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L’ipotesi B

La drammatica, ancora non totalmente spiegata transizione italiana. Che cosa c'entra Silvio Berlusconi con le stragi del 1992 (Falcone e Borsellino) e con quelle del 1993 a Firenze, Roma e Milano?

di Gianni Barbacetto


È stato il momento più drammatico
della storia italiana dal dopoguerra a oggi: negli anni tra il1992 e il 1994 è crollato un mondo politico, si è sgretolato il sistema dei partiti, è scoppiata una serie di bombe che hanno compiuto stragi, eliminato due tra i magistrati più famosi d’Italia, ucciso complessivamente 21 persone, provocato un’ottantina di feriti, messo in pericolo il patrimonio artistico del Paese, tenuto a lungo sotto ricatto le istituzioni. Che cosa è davvero successo in quel passaggio d’epoca? Chi si è attivato? Quali sono stati i protagonisti che si sonomossi nell’ombra? Che ricatti sono scattati? Non sappiamo dare risposte esaurienti: nella ricostruzione storica di quegli anni rimangono ancora molti buchi neri. Nel cuore della nostra storia recente, proprio nel momento in cui si è formato il nuovo sistema politico in cui viviamo, si è consumato un grande intrigo. Ancora per molti aspetti oscuro.


Giovanni Falcone e Totò Riina

C’è un punto fermo: per i fatti più gravi che hanno segnato quel periodo – le stragi del 1992 in cui sono morti Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le loro scorte; e le tre stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma – sono stati condannati come esecutori e mandanti gli uomini di Cosa nostra. Ma chi ha indagato per anni sulla transizione del 1992-93 ha formulato un’ipotesi a: Cosa nostra da sola ha progettato e realizzato lestragi; e un’ipotesi b: vi sono altre forze dietro quella strategia, esistono «mandanti a volto coperto» o comunque altre entità che avevanointeressi convergenti con quelli di Cosa nostra. L’ipotesi b, inevitabilmente, preso atto dei racconti arrivati da chi havissuto quella stagione all’interno di Cosa nostra, è diventata ipotesi B: B come Berlusconi. Silvio Berlusconi, con Marcello Dell’Utri, è stato indagato nelle inchieste sui «mandanti a volto coperto» ed è di fatto tuttora indagato (malgrado la sua propaganda dica di no) a Palermo e a Firenze. Ecco dunque la storia di quegli anni, i fatti accertati, le questioni irrisolte. Raccontiamolo come il plot di un grande thriller. Senza certezze, ma con molti fatti inquietanti.
Nel febbraio 1992 uno sconosciuto magistrato della Procura di Milano, Antonio Di Pietro, avvia una inchiesta sulla corruzione politica, a cuidà il nome di Mani pulite. Dopo qualche mese, è una valanga. Per episodi di corruzione sono posti sotto inchiesta centinaia di politici, amministratori, imprenditori, i maggiori leader dei partiti, una decina di ex ministri della Repubblica, quattro ex presidenti del Consiglio. Il Parlamento è delegittimato da decine di avvisi di garanzia. L’intero sistema dei partiti è scosso. In un paio di anni il volto della politica italiana cambia completamente.

In Sicilia, intanto, Cosa nostra si sta da tempo
agitando. L’organizzazione è in attesa della decisione della Corte di cassazione, che deve confermare o annullare la sentenza del maxiprocesso di Palermo. Con la conferma, sui 475 imputati portati a giudizio da Giovanni Falcone e dagli altri magistrati del primo pool antimafia di Palermo si sarebbe abbattuta una montagna di ergastoli capace di seppellire in carcere un paio di generazioni di mafiosi.
Il capo dei capi, Totò Riina, annusa l’aria e si rende conto che negli ultimi tempi gli «amici importanti» di Cosa nostra a Palermo e a Roma non sono più attenti alle esigenze dell’organizzazione. Il 30 gennaio arriva la conferma ai sospetti di Totò u Curtu: la prima sezione della Cassazione, sottratta all’influenza di Corrado Carnevale, il «giudice ammazzasentenze», conferma le condanne del maxiprocesso. È la fine di un’epoca.
Riina, che comanda Cosa nostra grazie al potere militare delle famiglie corleonesi, decide che è tempo di tagliare di netto con i vecchialleati. È tempo di iniziare la guerra. Che comincia esattamente 40 giorni dopo la sentenza della Cassazione: il 12 marzo 1992, a Mondello, il mare di Palermo, è ucciso Salvo Lima, l’uomo che rappresenta Giulio Andreotti in Sicilia. Nel settembre successivo è la volta di Ignazio Salvo, andreottiano e uomo di Cosa nostra. Il segnale è chiaro: non avete mantenuto i patti, dunque ora pagate il vostro tradimento. Cosa nostra non ha più bisogno di voi. Recide per sempre i legami di scambio (voti e soldi contro appalti e impunità) con i suoi tradizionali referenti politici. Muore così la Cosa nostra della «prima repubblica», quella che aveva i suoireferenti nei notabili democristiani. Ha il battesimo del fuoco la nuova Cosa nostra, quella che comincia a trattare direttamente con lo Stato.

Nel frattempo, per quelle perfette sintonie
che solo la storia sa costruire, al Nord moriva la «prima repubblica» dei partiti. Il 5 aprile 1992 le elezioni politiche sanciscono il tracollo dei partiti digoverno e il trionfo della Lega di Umberto Bossi, su cui si riversano le proteste contro il sistema della corruzione e molti desideri di cambiamento. Ma intanto, al Sud, Riina prosegue la sua guerra: colpendo il nemico numero uno di Cosa nostra, Giovanni Falcone, l’uomo che negli anni Ottanta aveva dato l’avvio all’avventura che si era conclusa il 30 gennaio 1992 con la sentenza definitiva della Cassazione.
Il 23 maggio, a Capaci, mentre corre dall’aeroporto di Palermo versola sua città, il magistrato, sua moglie e la scorta sono dilaniati da una carica d’esplosivo che fa saltare in aria l’autostrada. L’Italia è scossa come mai prima. La morte di Falcone è pianificata da Cosa nostra proprio nei giorni in cui il Parlamento, dopo le dimissioni di Francesco Cossiga, è riunito per scegliere il nuovo presidente della Repubblica: così da impedire che alla più alta carica dello Stato sia eletto il candidato allora favorito, Andreotti, ormai pesantemente segnato dalle ombre dei suoi rapporti siciliani.

Falcone aveva più di un nemico. Non tutti erano
dentro Cosa nostra. Gli investigatori si pongono la domanda: qualcuno dei suoi nemici può forse essere stato concausa della sua morte – in quel «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol diregomitolo» che spesso è la realtà, come scriveva Carlo Emilio Gadda? Il pubblico ministero nel processo perla strage di Capaci, Luca Tescaroli, lascia aperta la risposta. Attorno a Falcone vivo si erano agitati ambienti dei servizi segreti, dellamassoneria, della politica e delle imprese. Sul luogo del delitto, a Capaci, è stato ritrovato (o fatto ritrovare?) un bigliettino con un numero di telefono di un funzionario del Sisde (il servizio segreto civile), il cui numero due, Bruno Contrada, poi arrestato e condannato per associazione mafiosa. Quanto alle imprese,scrive Tescaroli nella sua requisitoria: «Le stesse indicazioni delcollaboratore di giustizia Angelo Siino, in ordine all’iniziativa di Bernardo Provenzano per “agganciare Craxi tramite la Fininvest”, e di Salvatore Cancemi, con riferimento all’iniziativa, collocata fra gli anni 1990-1991, per coltivare direttamente i rapporti con i vertici di detta struttura imprenditoriale e al suo tentativo, “tramite Craxi”, di mettersi la Fininvest nelle mani e viceversa, potrebbero non essere avulse dal trasferimento del dottor Falcone» da Palermo a Roma. Di più non dice, aggiungendo che altre indagini sono in corso perapprofondire gli aspetti ancora in ombra del gomitolo delle«causali».

Racconta però Salvatore Cancemi,
il primo collaboratore di giustizia che era stato membro della Commissione (la «cupola») di Cosa nostra:«Quando c’erano le preparazioni per le stragi di Falcone, del dottor Falcone, io ero in macchina con Raffaele Ganci. Stavamo andando là e Ganci Raffaele mi disse, con pochissime parole: U zu’ Totuccio si incontrò con persone importanti». Ganci non gli fa i nomi di quelle «persone importanti», ma per Cancemi è abbastanza chiaro: «Se io devo fare una logica, diciamo,(...) i discorsi sono questi che si facevano in quel periodo». E spiega (nel 1999, al processo per la strage di via D’Amelio):«Se io vado indietro, noi andiamo a trovare un Vittorio Mangano che faceva quello che voleva nella tenuta di Berlusconi di Arcore. Là c’era un covo, un covo di mafiosi che andavano là, organizzavano sequestri di persona, vendevano droga, e io ho fornito pure; che c’è stato un tentativo di un sequestro di persona, che uno di questi che era, mi sembra, se non faccio errore, Pietro Testone, chiamato di... ora che mi viene il nome glielo dico... Pietro Vernengo, (...) quindi là era la base di tutte queste cose. Quindi, dobbiamo cominciare, diciamo, di qua, quindi i vantaggi ci sono... ci sono stati curati da anni indietro a venire in avanti».

La guerra continua. Il 19 luglio 1992
, meno di due mesi dopo la morte di Falcone, in via D’Amelio è ucciso con un’autobomba, insieme alla scorta, Paolo Borsellino, che per Falcone era come un fratello e che dopo la sua morte era diventato l’erede morale el’ideale continuatore della sua opera. L’uccisione di Borsellino, a così breve distanza da quella di Falcone, è controproducente per Cosa nostra: le misure antimafia varate dal governo dopo la prima strage stavano per essere dimenticate nell’afa estiva che aveva investito anche il Parlamento che le doveva rendere legge; ma dopo la bomba di via D’Amelio vengono rapidamente approvate; il sostegno ai collaboratori di giustizia e il carcere duro per i boss mafiosi diventano definitivi; la caccia ai latitanti diventa frenetica; la coscienza antimafia diventa sentire comune in tutto il Paese. Perché Cosa nostra ha deciso quell’accelerazione? Chi ha messo fretta a Cosa nostra, che non ha mai fretta?
Racconta Cancemi: «Mi ricordo (...) di una riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, (...) che si appartò, diciamo,sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c’era là ,con Riina. E io c’ho sentito dire: La responsabilità è mia. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: Questo ci... ci vuole rovinare a tutti, quindi lacosa era... il riferimento era per il dottor Borsellino. (...) Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa... di una cosa veloce, aveva... io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva... la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. (...) Questa cosa la doveva portare subito a compimento, doveva dare questa... questa risposta a qualcuno,questi accordi che lui aveva preso».

Aveva davvero preso accordi con qualcuno?
E se sì, con chi? Queste due domande non hanno ancora trovato una risposta certa. Ma alcuni importanti capi di Cosa nostra che hanno vissuto dall’interno la preparazione delle stragi riferiscono che era stata aperta una trattativa con soggetti dell’ambiente politico e istituzionale. Riina aveva anche scritto le sue richieste, in quello che gli uomini di Cosa nostra chiamano il papello: revisione del maxiprocesso, azzeramento delle norme che avevano reso possibile il moltiplicarsi dei «pentiti»; fine del carcere duro (articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario); chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara; abolizione dell’ergastolo. Chi tratta con Cosa nostra? Contatti con Vito Ciancimino, ex sindaco dc di Palermo e uomo dei corleonesi, li hanno in quei mesi due carabinieri del Ros (il Raggruppamento operativo speciale), il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno; una sorta di trattativa viene intavolata, ma – dicono i due carabinieri – senza concessioni a Cosa nostra, anzi al solo scopo di stanare Riina.

Un’altra trattativa, secondo le ipotesi investigative,
è stata avviata da uomini Fininvest: Marcello Dell’Utri scende infatti in Sicilia e – sostengono i magistrati che lo hanno portato sotto processo a Palermo – si incontra con uomini della famiglia catanese di Nitto Santapaola; il suo obiettivo, almeno iniziale, sembra sia quello di far cessare gli attentat iincendiari che si erano verificati nei magazzini Standa siciliani. Ma poi da cosa nasce cosa, l’oggetto della trattativa si amplia.
Paolo Borsellino, dopo la morte di Falcone, era la memoria storica della lotta alla mafia: ricordava bene anche le vecchie vicende di Cosa nostra che aveva impiantato una base al Nord, a Milano, negli anni Settanta. Borsellino attribuisce una grande importanza a quelle vicende, e non le ritiene affatto vecchie: lo dimostra l’intervista televisiva concessa il 21 maggio 1992 al giornalista Fabrizio Calvi, in cui sottolinea i rapporti che Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, a Milano, avrebbero intrattenuto con personaggi delle famiglie palermitane, primo fra tutti Vittorio Mangano, il capo della famiglia di Porta Nuova, inviato da Cosa nostra a Milano, che per qualche tempo ha addirittura abitato nella villa di Arcore insieme a Berlusconi. Borsellino è tanto convinto che la pista Dell’Utri-Berlusconi sia d’attualità, che alla fine dell’intervista, sornione, consegna a Calvi delle carte, tutte attinenti alle indagini svolte in passato a Palermo su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi.

Intanto però in quei mesi frenetici gli avvenimenti
si accavallano, si rincorrono. Prosegue la strategia delle stragi ordinata da Riina: «Farela guerra per poi fare la pace». La decisione è di portare massicciamente l’attacco – per la prima volta nella storia di Cosa nostra – fuori dalla Sicilia, a Roma, al Nord. Il 15 gennaio 1993 i carabinieri del Ros arrestano a Palermo Riina (non senza qualche mistero: come viene individuata la casa del boss? perché non viene mai perquisita o almeno tenuta sotto controllo?). Ma la strategia già decisa non si ferma. La continuano Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Graviano...

L’Italia vive una tumultuosa, confusa transizione.
Il 21 aprile 1993 Giuliano Amato si dimette da presidente del Consiglio. Il 26 aprile Carlo Azeglio Ciampi riceve l’incarico di formare il nuovo governo. Il 28 presenta la lista dei ministri, in cui sono inseriti, per la prima volta in Italia, esponenti del Pds, l’ex partito comunista. Il 7 maggio la Camera vota la fiducia al governo Ciampi. Il 12 è la volta del Senato. Il 13 maggio il Senato concede l’autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti, che imagistrati palermitani vogliono processare a Palermo per mafia.
Il 14 maggio prende avvio la seconda parte della campagna stragista di Cosa nostra: a Roma, un’autobomba scoppia in via Fauro, ferendo 21 persone ma mancando l’obiettivo prefissato, il giornalista televisivo Maurizio Costanzo. Il 27 maggio, a Firenze, scoppia una bomba in via dei Georgofili: cinque morti, 29 feriti. Danneggiati la Galleria degli Uffizi, la Torre del Pulci, Palazzo Vecchio, la chiesa dei Santi Stefano e Cecilia, il museo della Scienza e della tecnica. Distrutte o danneggiate opere di Giotto, Tiziano,Vasari, Bernini, Rubens, Reni, Sebastiano del Piombo, Gaddi, Van Der Weyden.

Il 2 giugno davanti a Palazzo Chigi,
sede del governo, viene individuata una Fiat 500 imbottita d’esplosivo. Il 23 luglio a M ilano muore (poi l’inchiesta decreterà: è suicidio) Raul Gardini, ex numero unodella Ferruzzi. Il 26 luglio la Democrazia cristiana, ininterrottamente partito di governo dal dopoguerra, decide il suo formale scioglimento. Intanto le associazioni degli autotrasportatori avevano minacciato uno sciopero a oltranza e la mattina del 27 le prefetture informano il presidente del Consiglio che le agitazioni rischiano di bloccare i rifornimenti di prodotti alimentari e di carburante, proprio alla vigilia dell’esodo estivo. In questa situazione cilena, nella notte tra il 27 e il 28 luglio scoppiano quasi contemporaneamente tre autobombe.
La prima, a Milano, esplode in via Palestro (cinque morti e una decina di feriti) e distrugge il Padiglione di arte contemporanea. La seconda, a Roma, danneggia la basilica di San Giovanni in Laterano e il Palazzo Lateranense (14 feriti). La terza, ancora a Roma, procura gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro (treferiti). Palazzo Chigi, sede del governo, resta per tre ore misteriosamente isolato e senza possibilità di comunicare con l’esterno. Il 5 novembre alla Borsa di Londra crollano i titoli italiani e la lira. Rimbalzo negativo anche alla Borsa di Milano. Tutto è originato dal diffondersi di una voce, falsa, sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica. Si sospetta una speculazione internazionale.

Un contrappunto drammatico Nord-Sud. Stragi
mafiose e convulsioni politiche. Crollo del sistema tradizionale dei partiti e bombe-messaggio, fatte scoppiare per far capire che le istituzioni dovevano scendere a patti, dovevano chiudere una trattativa con Cosa nostra. Riina aveva chiare le cose da chiedere in cambio della sospensione degli attentati, erano quelle scritte nel suo papello. Ma gli obiettivi scelti per gli attentati sono molto raffinati: la galleria dei Georgofili a Firenze, il Padiglione d’arte contemporanea a Milano, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma. Tutti luoghi, secondo lo storico dei servizi segreti Giuseppe De Lutiis, con possibili evocazioni massoniche. Possibile che Riina abbia fatto tutto da solo? Non c’è stato nessuno che ha fornito un’indicazione, che ha dato un «aiutino»?
«Monumenti, opere d’arte, tesori inestimabili del patrimonio storico e artistico del nostro Paese», dichiara l’allora procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna, sono «obiettivi sicuramente non consoni a quelli tante volte attinti da Cosa nostra ed estranei alla sua storica strategia criminale». Con altre parole, Cancemi aveva espresso lo stesso concetto: « Cosa nostra non ha la mente fina per mettere un’autobomba come quella di Firenze», quelli «sono obiettivi suggeriti». Chi sono, allora, le «menti fine» che hanno fatto da suggeritore a Cosa nostra? E chi aveva dato garanzie che le richieste del papello sarebbero state alfine accettate?

In quei giorni, Francesco Paolo Fulci,
direttore del Cesis (l’organismo di coordinamento dei servizi segreti), consegna al capo della pol izia e al comandante dei carabinieri una lista di 16 agenti del Sismi: per «meri fini di riscontro» in merito agli attentati. Nei mesi che seguono l’estate delle bombe, alle stragi si aggiunge lo scandalo Sisde, una storia italiana di agenti segreti che invece di servire lo Stato lo derubavano, intascandosi miliardi di lire. Lo scandalo minaccia di coinvolgere anche il presidente della Repubblica Scalfaro, ex ministro dell’Interno e dunque per un periodo responsabile anche dell’operato del Sisde.

Faticosa, drammatica, confusa, la transizione italiana.
In questo clima incerto e teso, molti soggetti, molti poteri devono aver avuto la tentazione d’inserirsi, per tentare di governarla. Massonerie, settori dei servizi segreti, uomini politici, settori imprenditoriali, « menti raffinatissime»... A dar retta agli uomini di Cosa nostra che, compiuto il salto di campo, hanno cominciato a collaborare con lo Stato, la Fininvest era tra questi soggetti. Aveva da lungo tempo un rapporto con Cosa nostra: dagli anni in cui Vittorio Mangano si era installato ad Arcore, a casa di Berlusconi. La Fininvest dava regolarmente dei soldi a Cosa nostra, forse per la «protezione» delle antenne televisive in Sicilia: una cifra attorno ai 200 milioni all’anno, secondo quanto racconta Cancemi. Ma tra il 1990 e il 1991, quando Cosa nostra decide di «cambiare pelle», Riina ordina a Cancemi di comunicare a Mangano che deve farsi da parte: di Berlusconi vuole occuparsi personalmente. Cancemi esegue: «Incontrando a Vittorio Mangano ci dissi: (...) Vittorio, senti qua, tu mi devi fare una cortesia, senza che mi fai nessuna domanda, mi devi fare una cortesia: tu questi persone, Berlusconi, Dell’Utri, li devi lasciare stare, che Salvatore Riina se l’ha messo nelle mani lui, perchémi disse che è un bene per tutta Cosa nostra, quindi non mi fare altre domande, non mi dire niente. E il Vittorio Mangano con me, siccome lui lo sapeva che io lo volevo bene e lui mi voleva bene pure a me, si... diciamo, si è allargato un pochettino, nel senso... nel senso che mi disse: Ma Totuccio, io è una vita, tu lo sai, è una vita che io... ce l’ho nelle mani io, che ci sono vicino io, tu lo sai, ora tutto assieme io mi devo mettere da parte? E io: Vittorio, fammi questa cortesia, non mi fare altre domande, perché quando quello mi dice che è un bene per tutta Cosa nostra, io non ci posso dire niente».

Nello stesso periodo, la Fininvest era interessata
a fare affari nel centro storico di Palermo. Racconta Cancemi: «Riina mi ha mandato a chiamare e mi disse che c’era la Fininvest, appunto di Berlusconi, Dell’Utri, che era interessata a comprare tutta la zona vecchia di Palermo. Ioc’ho detto: Va bene». Dagli affari è facile passare alla politica: «Quindi, io vi posso dire queste cose che io ho vissuto direttamente; vi posso dire che il Riina Salvatore a me mi diceva che lui si incontrava, si... con queste persone. Questo, diciamo, quello che... quello che ho capito io e quello che ho vissuto io direttamente, che Riina, diciamo, aveva queste persone nelle mani (...).Lui parlava sempre di queste cose. ’Nfino un qualche quindici giorni prima di... che l’arrestassero. (...) L’obiettivi erano di fare, appunto, modificare delle leggi e di fare cambiare questa legge sui pentiti (...) C’erano altre cose pure di... il 41 bis. Insomma, si parlava di tutte queste cose, diciamo, che lui stava portando avanti. (...) Quando si andava nell’argomento di cambiare queste cose, queste regole, specialmente sui pentiti, sul 41 bis e tutte queste cose, lui tirava in mezzo queste persone, diceva: Noi queste persone li dobbiamo garantire, queste persone ci dobbiamo stare vicino, che questi sono quelli che a noi ci devono portare del bene».

Dell’Utri, intanto, sta già pensando alla nascita
di un nuovo partito. Lo racconta Ezio Cartotto, politico democristiano che a metà degli anni Ottanta teneva corsi di formazione per i manager di Publitalia, l’azienda che raccoglieva pubblicità per le reti Fininvest: «Nel maggio-giugno 1992 sono stato contattato da Marcello Dell’Utri perché lo stesso voleva coinvolgermi in un progetto da lui caldeggiato. In particolare Dell’Utri sosteneva la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso entrasse in politica per evitare che una affermazione delle sinistre potesse portare prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi». Forza Italia uscirà allo scoperto solo nel 1994, ma Dell’Utri era al lavoro, sotterraneamente, già dalla primavera 1992, per vincere prima di tutto l’opposizione al progetto-partito interna alla Fininvest (tra gli oppositori, Maurizio Costanzo).

Anche in Sicilia, negli stessi mesi, stanno
cercando nuovi referenti politici. Maurizio Avola, uomo d’onore catanese, racconta che Riina nel 1992 intendeva «creare un nuovo partito politico» nel quale inserire uomini di Cosa nostra sconosciuti, puliti, pronti aportare direttamente gli interessi dell’organizzazione nelle istituzioni dello Stato. Riina aveva ipotizzato anche il nome: Cosa nuova. Ma si era subito reso conto che forse era preferibile puntare su qualcosa di più neutro, come Lega sud.
Comunque tutto era pronto per l’operazione, tanto che Riina aveva chiesto a Santapaola di indicargli persone adatte all’impresa, cioè «uomini nuovi» da poter inserire nel movimento e lanciare verso una brillante carriera politica. Santapaola non si era tirato indietro. Il suo braccio destro, Aldo Ercolano, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 incontra Dell’Utri, stando a quel che raccontano i collaboratori di giustizia, in una località del messinese. Nel 1992 sono ben 34 i viaggi dei fratelli Marcello e Alberto Dell’Utri a Catania. All’incontro partecipa forse anche Santapaola in persona, per scambiare qualche idea sul futuro della politica italiana. «So che dell’Utri aveva amicizie a Palermo», racconta Avola, «e in quel periodo si parlava già del partito nuovo che stava a cuore a Totò Riina».

Dell’Utri, naturalmente, smentisce. Di certo
c’è che qualcosa effettivamente si muove, al Sud. In quel periodo, spesso sottol’ala di ambienti massonici, in molte regioni nascono nuovi movimenti politici. «Sorsero piccole“leghe”, dislocate in diverse parti del territorio nazionale», spiega Piero Luigi Vigna, che le ha incontrate nel corso delle indagini sulle stragi del 1993. Le enumera con cura: Lega pugliese, Lega marchigiana, Lega molisana, Lega meridionale, Lega degli italiani, Lega sarda, Lega calabrese. E ancora: Lega italiana,Lega delle leghe, Lega sud della Calabria, Lega toscana, Lega laziale, Lega nazional popolare, movimento Sicilia libera...
A una manifestazione della Lega meridionale è presente don Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia. Sicilia libera è invece direttamente creata da uomini di Cosa nostra: la promuove Tullio Cannella, in stretto contatto con Leoluca Bagarella. Vi partecipano i fratelli Graviano e il costruttore palermitano Gianni Ienna. Ha come scopo dichiarato far diventare la Sicilia una nazione autonoma, nel quadro di una Italia federale. Si presenta anche alle elezioni nell’isola, senza grandi successi.
Ma nel corso del 1993 Cosa nostra abbandona l’idea di fare politica in proprio. Nell’organizzazione circola la voce che i tempi duri stanno per finire, che sono stati trovati nuovi alleati. Malgrado gli arresti dei suoi capi – Riina, Santapaola, Bagarella – in Cosa nostra torna l’ottimismo. Alla fine del 1993 è Bernardo Provenzano in persona, lapiù alta autorità dell’organizzazione rimasta libera e attiva,a far sapere alle famiglie: «State tranquilli, ho trovato qualcosa, il vento sta per cambiare».

A Milano, intanto, Dell’Utri è riuscito a vincere
le resistenzeinterne alla Fininveste a convincere Silvio Berlusconi a «scendere incampo». Forza Italia, dopo pochi mesi di vita ufficiale, si appresta avincere le elezioni del 1994.
Oggi, sette anni dopo, nessuna certezza è uscita dallo «gnommero», dal gomitolo del 1992-93. Sono state registrate molte dichiarazioni di collaboratori di giustizia, sono state rilevate molte concordanze di date e di fatti. Ma è ancora troppo poco per formulare accuse precise. Tanto più nei confronti di personaggi potentissimi, e in tempi in cui martellanti campagne di stampa hanno gettato discredito sui «pentiti» e delegittimazione sui magistrati. Così, arrivati al termine della scadenza naturale delle indagini, ènecessario chiedere l’archiviazione. Poiché però i reati di strage non si prescrivono mai e gli indizi restano pesanti sul tappeto, archiviata un’indagine è possibile e doveroso aprirne subito un’altra, a carico di ignoti, e inserire le vecchie carte nei nuovi faldoni.

Forse la prova certa non si troverà mai.
Ma di sicuro, in questa come in altre gravi vicende italiane, è utile non accontentarsi delle risultanze processuali: chi in politica chiede di sventolare sentenze o altrimenti di restare zitti, mostra, paradossalmente, di essere «giustizialista», di ridurre il mondo intero a una grande aula di giustizia. In politica conta invece anche l’opportunità dei comportamenti. Dai politici non si deve pretendere qualcosa di più che la fedina penale pulita? Negli Stati Uniti e in altri Paesi civili c’è chi ha avuto la carriera politica rovinata per aver scelto male la baby sitter, o la colf, o l’amante. E chi ha assunto e tenuto in casa uno «stalliere» che era in realtà un boss mafioso? E chi ha avuto come braccio destro nel business e nella politica un uomo come Marcello Dell’Utri, le cui agende dimostrano che è rimasto sempre in contatto con gli ambienti mafiosi palermitani? E chi ha attraversato con mille ambiguità (nel migliore dei casi) la stagione delle stragi del 1992-93?

C’è comunque una domanda
che resta senza risposta: perché mai tanti uomini provenienti da Cosa nostra raccontano di contatti tra i boss e gli ambienti Fininvest nel 1992-93? Le risposte possibili, razionalmente, sono tre:
1. È tutta una montatura dei magistrati «comunisti» che hanno indottrinato decine di «pentiti»: è una spiegazione più dietrologica e complottista dell’ipotesi B, che pure è accusata di essere dietrologica e complottista.
2. È tutto un equivoco: la convinzione di essere sostenuti da Berlusconi si è davvero diffusa dentro Cosa nostra, ma è l’autoconvincimento di boss e gregari impegnati in una guerra contro lo Stato che ha portato alla disfatta dell’ala corleonese dell’organizzazione.
3. È vero, i contatti tra gli ambienti Fininvest e Cosa nostra ci sono stati.
In attesa di approdare a qualche certezza in proposito, l’Italia, strano Paese europeo, va con questi dubbi verso l’appuntamento elettorale.
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Nato davanti a una sede del Pci. Cresciuto all'ombra della Banca Rasini (che Sindona definì «la banca della mafia»). Palazzinaro con «buoni agganci» nell'amministrazione. Poi la tv. I soldi. E la politica

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