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My Life: il Cut incontra Enda Walsh
L'affermato drammaturgo irlandese è al Teatro Studio con "Bedbound", il suo ultimo raccont
o.

di Mascia Nassivera

 
16/06/2000
 

Enda Walsh è un ragazzo di 33 anni. Sembra un giovane come tanti, mentre è seduto al bar con la sua immancabile bottiglietta d'acqua. Quando lo salutiamo, ci sorride intimidito.

Enda, è la prima volta che vieni in Italia?
No, sono stato qui già cinque volte. Ho degli amici a Novellara, Bologna, Firenze, Genova, e per questo conosco bene tutto il Nord Italia. Quando ero più giovane, ho anche viaggiato nel vostro paese facendo l'autostop.

E Milano, come ti sembra?
Mi piace molto, ed ho scoperto che non è solo una grande città industriale, come tutti pensano. Fa un po' troppo caldo, però!

Parliamo del tuo ultimo lavoro. "Bedbound" è un'opera autobiografica, una storia sul difficile rapporto tra un padre ed una figlia. Figlia nelle quale tu ti identifichi…
E' vero, il punto di partenza di "Bedbound" è autobiografico. Ho voluto che l'opera fosse molto onesta in questo senso. Ma, per far funzionare il racconto, sono stati aggiunti anche elementi estranei alla mia vicenda. Qualcuno, ascoltando il dramma, forse penserà che mio padre è un vero mostro. In realtà è un uomo generoso. Ad un certo punto della sua vita, però, era diventato una persona molto violenta.

La protagonista del racconto, la Figlia, è affetta da poliomielite. Come mai hai pensato ad una ragazza malata?
Mi piacciono molto i personaggi che vengono delineati attraverso le loro caratteristiche fisiche. Trovo interessanti, per esempio, quelli che sono paralizzati, e studio come tale situazione cambi il loro linguaggio. Il modo di parlare dei miei personaggi muta anche a seconda dei diversi ambienti (il magazzino, la casa) in cui li faccio agire.

Alla fine del dramma, padre e figlia riescono a vincere il loro odio. Tu hai parlato di un'"opera sul perdono". Che cos'è per Enda Walsh il perdono?
Non sentirsi più a disagio con il proprio passato e con chi ci sta vicino. Quando il rapporto con quella persona è di nuovo sincero.

So che tuo padre non ha mai letto l'opera e che vedrà lo spettacolo solo in autunno. Quale reazione ti aspetti da parte sua, visto che il racconto parla dell'odio che un tempo provavi per lui?
Sono terrorizzato all'idea che veda lo spettacolo. Mio padre è un uomo semplice. Non ama il teatro, ma è orgoglioso del mio successo. Forse vedrà il personaggio del padre solo come un animale, non comprenderà la pacificazione finale tra l'uomo e la figlia. Ho cercato di spiegargli il senso di questo lavoro. Gli ho detto: "Io ti voglio bene, sei mio padre, ma c'è stato un tempo in cui forse ti ho odiato".

Hai da poco scritto un cortometraggio, "Not a bad Christmas", e ora stai lavorando a due lungometraggi. Che differenza c'è fra lo scrivere per il teatro e per il cinema?
Mi occupo di lungometraggi perché mi interessa il linguaggio cinematografico, e poi, purtroppo, è anche una questione economica. Con i film si guadagna di più. Questo mi permette di continuare a fare teatro, che comunque rimane il mio primo amore. La differenza tra i due linguaggi? Sta tutta nelle emozioni. Credo che uno spettacolo teatrale molto bello rimanga nel cuore più a lungo di un buon film. A teatro hai un rapporto diretto con gli attori, che si muovono lì, davanti a te. Il cinema, invece, non sembra reale. Certo, apprezzo la trama del film, ma è una sensazione molto più psicologica che emozionale.

Qui in Italia, a livello di drammaturgia contemporanea, non ce la passiamo molto bene. Nessuno sembra più aver voglia di scrivere per il teatro…
Quello che mi dici è terribile. In Irlanda ed in Inghilterra, invece, i produttori hanno capito che, per tenere vivo il teatro, è necessario saper rischiare. Bisogna dare spazio a scrittori nuovi, giovani. Credo che oggi questo sia uno dei compiti fondamentali del teatro.

 

 


 
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