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Vita
e teatro. Mai binomio ha definito meglio il lavoro di
una compagnia. Nel 1997 Pippo Delbono, autore-regista-attore
genovese, si recò in un manicomio di Aversa per
presentare una lezione di teatro, e, proprio lì,
di fronte a quelluditorio molto particolare, ebbe
una folgorazione: si rese conto che quellumanità,
senzatetto, vagabondi, persone con disagi psichici,
riusciva a vivere larte del palcoscenico in maniera
molto più viva e diretta. Per quegli uomini e
quelle donne recitare non era un mestiere come un altro,
ma unesperienza fondamentale per sopravvivere,
una necessità di vita. E quello fu anche il giorno
del suo incontro con Bobò, un paziente di sessantanni,
microcefalo e sordomuto, che lo colpì per lemozione,
la poesia unica con cui esprimeva le sue emozioni. Da
quel momento anche Bobò entrò a far parte
della compagnia di Delbono: un gruppo tutto speciale,
che, accanto ad attori professionisti, accoglie persone
ai margini della società e portatori di handicap.
Anche
in Esodo la ricerca di Delbono è
frutto di una mancanza, di una ferita, e si apre allincontro
con la diversità. Questa volta loccasione
per riflettere è offerta dalluniverso degli
extracomunitari: un esodo fisico e interiore, narrato
con immagini sospese fra sorriso e amarezza. Le parole
di Bertolt Brecht, Primo Levi, Charlie
Chaplin, Pier Paolo Pasolini ci ricordano
come è dura la guerra e quante sofferenze porta
con sé; gli attori sono lì a testimoniarci
il dolore di chi è fuggito da una dittatura,
di chi è prigioniero di un corpo che non gli
appartiene, di chi ha paura della morte.
Di
fronte a questo spettacolo di Pippo Delbono si
rimane quanto mai perplessi: da un lato ci sono alcune
scene fantasiose -di taglio quasi impressionista-
veramente splendide, dallaltro si assiste, purtroppo,
al trionfo del cattivo gusto; è come se il regista
volesse mescolare insieme due elementi molto diversi,
che diventano sempre più estranei man mano che
il racconto procede. I brani più alti di Esodo
sono rappresentati dalle scene recitate dagli attori
professionisti: una festa di Capodanno, durante la quale
un uomo, che indossa uno sfarzoso abito femminile e
vertiginosi tacchi a spillo, balla al ritmo di una canzone
americana anni 60; un momento lugubre, durante
il quale due personaggi, che indossano maschere tipiche
dei riti satanici, spingono una carrozzella sulla quale
si dispera una figura femminile; una immagine tragica,
in cui tre donne dalle vesti sgargianti cadono a terra
colpite a morte, mentre, dietro di loro, alcune madri
vestite a lutto piangono insieme ai loro bambini.
Molto
azzeccata lidea di sottolineare le scene divertenti
con allegre musiche latino-americane, spagnole e francesi,
di commentare le scene toccanti con parole di Bertolt
Brecht o del Vecchio Testamento. Ma, al di là
di queste immagini, i riflettori si spengono, o meglio,
dovrebbero spegnersi: è piuttosto inutile inventare
altre scene per esibire su un palco gli handicap di
persone che già, durante la vita di tutti i giorni,
vengono guardate per la loro diversità,
non importa che qui interpretino la parte di Hitler
o del bravo soldato. Troppo netto è lo stacco
fra le scene impressioniste, recitate dagli
attori della compagnia, e le altre: sarebbe meglio che
Delbono decidesse fra teatro recitato e
teatro verità. Noi propendiamo decisamente
a favore del primo.
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