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Re Lear
In scena dal 16 al 18 febbraio al Teatro Coccia di Novara.

di Mario Macchitella

 
12/04/2001
 

Glauco Mauri, uno dei nostri attori più grandi, ha scelto, già da alcuni anni, di affiancare al proprio percorso artistico sul palcoscenico quello, non meno insidioso, della regia. E, in questa occasione, si è misurato con un testo, il Re Lear shakespeariano, che da molti, in varie epoche, è stato definito irrappresentabile, vuoi per la sua grande complessità scenica, vuoi per la totale e precoce rottura delle unità aristoteliche, vuoi per le sue ampie divagazioni liriche: il risultato, certamente positivo, è uno spettacolo che, oltre ad essere stato addomesticato e reso rappresentabilissimo, cattura, nonostante la sua lunghezza, l’attenzione del pubblico in sala.

La pièce, datata 1605-1606, tratta della triste degenerazione verso la follia di un vecchio sovrano, Lear appunto, che, dopo aver abdicato, scopre progressivamente che gli unici, tra parenti e fiduciari, a serbare per lui un minimo di amore e rispetto, sono quelli che egli stesso, accecato dall’egoismo, aveva diseredato ed esiliato. La complessa vicenda scorre comunque intensa e gradevole anche in italiano, grazie alla buona traduzione del “nostro” professor Dario Del Corno, grecista di chiara fama.
La regia di Mauri è consistita prevalentemente nell’avere elaborato un susseguirsi di scene, anche se non sempre perfettamente fuse l’una nell’altra, di grandissimo impatto visivo ed emozionale per il pubblico. Si assiste, infatti, a momenti di poetici giochi di luce cinematografici, alternati a efficacissimi effetti speciali; non mancano, inoltre, alcune vere e proprie chicche (come il mantello di Lear, che si apre per diventare grande e coloratissima carta geografica del regno), che strappano lo stupito assenso degli spettatori. Inoltre Mauri ha, apprezzabilmente, reso l’intero spettacolo meno grave e più colloquiale rispetto ad altre edizioni più sedimentate e stereotipate, cogliendo quindi la sottile ironia che permea le opere shakespeariane e ha rafforzato tale intendimento con una scelta scenografica completamente scura e spoglia (un tavolato nero leggermente inclinato).

Bello è anche il ricorso quasi filologico a semplicissimi macchinismi ed a botole tipici degli autentici teatri elisabettiani tardo cinquecenteschi, in stridente ma piacevolissimo contrasto con le sofisticatezze prima descritte.
L’ultimo aspetto pienamente convincente della rappresentazione è l’ottima prova d’attore di Glauco, che sa essere di volta in volta gelido, umano, pazzo, tenero, odioso, con semplicità e naturalezza e senza alcuna affettazione retorica.
Purtroppo, però, la compagnia privata che fa capo al grande maestro si rivela inadeguata ( in alcuni casi ai limiti del dilettantismo) al confronto con lo stesso. Diversi personaggi appaiono monotoni, piatti e privi di personalità, squalificando il tono generale della pièce e sminuendo il testo del trageda inglese, così drammatico e lirico al tempo stesso. Va comunque segnalata la piacevole eccezione di Roberto Sturno, bravo ed avvincente nel ruolo di Tom of Bedlam.

Inoltre il play risulta complessivamente appesantito dalle trovate sceniche prima descritte, che sembrano troppe e troppo compiaciute, sostanzialmente autoreferenziali e barocche: in pratica si ha l’impressione che, a volte, sia la scena che si serve del testo e non il contrario.
Peccato che queste cadute vadano ad inficiare una delle rappresentazioni potenzialmente più suggestive degli ultimi tempi.

 

 


 
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