Come mai avete deciso di mettere in scena proprio
"Bedbound"?
Malosti - A me piace molto la drammaturgia
contemporanea e credo che Enda Walsh appartenga
ad una generazione molto interessante, che riesce
ad entrare in contatto con le persone. Questo testo
va al di là della semplice storia che viene
narrata: i muri, la violenza, la morte possono essere
metaforici e ognuno di noi può riconoscersi
in questa vicenda.
Come
descrivereste la figura della Figlia?
Cescon - E' un "cumulo di dolore".
Il testo suggeriva un ragazza malata di poliomielite,
ma noi ci siamo focalizzati soprattutto sul dolore,
senza pensare ad una malattia in particolare. Abbiamo
quindi lavorato sulla distruzione, sulla sgradevolezza,
che allo stesso tempo è cosa viva, piena di
luce e di colore. Secondo noi la Figlia non è
oppressa dal padre, che, comunque, l'ha rinchiusa
colpevolmente fra le mura di casa, ma è soprattutto
vittima della sua triste condizione di malata all'interno
della famiglia. Questo fa riflettere sul fatto che
l'handicap oggi possa essere motivo di vergogna.
Quindi
quest'opera ha anche un significato sociale
Cescon - Naturalmente. All'interno di questa
parabola, quasi una tragedia greca, tutti si riconoscono
un po': magari nel rapporto col padre oppure nel rapporto
con la malattia. Tutti in famiglia abbiamo esperienze
simili a questa, purtroppo.
Che cosa significa, secondo voi, il fatto che la
Figlia non abbia un nome?
Cescon - Il fatto che la Figlia non si identifichi
in un nome da una parte è molto poetico, dall'altra
è spaventoso. Per interpretarla ho lavorato
sul vuoto. Ho pensato: "Sono una Figlia, la mia
storia può essere generalizzata perché
non mi chiamo né Luisa né Maria".
Ho pensato fosse molto bello
E
Maxie, il padre?
Giordana - Mi sento di dire che padre e figlia
sono entrambi personaggi ricchi di umanità,
in grado di raccontarci le difficoltà dell'esistenza.
Credo che Maxie, qualunque cosa abbia commesso, vada
giustificato perché è un uomo che si
è sempre impegnato moltissimo nel suo lavoro
ed ha una umanità che io rispetto. Quello che
invece non capisco di lui è l'arrivismo, il
desiderio di essere un uomo diverso: una condizione
non molto dissimile da quello che accade oggi all'interno
della nostra società
Il grande problema
di Maxie è quello di non riuscire a "sentire".
Se "sentisse", non ammazzerebbe un uomo;
se "sentisse", non sposerebbe per utilità
una donna, e, forse, saprebbe accettare anche il dolore
di vedere una figlia gravemente malata. Non a caso,
l'unico momento in cui Maxie ritrova se stesso è
proprio quando, per la prima volta, smette di parlare
e lascia spazio al silenzio, che è in fondo
l'unico modo in cui si può ritrovare se stessi.
Nel silenzio egli "sente" qualche cosa,
e quel "sentire" gli fa prendere coscienza
anche di quello che ha fatto.
Ma
perché, secondo voi, Maxie si blocca e non
riesce più a parlare? E che cosa, alla fine,
lo fa ricominciare?
Giordana - Maxie ha difficoltà a parlare
perché sta vivendo un incubo: non dimentichiamo
che egli ha commesso un omicidio. Spia di questo suo
stato sono le sue stesse parole, quando ripete di
voler dormire, sprofondare nel silenzio: ma, naturalmente,
non ci riesce... Qui Enda Walsh si riallaccia
a quello che sosteneva Beckett: i personaggi, che
apparentemente dovrebbero essere morti, si mantengono
vivi solo se riescono a raccontarsi attraverso le
parole. Secondo questa teoria, quindi, Maxie in realtà
sarebbe "morto", come lo sono tutti i personaggi
che non riescono a parlare: questa per me è
la tesi di fondo del testo di Enda Walsh.
Qual
è il ruolo del pubblico di fronte ad un testo
come "Bedbound"? Quando lo spettatore entra
nella piccola sala, rimane subito colpito dal fatto
che gli attori sono già in scena, che non ci
sono né un sipario né un palcoscenico:
questo significa forse che attori e spettatori sono
sullo stesso piano?
Malosti - Il ruolo del pubblico è sempre
fondamentale in teatro, soprattutto quando si devono
mettere in scena testi difficili come questo: qui
gli spettatori sono anche un po' guardoni, curiosano
all'interno di una stanza
Cescon - E' questa, a mio parere, l'idea più
bella di tutto l'allestimento: che venga rappresentata
la vita di due persone e che ci sia qualcuno che riesca
a guardarci dentro.
Quali
sono stati i problemi incontrati nella traduzione
di un testo così duro, così difficile?
Malosti - Nella traduzione italiana, almeno
la metà della forza linguistica del testo cade.
Il padre, per esempio, fa un sacco di giochi di parole,
usa frasi idiomatiche e espressioni tipicamente irlandesi,
che ovviamente non sono traducibili in italiano. Le
espressioni usate da Enda Walsh sono molto
ricche, e, leggendole, spesso ho pensato a Shakespeare:
si tratta di un linguaggio che riesce a trascendere
la violenza fine a se stessa e a diventare quasi poesia.
Come
definireste l'opera? L'autore parla di "commedia
del perdono"
Giordana - Io non condivido molto quest'idea
del perdono. L'umanità di oggi ha bisogno di
vedere la tragedia, di prenderne coscienza. Durante
lo spettacolo la gente è a disagio per quello
che vede: secondo me è giusto scatenare il
disagio, anche se alla fine è giusto lasciare
uno spiraglio di ottimismo. Sono convinto che la capacità
di amare non richieda necessariamente il perdono e
che, anzi, il vero atto d'amore sia proprio amare
senza perdonare, cioè accettare l'altro così
com'è: non a caso alla fine dell'opera anche
Maxie e sua figlia riescono a convivere con le reciproche
debolezze.
Cescon - Nel nostro "Bedbound" abbiamo
tolto l'inizio e la fine della storia per suggerire
che il racconto continua, che ogni soluzione è
ancora possibile.
Quale
messaggio volete trasmettere attraverso il vostro
spettacolo?
Malosti - Noi in realtà non desideriamo
trasmettere nessun tipo di messaggio, vogliamo solo
creare dei personaggi in grado di comunicare con la
parte più nascosta di noi stessi: se ci riusciamo,
allora vuol dire che abbiamo creato degli esseri umani
che hanno qualcosa di realistico, di vero.