madürô i nèspoi |
Col tempo e con la paglia maturano le
nespole.
Le nespole venivano raccolte quando il frutto era pieno, ma non ancora maturo.
Perché?
Non so se c'è un'altra motivazione, ma una volta la frutta non marciva sugli alberi come
succede oggi, anzi, andava letteralmente "...a ruba". Per diventare mature, le
nespole, si dovevano tenere al caldo nel fieno o nella paglia. Bisognava avere pazienza.
«...ga öl el sò tép, ...zèrp i lìgô: pègio del caco e del codóm!» (...serve
il suo tempo... mangiate acerbe legano la bocca: peggio del caco e della mela cotogna!) si
commenta. |
Come sha dìs a chèlô |
Come si dice anche quella.
Tanto per dire. Il gusto di chiacchierare del più e del meno o, come si dice, «fa 'na partìdô a lènguô» (fare una partita a lingua). |
...Cumpàgn de nà
a shercàgô le pistóle ai frà |
...è come andare a chiedere le pistole
ai frati.
È assolutamente impossibile. Considerazione che si fa dopo un tentativo che ha avuto un
esito negativo. È perfettamente inutile pregare chi non vuole o non può esaudire la tua
richiesta. |
Dàgô de óltô! |
Dagli di volta!
Fatti rivedere! Vai a vedere, a verificare! Datti da fare! |
Dàgô l pàshô
là |
Dargli il "passa là"
Non dare la dovuta importanza. Essere superficiale nella valutazione di una cosa o di
una situazione. |
Dì mìô gat
she ta ga lét mìô n de l sac |
Non dire gatto se non l'hai nel sacco.
Non parlare prima del tempo, non tirare conclusioni affrettate. Si dice anche «Dì mìô pa, she nu ta ga l'ét en bócô» (Non dire pane,
finchè non l'hai in bocca).
|
Disgràs-ciô férmet
lé |
Disgrazia, fermati lì.
Poco male. Tutto lì? Se fossero così tutte le disgrazie... |
Du gài en de n
pulér
i va mìô decórde |
Due galli in un pollaio non vanno
d'accordo.
E, con tono apodittico, si commenta: «el prét e 'l cüràt... o dò spùze, en de 'na
ca, i pöl mìô nà aànti tat shènsô becàs» (Il prete e il curato... o due
cognate, in una casa, non possono andare avanti tanto senza beccarsi). |
el ca che bàiô
l pìô mìô |
Il cane che abbaia non morde.
Le persone che parlano troppo non passano mai alle vie di fatto, ma dicono solo:
«Bisognerebbe...» |
el capés
Tóne per Batéstô |
Capisce Antonio per Battista.
Non capisce proprio niente! È addirittura peggio di quello che «l
capés Rómô per tómô» (Capisce Roma per toma). |
el Diàol
lè mìô isé bröt come i la tèns |
Il Diavolo non è così brutto come lo
dipingono.
Guardando a fondo, la cosa non è poi così male. |
el ga n'à dat 'na
shanàdô... |
Gliene ha dato una (*shanàdô, da
shanà = evirare, castrare. Per esteso ogni intervento fatto con l'intento di modificare
radicalmente, di dare un taglio netto ad una certa situazione).
È la constatazione di eventi devastanti come lo possono essere la tempesta sulle
colture e le "botte da orbi". |
el gh'à ciciàt fò la
miòlô |
Ha ciucciato fuori il midollo.
Spremere, prosciugare, sfruttare fino all'osso tutte le energie esistenti, anche quelle
vitali. |
el gh'à dat è 'l gh'à
dìt
en fin che... |
Ha dato e ha detto finchè...
La tenacia è premiata. |
el gh'à dìt gnè bif
(gnè baf) |
Ha detto neanche bif (né baf)
Si dice di chi «...che cìpô mìô», cioè di colui che non parla, che non apre bocca,
neanche per fare "cip" o "bif" o "baf". Restare allibito.
Colto di sorpresa. Non ha nulla da dire perché è in grave torto. Si dice anche «el gh'à gnè bufàt» (non ha neanche fiatato). |
el gh'à 'l föc en de
'l cül |
Ha il fuoco nel culo.
Pare che l'origine di questo modo di dire venga dall'antico uso di mettere la paglia
nel culo dell'asino e darle fuoco quando questo si intestardiva nel non muoversi ignorando
sia gli ordini del suo padrone che le bastonate.
Si dice ironizzando su chi ha sempre fretta. Per indicare la loro preoccupazione di non
perdere tempo si usano anche altre espressioni come «i pìshô a nà 'n nàcc» (pisciano
nell'andare avanti). |
el gh'à maiàt la
fòiô |
Ha mangiato la foglia.
Alludendo, si dice anche: «...L'è 'n caalér» (...è un
baco da seta). Ha mangiato la foglia: è cresciuto. Ha capito la situazione nonostante
i tentativi di confondergliela. È furbo. |
el la tignìô come
'n bràs de 'n Sant |
La teneva come un braccio di un Santo.
Tenere da conto, avere grande cura, come di una reliquia. |
el l'à nbucàdô
giöstô |
L'ha imboccata giusta.
Fortunato. È uno che «el ga sha n duè» (sa
dov'è). Ha trovato la strada giusta per raggiungere il suo obiettivo. |
el la sha gnè lü
cóshô fan d'i shò òs |
Non sa neanche lui cosa farne delle sue
ossa.
Si dice della persona indecisa su tutto. |
el gh'è pashàt sùrô |
Gli è passato sopra.
Non approfondire una cosa per dimenticanza, superficialità o per scelta. Far finta di
niente. |
el gh'è
e nu l ga par |
C'è e non appare.
Sembra una persona che non sa niente, sprovveduta o poco sveglia e invece, al momento
opportuno, sa farsi valere. È la sorpresa di chi giudica superficialmente la persona di
carattere schivo, che lavora ed è ben attento alla situazione, anche se non si fa notare. |
el ma 'n dàô 'l sànc |
Me ne dava il sangue.
Me lo sentivo. Ci avrei scommesso che sarebbe andata così. |
el ma fa üzürô |
Mi fa usura.
Mi fa una cattiva impressione. È conciato male. Disordinato, spaiato, consumato. |
el ma sta shö l
gós |
Mi sta sul gozzo.
Con questa frase si manifesta insofferenza verso qualcuno. Si sente il bisogno di
sfogarsi, di confidare a qualcuno una situazione che non si riesce a «mandà zó», a
digerire. |
el màiô a l ca
a menà la cùô |
Mangia anche il cane a menar la coda.
Lo dice chi vuol criticare una persona inattiva. |
el matutì(*) de le
pète |
Il (*) delle botte (*)«matutì»
letteralmente è "mattutino", ossia il primo suono delle campane che
annuncia l'arrivo del giorno; «matutì» è detto anche il martello che picchia sulla
campana. A Brescia «i matutì» sono «Tóne e Batéstô» (Antonio e Battista) detti
anche «i macc de le ùre» (i matti delle ore). Così i
bresciani hanno battezzato i due mori che, sopra il veneziano orologio di Piazza della
Loggia, segnano coi rintocchi il trascorrere del tempo. La parola «matutì» può essere
sostituita, con lo stesso significato, da «martilì» (martellino) o da
«matuchì» (picchiatello).
Si dice di chi prende molte botte: il capro espiatorio, la vittima predestinata,
l'incorreggibile, ecc.
|
el nigót
lè bu per i öcc |
Il niente è buono per gli occhi.
Si dice che solo negli occhi non ci deve essere proprio niente, ma per il resto non si fa
niente per niente. Per ogni prestazione, anche se fatta volentieri, ci vuole una
ricompensa, un riconoscimento. |
el pàgô dèbecc |
Il paga debiti.
È il bastone. |
el prüèrbe l
sbàgliô mai |
Il proverbio non sbaglia mai.
È l'esperienza della vita codificata con versi in rima. Sant'Agostino diceva: «Saepe
lingua popularis - Est doctrina salutaris» e Fra Jacopone: «Gli uomini dimandano - Detti
con brevitate - Favello per proverbii - dicendo veritate». |
el sa regórdô
gnè de 'l nas a la bócô |
Non si ricorda neanche dal naso alla
bocca.
Lo smemorato è rappresentato così. Una memoria brevissima come la distanza tra il
naso e la bocca. Altro modo per dire di un tempo breve è: «De Nedàl a
Shan Stéfen» (Da Natale a Santo Stefano). Di tempo non ce n'è quando si
dice: «De 'l bòt a l'önô» perché tra «'l bòt» e
«l'önô» non c'è differenza: entrambi indicano la prima ora. |
el scheèshô la
lìsnô(*) |
Spezza la (*lìsnô: dal germanico
"alisno" attraverso il gotico "alisna", in italiano lesina, è
l'attrezzo che il calzolaio usa per cucire a mano la calzatura).
Di chi non ha voglia di lavorare o lavora con poca resa si dice con ironia: «...nel suo
lavoro ci mette troppa foga». |
el sümèô gnè lü
chel del fato |
Non sembra lui quello del fatto.
Tranquillo, come se niente fosse. |
en cézô e n
cümü
i ga mète l nas nishü |
In chiesa e in comune non ci metta il
naso nessuno.
Non interessarti di cose più grandi di te. Non andare contro i potenti. |
en fiùr
el fa mìô prümô-érô |
Un fiore non fa primavera.
Non fare l'errore di generalizzare una situazione particolare: Approfondisci, non fermarti
alla prima impressione. |
en mancànsô de caài
g'è bu a i àzegn |
In mancanza di cavalli sono buoni anche
gli asini.
In caso di necessità bisogna pur trovare una soluzione anche se di ripiego. |
Fa le baìs(*) |
Fare le (*baìs è il figurato di
«raìs» radici).
È l'incertezza che dà una cosa nuova, ad esempio un lavoro, una compagnia, ecc.
Chiedendo il significato della parola una persona mi ha detto: «Chei che g'è nacc a
laurà 'n Svìshèrô, en Germàniô e 'n Belgio i gh'arà fat de shicür le baìs» (quelli
che sono andati a lavorare in Svizzera, in Germania e in Belgio avranno fatto di sicuro le
«baìs»).
Essere in crisi. Incertezza. Avere il morale a terra. Quando la depressione attiene alla
salute fisica, quando si è «fiaculòcc», debolucci, allora si dice: «Ta shét zó d'i
bàshec».
«Bàshec» o «bàzer» viene da "basis", gradino, che qualcuno chiama ancora
«bazèl», ma i più dicono «panèl».
Con lo stesso significato di difficoltà a vivere o ad ambientarsi si dice: «Fa
careànô», «fa paölô» (da «paöl», erba non commestibile, usata come paglia, che
cresce dove ci sono stagni o terreni umidi) oppure un consolatorio: «el prüm dé che i
và 'n muntàgnô i càgiô mìô» (Il primo giorno che vanno in montagna non
cagliano, non fanno il formaggio). |
Fa löf
förô de la caàgnô |
Fare l'uovo fuori dalla cesta.
Fare una cosa insolita, che desta sorpresa perché contro la consuetudine. Si dice
frequentemente di quella persona che di solito sbaglia e, insperatamente, compie un'azione
giusta. È un modo ironico di dire: «Che grazia!». |
Falà de òt |
Fallare di otto.
Sbagliare alla grande; prendere una cantonata; commettere un errore grossolano; essere
scoperti. |
Fom en bòt(*) |
Facciamo un "forfait".
(*)«Bòt», letteralmente è "botto", una certa misura e ma si usa anche nel
senso di "rintocco": «en bòt, du bòcc, tré bòcc» (l'una, le due, le
tre) quando dal campanile si diffonde il segnale orario. Una curiosità: Dopo le tre
non aggiungiamo più «bòcc» e contiamo "al femminile": «le quàter, le
shìc, ...» (le quattro, le cinque, ...). «Nà a bòt»
è andare a pratica, a casaccio. «Fa de bòt» significa agire
d'impulso. |
Fürtünàt
come l ca che pìshô n cézô |
Fortunato come il cane che piscia in
chiesa.
Si dice dello sfortunato. Il cane che entra in chiesa viene cacciato a calci o in altro
modo perché, si sa: in un territorio nuovo il cane annusa, alza la gamba e...
Chi si lamenta della sfortuna che lo perseguita e non riesce a spiegarsi il perché
dice: «Pashènciô she gh'arès pishàt en cézô, ma...» (Pazienza se
avessi pisciato in chiesa, ma...). |
Ga màncô 'na rüdèlô |
Gli manca una rotella.
Nell'ingranaggio delle rotelle del suo cervello c'è qualcosa che non va. Si dice della
persona non a posto, non equilibrata che però è sicuramente meglio del destinatario del
detto: «el gh'à apénô 'na rüdèlô, mìô tat giöstô gnè
chèlô» (Ha solo una rotella, mica tanto giusta neanche quella). |
Ga màncô
la tèrô shótô i pè |
Gli manca la terra sotto i piedi.
Si dice a chi è irrequieto, ansioso, insicuro. «Calma!». |
Ga mète shö
l'òs del còl |
Ci scommetto l'osso del collo.
Sono assolutamente certo. Te lo giuro. «Ga mète la ma shö 'l föc»
(Metto la mano sul fuoco). Quando si scommette si chiede: «Ga
fét sö chi?» (Cosa metti in palio?). |
Ga sh'è finìt la
ègnô |
Gli è finita la vigna.
È finita la pacchia, l'abbondanza. È in difficoltà. |
Ga nó dò
patàte... |
Ne ho due patate...
Essere stanco della situazione. Con lo stesso significato: «Ga n
ó du balù...» (Ne ho due palloni...), oppure, più allusivamente: «Sho 'nfiàt» (sono gonfio) per dire: «Sono stufo».
Quando si vuol risolvere una situazione si dice: «Adès ga 'n cante quàter!» o «Ga la
cànte ciàrô!» (Adesso gliene canto quattro! Gliela canto chiara!). |
Ga öl ishé póc
a fas ülì bé... |
Ci vuol così poco a farsi voler
bene...
Esortazione ad esser meno spigolosi e ad essere più attenti verso gli altri. |
Ga sha strèns le
stròpe(*) |
Gli si stringono (*le stròpe sono
dei ramoscelli. Quelli di salice o di gelso «i gh'à l'alàstec»
(hanno l'elastico) sono usati per legare le fascine o i tralci delle viti
perché sono più flessibili).
Il detto ha significati molto diversi, dipende dal contesto nel quale viene usato, ma è
maggiormente usato per dire che diminuendo «le stròpe» diminuiscono le capacità di
fare qualcosa è molto usato con riferimenti economici o relativi alla salute. «Lashàgô le stròpe» e «lashàgô le pène»
significa morire. |
Gàtô freshùzô
la fa mìô i gatèi |
Gatta frettolosa non fa i gattini.
Ogni cosa a suo tempo. La fretta è cattiva consigliera. |
Gè piö tancc
de le litanìe di Shàncc |
Sono più tanti delle litanie dei
santi.
Si dice di un gruppo numeroso. Si usa molto per dire di famiglia o di parentela numerosa. |
Gh'arès dat gnè 'na
palàncô |
Non gli avrei dato neanche una palanca.
Non avrei scommesso una sola lira su di lui, invece mi ha smentito nel migliore dei
modi possibili. Sfiducia smentita. |
Gh'è
gnè Shàncc, gnè Madóne |
Non ci sono né Santi, né Madonne.
La situazione è irrimediabile ed è inutile invocare l'aiuto dei protettori celesti. |
Gh'ét dat le bilìne? |
Gli hai dato le (*bilìne =
castagne secche sgusciate che si mangiavano bollite; erano un cibo costoso e quindi raro.)
Dare le «bilìne» a qualcuno significa riservargli un trattamento di favore, riservargli
qualcosa di eccezionale.
Viene usato per chiedere se si sono comperati i favori di qualcuno corrompendolo.
Dare le «bilìne» però è usato anche per dire che si picchia duro. |
Gh'ét finìt
de fa bóer le castègne? |
Hai finito di far bollire le castagne?
Hai finito di brontolare? Un modo più secco per dire di chiudere la bocca è «shérô fò che la shaàtô lé!» (chiudi quella ciabatta lì!) |
Gnè a shìc
gnè a shés |
Né a cinque né a sei.
In nessun modo. |
Gnè shé
gnè shènsô |
Né sì né senza.
Così-così. L'indecisione del «né sì, né no». |
Gnurànt come le böbe |
Ignorante come le upupe.
Di solito, per dire che uno è poco intelligente, si usa paragonarlo a qualche bipede
pennuto, ad esempio: «Alà, mèrlo!», «Che
có de lügarì...», «Che óc!» ecc. |
I gh'à crishìt la
pàgô...
...ai sübiadùr |
Hanno cresciuto la paga... ai
fischiatori.
In un'epoca nella quale non c'erano le radio, la musica si faceva "self
service" con canti solisti e corali o fichiettando il motivo. Quando si era stufi di
sentir fischiare si ricorreva a questo detto per dire che era ora di smetterla. Per essere
più pressanti nella richiesta si sostituiva il termine «shübiadùr» con «shübiòt» (zufolo,
fischietto, ma anche tipo di pasta, i maccheroni) che equivaleva a dare del minchione
a chi stava fischiando. |
ìgô defì |
Avere difficoltà.
Faticare. Non riuscire a concludere positivamente qualche cosa. |
I sbàgliô
a i précc a dì mèshô |
Sbagliano anche i preti a dir messa.
...E se sbagliano anche loro che tutti i giorni dicono messa col testo davanti... è
consolante per chi si rende conto di aver fatto un errore che, mettendo più attenzione,
avrebbe potuto evitare. |
I shurèc i bàlô
ntat che l gat lè bià(*) |
I topi ballano intanto che il gatto è
(*)
(*)«Bià», in linguaggio arcaico, è "via". Nel nostro dialetto, infatti,
la "b" e la "v" talvolta "si danno il cambio". «el
Paradìs» era un bel campo di Timoline al posto del quale oggi ci sono la banca, i negozi
e le case abitate da molte persone che non sono originarie di Timoline e, perciò, «...i
la shà gnac de ésher en de 'l Paradìs!» (non lo sanno neanche di essere nel
Paradiso). Gli anziani del paese chiamano ancora oggi «bià del Paradìs» (via
del Paradiso) quella stradina che si trova a nord di questo sito, prima del Roccolo.
Generalmente colui che in una situazione normale è meno coraggioso è anche sempre il
primo ad approfittare della situazione quando il campo è sgombro da controlli sul suo
operato.
Il detto significa che, fino a quando non arriva qualcuno a sorvegliare... |
La càren gràshô,
pò distàt la giàshô |
La carne grassa, anche d'estate
ghiaccia.
Si dice a chi ha sempre freddo. Questo detto fa della sottile ironia su chi, pur essendo
ben messo o addirittura grasso, non ha mai caldo perché non lavora. Ma sicuramente ci
saranno anche altre spiegazioni. |
La carità unèstô
la 'à förô de la pórtô
e la 'é dét de la finèstrô |
La carità onesta esce dalla porta e
viene dentro dalla finestra.
C'è la "carità" di chi vuol apparire generoso alla maniera del "ricco
Epulone" e la Carità onesta, quella che non ha bisogno di lapidi o citazioni per la
beneficenza. La prima vuol dimostrare qualcosa e pretende un tornaconto di qualche tipo,
la seconda, invece, non cerca riconoscimenti perché è vera.
La ricompensa che torna dalla finestra non sarà di quelle verificabili da noi mortali. |
La lènguô la bat
en do che l dét el döl |
La lingua batte dove il dente duole.
Quando hai un cruccio, quando qualcosa non va, gira e rigira, col pensiero ritorni sempre
lì. |
La ma par
la cumpagnìô de Stringhìni |
Mi pare la compagnia di Stringhini.
«Si dice per indicare un gruppo di persone vocianti, disordinate, stravaganti,
bizzarre, un gruppo che non passa inosservato. "Compagnia Stringhini" era
infatti chiamato il gruppo di bambini e bambine che ogni giorno percorreva il tragitto
Carmine-Istituto Rachitici. Li accompagnava una povera vecchietta cieca ad un occhio (che
teneva riparato con una vistosa benda nera) e che aveva un braccio al collo; era un
caleidoscopio di colori, di stracci, avanzi di chissà quali abiti; di gambine ferrate. La
vecchietta percepiva ogni giorno dieci centesimi per ogni bambino. Intanto la madri
potevano lavorare. Era la miseria più nera.» (Angelo albrici "Sentènse dè
'na ólta"). |
La mórt del luf
lè la shanità de le pére |
La morte del lupo è la salute delle
pecore.
Morto il tiranno... |
La rìô la scaalcàdô |
Arriva la cavalcata.
Si dice quando si vede arrivare la persona importante accompagnata dal seguito. È il
caso, ad esempio, del primario con dottori ed infermiere, del padrone con capi e capetti,
del vescovo con i preti, dell'autorità politica con i suoi collaboratori ecc. Spesso si
usa questa espressione anche per prendere in giro situazioni più quotidiane come l'arrivo
di un gruppo di amici o di parenti.
È chiaro che questo modo di dire si debba far risalire a quando le comunicazioni (strade
e mezzi) rendevano difficile e addirittura pericoloso lo spostamento da una località
all'altra e, di conseguenza, la visita di qualche autorità avveniva con cavalli o muli e
con l'inevitabile seguito di collaboratori e di soldati che ne garantisse la protezione.
Lo racconta meglio Lino ertani nel suo libro "Vita Camuna d'un tempo". |
La vólp la pèrt el
pél,
ma mìô l véshe |
La volpe perde il pelo ma non il vizio.
Si dice dei difetti di comportamento che si ritengono irrecuperabili, strutturali.
Quando una persona, nonostante le promesse ci ricasca, o ci riprova. |
Lashàs mèter i pè
shöl có |
Lasciarsi mettere i piedi sulla testa.
Soccombere. |
Làsheghen taià zó
amò 'na fètô! |
Lasciagliene tagliare ancora una fetta!
Lo si dice, facendo dell'ironia, quando non si riesce a distogliere due persone da
un'affiatata «ciciaràdô» (chiacchierata) e sarebbe come dire: «Se la lasci
chiacchierare ancora un po' ha un altro pezzo da aggiungere. Per stavolta concediamolo...
non c'è poi così fretta!». |
L'è ac chel cap
de le shèt pèrteghe |
E ancora quel campo delle sette
pertiche.
Il campo delle sette pertiche nasconde probabilmente una storia che però non conosco, ma
so che la pertica era un'unità di misura e il significato del detto è: «siamo da
capo!»; «comunque la rivolti è sempre la stessa storia!». |
Lecàmus! |
Nel latino maccheronico significa che,
data la situazione, gli è andata bene. La parola, di solito, è accompagnata dal gesto
rafforzativo di passare la punta delle cinque dita sulla lingua (dal mignolo al pollice). |
Lè mìô
nesheshàre córer,
lè ashé rià a ùrô |
Non è necessario correre, è
abbastanza arrivare in tempo.
La prudenza non è mai troppa. Non occorre strafare. |
Lè mìô pàiô! |
Non è paglia!
Si usa per sottolineare che non è cosa da poco! |
Lè mìô töt ór
chel che sterlüs |
Non è tutto oro quel che brilla.
Spesso, le apparenze ingannano. |
Lè n
balànder(*) |
È un (*balànder = furfante,
birbante, fannullone. A Verona «balandròn» sta per "casa di tolleranza"; nei
gerghi francesi antichi "bellander" era "andar chiedendo
l'elemosina").
È un poco di buono. Un tipo poco raccomandabile. |
Lè pashàt el
tép
che Bèrtô la filàô |
È passato il tempo che Berta filava.
Come dire: «Sono passati quei tempi! ...Da allora c'è stato progresso!».
Gabriele rosa (Dialetti, costumi e tradizioni nelle provincie di Bergamo e Brescia),
scrive che si usava dire così: «...per alludere ad un'età molto antica, (...) cioè
quando anche le regine longobarde usavano il fuso e la conocchia. Berta, figlia di Bucardo
duca di Savoia, sposata a Rodolfo II° re di Borgogna e poi re d'Italia nel 922, è
rappresentata in un suggello sul trono in atto di filare, come la moglie di Alcinoo, re di
Corfù ai tempi dei Troiani.» |
Lè n óter
per de màneghe |
è un altro paio di maniche.
È tutta un'altra cosa. |
L'è 'n bushì |
«Bushì» è diminutivo di «bós» o
«beshòt» = ariete, montone, maschio della pecora.
È una persona inoffensiva, «de bé» (dabbene), quieta, tranquilla. Generalmente
si usa per sottolineare quanto sia cambiato il comportamento di una persona che le
circostanze hanno reso inoffensiva. |
Lè nat vià
n de n sac
e lè turnàt endré
n de n pelaröl(*) |
È andato via in un sacco ed è tornato
indietro in un(*)
(*«Pelaröl» è un sacco alla bocca del quale è stato applicato un cerchio di legno, ma
molte volte ci si arrangiava anche con due rami di gelso, allo scopo di tenerlo sempre
aperto. Questo facilitava l'opera di chi, da solo, doveva riempire il sacco di foglie di
gelso. «Pelarì» o «peladùr» erano chiamati coloro che erano addetti alla raccolta
delle foglie di gelso per i bachi da seta).
A volte, con lo stesso significato, si sente dire: «Lè nat vià
n de na scàrpô e lè turnàt endré n de n stiàl» (è
andato via in una scarpa ed è tornato indietro in uno stivale). Si dice della persona
che si crede chissà chi. Come non c'è differenza sostanziale tra il sacco ed il
«pelaröl», o tra la scarpa e lo stivale così anche lui non è la grande persona che
dice di essere.
Quando il «pelarì» compiva il gesto di pelare il ramo dalle foglie di gelso, si diceva
che era in «pelàndô» e in questa occasione non poteva mancare una frase a doppio senso
che, si diceva, fosse stata scritta da una ragazza al fidanzato quando era in guerra:
«Caro moroso, i "cavalieri" sono andati a putane e io ho smesso di fare la
"pelanda"» (Caro moroso, i bachi da seta sono morti ed io ho smesso di
andare a raccogliere le foglie di gelso). |
L'è 'n tàiô e
medègô |
È un taglia e medica.
Si dice a chi si aggiusta la situazione a seconda della convenienza del momento. Persona
non di parola. Incoerente. Inaffidabile. Colui che dice una cosa e ne fa un'altra. |
Luzèl en gàbiô
she l càntô mìô del göst
el càntô de la ràbiô |
L'uccello in gabbia se non canta per il
gusto, canta dalla rabbia.
Essere rassegnato; fare buon viso a cattivo gioco. |
Mai dumandà,
mai refüdà |
Mai domandare, mai rifiutare.
Saresti maleducato sia nel primo che nel secondo caso. |
Mandà fò d'i pè |
Mandare fuori dai piedi.
Mandare via, scacciare in malo modo una persona fastidiosa (come i sassolini dalla
scarpa). |
Mearà
nazàgô l fiàt |
Bisognerà annusargli il fiato.
Sentire prima, quali sono le sue intenzioni. Prestare attenzione a ciò che esce dalla sua
bocca. Dall'alito di una persona si possono capire molte cose, ma anche dalle parole che
pronuncia. «Spöshô 'l fiàt» sta per "cattiva coscienza". |
Medaìnô
shènsô pecaìnô(*) |
Medaglietta senza (*pecaìnô =
occhiello della medaglia).
La «Medaìnô shènsô pecaìnô» è la moneta.
Si definisce così anche la persona insignificante, pettegola e insicura di se. |
Mei stradô èciô
che shintér nuèl |
Meglio strada vecchia che sentiero
novello.
Attenzione, nel dubbio vai sul sicuro, preferisci una situazione collaudata ed
efficace. «Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia, ma non sa ciò che
trova». |
Mèt mìô l car
deànti ai bò |
Non mettere il carro davanti ai buoi.
Fai le cose come vanno fatte. Metti ogni cosa al proprio posto prima di fare una
valutazione che abbia un minimo di attendibilità. |
Mètegô shö 'na
prédô
e sha n pàrle piö |
Mettigli su una pietra e non se ne
parli più.
Si consiglia di chiudere definitivamente una situazione mettendo, figurativamente, il
sigillo tombale. |
Mètegô l dit en
bócô |
Mettigli il dito in bocca.
I contadini, per svezzare un vitello, «i desfantàô» (scioglievano) il lattolo
in un secchio d'acqua e lo aiutavano a bere mettendogli il dito medio in bocca a mo' di
tettarella, nella fase di passaggio dal «pécc» (mammelle) della mucca
all'alimentazione da solo.
Si dice ironicamente di una persona che viene aiutata nonostante non ne abbia
assolutamente bisogno o di chi si mette in competizione con chi gli è palesemente
inferiore. |
Nà a fai picà fò a
Rezàt |
Andare a farli (picchiar fuori)
scolpire a Rezzato.
Si dice ironizzando sulla richiesta di chi vorrebbe, magari su misura, una cosa che non
esiste o che non si può avere.
Rezzato e Botticino sono due paesi della nostra provincia famosi per le loro cave di
marmo. |
Nà a palpù |
Andare a tentoni.
Si dice anche «nà a òrbô fóscô» (andare come un
orbo al buio) e significa procedere per tentativi con la speranza che ci vada bene. |
'Na pérô rugnùzô
la n ruìnô n ròs |
Una pecora rognosa ne guasta un gruppo.
Si dice di quella persona che ha il "dono" di saper guastare i rapporti nel
gruppo o di squalificarne l'immagine. I rompiscatole. |
'Na scàrpô e n
süpèl |
Una scarpa e uno zoccolo.
Si dice di cosa scompagnata; soluzione di ripiego antiestetica. «L'è
'n laùr mal enguàl» (è una cosa mal livellata). |
Nà a rödô |
Andare a ruota.
Sfruttare a proprio vantaggio una situazione creata da altri. Mangiare e bere gratis. Per
dire che si è invitati a pranzo dai genitori è facile sentire: «Nó a
stramà zó» oppure «Fó nà la rödô d'i suoceri» (faccio
andare - girare - la ruota dei suoceri). "Suoceri" è in uso da poco, prima
venivano chiamati rispettivamente «mishér» (messere) e «madònô» (madonna). |
n do ghe n'è,
ga 'n và |
Dove ce n'è, ne va.
Espressione d'invidia per le fortune altrui. |
...'n fin che 'l diàol
l'è mat |
Fin che il diavolo è matto.
A volontà, all'infinito. |
Nishönô nöô,
bùnô nöô |
Nessuna nuova, buona nuova.
Si dice a chi attende ansiosamente notizie dai propri cari. «Tranquillizzati, non è
successo nulla di male perché, lo sai: "Nöô catìô prest la
rìô"» (Nuova cattiva presto arriva). |
Nó gh'è
gnè shàbot sènsô shul,
gnè prat sènsô èrbô,
nó gh'è
gnè 'n pedül de camizô,
che nó 'l sàbe sporc de mèrdô |
Non c'è sabato senza sole, non c'è
prato senza erba, non c'è neanche un lembo di camicia che non sia sporco di merda.
Modo scherzoso per dire delle cose inevitabili. |
Nó l gh'à
gnè ùre gnè baciàcol |
Non ha né ore né batacchio.
Si dice in negativo del ritardatario e in positivo, con comprensione, per chi lavora
troppo. |
n sè
n gèrô(*) |
Siamo in (*gèrô = ghiaia dal
tedesco "geröl", termine che anche noi usiamo con lo stesso significato).
Siamo a terra, giù di morale, fuori fase, conciati male anche come salute. |
Nà de cül |
Andare di culo.
È il rompersi o lo sgretolarsi di una situazione. Rovinarsi economicamente, fallire. |
Nu gh'è redènsio |
Non c'è pace.
Non c'è modo, via, verso, speranza di far qualcosa. |
ògne mórt de èscof |
Ogni morte di vescovo.
Rarissimamente. Quasi mai. |
Ogn'ü i gh'à 'l sò
melgàs(*)
de sgagnà shö |
Ognuno ha il suo (*) da masticare.
(*melgàs = fusto del granoturco).
Il periodo delle vacche magre viene per tutti. Ognuno ha il proprio, qualcosa che fatica a
"digerire". |
Òm avizàt
mès salvàt |
Uomo avvisato mezzo salvato.
...Comunque io te l'ho detto! |
Parì e nó ésher
lè cumpàgn
de urdì e nó tèsher |
Apparire e non essere è come ordire e
non tessere.
Chi è più attento alle apparenze, produce meno sostanza. L'apparenza inganna. |
Pàpô mòlô |
Pappa molle.
Mollaccione. Senza carattere. Incapace. |
Parole nó pàgô dàshe |
Parole non pagano dazio.
C'è libertà di parola; parlando ci si intende e non costa. |
Per el nigót
i ménô la cùô gnè i ca |
Per il niente non menano la coda
neanche i cani.
Non puoi pretendere favori senza dare nulla in cambio. |
Per en put
Martì l gh'à perdìt la càperô |
Per un punto, Martino ha perso la
caparra.
Quando perdi può essere anche per poco. Nel periodo di San Martino, quando non fosse
stato rinnovato il contratto di locazione, si doveva traslocare entro tre giorni. Chi non
avesse rispettato questo termine avrebbe potuto perdere la caparra (cauzione) per
inadempienza contrattuale. |
Per la cézô de àder |
Per la chiesa di Adro.
Per niente. Inutilmente. Senza ricompensa. Oggi si direbbe "a ufo", ed anche la
storia di questo modo di dire è curiosa e antica. Succedeva che quando il signore mandava
i propri servi ad acquistare la tal cosa non desse loro i soldi, ma facesse
"segnare" sul proprio conto. Il negoziante metteva accanto alla descrizione
della merce la sigla "A.U.F." che significava "Ad Usum Fabbricae". Da
qui, prendere senza pagare, è diventato prendere «a uf» come diciamo ancora
correntemente in dialetto e "a ufo" in italiano. Certo che la chiesa di Adro è
famosa in tutta la provincia per il lavoro ed il denaro donato gratuitamente per tanti
anni. |
Per ògne büzô
gh'è la shò scüzô |
Per ogni buca c'è la sua scusa.
Per ogni morte si trova una giustificazione. |
Per emparà
bizògnô sbaglià |
Per imparare bisogna sbagliare.
È un incoraggiamento a non lasciarsi demoralizzare, ma a trarre un insegnamento dalla
situazione. Ogni errore può tornare utile. |
Per ògne uzèl
el sò ni lè bel
|
Per ogni uccello il suo nido è bello.
Casa dolce casa. |
Piö prèst che 'n
frèshô |
Più presto che in fretta.
Velocissimamente. |
Pò a' löcc
el völ la shò part
Quan' che ghe n'è piö,
ghe n'è amò |
Anche l'occhio vuole la sua parte.
Ogni cosa deve essere esteticamente accettabile.
Quando non ce ne sono più, ce ne sono ancora.
Lo dice chi si sente perennemente perseguitato dalla sfortuna. |
Quan che la
mèrdô
la móntô n scagn,
o che la spöshô
o che la fa dagn |
Quando la merda monta sulla sedia, o
che puzza o che fa danni.
Va sempre male quando un incapace prende il potere e pretende di dettar legge. È la
cosiddetta arroganza del potere. |
Quan' che sha dìs
che le 'é fò a d'i büs d'i mür... |
Quando si dice che vengon fuori anche
dai buchi dei muri...
Si dice, sconsolati, quando una situazione imprevista va a concatenarsi ad altre che
stanno segnando un periodo negativo. |
Quan che sh'è
n bal
bizògnô balà |
Quando si è in ballo bisogna ballare.
Quando si è presa una decisione, quando si è assunto un impegno bisogna essere coerenti
ed andare fino in fondo. |
Quan che l
póm lè madür
el crödô |
Quando la mela è matura crolla.
Ogni cosa a suo tempo. Abbi pazienza: i risultati arriveranno. |
Quan che l
tò diàol
el nàô a scölô,
el mé 'l turnàô zamò ndré |
Quando il tuo diavolo andava a scuola
il mio tornava già indietro.
Sono nato prima di te... e ne so qualcosa. |
Rét come 'n füs |
Dritto come un fuso.
Senza fare una piega, senza obiezioni. Di filato, velocemente. |
Ròbô del Cümü,
ròbô de töcc e de nishü |
Roba del Comune, roba di tutti e di
nessuno.
Questo dovrebbe avere i suoi vantaggi, ma, chissà perché, quando si dice «tutti o
nessuno» va sempre a finire in modo negativo? |
Sbaglià mucèl |
Sbagliare mucchio.
Commettere un grosso errore. Sbagliare alla grande. |
Sbüzàlô förô |
Bucarla fuori.
Salvarsi appena appena. Trovare un'insperata scappatoia ad una situazione pericolosa. |
Scàmpô caàl
che lèrbô la crès |
Campa cavallo che l'erba cresce.
Aspetta! È detto con tono ironico. |
Shaìghen
'na pàginô de piö del léber |
Saperne una pagina più del libro.
Si dice delle persone presuntuose e piene di sè; sono i cosiddetti "tuttologi",
i "pozzi di scienza" che vantano la capacità di saper trovare la soluzione a
tutti i problemi. |
Shalvàndó 'l
batézem... |
Salvando il battesimo...
Si inizia così la frase di chi vuol paragonare la persona di cui si sta parlando a
qualche animale. |
She 'l sarès mìô
perchè perchè... |
Se non fosse perché perché...
Si dice confidando di voler fare una certa cosa, ma di essere indeciso sul da farsi
anche se la tentazione è forte. Con lo stesso significatosi sente dire: «sho 'ncalàt de...»; infatti «calà», oltre che
"calare", ha anche significato di "manca qualcosa per raggiungere la
misura": «càlô 'n quart a le quàter» (manca un quarto alle quattro); «ga
calerès a' chèlô!» (ci mancherebbe anche quella!), ecc. |
She ta spètet
la minèstrô dei frà
ta é tàrdé a diznà |
Se aspetti la minestra dei frati ti
viene tardi a desinare.
Non aspettarti che qualcuno ti faccia la pappa. Provvedi da solo alle tue esigenze ed ai
tuoi affari. Se proprio ne hai bisogno, almeno non rivolgerti a chi è povero o pieno di
difficoltà. |
Shét per sét... |
Ogni tanto. Di quando in quando.
In dialetto «Shét» significa "sete" e quindi la traduzione letterale
dovrebbe essere "sete per sete". Non conosco l'origine di questo modo di
esprimersi usato per dire di una cosa che accade periodicamente, ma senza una cadenza
precisa. So che la fame può essere soddisfatta con pasti collocati in orari ben precisi,
ma la sete no. Che sia proprio questa l'origine? C'è anche un modo di dire, considerato
«de büfù», che mette in relazione le due cose: «Shét per sét ma
e shèmper sét. Tègne biinàt, ma... ma 'é shèmper sét... shét per sét!» (Di
tanto in tanto mi viene sempre sete. Mi tengo abbeverato, ma... mi viene sempre sete... di
tanto in tanto), ma forse è solo un gioco di parole. |
Sherà n öcc |
Chiudere un occhio.
Essere tollerante. |
Shét burlàt fò del
let? |
Sei caduto fuori dal letto?
È la domanda che si fa a chi è ancora assonnato, ma è una domanda retorica
perché la risposta non verbale è ben visibile sulla sua faccia. Se per sbaglio la persona
accenna un «cosa hai detto?» si può sentire: «Tumérô l'è burlàt
zó de la scalérô(*)» Tomaia è caduto giù dalla (*«scalérô» sono i
bastoni che vengono messi nel pollaio legati in modo da formare una scala sulla quale i
polli prenderanno posto per dormire). |
Shìc minücc de barbér |
Cinque minuti di barbiere.
Si dice quando non è rispettata la promessa di fare presto. |
Sta lé col pè leàt |
Star lì col piede levato.
Fotografa bene la posizione dell'indeciso; significa anche essere in ansiosa attesa di una
notizia o di una persona che si aspetta da un momento all'altro. |
Sta mai
gnè deànti ai macc
gnè deré ai müi
Sta 'n surgiölô |
Non stare mai né davanti ai matti né
dietro i muli.
La prudenza non è mai troppa. Non fare l'errore di sottovalutare l'imprevedibilità delle
azioni dei muli o dei matti.
Stare in (*surgiölô = né nudo né vestito).
Essere vestito in qualche maniera, in disordine e comunque in modo poco decoroso. |
Ta gh'ét fat...
gnè 'n pecàt de legn |
Non hai fatto... neanche un peccato di
legno.
La colpa che ti senti addosso perché senti di essere stato troppo severo non è così
grave, anzi... hai fatto proprio bene! |
Ta m'ét leàt
la parolô de bócô |
Mi hai levato la parola di bocca.
Hai detto esattamente ciò che penso e stavo per dire. |
Ta pàrlet
perchè ta gh'ét la bócô |
Parli perché hai la bocca.
Si dice a chi parla senza riflettere su ciò che sta dicendo. Queste persone sono
classificabili tra coloro che «...i gh'à gnè fi, gnè fónt, gnè
cuzidürô» (...non hanno né fine, né fondo, né cucitura), sono
insignificanti. Qui è proprio il caso di riaffermare che «la quantità delle parole è
inversamente proporzionale ai contenuti». |
Ta shalüde Minègô |
Ti saluto, Domenica.
Si usa per dire che, per venirne a capo, serve... chissà quanto tempo, oppure come
ironico saluto ad un oggetto smarrito.
Con lo stesso significato ci sono molti altri detto come ad esempio «Ciao
Pì, ariidìs a òbet» (Ciao Pì, arrivederci al funerale).
In Valle Camonica i «Pì» e le «Pìne» sono i bambini e le bambine, ma stavolta è
abbreviativo di «püpì» e «püpìne».
Per scherzare su questo nome si pone la famosa domanda: «el conóshet chel Pì... Come
nò!? ...Chel Pì... Che 'l gh'à chel ca...» (conosci quel Pì... che ha quel
cane...) fatta per mettere in imbarazzo qualcuno che non riesce a capire di chi si
parli ed allora comincia a chiedersi: «Che Pì sharàl?... Che ca gh'aràl?...» (che
Pi sarà?... che cane avrà?), ma che, all'orecchio, suona come un «che piscerà?...
che cacherà?...». |
Ta shét pròpe
'n teedèl(*) |
Sei proprio un (*teedèl =
tagliatella).
Si dice della persona non troppo sveglia, del sempliciotto e lo si paragona a quella pasta
che, per essere usata in cucina, ha bisogno della "cura" del mattarello. I
«teedèi» erano detti anche «lècô-barbós» (lecca mento) perché quando si
mangiavano c'era sempre qualche tagliatella che finiva sul mento. |
Té fa l bé
e làshô pör che i ta ciciàre ré |
Tu fa' il bene e lascia pure che ti
chiacchierino dietro.
Quando sei a posto con te stesso, lascia pure che la gente sparli di te o ti critichi. Tuo
unico interlocutore deve essere la tua coscienza perché ti conosce veramente a fondo e
sarà un giudice giusto e severo. |
Tetàgô dét |
Popparci dentro.
Sfruttare l'occasione. Approfittare. Farsi mantenere.
«Tö (o dà) la tètô» (Togliere o dare la mammella)
significa togliere o dare il vizio. |
Tirà làivô al
sò mulì |
Tirare l'acqua al suo (proprio) mulino.
Cercare di volgere la situazione a proprio vantaggio. |
Tötel del có
e mètetel sótô i pè |
Toglitelo dalla testa e mettitelo sotto
i piedi.
Credimi! Non insistere, non ti intestardire. Imperativamente: «Non farti strane idee,
qui si fa come dico io!». |
Töl del có e mitìl ai
pè |
Prenderlo dalla testa e metterlo ai
piedi.
Si dice di un lavoro inconcludente; gira e rigira si è sempre a quel punto. |
Tö fò de le spéze |
Prender fuori dalle spese.
Far sparire una cosa. Eliminare fisicamente. È giunta l'ora di uccidere il tal animale. |
Tö fò la ràô de 'l
föc |
Togliere la rapa dal fuoco.
Avere il coraggio di affrontare un situazione scottante. Come l'attuale "togliere
le castagne dal fuoco". |
Tö per el cül |
Prender per il culo.
Schernire. Prendere in giro. |
Trà shö i sò uzèi |
Tirare sui propri uccelli.
Far danno a sè stessi. Essere involontariamente autolesionisti. |
Töcc i dé
sha na 'mpàrô önô |
Tutti i giorni se ne impara una.
Si dice, meravigliati, di fronte ad una novità interessante e a conferma si aggiunge:
«el gh'ìô rezù chel là a dì che 'l vülìô mìô mörer che, a scampà, töcc i dé
ghe n'è önô nöô!» (Aveva ragione quello là a dire che non voleva morire
perché,
campando, tutti i giorni ce n'è una nuova!) |
Töghen fò
she ghe n'è dét |
Togline se ce n'è dentro.
Il «maringù» (falegname) per livellare lavora con la pialla e toglie le
eccedenze. Questo detto, però, è di tipo economico e dice: «Verifica tu stesso! Non
c'è niente da togliere!».
Si usa anche in senso figurato per dire: «Incomprensibile!». |
Ta fó sherà shö
'n d'i Barabìni(*) |
Ti faccio rinchiudere nei (*Barabìni
= da Barabba, il condannato scambiato con Cristo, ma anche da «Baràbio» uno dei tanti
modi di dire "diavolo").
«Ti mando in collegio!» Essere in collegio o in prigione, aveva lo stesso significato di
reclusione. Era questa la minaccia che più impauriva i bambini e diventava sempre molto
credibile perché contemporaneamente si indicava una persona che per caso si trovava a
passare di lì come «l'òm d'i Barabìni» (l'uomo dei Barabini) che era proprio
alla ricerca dei bambini da portar via ed avrebbe potuto prendersi anche lui.
|
Và shö l'órghen |
Va sull'organo.
Va a farti friggere. Siccome il culo è detto anche «órghen», questo è un
«vaffanculo!» detto un po' meno volgarmente. |
Ta màet amò
col có 'n de 'l sac |
Mangi ancora con la testa nel sacco.
Trovare tutto pronto. Non essere ancora autosufficienti ed aver ancora bisogno di un
adulto che pensa per te.
È un bonario rimprovero a chi si azzarda a fare osservazioni ad una persona più adulta. «Maià co 'l có 'n de la traaiàdô» o «...'n de
la traìs», cioè nella mangiatoia, ha lo stesso significato, ma nel primo caso
suona più dispregiativo. |
Töt ché Milà? |
Tutto qui Milano?
Si dice a conclusione di un lavoro o dopo aver verificato che la quantità non è così
grande e preoccupante come si era previsto. C'è un'altra città lombarda che ricorre
nelle nostre espressioni: «l'è èciô Màntuô» (è
vecchia Mantova) col significato di "non mi freghi!", "è una scusa
banale", "non sono un allocco".
|
Altri modi di dire |
amàr come 'l tòshec
ciòc embreàc
'ndré come i bò
'ndurmét come i sòc
'nzechìt del fret
biànc bianchènt
bröt come 'l diaol
bu come 'l pa
calt come 'na ciòshô
cargàt come 'n àzen
cuntét come 'na Pàsquô
dispetùs come le cavre
ret come 'n füs
dür come 'l mür
ècc come 'l cùcó
fals come Giüdô
frèsc come 'na rözô
fret zelàt
gras mis
gras come 'n pursèl
gréf come 'n piò
gròs come le bóre
'gnurànt come 'na böbô
màgher come 'n campér
màgher come 'n ciót
màgher afàt
màgher empéc
màgher scanàt
mat come 'na caàlô
mat matènt
mat patòc
mis trebatìt
négher come 'l capèl del prét
négher come 'n cruatì
négher come la càpô del camì
négher come 'n bócô al luf
nèt come 'n póm
nèt speciènt
ut bizùt
ut come 'n peröl
ut come 'na rödô del carèt
öt come 'na èzô
pacìfic come 'n pàpô
pégher come la shòn
pié come 'n öf
rabìt come 'n ca
rós come 'n piarù
rós come 'n pondór
sha come 'n curnàl
shalàt come 'n bèc
shèc brüzàt
shèc come 'n bècalà
sgiùf come 'n baghèt
smórt come 'na pèshô laàdô
spórc come 'n pursèl
strac mórt
shùrt come 'na campànô
shùrt come 'na tràpô
svèlto come 'n pès
ustinàt come 'n mül
zalt come 'n capù |