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L'uomo che rovesciò il firmamento
Dopo due anni di applausi arriva anche a Milano il Bertolt Brecht firmato Gigi Dall'Aglio. In scena al Teatro Carcano, dal 23 gennaio al 4 febbraio.

di Mascia Nassivera

 
28/01/2001
 

"Vita di Galileo" è una delle opere fondamentali del '900. Brecht (1898-1956) iniziò a scriverla nel 1937, inaugurando così il "teatro epico". Egli rifiutava l'idea di uno spettatore passivo, voleva uomini e donne che ragionassero quando andavano a teatro. Ideò l'"effetto di straniamento", che impediva l'identificazione sia degli interpreti e che del pubblico con la narrazione. Si servì di canzoni, didascalie, proiezioni a commento della vicenda, di attori che "mostravano" il loro personaggio, consci di recitare su un palco. Bandite le suggestioni, si faceva avanti la ragione.

La carriera di Galileo, dall'invenzione del cannocchiale ai giorni di Arcetri, è solo un pretesto per controbattere a chi afferma: "La scienza non ha che un obbligo: contribuire alla scienza". A Brecht non interessa un recupero "archeologico" dell'uomo Galileo, ma vuole che il pubblico rifletta sul binomio scienza-società. Qual è il fine della ricerca scientifica? Il potere è libero di impadronirsene togliendola all'uomo? "Ora i moti dei corpi celesti sono a noi più chiari; ma i moti dei potenti rimangono pur sempre sconosciuti ai popoli". Così Galileo, così Brecht.

Chi ha ancora davanti agli occhi lo spettacolo che Giorgio Strehler allestì nel 1963 al Piccolo Teatro (la prima volta di "Vita di Galileo" in Italia), certamente rimarrà deluso da questo allestimento. Il regista Gigi Dall'Aglio dà alla messinscena un taglio molto più brechtiano che strehleriano, liberandola da quella "pesantezza" che spesso viene associata agli spettacoli del drammaturgo tedesco. Ne siamo avvisati fin dall'inizio, osservando l'essenzialità di una scenografia che di naturalistico ha ben poco, e che possiamo definire "concettuale": una piramide di cubi metallici sulla sinistra, un fondale di pietra nera con in mezzo il profilo di un astro, una pedana verde inclinata, sopra la quale gli attori camminano e disegnano (un ricordo della gigantesca mappa della "Vita è sogno" di Luca Ronconi?). L'idea registica di fondo è quella di creare uno spettacolo in cui protagonista non sia lo scontro fra l'eroe-Galileo ed il potere costituito, bensì il problema dell'utilità sociale delle scoperte scientifiche: non può accadere, come invece afferma un allievo di Galileo, che la scienza abbia il solo imperativo di contribuire alla scienza. Per sostenere la sua tesi, Dall'Aglio crea un allestimento semplice, accessibile, che sottolinea l'ironia di certe situazioni, e, soprattutto, la dimensione corale del racconto a cui Brecht tanto teneva: "…Un narratore collettivo, composto da attori impegnati intorno ad una stessa necessità intellettuale".

E lo straniamento brechtiano, il rifiuto dell'immedesimazione di attori e pubblico nei personaggi, come viene risolto da Dell'Aglio? Il regista lo sottolinea attraverso quattro elementi fondamentali: la figura del pianista, che, sempre presente sulla scena, intona canzoncine ironiche a commento di particolari situazioni; l'idea di far uscire spesso Mariano Rigillo (Galileo) dal suo personaggio e di farlo dialogare col pubblico; la recitazione molto caricata degli attori che rappresentano il potere; il doppio ruolo dei 12 membri della compagnia, ognuno dei quali interpreta più di un personaggio. Se si vuole trovare qualche difetto all'allestimento, lo si può riscontrare nella seconda parte, un po' troppo lunga. Eccessive appaiono , inoltre, alcune scene, come quella di papa Barberini in "pigiama". Ottimo il Galileo Galilei di Mariano Rigillo, che dosa con sapienza ironia e drammaticità; indimenticabile la signora Sarti, interpretata con vivacità da Fiorella Buffa.

 

 


 
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