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Esilio sentimentale
Ritorna a Milano il teatro-verità degli emarginati: “Esodo”, scritto e diretto da Pippo Delbono. In scena al Teatro Studio dal 13 febbraio al 4 marzo.

di Mascia Nassivera

20/02/2001
 

Vita e teatro. Mai binomio ha definito meglio il lavoro di una compagnia. Nel 1997 Pippo Delbono, autore-regista-attore genovese, si recò in un manicomio di Aversa per presentare una lezione di teatro, e, proprio lì, di fronte a quell’uditorio molto particolare, ebbe una folgorazione: si rese conto che quell’umanità, senzatetto, vagabondi, persone con disagi psichici, riusciva a vivere l’arte del palcoscenico in maniera molto più viva e diretta. Per quegli uomini e quelle donne recitare non era un mestiere come un altro, ma un’esperienza fondamentale per sopravvivere, una necessità di vita. E quello fu anche il giorno del suo incontro con Bobò, un paziente di sessant’anni, microcefalo e sordomuto, che lo colpì per l’emozione, la poesia unica con cui esprimeva le sue emozioni. Da quel momento anche Bobò entrò a far parte della compagnia di Delbono: un gruppo tutto speciale, che, accanto ad attori professionisti, accoglie persone ai margini della società e portatori di handicap.

Anche in “Esodo” la ricerca di Delbono è frutto di una mancanza, di una ferita, e si apre all’incontro con la diversità. Questa volta l’occasione per riflettere è offerta dall’universo degli extracomunitari: un esodo fisico e interiore, narrato con immagini sospese fra sorriso e amarezza. Le parole di Bertolt Brecht, Primo Levi, Charlie Chaplin, Pier Paolo Pasolini ci ricordano come è dura la guerra e quante sofferenze porta con sé; gli attori sono lì a testimoniarci il dolore di chi è fuggito da una dittatura, di chi è prigioniero di un corpo che non gli appartiene, di chi ha paura della morte.

Di fronte a questo spettacolo di Pippo Delbono si rimane quanto mai perplessi: da un lato ci sono alcune scene fantasiose -di taglio quasi “impressionista”- veramente splendide, dall’altro si assiste, purtroppo, al trionfo del cattivo gusto; è come se il regista volesse mescolare insieme due elementi molto diversi, che diventano sempre più estranei man mano che il racconto procede. I brani più alti di “Esodo” sono rappresentati dalle scene recitate dagli attori professionisti: una festa di Capodanno, durante la quale un uomo, che indossa uno sfarzoso abito femminile e vertiginosi tacchi a spillo, balla al ritmo di una canzone americana anni ’60; un momento lugubre, durante il quale due personaggi, che indossano maschere tipiche dei riti satanici, spingono una carrozzella sulla quale si dispera una figura femminile; una immagine tragica, in cui tre donne dalle vesti sgargianti cadono a terra colpite a morte, mentre, dietro di loro, alcune madri vestite a lutto piangono insieme ai loro bambini.

Molto azzeccata l’idea di sottolineare le scene divertenti con allegre musiche latino-americane, spagnole e francesi, di commentare le scene toccanti con parole di Bertolt Brecht o del Vecchio Testamento. Ma, al di là di queste immagini, i riflettori si spengono, o meglio, dovrebbero spegnersi: è piuttosto inutile inventare altre scene per esibire su un palco gli handicap di persone che già, durante la vita di tutti i giorni, vengono guardate per la loro “diversità”, non importa che qui interpretino la parte di Hitler o del bravo soldato. Troppo netto è lo stacco fra le scene “impressioniste”, recitate dagli attori della compagnia, e le altre: sarebbe meglio che Delbono decidesse fra teatro “recitato” e teatro “verità”. Noi propendiamo decisamente a favore del primo.

 

 


 
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