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Bedbound - legati al letto
Intervista con Walter Malosti, Andrea Giordana e Michela Cescon. Regista e protagonisti della versione italiana del dramma di Enda Walsh.


di Federica Favero

 
05/03/2000
 


Come mai avete deciso di mettere in scena proprio "Bedbound"?
Malosti - A me piace molto la drammaturgia contemporanea e credo che Enda Walsh appartenga ad una generazione molto interessante, che riesce ad entrare in contatto con le persone. Questo testo va al di là della semplice storia che viene narrata: i muri, la violenza, la morte possono essere metaforici e ognuno di noi può riconoscersi in questa vicenda.

Come descrivereste la figura della Figlia?
Cescon - E' un "cumulo di dolore". Il testo suggeriva un ragazza malata di poliomielite, ma noi ci siamo focalizzati soprattutto sul dolore, senza pensare ad una malattia in particolare. Abbiamo quindi lavorato sulla distruzione, sulla sgradevolezza, che allo stesso tempo è cosa viva, piena di luce e di colore. Secondo noi la Figlia non è oppressa dal padre, che, comunque, l'ha rinchiusa colpevolmente fra le mura di casa, ma è soprattutto vittima della sua triste condizione di malata all'interno della famiglia. Questo fa riflettere sul fatto che l'handicap oggi possa essere motivo di vergogna.

Quindi quest'opera ha anche un significato sociale…
Cescon - Naturalmente. All'interno di questa parabola, quasi una tragedia greca, tutti si riconoscono un po': magari nel rapporto col padre oppure nel rapporto con la malattia. Tutti in famiglia abbiamo esperienze simili a questa, purtroppo.
Che cosa significa, secondo voi, il fatto che la Figlia non abbia un nome?
Cescon - Il fatto che la Figlia non si identifichi in un nome da una parte è molto poetico, dall'altra è spaventoso. Per interpretarla ho lavorato sul vuoto. Ho pensato: "Sono una Figlia, la mia storia può essere generalizzata perché non mi chiamo né Luisa né Maria". Ho pensato fosse molto bello…

E Maxie, il padre?
Giordana - Mi sento di dire che padre e figlia sono entrambi personaggi ricchi di umanità, in grado di raccontarci le difficoltà dell'esistenza. Credo che Maxie, qualunque cosa abbia commesso, vada giustificato perché è un uomo che si è sempre impegnato moltissimo nel suo lavoro ed ha una umanità che io rispetto. Quello che invece non capisco di lui è l'arrivismo, il desiderio di essere un uomo diverso: una condizione non molto dissimile da quello che accade oggi all'interno della nostra società… Il grande problema di Maxie è quello di non riuscire a "sentire". Se "sentisse", non ammazzerebbe un uomo; se "sentisse", non sposerebbe per utilità una donna, e, forse, saprebbe accettare anche il dolore di vedere una figlia gravemente malata. Non a caso, l'unico momento in cui Maxie ritrova se stesso è proprio quando, per la prima volta, smette di parlare e lascia spazio al silenzio, che è in fondo l'unico modo in cui si può ritrovare se stessi. Nel silenzio egli "sente" qualche cosa, e quel "sentire" gli fa prendere coscienza anche di quello che ha fatto.

Ma perché, secondo voi, Maxie si blocca e non riesce più a parlare? E che cosa, alla fine, lo fa ricominciare?
Giordana - Maxie ha difficoltà a parlare perché sta vivendo un incubo: non dimentichiamo che egli ha commesso un omicidio. Spia di questo suo stato sono le sue stesse parole, quando ripete di voler dormire, sprofondare nel silenzio: ma, naturalmente, non ci riesce... Qui Enda Walsh si riallaccia a quello che sosteneva Beckett: i personaggi, che apparentemente dovrebbero essere morti, si mantengono vivi solo se riescono a raccontarsi attraverso le parole. Secondo questa teoria, quindi, Maxie in realtà sarebbe "morto", come lo sono tutti i personaggi che non riescono a parlare: questa per me è la tesi di fondo del testo di Enda Walsh.

Qual è il ruolo del pubblico di fronte ad un testo come "Bedbound"? Quando lo spettatore entra nella piccola sala, rimane subito colpito dal fatto che gli attori sono già in scena, che non ci sono né un sipario né un palcoscenico: questo significa forse che attori e spettatori sono sullo stesso piano?
Malosti - Il ruolo del pubblico è sempre fondamentale in teatro, soprattutto quando si devono mettere in scena testi difficili come questo: qui gli spettatori sono anche un po' guardoni, curiosano all'interno di una stanza
Cescon - E' questa, a mio parere, l'idea più bella di tutto l'allestimento: che venga rappresentata la vita di due persone e che ci sia qualcuno che riesca a guardarci dentro.

Quali sono stati i problemi incontrati nella traduzione di un testo così duro, così difficile?
Malosti - Nella traduzione italiana, almeno la metà della forza linguistica del testo cade. Il padre, per esempio, fa un sacco di giochi di parole, usa frasi idiomatiche e espressioni tipicamente irlandesi, che ovviamente non sono traducibili in italiano. Le espressioni usate da Enda Walsh sono molto ricche, e, leggendole, spesso ho pensato a Shakespeare: si tratta di un linguaggio che riesce a trascendere la violenza fine a se stessa e a diventare quasi poesia.

Come definireste l'opera? L'autore parla di "commedia del perdono"…
Giordana - Io non condivido molto quest'idea del perdono. L'umanità di oggi ha bisogno di vedere la tragedia, di prenderne coscienza. Durante lo spettacolo la gente è a disagio per quello che vede: secondo me è giusto scatenare il disagio, anche se alla fine è giusto lasciare uno spiraglio di ottimismo. Sono convinto che la capacità di amare non richieda necessariamente il perdono e che, anzi, il vero atto d'amore sia proprio amare senza perdonare, cioè accettare l'altro così com'è: non a caso alla fine dell'opera anche Maxie e sua figlia riescono a convivere con le reciproche debolezze.
Cescon - Nel nostro "Bedbound" abbiamo tolto l'inizio e la fine della storia per suggerire che il racconto continua, che ogni soluzione è ancora possibile.

Quale messaggio volete trasmettere attraverso il vostro spettacolo?
Malosti - Noi in realtà non desideriamo trasmettere nessun tipo di messaggio, vogliamo solo creare dei personaggi in grado di comunicare con la parte più nascosta di noi stessi: se ci riusciamo, allora vuol dire che abbiamo creato degli esseri umani che hanno qualcosa di realistico, di vero.

 

 

 


 
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