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Amleto
in scena alla Sala Fontana dal 5 al 29 aprile 2001

di Fabienne Agliardi

 

16/04/2001

 

Dopo il buon successo ottenuto con Romeo e Giulietta, Antonio Latella torna a firmare una regia prestigiosa, presentando il testo teatrale per eccellenza: Amleto di William Shakespeare. Prodotto dalla ELSINOR, una nuova società di teatri con sedi a Milano, Firenze e Forlì che ha come obiettivo quello di raccogliere e sviluppare idee, poetiche e talenti, questo “Amleto” si distingue fra gli innumerevoli altri per una serie di originalità registiche. In anteprima a Firenze il 3 aprile e debutto nazionale il 5 aprile a Milano, lo spettacolo rimarrà al Sala Fontana fino alla fine del mese per poi spostarsi nella sede di Forlì. Successivamente partirà un tour in città ancora da definire.

E’ un Amleto particolarissimo quello di Latella, molto diverso dall’eroe triste e melanconico dell’immaginario collettivo. E’ un Amleto che, dal suo primo apparire in scena, ci mostra un carattere differente dal quello tradizionale.
Danilo Nigrelli, nel ruolo del principe danese, esordisce con una recitazione quasi da “fool”, dipingendo un Amleto, ancora a lutto per la morte del padre, in atteggiamento di scherno, di sfida, con forzata giocosità nel tono di voce per evidenziare l’irriverenza nutrita nei confronti dello Zio divenuto re e patrigno (atto I, scena II, “A little more than kin, and less than kind” [“Molto più che un parente, meno che un figlio”]. Ma Amleto era così? Ognuno ha sempre visto l’Amleto che voleva vedere; ogni regista, ogni attore, ha dato al proprio personale Amleto forma e personalità plasmate secondo i propri criteri.

Questo Amleto, quello interpretato da Nigrelli, nel dipanarsi negli atti e delle scene, mostra il suo essere poliedrico e la grande forza interiore; anche nel “To be or not to be” ci devia, ancora una volta: il celebre “dubbio” amletico è appena sfiorato, appare quasi sfumato. Speculare ad Amleto, è Laerte, suo alter-ego, altro vendicatore: il duello finale non è una lotta (non a caso mancano le spade), ma è una danza, una danza mortale eppure armoniosa, danza che trascina inesorabilmente con sé tutti gli altri personaggi, vivi e morti: la regina, il re, Polonio, Orazio, Ofelia e la sua pazzia. Proprio Ofelia (Silvia Ajelli) e la sua pazzia restano sullo sfondo: nello svolgersi degli eventi, Ofelia è lì, con la sua lamentosa ricerca del padre ed è lì anche nelle ultime scene, vagante come gli altri personaggi nella danza mortale. Di grande spessore la regina, interpretata da Cristina Cavalli, la quale si mantiene sostanzialmente aderente all’immagine tradizionale della madre di Amleto. Ottima presenza scenica, la Cavalli ci mostra Gertrude nella sua drammaticità, colpevole ma allo stesso tempo vittima, madre e moglie, regina e donna.

Latella gioca, come Shakespeare, sull’interscambiabilità di Rosencrantz e Guildestern, personaggi indefiniti proprio perché vuoti e meschini, mostrandoceli uniti da un lungo ed unico berretto, siamesi che agiscono in simbiosi. A Latella si può forse solo rimproverare la scelta di aver completamente manomesso la prima scena dell’atto V, rendendola, a mio parere, “scollata” dal resto. I due becchini vengono tramutati in due “toscanacci” alla Benigni e lo stesso Amleto è più simile ad uno scanzonato Panariello che non al principe danese che riflette sull’ineludibilità della morte. Addirittura i tre si mettono a giocare a bowling con le ossa del camposanto e a pallone con il teschio del “povero Yorick”. La dissacrante scena in sé è anche divertente, ma è poco legata sia all’atmosfera, sia al testo.

Sobrie le scenografie; suggestivo ed interessate è l’uso di innumerevoli carriole, strumenti di scena veri e propri: ora troni, ora tombe o, più semplicemente, mezzi di trasporto. Anche i costumi (come le scene, a cura di Emanuele Pischedda), sono degni di attenzione: rigorosamente “dressed in black” Amleto, gli altri con una parvenza di medievale; ma la particolarità è senza dubbio la scelta di rappresentare alcuni personaggi chiusi in una specie di gabbia che avvolge testa o corpo, simbolo di chiusura e di inazione.

Nel complesso lo spettacolo, della durata di 3 ore, è molto piacevole ed interessante; gli attori sono tutti interpreti straordinariamente efficaci, tra i quali merita una menzione d’onore Danilo Nigrelli, davvero un Amleto vivissimo e affascinante. Una menzione di perplessità circa l’aggiunta di un’appendice al finale: una divagazione in tema di riflessioni sull’umana sorte, proposta in termini soggettivamente discutibili.
The rest is silence. Il resto è silenzio.

 

 


 
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