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"Vita
di Galileo" è una delle opere fondamentali
del '900. Brecht (1898-1956) iniziò a
scriverla nel 1937, inaugurando così il "teatro
epico". Egli rifiutava l'idea di uno spettatore
passivo, voleva uomini e donne che ragionassero quando
andavano a teatro. Ideò l'"effetto di straniamento",
che impediva l'identificazione sia degli interpreti
e che del pubblico con la narrazione. Si servì
di canzoni, didascalie, proiezioni a commento della
vicenda, di attori che "mostravano" il loro
personaggio, consci di recitare su un palco. Bandite
le suggestioni, si faceva avanti la ragione.
La
carriera di Galileo, dall'invenzione del cannocchiale
ai giorni di Arcetri, è solo un pretesto per
controbattere a chi afferma: "La scienza non ha
che un obbligo: contribuire alla scienza". A Brecht
non interessa un recupero "archeologico" dell'uomo
Galileo, ma vuole che il pubblico rifletta sul binomio
scienza-società. Qual è il fine della
ricerca scientifica? Il potere è libero di impadronirsene
togliendola all'uomo? "Ora i moti dei corpi celesti
sono a noi più chiari; ma i moti dei potenti
rimangono pur sempre sconosciuti ai popoli". Così
Galileo, così Brecht.
Chi
ha ancora davanti agli occhi lo spettacolo che Giorgio
Strehler allestì nel 1963 al Piccolo Teatro
(la prima volta di "Vita di Galileo"
in Italia), certamente rimarrà deluso da questo
allestimento. Il regista Gigi Dall'Aglio dà
alla messinscena un taglio molto più brechtiano
che strehleriano, liberandola da quella "pesantezza"
che spesso viene associata agli spettacoli del drammaturgo
tedesco. Ne siamo avvisati fin dall'inizio, osservando
l'essenzialità di una scenografia che di naturalistico
ha ben poco, e che possiamo definire "concettuale":
una piramide di cubi metallici sulla sinistra, un fondale
di pietra nera con in mezzo il profilo di un astro,
una pedana verde inclinata, sopra la quale gli attori
camminano e disegnano (un ricordo della gigantesca mappa
della "Vita è sogno" di Luca
Ronconi?). L'idea registica di fondo è quella
di creare uno spettacolo in cui protagonista non sia
lo scontro fra l'eroe-Galileo ed il potere costituito,
bensì il problema dell'utilità sociale
delle scoperte scientifiche: non può accadere,
come invece afferma un allievo di Galileo, che la scienza
abbia il solo imperativo di contribuire alla scienza.
Per sostenere la sua tesi, Dall'Aglio crea un allestimento
semplice, accessibile, che sottolinea l'ironia di certe
situazioni, e, soprattutto, la dimensione corale del
racconto a cui Brecht tanto teneva: "
Un
narratore collettivo, composto da attori impegnati intorno
ad una stessa necessità intellettuale".
E lo straniamento brechtiano, il rifiuto dell'immedesimazione
di attori e pubblico nei personaggi, come viene risolto
da Dell'Aglio? Il regista lo sottolinea attraverso
quattro elementi fondamentali: la figura del pianista,
che, sempre presente sulla scena, intona canzoncine
ironiche a commento di particolari situazioni; l'idea
di far uscire spesso Mariano Rigillo (Galileo)
dal suo personaggio e di farlo dialogare col pubblico;
la
recitazione molto caricata degli attori che rappresentano
il potere; il doppio ruolo dei 12 membri della compagnia,
ognuno dei quali interpreta più di un personaggio.
Se si vuole trovare qualche difetto all'allestimento,
lo si può riscontrare nella seconda parte, un
po' troppo lunga. Eccessive appaiono , inoltre, alcune
scene, come quella di papa Barberini in "pigiama".
Ottimo il Galileo Galilei di Mariano Rigillo,
che dosa con sapienza ironia e drammaticità;
indimenticabile la signora Sarti, interpretata con vivacità
da Fiorella Buffa.
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