Prima esegesi del metro libero

Alcuni che ànno voluto criticare la metrica nuova e indipendente da me impiegata in pochi componimenti di Voci (1903) e in molti di Canzoni Rosse (1904) ànno detto: "Che roba è questa? cos'è questa novità di cui non si sentiva il bisogno?", Altri ànno detto "Puh! la bella novità! Bene o male l'ànno fatto già
alcuni poeti francesi, il vers libre; l'A fatto Walt Withman, e - in Italia - Luigi Capuana coi Semiritmi
".

Chi parla così o è in malafede o è un asino. Mi duole che i miei termini non siano parlamentari, ma sono propri.

Prima di tutto c'è il piacere feroce di contestare a un giovane - che non è un professore d'Università, né pezzo grosso di grido, autorevole, amato e amabile -un merito, qualunque esso sia. "Tu che vieni fuori adesso, ragazzo di venti anni o giù di lì, avere fatto qualcosa di nuovo? Non è possibile!" Gli si strappa quel merito, senza discuterlo (potrebbe anche essere un demerito; ma è sempre una novità e secca!) e lo si attribuisce piuttosto a francesi, ad americani, a  papuasici: la solidarietà nazionale si sente quando fa comodo...
Debbo, dunque, tirato pei capelli, insegnare qualche cosa a certi critici troppo facili o troppo difficili.
Il vers-librisme è uno snobistno gratuito. Non significa nulla neppure nei termini. In tutte le lingue, verso significa: "membro di scrittura poetica compreso sotto certa misura di piedi e di sillabe" oppure: "insieme di parole che risponde come cadenza a date regole". Vuoi dire anche: "aria di suono e di canto".
Dunque: misure, regole, cadenza, canto. Ma siccome, poi, libero vuoi dire in tutte le lingue: "che à podestà di operare a proprio talento, uscito di tutela, non soggetto a un dato arbitrio, non sottoposto a nessuna regola", ecco che la definizione di verso-libero porta con sé tutte queste altre: misura smisurata, regola sregolata, musica senza suono; che sarebbero come dire: servo senza padrone, dotto ignorante, ecc. ecc.
Bisticci. Graziosi, i bisticci! Il signor Paul Fort che usò per primo in Francia certo modo di scrivere a righe lunghe e corte, a capriccio, pensò: "se la chiamo prosa nessuno ci bada, se li chiamo versi nessuno ci crede; chiamiamoli versi liberi, épatons le bourgeois". Il borghese che si fece più di tutti epatare fu il mio critico-italiano, ahimè si!

Walt Withman, è vero. Ma Walt Withman, per chi conosca l'inglese e legga su l'originale, à fatto qualcosa di diverso da quella a cui il sig. Paul Fort credette ispirarsi: i suoi versi, cosi lunghi, ànno una larga cadenza anapestica, sono quel che sono i versetti della Bibbia in ebraico, rispondono a una musica che noi non riusciamo più a sentire nelle traduzioni, dopo gl'inevitabili spostamenti di accenti e aumenti o diminuzioni di sillabe.

I semiritmi del mio illustre, paterno e amatissimo amico e maestro Luigi Capuana sono, a confessione di lui stesso, un tentativo, alquanto scherzoso, sulla falsariga appunto dei verslibristes francesi.

Vediamo adesso chi sono e che cosa ànno fatto gli altri che mi ànno, come asseriscono alcuni critici, preceduto in Italia fino a questo momento (ottobre 1906) nei ritmi nuovi. Parlerò poi della differenza essenziale fra i miei ritmi e quelli di tutti gli altri.

Gabriele D'Annunzio à pubblicato, sparsi, alcuni saggi di liriche che saranno, pare, raccolti in un prossimo nuovo volume delle Laudi. Le loro caratteristiche metriche e ritmiche sono le seguenti: strofe irregolari, composte di versi di cadenze dattilica, corrispondenti nella metrica italiana a ottonari, novenari e decasillabi, con alquanti settenari: sarebbe come separare e scrivere in due righe i due emistichi dell'esametro.

Dietro le opache cime
vanito era il suo breve incanto................
........................................................................
Ed io dissi: O mondo sei mio!
Ti coglierò come un pomo..........

Pindaro e Bacchilide o i loro amanuensi. Prosodia greca. E' anche questa una forma di odi barbare: D'Annunzio continua Carducci. Egli non si preoccupa d'innovare, ma di riprendere; segue sempre qualche modello, come nell'Isotteo segui i quattrocentisti, nel Poema Paradiusiaco i decadenti, nella Canzone di Garibaldi le canzoni di gesta francesi, e cosi via.

Giulio Orsini, sotto le spoglie giovanili del quale abbiamo scoperto in questi giorni uno dei più vecchi uomini e poeti d'Italia, Domenico Gnoli, à pubblicato - sei mesi dopo le mie Voci e quattro mesi prima delle mie Canzoni Rosse, - il poemetto Orpheus e alcune liriche quasi tutte in istrofe quaternarie, dove si trovano mescolati ottonari, novenari e decasillabi, in misure quantitative ma non toniche. Io ammiro molto il giovane-vecchio poeta e riconosco che da tutta questa sua opera recente spira un senso notevole di rinnovamento, non solo metrico e ispirativo, ma anche sensibilistico. Orsini-Gnoli è effettivamente un poeta diverso da quelli che noi consideriamo, oggi come oggi, capostopiti della nostra poesia contemporanea: Carducci,D'Annunzio, Pascoli. Ma io non sono un suo allievo, io non ò preso da lui, come non è imitato né Capuana, né Withman, né D'annunzio, né Fort.

E se la cronologia à valore probatorio come l'alibi in Corte d'Assise, tanto per cominciare si può facilmente provare che i miei primi saggi di metrica nuova e di invito al rinnovamento pubblicati su giornali, ànno preceduto l'Orpheus e le Laudi. Se nel 1903 Orsini diceva:

Giace anemica la Musa
sul giacilio dei vecchi metri.
A noi, giovani, apriamo i vetri!
Rinnoviamo l'aria chiusa!

io nel novembre 1901 avevo già pubblicato su Arte Nuova la mia poesia Il Fabbro ove dicevo:

.........................Io voglio aprire
agli uomini le vie dell'avvenire
e a chiudere il passato mi preparo.
...............................O custodi del vecchiume,
gli altari eretti al vostro falso nume
il nostro vero li rovescerà!
Nell'avvenir la vita; e l'arte è vita
ed avvenire (1)

Il mio primissimo saggio in metro libero: Canzone dell'Usignuolo è del maggio 1901 (2). E subito seguirono, pubblicati in giornali e riviste varie: Tempesta, Battaglia del mare, Droetto e Gesù. Essi possono vantare la precedenza assoluta, se non in ordine di perfezione, certo in ordine di tempo.

Ma oltre la questione cronologica, ci sono altri punti di distacco fra me e quei maestri. Essi nella loro grandezza e nella loro luce, io nella mia piccolezza e nella mia oscurità. Essi avranno indovinato e creato opere magnifiche; io avrò sbagliato e messo fuori robetta trascurabile. Ma brevettiamo.

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I critici più amichevoli e più cordiali mi ànno dato presso a poco lo stesso consiglio che l'editore Didot diede a Lamartine giovanotto: "Renoncez à ces nouveautés qui dépayseraient le génie francais... Rassenblez à quelqu'un, si vous voulez qu'on vous reconnaisse et qu'on vous lise". Infatti. Ma in Italia è ancora peggio che in Francia: lo spaesamento è temutissimo. Lo seppe il giovane Leopardi che stentò a farsi riconoscere, lo seppe il giovane D'Annunzio che si fece riconoscere immediatamente somigliando a Carducci e offrendo i suoi primi fiori ai numi indigeni della letterarietà italiana.

I miei primi libri invece, specialmente Le Canzoni Rosse, sono stati pugni negli occhi non solo per la metrica ma anche per lo stile, che Giacinto Stiavelli e Francesco Pastonchi (mio lanciatore e padrino delle Voci) accusano di imprecisione, scorrettezza, enfasi immaginativa, mentre Luigi Capuana e Domenico Milelli lo definiscono "ricco di colorito, lucente d'immagini, pieno di slancio lirico e luminosamente coraggioso".

Ora io dico: è permesso a ogni critico giudicare a modo proprio, e non dovrebbe essere permesso a ogni artista esprimersi a modo proprio?

Che cosa sono le regole se non postulati e corollari desunti de opere create senza regole fisse? Nessuno prescrisse a Omero le regole per il poema, né a Fidia quelle per fare una statua: ognuno prese dall'insegnamento popolare, universale, quanto si adattava alla sua personalità e vi aggiunse poi certi caratteri individuali. Ci è stato chi ha finalmente prescritto le regole per fare un sonetto o un' ode o che so io. Ma anche quanti ànno avuto l'aria di ispirarsi a tali regole, non le ànno seguite concordemente e pedissequamente. Il
sonetto di Dante non è quello del Petrarca; la canzone del Chiabrera non somiglia a quella del Poliziano. E non parlo per la concezione, ma per la forma e pel verso. Quanto più personale è un poeta, tanto più vediamo che è un innovatore o per lo meno un rinnovatore anche in fatto di metrica. Dante creò la terzina, la sua bronzea terzina e cento varietà d'endecasillabi; il Petrarca parecchie forme di canzoni; l'Ariosto riplasmò l'ottava, dandole quell' andatura snella e pur sonora che è tutta sua; il Parini à quei versi brevi e tenaci come ferro; il Foscolo tempra endecasillabi sciolti larghi come esametri, accentuandone taluni in modo particolare; il Manzoni versa nei suoi inni un infinita onda di melodia; il Leopardi ci dà la canzone libera; il Carducci ritenta genialmente i metri barbari.

Tutti i poeti che per la concezione, l'espressione,la versificazione si somigliano fra loro, sono i mediocri, quelli che non rivelano, che ànno debole individualità, che non desteranno mai un palpito nuovo (3).

Quanto a me posso affermare soltanto che i miei versi così osteggiati da alcuni e così applauditi da altri, sono rampollati senza preoccupazioni di sorta dalla mia anima e dal mio cervello. Dico fermamente che io non ò voluto fare letteratura, ma ritrarre in una espressione netta e immediata le impressioni e i sentimenti, che in me nascevano e si maturavano man mano. Queste espressioni ànno una forma ritmica non per deliberazione, ma solo perché così si foggiavano nella mia coscienza. E se molte volte corressi o mutai o distrussi, fu per aver sentito, non per insegnamenti e regole, di non avere espresso in forma definitiva una data emozione.

Non voglio rispondere a chi mi accusa di essermi staccato dalle tradizioni per deficienza di cultura, e giudica un'oziosità questo mio tendere verso il futuro, le mie aspirazioni all'avvenire. Dovrei rimbeccarlo con parole di un uomo autorevole, che in bocca mia sembrerebbero forse oltracotanti (4).

Mi pare addirittura ridicolo ogni appunto sulla forma non pura, non toscana, "corrotta da neologismi, da idiotismi e barbarismi": i puristi che così mi rimproverano sono brave persone cristallizzate dentro il Rigutini e Fanfani. Esse dimenticano o non capiscono che la lingua è una cosa viva, che muta e si rinnova come tutti gli organismi viventi. La lingua del '300 non è quella delle origini, come quella del '600 non è quella del '300, e quella dell'800 non è quella del '600.
La lingua non è più soltanto il toscano ma quello strumento vivo al quale contribuiscono anche tutte le altre regioni. Il contributo regionale che oggi va accrescendosi rapidamente è un indice della simpatia e della comunione spirituale fra le varie regioni nasce da una fusione degli nomini che i mezzi di trasporto e di comunicazione agevolano sempre più. Anche i modi di dire stranieri sono inevitabili, dati i maggiori contatti internazionali. Per quanto si arrabattino e strillino i cruscanti, la nostra lingua, come tutte le lingue del mondo, continuerà a trasformarsi.

Nelle nazioni più evolute abbiamo assistito alla fine dei dialetti: anche in Italia cominciano a decadere, a estinguersi. Verrà un giorno in cui le nazioni, i popoli, saranno a contatto ancor più frequente e immediato, in cui si potrà la mattina far colazione a Milano, cenare nel pomeriggio a Parigi e andare a teatro la sera a Londra (5); giorno in cui non ci saranno più inglesi e francesi e cinesi - chissà in quei giorni che cosa saranno diventati gli idiomi! (6) Ebbene, noi oggi senza rendercene conto, moviamo forse i primi passi sulla grande via dell'internazionalizzazione delle lingue.

Non rispondo neppure ai rilievi sulle parole volgari o brutte, poiché le parole sono soltanto proprie o improprie (7); sugli argomenti che non si dovrebbero trattare (8); sulla diversità degli stili (9): ma cercherò soltanto, alla meglio, dare una spiegazione della forma metrica da me adottata. Spiegazione, non teoria, quale io la sento ora, quale la intuisco dopo avere composto quelle date liriche.

***

Un errore grave della nostra letteratura scolastica, perpetuato poi dalla critica, sta nella distinzione tra prosa e poesia. L'accusa capitale che lui si fa dello stile prosastico, dei versi che somigliano a prosa, origina da certa confusione nelle nostre definizioni.

La verità è che due sono le forme del linguaggio: prosa e versi, non già prosa e poesia. La poesia è sostanza, è spirito, è "arte della parola" è quella che il Croce chiama intuizione per distinguerla dal concetto che è "non arte". Ma è errore, del resto troppo diffuso, che il verso implichi la poesia o che la prosa la escluda. E già Aristotele nella sua Poetica aveva dimostrato ventidue secoli fa l'errore che noi ancora vorremmo perpetuare (10).

In Italia, invece, domina da tempo questo modo di pensare e di dire sbagliato. Le cose, anzi, sono peggiorate da quando il D'Annunzio scrisse che il verso è tutto, poiché dietro di lui si son messe falangi di verseggiatori e di critici a voler dimostrare che il suono, il bel suono, il suono piacevole fa, soltanto, i bei versi e quindi la bella poesia, senza considerare che il bel suono in sé non può esistere, come non esiste la bella parola. Propria la parola e proprio il suono: ecco la base dell'espressione. Lo Spencer dimostra che le parole le quali pel suono ànno una somiglianza con la cosa significata sono quelle che meglio riescono a risvegliare l'idea di questa nell'ascoltatore. Ogni frase, sia parlata che musicale, è composta di parole o note, e toni in cui queste si pronunciano o si suonano: una stessa frase, secondo il tono, può essere indice di vani sentimenti.

Se voglio comunicarvi un terrore da me provato, la mia voce, il mio accento assumono un tono particolare che diventa cupo e giova alla trasmissione più immediata del mio terrore (11); io faccio, se mi si concede la frase, il suono del terrore. Applicando più generalmente questo principio, noi avremo quel che si potrà chiamare l'onomatopea del sentimento. Il verso è, deve essere appunto il tono, il colorito speciale della frase; e per questa ragione esso sarà superiore alla prosa nella espressione soggettiva, per questa ragione riuscirà più efficace ed incisivo e fermerà meglio nella nostra memoria una strofe di Dante che un periodo di Boccaccio.
Invece, generalmente, si fa a meno di tutto ciò.

Qualsiasi argomento poetico è trattato con qualsiasi metro, mentre i poeti che più creano e meno imitano ci ànno insegnato altrimenti. Essi esprimono i sentimenti nei metri che più a questi si attagliano, col verso che meglio rende il loro movimento intimo, il loro ritmo particolare. L'endecasillabo si adatta a sentimenti vani, col variar dell'accento, ma specialmente a quelli larghi, descrittivi, alle emozioni meno violente, mentre le più violente richiedono la cadenza dattilica. Il settenario, con minor numero di sillabe e minore intensità, à le facoltà stesse dell'endecasillabo. Il decasillabo, triplice di accenti a eguali distanze, è il verso più cadenzato e sonoro: i sentimenti agitati vi acquistano grande rilievo. Niente di più efficace, poi, dell'esametro e del pentametro pei sentimenti ampii, appassionati, solenni, e del doppio senario, col suo martellare uggioso, pei sentimenti tormentosi.

La ragione della versificazione uguale e melodica degli antichi, sta nel fatto (come per la musica prewagneriana) che essi sintetizzavano quasi sempre un sentimento anche nella espressione metrica: davano a un componimento la musica sommaria del sentimento che v'era racchiuso, come, nell'opera italiana, Pergolesi, Rossini, Bellini.

L'ingegno moderno è essenzialmente analitico, la scienza prova e riprova, tutta la conoscenza attuale è fondata sull'esperimento e non e e nessuno di noi che non si studii e non si vivisezioni continuamente. Con Kant ed Hegel, con Berlioz e Wagner sono già mutati i ritmi dello spirito e i ritmi del canto. Ogni sentimento, noi sappiamo, è la risultante di varii moti, vibrazioni e reazioni dei nervi, dei muscoli, del cervello: le parole "dolore, amore, gioia, malinconia" non sono che astrazioni di astrazioni. Varii microsentimenti, chiamiamoli così, concorrono a generare un sentimento: cento di questi moti complementari dello spirito, che nascono dal susseguirsi di immagini volontarie e involontarie nel cervello, ci dànno quello stato speciale che comunemente si chiama dolore o piacere; ma ognuna di queste immagini à una vita a sé, vibrazioni sue proprie, ritmo suo proprio.

Dato, dunque, il nostro carattere analitico, dato lo sperimentalismo che governa tutte le manifestazioni della vita moderna, la poesia - che è la storia morale e sentimentale degli individui - sarà pure sperimentale, il verso analitico.

Diamo, col verso adatto, il suo natural ritmo al sentimento. Ne à che, nella nostra poesia, i versi si mescoleranno liberamente - quinari, settenari, novenari, endecasillabi, esametri - vi entreranno tutte le varie cadenze e anche la prosa stessa, tratti aritniici, per le espressioni secondarie e incolori. Ogni verso avrà una propria musica, la musica peculiare al microsentimento, alla sensazione o alla vibrazione cerebrale che esso esprime; ma si appoggeranno l'uno all'altro, seguendo gli alti e i bassi, le ondulazioni del sentimento, lo esprimeranno tutto con le loro tonalità varianti.

Così lo stato d'animo che un componimento poetico ritrarrà sarà presentato, per così dire, graficamente il variare saltuario, singhiozzante, stonato anche, degli accenti, esprimerà meglio, più drammaticamente e più visibilmente, un piacere, un affanno. E così sarà menomata la melodia, non avrete più il suono chiuso e definito che vi carezza le orecchie, ma avremo la polifonia, un'armonia fatta di cento melodie insieme.

Si è finito con l'intendere Debussy: perché negare alla poesia quel che è stato riconosciuto alla musica?

E ò dimostrato la differenza tra verso libero, che non significa nulla e che è soltanto prosa, e metro libero (cioè libertà di strofe e di ritmi adoperando versi secondo la sensibilità del poeta, ma facilmente riconoscibili nei loro numeri e nelle loro cadenze) che è sempre poesia musicale, che è arte, perché arte comporta freno e legge, anche quando questo freno e questa legge è l'artista stesso a crearseli e imporseli.


Da una conferenza tenuta al "Circolo di cultura"di Palermo nell'ottobre del 1906 e poi riprodotta nella Leggenda della Vita.

1) E' evidente che queste parole precedettero ancora di più il primo manifesto del futurismo, il migliore, quello che senza dubbio è stato il vangelo della gioventù italiana, anche di quella parte di essa che lo à combattuto, ma che vi si è involontariamente ispirata attuando il regime fascista figlio primogenito del futurismo fondato col manifesto del dicembre 1908, firmato da Marinetti, Buzzi, Cavacchioli e de Maria.

(2) Queta poesia, metrolibera e onomatopeica, precedette anche L'Onda di G. D'Annunzio e non è a dire di quanto le parole in libertà di Marinetti.

(3) "L' individuo che lascia al mondo, o almeno alla parte di mondo in cui vive, La cura di scegliere per lui il suo Sistema di condotta, non ha bisogno che del talento imitativo delle scimmie".
I.J. STUART MILL.

(4) Quanto alla vita psichica governata dal cervello, prevale pure la stessa distinzione generale fra le considerazioni di un bene immediato e quelle di un vantaggio futuro. In ogni età l'uomo che si determinava in vista della finalità più remota è sempre stato giudicato il più intelligente". W. James.

5) E' utile ricordare che quando l'autore scriveva queste parole, l'aviazione e la navigazione aerea non erano che ai loro primi sterili tentativi.

6) "Io intravedo l'aurora di una letteratura europea: nessuna tra i popoli potrà dirla propria; tutti avranno contribuito a fondarla" W. GOETHE.

(7) "Più le parole sono generali, più il quadro è confuso più sono speciali, più esso è chiaro" T. CAMPBELL.

(8) "Tutto ciò che è vita, tutto ciò che esiste, appartiene all'arte". F. DE SANCTIS - "Un errore gravissimo sarebbe quello di aspettarsi e di pretendere dall'artista non solo esseri compiutamente morali, ma anche esseri morali compiutamente belli". G. E. LESSING.

(9) "Così un autore che avrà tutti i doni, prenderà senza accorgersene tutti gli stili... Che la facoltà del linguaggio si sviluppi pienamente, che l'intelligenza apprenda a rendere tutte le emozioni e lo stile perderà la sua inflessibilità". H.SPENCER.

(10) "Senonchè i più, attaccandosi al metro, e non badando al significato, dicono fare elegie o epica, non tanto chiamando comunemente poeti quelli che lo sono alla stregua della rappresentazione, quanto quelli che lo sono alla stregua del verso; Infatti nulla è di comune tra Omero ed Epedocle, tranne il verso; e perciò quegli è giusto chiamare poeta; questi piuttosto naturalista che poeta".

(11) Vedi: C. DARWIN - Espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali e J.B.DESCTJRET - La médécine des passions.

 
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