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Glauco
Mauri, uno dei nostri attori più grandi,
ha scelto, già da alcuni anni, di affiancare
al proprio percorso artistico sul palcoscenico quello,
non meno insidioso, della regia. E, in questa occasione,
si è misurato con un testo, il Re Lear shakespeariano,
che da molti, in varie epoche, è stato definito
irrappresentabile, vuoi per la sua grande complessità
scenica, vuoi per la totale e precoce rottura delle
unità aristoteliche, vuoi per le sue ampie divagazioni
liriche: il risultato, certamente positivo, è
uno spettacolo che, oltre ad essere stato addomesticato
e reso rappresentabilissimo, cattura, nonostante la
sua lunghezza, lattenzione del pubblico in sala.
La
pièce, datata 1605-1606, tratta della triste
degenerazione verso la follia di un vecchio sovrano,
Lear appunto, che, dopo aver abdicato, scopre progressivamente
che gli unici, tra parenti e fiduciari, a serbare per
lui un minimo di amore e rispetto, sono quelli che egli
stesso, accecato dallegoismo, aveva diseredato
ed esiliato. La complessa vicenda scorre comunque intensa
e gradevole anche in italiano, grazie alla buona traduzione
del nostro professor Dario Del Corno,
grecista di chiara fama.
La regia di Mauri è consistita prevalentemente
nellavere elaborato un susseguirsi di scene, anche
se non sempre perfettamente fuse luna nellaltra,
di grandissimo impatto visivo ed emozionale per il pubblico.
Si assiste, infatti, a momenti di poetici giochi di
luce cinematografici, alternati a efficacissimi effetti
speciali; non mancano, inoltre, alcune vere e proprie
chicche (come il mantello di Lear, che si apre per diventare
grande e coloratissima carta geografica del regno),
che strappano lo stupito assenso degli spettatori. Inoltre
Mauri ha, apprezzabilmente, reso lintero spettacolo
meno grave e più colloquiale rispetto ad altre
edizioni più sedimentate e stereotipate, cogliendo
quindi la sottile ironia che permea le opere shakespeariane
e ha rafforzato tale intendimento con una scelta scenografica
completamente scura e spoglia (un tavolato nero leggermente
inclinato).
Bello
è anche il ricorso quasi filologico a semplicissimi
macchinismi ed a botole tipici degli autentici teatri
elisabettiani tardo cinquecenteschi, in stridente ma
piacevolissimo contrasto con le sofisticatezze prima
descritte.
Lultimo aspetto pienamente convincente della rappresentazione
è lottima prova dattore di Glauco,
che sa essere di volta in volta gelido, umano, pazzo,
tenero, odioso, con semplicità e naturalezza
e senza alcuna affettazione retorica.Purtroppo,
però, la compagnia privata che fa capo al grande
maestro si rivela inadeguata ( in alcuni casi ai limiti
del dilettantismo) al confronto con lo stesso. Diversi
personaggi appaiono monotoni, piatti e privi di personalità,
squalificando il tono generale della pièce e
sminuendo il testo del trageda inglese, così
drammatico e lirico al tempo stesso. Va comunque segnalata
la piacevole eccezione di Roberto Sturno, bravo
ed avvincente nel ruolo di Tom of Bedlam.
Inoltre
il play risulta complessivamente appesantito dalle trovate
sceniche prima descritte, che sembrano troppe e troppo
compiaciute, sostanzialmente autoreferenziali e barocche:
in pratica si ha limpressione che, a volte, sia
la scena che si serve del testo e non il contrario.
Peccato che queste cadute vadano ad inficiare una delle
rappresentazioni potenzialmente più suggestive
degli ultimi tempi.
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