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Milano,
la seconda generazione
La strana storia di due imprenditori nella capitale lombarda.
Molto amici di Vittorio Mangano, lo «stalliere».
Molto vicini a Marcello Dell'Utri.
di Gianni Barbacetto
Era un uomo metodico, puntuale fino allossessione.
Maurizio Pierro, consulente finanziario, usciva dalla sua
bella villa appena fuori Varese ogni mattina alle 7, imboccava
lautostrada dei Laghi, arrivava a Milano, si sedeva
alla scrivania nel suo ufficio in zona Fiera, due interi piani
in una palazzina elegante, cinquanta dipendenti ai suoi ordini.
Ogni sera, alle 18.45 in punto, usciva, si buttava nel traffico
dei viali che portano allautostrada, alle 19 con il
cellulare dallauto avvisava la moglie («Sto arrivando»),
attorno alle 20 rientrava a casa.
Vittorio Mangano, in barella e sorvegliato dalla polizia,
depone al processo
contro Marcello DellUtri a Palermo
La sera di martedì 11 febbraio 1997, a casa
lo aspettavano la moglie, i due figli di 18 e 20 anni, i suoceri
e una torta con le candeline. Era il suo cinquantaseiesimo
compleanno. Puntuale come sempre, Maurizio Pierro lasciò
il suo studio alle 18.45. Ma non chiamò la moglie,
alle 19, per dirle «sto arrivando». Lo trovarono
nella notte in via Gattamelata, a meno di un chilometro dal
suo ufficio. Era seduto nella sua auto, al volante, rivolto
verso destra, come se stesse parlando con qualcuno seduto
al suo fianco. Aveva in corpo quattro proiettili calibro 7.65,
sparati da molto vicino: un colpo in mezzo agli occhi, un
colpo al cuore, un colpo in mezzo al petto; il quarto colpo,
dopo avergli sfiorato lo stomaco, si era conficcato nella
portiera della sua monovolume giapponese. Il portafoglio era
al suo posto, nella tasca della giacca, il computer portatile
sul sedile posteriore.
Con chi aveva appuntamento, Maurizio Pierro, quella sera
in via Gattamelata? Chi fu il suo ultimo interlocutore, seduto
accanto a lui in auto?
Pierro era nato a Tripoli ed era diventato un uomo di successo.
Ragioniere, guadagnava più di un commercialista, giro
daffari miliardario, presenza in una miriade di società.
Tra i suoi clienti vi era anche la Chanel. Splendida villa
in Sardegna, grande passione per il golf, nutrito parco auto,
in cui spiccava una bella Porsche. Per la sua società
principale, la Selma, aveva scelto un nome furbo: esiste infatti
una Selma Leasing legata nientemeno che a Mediobanca. Pierro
invece si era legato alla finanza dassalto, tanto da
restare invischiato in una storia da anni Ottanta, il crac
di una società che raccoglieva risparmi e piccoli capitali
promettendo alti rendimenti, aveva convinto 3 mila persone
ed era finita con una bancarotta da 120 miliardi.
Dopo
la notte di via Gattamelata, per un paio danni tutti
si sono scordati di Maurizio Pierro e di quel colpo sparato
in mezzo agli occhi, nella civilissima Milano. Il caso, irrisolto,
delluomo che non arrivò puntuale alla sua ultima
festa di compleanno è tornato dattualità
nella primavera 1999. I fascicoli di quellomicidio senza
colpevole sono stati ripescati dagli archivi e sono arrivati
sulle scrivanie dei magistrati antimafia di Milano: Pierro
infatti era consulente finanziario anche di una galassia di
società che facevano capo a due imprenditori, Natale
Sartori e Antonino Currò, arrestati martedì
9 marzo 1999 a Milano e imputati di rapporti mafiosi insieme
a un più noto imprenditore e politico che li conosceva
bene: Marcello DellUtri.
I magistrati di Palermo Antonio Ingroia, Domenico
Gozzo, Mauro Terranova e Umberto De Giglio nel marzo 1999
chiedono per DellUtri addirittura larresto. Accusa:
aver tentato di convincere un paio di pentiti,
grazie a generose offerte di denaro, a testimoniare a suo
favore. I due, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo, avrebbero
dovut
o raccontare di essere stati avvicinati da altri collaboratori
di giustizia, che li volevano spingere ad aggiungersi agli
accusatori di DellUtri, inventandosi falsi addebiti
a suo carico. Se loperazione fosse andata in porto,
leffetto sarebbe stato dirompente: sarebbe crollata
la credibilità di tutti i testimoni anti-DellUtri,
sarebbe passata lipotesi di un complotto, di un accordo
tra pentiti ai danni del collaboratore di Berlusconi.
I magistrati di Palermo e gli agenti della Dia scoprono
il piano. Gli agenti della Direzione investigativa antimafia
filmano addirittura alcuni incontri tra DellUtri e Chiofalo,
uno dei due falsi pentiti. Questi poi racconta: «DellUtri
mi disse: Confermi le accuse di Cirfeta e io farò
ricco lei e la sua famiglia, avrà per sempre la riconoscenza
mia, del dottor Berlusconi e quella di tutte le persone che
ci vogliono bene». Il Parlamento, malgrado avesse
ricevuto unimponente documentazione dei fatti, respingerà
la richiesta darresto.
Ma cè una parte tutta milanese di questa
indagine, passata in secondo piano a causa del turbine
di polemiche seguite alla richiesta darresto per DellUtri.
È lindagine che ha messo a fuoco le attività
di Sartori e Currò. Quasi tutta lattenzione è
stata catturata, per forza di cose, dal braccio destro di
Silvio Berlusconi, ieri presidente di Publitalia, oggi deputato
di Forza Italia, accusato dalla procura palermitana di voler
comprare una pattuglia di «pentiti» al fine di
affondare linchiesta sulle sue relazioni pericolose
con Cosa nostra. Ma le indagini del sostituto procuratore
di Milano Maurizio Romanelli e della Dia hanno scoperto ben
altro: gli affari, legali e illegali, di un gruppo di persone
che secondo gli investigatori sono i nuovi colletti bianchi
di Cosa nostra a Milano, i manager in giacca e cravatta della
mafia siciliana. In rapporto diretto con figli e nipoti di
due vecchi boss, Gerlando Alberti e Vittorio Mangano. Insomma:
Cosa nostra, seconda generazione.
Un quarto di secolo è passato da quando i due comparvero
sulla scena: il primo, Gerlando Alberti, con fragore: il più
grande raffinatore di eroina in Sicilia in tempi in cui si
pensava che gli stupefacenti fossero un affare dei marsigliesi;
il secondo, Mangano, in punta di piedi e inosservato: devoto
stalliere nella villa di un costruttore emergente
che era lessenza della milanesità.
Nella Milano delle grandi trasformazioni finanziarie, dei
grandi giochi per costruire i nuovi colossi bancari, assicurativi,
delle telecomunicazioni, nella città dei soldi - danée
e piccioli insieme - si sono rese visibili altre trasformazioni,
in un settore più piccolo ma non meno vivace. Quello
della finanza grigia.
«Il consorzio Cisa ha come missione il coordinamento
armonico degli associati, fondendoli in un Gruppo omogeneo
ed organizzato, fornitore di Risorse e di servizi a terzi,
teso costantemente al raggiungimento di sempre nuovi obiettivi
di Progresso e di Qualità, al fine di offrire ai propri
Clienti elevati livelli di servizio, ottenendo soprattutto
la loro primaria soddisfazione, per un reciproco e durevole
vantaggio economico. Il Cisa è una Impresa di servizi
al servizio delle Imprese». Firmato: «Il Presidente,
Natale Sartori».
Allamericana, la missione, lobiettivo del
Cisa, con tutte le sue maiuscole, è incorniciata in
un quadretto nella sede dellazienda, in via Ripamonti
a Milano. Il Cisa è la capogruppo di una rete di società
e cooperative che offrono servizi alle imprese: soprattutto
pulizie, facchinaggio, trasporti. Terziario flessibile, molto
flessibile: come numero di dipendenti (da 800 a 2 mila), come
numero di aziende (nove sono le cooperative consorziate al
Cisa, ma le imprese che ruotano attorno alla galassia di Sartori
e del suo socio Currò sono molte di più), come
rapporto di lavoro (chi è impiegato nelle cooperative
del gruppo formalmente non è dipendente, ma socio).
Certo è che il giro daffari, per Sartori e Currò,
è miliardario. Forniscono servizi a imprese di primo
piano come la Esselunga supermercati e la Bartolini trasporti.
Un bel risultato, per due messinesi arrivati a Milano nei
primi anni Ottanta e che hanno cominciato da zero (una vecchia
relazione di polizia li segnala come occupanti abusivi di
appartamenti dellIstituto Case Popolari di Milano).
In una decina danni sono diventati imprenditori di successo,
hanno uffici ben arredati, begli appartamenti, auto di grossa
cilindrata. Sartori possiede una splendida villa in Sardegna,
a San Teodoro.
«Ci hanno preso di mira. Solo perché siamo siciliani,
siamo mafiosi», spiega, appena un po imbarazzata,
Provvidenza (detta Enza) Giargiana, una signora quarantenne,
bionda, moglie di Sartori. «Volevano rompere le scatole
a DellUtri, così sono venuti a romperle anche
a noi, perché lo conosciamo, perché lavoriamo
per la società di DellUtri, Publitalia. Sì,
forniamo il servizio di pulizia negli uffici di Publitalia,
come lo forniamo a tante altre aziende. Tutte private, sintende,
non lavoriamo con gli enti pubblici», si affretta a
puntualizzare mentre attorno trillano i telefoni e gli impiegati
si danno da fare. «Lo hanno arrestato, mio marito, ma
noi dobbiamo andare avanti a lavorare: abbiamo nove cooperative
consorziate, 800 dipendenti, e alla fine del mese dobbiamo
dare uno stipendio a tutti».
Ma che rapporti, privati e daffari, ha Sartori con
la famiglia Mangano? Alla parola «Mangano» Enza
Giargiana smette di parlare, cerca con gli occhi gli occhi
di un collaboratore dai modi più bruschi. Lincontro
è finito.
Mangano? Vittorio Mangano è ormai noto alle cronache
come lo stalliere o il fattore di
Berlusconi, perché nel 1974 abitò nella villa
di Arcore del Cavaliere. In realtà è un boss
di Cosa nostra inviato negli anni Settanta a Milano con lincarico
di tenere i contatti con gli imprenditori del Nord; poi fu
reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, una delle
più importanti di Palermo; infine fu arrestato e recluso
nel carcere di Pianosa. È del febbraio 1980 la famosa
telefonata tra Mangano e DellUtri in cui i due parlano
di «cavalli» da «consegnare in albergo»:
Paolo Borsellino, nella sua ultima intervista prima di essere
ucciso, si disse convinto che il termine «cavalli»
era riferito al traffico di stupefacenti e così fu
accettato dal tribunale di Palermo, in una sentenza diventata
per Mangano ormai definitiva.
Il rapporto tra i Mangano e il gruppo di Sartori è
strettissimo. La moglie di Mangano, quando viene a Milano,
dove vivono anche le sue figlie, è ospitata non da
queste ma dalla moglie di Sartori, nella bella casa di Caleppio
di Settala alla periferia della città. Delle tre figlie
di Mangano, due, Cinzia (30 anni) e Loredana detta Lory (33
anni), si sono trasferite a Milano e vivono in una palazzina
a tre piani nel verde, a Peschiera Borromeo, ai confini est
di Milano. Sono state immediatamente assunte alla Ecosea,
una delle società di Sartori (La terza figlia di Mangano,
nata nel 1975, è stata chiamata Marina, ha raccontato
il padre, proprio come la figlia di Berlusconi e in onore
di un datore di lavoro tanto squisito).
Daniele Formisano (25 anni), nipote di Vittorio Mangano,
è anchegli arrivato a Milano nel 1997 ed è
subito stato assunto dal gruppo. «Bisognerebbe parlargli
per motivi di lavoro», dice Sartori a un suo collaboratore,
«ma con rispetto, perché è il cugino di
Loredana»: i rapporti di parentela, se si tratta di
Mangano, valgono più delletà, dellesperienza,
della professionalità. Il «rispetto», in
questo caso, si trasforma in uno stipendio di 3 milioni al
mese. Poi Formisano, da vero «figlio darte»,
arrotonda con altri affarucci. Nel febbraio 1998, per esempio,
dimostra di avere stoffa e buoni contatti mettendo in piedi
un traffico di 300 chili di marjuana di ottima qualità,
trattando alla pari con fornitori albanesi. È in contatto
con Maniola Prifti, unalbanese che l11 luglio
1998 è stata arrestata nelloperazione Africa.
Che cosa fanno i nostri colletti bianchi di Cosa Nostra?
Innanzitutto affari, con le cooperative di Sartori e con i
mille traffici (molti con i Paesi est-europei) di Currò.
Ma non solo: si danno da fare per tirar fuori di galera il
loro boss di riferimento, Vittorio Mangano; danno supporto
a un mafioso latitante, Enrico Di Grusa, che ha sposato la
figlia di Mangano, Lory; organizzano unincredibile rete
di rapporti con alti ufficiali dei Carabinieri e della Guardia
di finanza.
Per migliorare la situazione carceraria di Mangano sincontrano
con DellUtri, che vedono più volte a Milano,
alla presenza di Di Grusa e di un altro figlio darte,
Vincenzo La Piana, marito di Maria Alberti (la nipote del
boss Gerlando Alberti) e dunque nipote acquisito del mitico
U Paccaré, che cascò dalle nuvole quando gli
chiesero della mafia e rispose: «E che è? Una
marca di formaggi?».
La Piana, che alla fine degli anni Settanta era uno degli
addetti alla raffineria deroina di Trabia (una delle
più grandi dEuropa, capace di produrre miliardi
al giorno), nel 1997 comincia a collaborare con i magistrati
e nei mesi scorsi ha raccontato a Romanelli anche gli incontri
a cui è stato presente tra DellUtri e i colletti
bianchi milanesi.
Il primo incontro avvenne nel 1995 al ristorante Al
Timeout 4 di via Benaco. DellUtri non mangiò,
si fermò soltanto una ventina di minuti, il tempo di
un aperitivo, e sinformò sulle mosse già
compiute per «far volare la quaglia», cioè
per ottenere il trasferimento di Mangano da Pianosa. Concluse:
«Datemi qualche giorno di tempo, ci teniamo in contatto».
Promessa mantenuta: due giorni dopo, nuovo incontro al ristorante
Da Luigi in via Marcona, buon pesce e frutti di
mare. Lì DellUtri assicurò che «si
stava interessando non solo per ottenere il trasferimento
di Vittorio Mangano, ma addirittura per ottenere la sua scarcerazione».
Ma attenti, disse ai suoi commensali: «Il Cavaliere
sta nelle acque sporche e brutte, ci dobbiamo tenere abbottonati».
Poco dopo, l8 novembre 1995, Mangano uscì da
Pianosa e fu ricoverato nel centro clinico di Pisa. Missione
compiuta.
Ma Sartori incontra DellUtri anche altre volte.
Lultima, il 12 ottobre 1998, nel suo ufficio di via
Senato 14. «Sono stato là e gli ho spiegato»,
racconta poi Sartori parlando al telefono (intercettato dalla
Dia) con il socio Currò e il dipendente (da trattare
con «rispetto») Daniele Formisano. «La parola
che mi ha detto lui è: ma mi sembra impossibile, però
verifico e poi le faccio sapere. (...) Son tutte chiacchiere,
la gente chiacchiera».
Che cosa ha «spiegato» Sartori a DellUtri?
Di che cosa aveva paura? Che «verifica» si è
impegnato a fare lex presidente di Publitalia oggi deputato
di Forza Italia? Sartori aveva mangiato la foglia: aveva ormai
forti sospetti che qualcuno del giro (Vincenzo La Piana: era
lui, il Giuda) stava spifferando tutto alla polizia.
Lincontro precedente, quello più cinematografico,
era avvenuto in un capannone di Rozzano, dove Di Grusa si
era recato con La Piana e aveva trovato Sartori e Currò
già in compagnia di DellUtri. Argomento discusso,
secondo La Piana, il finanziamento di unimportazione
di cocaina dalla Colombia: 100 chili, 25 milioni al chilo,
pagamento metà alla consegna, metà a 30 giorni.
Erano dunque necessari 1 miliardo e 2 o 300 milioni. La Piana
ammette però di essere salito nellufficio dove
si è svolta la trattativa con DellUtri soltanto
a discorsi conclusi, per il caffè e i convenevoli finali;
della richiesta di finanziamento a DellUtri e della
sua disponibilità a concederlo ha saputo soltanto in
seguito, dal racconto di Enrico Di Grusa.
«Io alla fine», racconta La Piana, «feci
la battuta: Dottore mi scusi, capisco che lei ci tiene
più di me, ma ce lo portiamo a casa o no?, riferito
a Vittorio Mangano. E DellUtri rispose: Ci stiamo
pensando». Poi dellaffare della cocaina
non si fece più niente, perché alcune difficoltà
e alcuni arresti consigliarono ai protagonisti di sospendere
loperazione. Ma i colletti bianchi continuarono il loro
lavoro pulito.
Vincenzo La Piana, da buon nipote, periodicamente
va a visitare in carcere il vecchio Gerlando Alberti. Lo tiene
informato su ciò che succede fuori, gli chiede indicazioni
e segue i suoi saggi consigli. Ebbene: Sartori e Currò,
confessa il boss al nipote, «sono amici buoni e sono
tenuti stretti». Cioè, interpretano i magistrati,
«pochi sono a conoscenza dei loro nomi o li conoscono
personalmente».
Allorigine della loro carriera i due sono probabilmente
coinvolti in traffici di droga, tanto che già nel 1993
luomo donore Rosario Spatola, diventato collaboratore
di giustizia, aveva definito Sartori «un trafficante
deroina»; e nel 1994 un altro siciliano fattosi
pentito, Luigi Sparacio, aveva dichiarato che
Currò era «pregiudicato messinese trafficante
di stupefacenti su Milano». Ma con il tempo le attività
legali avevano preso il sopravvento. Il business innanzi tutto.
Competition is competition. Lelenco delle società
controllate da Sartori e Currò (in alcuni casi con
la presenza anche di Enrico Di Grusa) è lungo e intricato.
Oltre alla capogruppo Cisa, vi è una lunga catena di
cooperative e società di cui è difficile seguire
le continue metamorfosi: Mistral, Euroappalti, Ucfp, Coas,
Polysystem, Polyservice, Meridiana, Smile, Euras, Finproget,
Cgs, Full Time, Italsipi, Ecosea, Italgest, Bolero, Delta...
E poiché gli affari sono affari, i colletti bianchi
non disdegnano di avere rapporti anche con i colleghi
di altre holding: così Sartori e Currò sono
in contatto con Pasquale Latella, uomo della Ndrangheta
di Reggio Calabria, che è socio nella Italsipi, poi
trasformata in Ecosea.
Natale Sartori, cinquantenne, è il più autorevole
del gruppo. Capelli chiari ondulati, occhi chiari, sempre
elegante, porta occhiali da vista Cartier e al polso un vistoso
Rolex Submarine doro. La sua famiglia è tanto
vicina a Mangano da andarlo spesso a trovare a
Palermo, prima del suo ultimo arresto. Secondo una testimonianza,
i Sartori e i Mangano hanno festeggiato insieme il Capodanno
1995 nella villa siciliana di Mangano, a Carini.
Antonino Currò è più zanza.
Continua fino allultimo a dedicarsi a mille traffici.
Tra questi, la produzione di jeans nella ex Iugoslavia («Ci
costano più o meno 5 mila lire luno», dice
al telefono), poi importati e venduti in Italia con marchio
Levis («Ogni jeans viene venduto a 50 mila»).
Tarocca, cioè realizza con marchi contraffatti, anche
giubbotti Levis («Fatti bene, adesso va forte
il nero»). Nel suo capannone di Rozzano, ora posto sotto
sequestro, sono depositati perfino scatoloni contenenti lampadari.
Currò, del resto, si è costruito una rete di
relazioni daffari in Serbia, Ungheria, Polonia, Bulgaria,
dove periodicamente si reca.
Gli affari dei nuovi siciliani a Milano sono molteplici
e numerosi sono i loro luoghi dincontro. In viale Lucania
19, vicino a unottima salumeria-gastronomia, aveva sede
una ditta in cui erano in esposizione batterie da cucina;
era controllata da Enrico Di Grusa ed era, racconta La Piana,
«luogo di ritrovo di alcuni palermitani a Milano».
Di Grusa, Sartori e Currò a pranzo vanno spesso o al
Timeout di via Benaco (dove hanno incontrato anche
DellUtri), o in un bar vicino, in via Bessarione. Oggi
linsegna gialla dice: «Antica Cafeteria»,
sulla lavagnetta allingresso è scritto: «Primo,
secondo e contorno, 11 mila lire» e sulla parete di
fondo è incollata una struggente gigantografia di New
York al tramonto. La gestione, dice la signora gentile al
banco, è cambiata (chissà?) dal Natale 1999.
Ma il bar di via Bessarione, a un passo da piazzale Corvetto
e dallimbocco dellAutosole, resta un luogo storico
per Cosa nostra a Milano: aperto tanti anni fa con i soldi
di Gerlando Alberti e gestito per lungo tempo da Vincenzo
Citarda e Lia Stassi, vecchie mani di Cosa nostra a Milano.
Laspetto forse più incredibile di tutta questa
storia è la squadretta di alti ufficiali che i
siciliani avevano al loro servizio. Un colonnello dei Carabinieri,
Andrea Benedetti Michelangeli, era a disposizione del gruppo
praticamente a tempo pieno e utilizzava le strutture periferiche
dellArma per procurare contatti e clienti al gruppo,
mobilitava i marescialli sul territorio per portare a casa
nuovi appalti. In cambio, riceveva uno stipendio mensile.
Quando si sente dire dalluomo incaricato da Sartori
delle pubbliche relazioni che «bisognerebbe
un attimino rivedere quel discorso nostro», Benedetti
Michelangeli si inalbera: vuole mantenere il suo fisso mensile,
anche impegnandosi a non chiedere aumenti e a non pretendere
provvigioni da grossi affari. «Quando ha bisogno di
un passaporto, di un rinnovo di porto darmi, di un cazzo
cinese, eh, dove vanno?», grida il colonnello al telefono.
«Digli che laumento Istat non mi interessa, eh,
però cazzo, un minimo così, anche per tutte
le altre esigenze che si possono venire a creare, tipo informazioni
sulle persone. (...) Tutto si può fare se cè
un minimo di comprensione, io parlo di fisso, eh. (...) Anche
se dovessi ottenere, non so, 2 miliardi per una cosa, gestiteveli,
non mi interessa. (...) Se poi lui ha bisogno di qualche altra
cosa, a livello di informative eccetera, sono a dispositivo,
io».
Benedetti Michelangeli la spunta e mantiene il suo secondo
stipendio. Ma legati al gruppo restano anche il colonnello
delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi, il colonnello Guglielmo
Petrantoni, sua sorella Angela Petrantoni, in servizio al
palazzo di Giustizia di Milano.
I colletti bianchi cadono nel panico una sola volta, nellottobre
1998, quando una verifica fiscale della Guardia di finanza,
casuale, rischia di scoprire i segreti del gruppo. Nei giorni
della verifica i colloqui telefonici dei siciliani si fanno
drammatici. Sartori: «Vediamo se riusciamo a fermarli.
(...) Ecco, se possiamo chiuderla lì, sennò
diventa un casino, diventa. (...) Io cho unultima
maniglia, eh, eh, non posso spararla ora, devo spararla ora,
devo spararla alla fine, devo spararla per forza quando arrivano
a noi, alla Cisa».
Allora scende in campo il colonnello Adinolfi, che manda
Sartori da un ex collega, Michele Leggiero, che ha lasciato
la Guardia di finanza e ha aperto uno studio di commercialista
a Monza. Miracolosamente i conti tornano in ordine. Tutto
in una notte. Un collaboratore il 30 novembre telefona a Sartori:
«Minchia che nottata... a preparare tutti i documenti,
Natale, tutte le lettere, tutte le contestazioni, tutti i
giustificativi delle ore fatte da Full Time...». La
Guardia di finanza contesta al gruppo, è vero, false
fatture per un miliardo e mezzo, ma i siciliani sono contenti,
festeggiano lo scampato pericolo: cera ben di peggio
da scoprire...
Il lato più oscuro di tutta questa faccenda
è la pista stragista che qualcuno ha indicato.
La bomba mafiosa scoppiata la notte tra il 27 e il 28 luglio
1993 al Padiglione di arte contemporanea di via Palestro a
Milano resta la più misteriosa tra le bombe del 93,
quella di cui meno si sa: chi sono i basisti, chi ha fornito
i materiali necessari, chi sono gli esecutori?
È il Giornale, giovedì 11 marzo, a sparare
in un titolone a pagina 2: «Fra le accuse spuntano le
stragi del 93». Larticolo spiega che gli
imprenditori messinesi Currò e Sartori sarebbero ritenuti
«vicini agli ambienti in cui sarebbero maturati quegli
attentati. Currò, in particolare, è zio di Rosa
Currò, al cui cellulare nel 1993 sarebbero arrivate
chiamate provenienti dallutenza telefonica di Antonio
Scarano, oggi collaboratore di giustizia, condannato a Firenze
proprio per gli attentati».
Pista interessante, ma tutta da verificare. Anzi, gli investigatori
milanesi invitano alla cautela: non è affatto dimostrato
il rapporto tra Rosa Currò e Antonino Currò.
Il secondo elemento della pista stragista parte
da un night club milanese, il Top Town. Durante un controllo
di polizia, nel night furono trovati sia Currò, sia
Elio Boi, il proprietario del ristorante milanese Gigi
il cacciatore dove furono arrestati i fratelli Graviano,
boss di Cosa nostra ritenuti gli organizzatori delle stragi
del 93. Anche questa è una pista interessante,
ma non ci sono le prove che i Boi e Currò fossero insieme
al Top Town, né che Elio fosse non solo il ristoratore,
ma anche il complice dei Graviano.
Restano gli affari, sporchi e puliti, del gruppo dei siciliani
a Milano, Cosa nostra seconda generazione. Girandola di sigle
e di aziende, appuntamenti in capannoni di periferia, cene
al ristorante, incontri al bar di fiducia o in ufficio. Sembra
di essere tornati ai bei tempi di via Larga, negli anni Settanta,
quando in pieno centro di Milano il siciliano Ugo Martello
detto Tanino fu mandato da Cosa nostra ad aprire una succursale
al Nord, nella capitale dei piccioli. Lufficio di via
Larga divenne un punto di riferimento, fu frequentato da personaggi
come Mimmo Teresi e Tanino Cinà. Ci passò perfino
Stefano Bontate in persona, allora numero uno di Cosa nostra,
quella volta che venne a Milano per parlare daffari
con un siciliano trapiantato a Milano: Marcello DellUtri.
Quella volta, racconta il boss Francesco Di Carlo, Bontate
incontrò DellUtri, che gli presentò Berlusconi.
Bontate esortò limprenditore «a investire
in Sicilia», ma Silvio gli rispose che «già
temeva i siciliani che al Nord non lo lasciavano tranquillo»,
aveva paura di essere sequestrato. Allora Bontate rispose:
«Non avrà più nulla da temere, vicino
a lei cè già Marcello DellUtri,
e comunque le manderò uno dei miei in modo da non farle
avere più alcun problema con i siciliani». Poco
dopo, a Milano arrivò Vittorio Mangano, ufficialmente
a lisciare la criniera dei cavalli di Arcore.
Ventanni dopo, sono gli uomini nuovi di
Mangano, «amici buoni e tenuti stretti», a essere
attivi su piazza. Cosa nostra, inabissata a Palermo dopo la
sconfitta della furia corleonese, a Milano è alla seconda
generazione.
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