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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Predrag Matvejevic' (Zagabria), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 14, anno VII, giugno 2010

"Cinema, autentica passion...!"

 

   ALEXANDRA

 

 

  di  Nicole Janigro

 

 

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Eidos. Cinema e Psyche" ( www.eidoscinema.it ) numero 13 (novembre 2008-febbraio 2009) la cui redazione ed il cui direttore responsabile si ringrazia sentitamente.

 

L'autrice è nata a Zagabria (Croazia), vive e lavora a Milano. Psicoterapeuta, analista di formazione junghiana, fa parte dell’associazione “Laboratorio analitico delle immagini” (L.A.I.). Collabora a progetti di formazione legati al tema dell’elaborazione del conflitto, rivolti a volontari e operatori attivi sul campo nelle aree di crisi della ex Jugoslavia. Ha in corso una ricerca su sogno e guerra. Ha svolto attività giornalistica ed editoriale, è autrice del libro L’esplosione delle nazioni, 1993, 1999, ha curato il Dizionario di un paese che scompare. Narrativa dalla ex Jugoslavia, 1994, l’antologia Accadde a Sarajevo, 1996, il libro Vivere altrimenti. Guida alle comunità alternative in Italia e nel mondo (con G. Ciuffreda), 1997, l’antologia di narrativa Non troppo uguali. Storie di identità e differenze (con R. Cacciatori), 1999, il libro La guerra moderna come malattia della civiltà, 2002, e il libro Casablanca serba. Racconti da Belgrado, 2003.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sale su un treno, passa su un camion, poi continua a piedi,  il fazzoletto in testa, la borsa e la sporta sempre accanto. Sbuffa e si irrita, suda e si appisola, la sua presenza, massiccia e ingombrante, è un carico speciale in viaggio verso un fronte. Alexandra è una nonna che ha ottenuto il permesso di fare visita al nipote ufficiale,  una presenza incongrua tra i soldati in divisa e i loro spostamenti rapidi. Attenta, curiosa, osserva il mondo nuovo che si trova intorno, sono i suoi occhi la macchina da presa che inseguirà ogni particolare di un film sulla guerra dove la guerra rimane fuori campo. Sarà il suo sguardo a diventare il protagonista capace di far sentire allo spettatore il gravame di ogni conflitto  – “la fame, i parassiti, il fango, e quei rumori pazzeschi” (Otto Dix) -, a farlo inciampare, come accade a lei, nell’insormontabilità dei corpi. A spostare la sua attenzione dal visibile delle immagini all’intuibile dell’immaginazione.

Quando finalmente raggiunge l’accampamento, in una tenda trova il nipote addormentato, i piedi sporchi, segni che fanno pensare ad una ferita. Nonostante le mostri che la sua figura non ha nulla del guerriero, il suo sonno indifeso è quello di un bambino. E così la nonna lo affronta, assillandolo con preoccupazioni quotidiane, che cosa mangi, dove ti lavi – come se la cura del proprio corpo potesse rallentare il processo evidente della sua disumanizzazione. Il campo militare è uno spazio claustrofobico, i soldati sembrano prigionieri di un labirinto nel quale è facile perdere l’orientamento, la fotografia decolorata e seppiata sottolinea una natura fatta di polvere. Fuori – il territorio nemico – è diviso solo da una sbarra. Aleksandr Sokurov, figlio di un militare, ci porta the war inside – prima di rimontare il film al computer ha girato in Cecenia. Le parti in causa non vengono mai nominate, ma le rovine di Grozny urlano di sofferenza.  Convinto che “la guerra sia il massimo livello del degrado umano”, il regista non la mostra dall’alto degli elicotteri in missione, ma dal basso, dai piedi della nonna che, prima uno poi l’altro, scende dal carro armato del nipote capitano stupita dalle ristrettezze del blindato. Alexandra è la baba di tante fiabe slave, la vecchia saggia alla quale si deve rispetto, la sua figura condensa il dolore infinito delle madri in visita ai figli in guerra. E il gesto con il quale il nipote prende in braccio la nonna evoca le  inquadrature di Madre e figlio (Sokurov, 1997), il figlio che solleva la madre, malata e sofferente, che vorrebbe ancora poterlo proteggere, come quando era piccolo. E qui è il nipote che ricorda alla nonna la sua passata severità e durezza. Ora, però, è lui, l’uomo giovane, che pettina la donna vecchia in una scena dalla fisicità struggente – la morte è vicina a entrambi.

Alexandra è interpretata dalla grande artista Galina Vishnevskaja,  soprano famosa e moglie del violoncellista Mstislav Rostropovic – alla loro vita e alle loro battaglie comuni contro il regime sovietico Sokurov ha dedicato il film Elegia della vita. E sul set del campo militare Galina Vishnevskaja si muove con la sicurezza di chi ha trascorso tutta un’esistenza sul palcoscenico, di chi non teme il rischio e possiede quell’autorevolezza che consente di ficcare il naso dappertutto. Infatti sfugge alla sorveglianza dei militari che un po’ la coccolano un po’ la sorvegliano, e riesce a sgusciare all’esterno della zona (difficile non pensare ai tratti comuni al cinema di Tarkovskij, del quale Sokurov è stato allievo). Dentro non si notano le distruzioni inflitte al paesaggio esterno, dove una sorta di imitazione della vita sopravvive fra gli scheletri  dei palazzi sventrati. Nel suo curiosare pronto a incontrare l’altro, la russa incrocia una simile, un’altra vecchia signora, la maestra cecena Malika, anche lei con il fazzoletto in testa, che nella sua casa disastrata le offre un tè. Non ci sono molte parole per dire lo scempio, solo la frase: “Quando guardiamo i soldati russi sembrano piccoli, come ragazzini”. Le due si scambiano gesti minuti, sono i riti antichi dell’ospitalità, Alexandra invita Malika a farle visita quando farà ritorno a casa, nello spazio infinito della  Grande madre Russia.

L’evento bellico, relegato nello schermo durante i decenni della guerra fredda, occupa il centro della scena internazionale. E anche il cinema cerca nuovi modi per rappresentarlo. L’esibizione della morte e della violenza è oggi incredibilmente amplificata dalla sua trasmissione visiva che pone al centro l’esposizione del corpo: il corpo maciullato, il corpo del nemico ucciso per terrorizzare chi resta, la mutazione del corpo del guerriero, sempre più vicino a un robot imbottito di psicofarmaci. Fedele alla sua ricerca di spiritualità delle immagini, Sokurov crea un amalgama originale di etica ed estetica che riesce a trasformare una visione di guerra in uno stato interiore. E Alexandra, una Anna Magnani slava, riesce a diventare un simbolo,  una figura femminile la cui presenza non indica  l’insostenibile leggerezza della violenza, come appare negli accostamenti audaci dei media fra le scollature delle inviate e i cadaveri per terra, ma esalta la necessità biologica di curare la vita.

                                    

 

 

 

        

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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