Id-entità mediterranee. Psicoanalisi
e luoghi della negazione
Numero 15, anno VIII, gennaio 2011
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"DI
FRONTE AL NEGAZIONISMO: IL RUOLO DELLE ISTANZE TERZE NELLA VITA
PSICHICA E POLITICA DEGLI EREDI DEI SOPRAVVISSUTI"
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di Janine Altounian |
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Questo
testo è una rielaborazione da parte dell' autrice del suo intervento
al convegno internazionale "Id-entità
mediterranee.Psicoanalisi e luoghi della negazione"(Lecce, 30
ottobre 2010). Esso verrà ulteriormente elaborato e
pubblicato in un prossimo libro delle Edizioni Frenis Zero
intitolato "Psicoanalisi e luoghi della negazione". La
traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.
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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
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Il
mio intervento affronta il negazionismo nel suo rapporto con gli
effetti psichici degli omicidi di massa nell’erede dei
sopravvissuti e nella relazione che egli intrattiene nei confronti
di coloro che ebbero il potere di vita o di morte sui propri
familiari. Se l’erede si vede in particolare costretto ad
effettuare un lavoro psichico per liberarsi dall’influenza di un
crollo traumatico, egli deve nondimeno serbare in modo fedele nella
propria memoria il valore soggettivante e politico della propria
storia e il suo lavoro è di certo direttamente influenzato dal
negazionismo di oggi che perpetua la violenza del passato.
Comincerei
dunque dalla viva irritazione che avverto quando incontro, nei miei
interlocutori, degli atteggiamenti accondiscendenti ed immemori
rispetto ai crimini passati o addirittura delle ingenuità secondo
cui ci si aspetterebbe
che i potenti di questo mondo facciano regnare la giustizia. Se non
c’è, riguardo ai crimini contro l’umanità perpetrati nei
confronti dei propri familiari, alcun perdono da prodigare né ai
carnefici né a coloro che li hanno lasciati fare, si tratta in
realtà di sottrarsi alla relazione di dipendenza, ossia a un legame
passionale nei confronti dei criminali o dei loro discendenti.
Essere in grado psichicamente, culturalmente e politicamente di far
intendere ciò che Hermann Broch chiama “il mutacismo
dell’omicidio”[i]
esige che ci si sia liberati dall’influenza di questi attentati
all’umanità che mantengono il negazionismo ed i suoi sostenitori
in seno ai Paesi di accoglienza in cui vivono, per
l’appunto, gli eredi delle vittime. Quale posizione libererebbe
dalla portata alienante dei crimini e della loro negazione di cui è
necessario, per sopravvivere ad essi, inficiare prima di tutto il
potere di distruzione nell’après-coup dei loro effetti
traumatici? Quale posizione permetterebbe l’indipendenza di un
lavoro di soggettivazione in cui, cessando di sentirsi vittime della
propria storia, se ne diverrebbe il soggetto, o meglio un soggetto
sprovvisto di qualsiasi illusione riguardo ai rapporti politici che
attualmente alimentano il negazionismo?
Propongo
qui l’ipotesi di una modalità di risposta al negazionismo che
eviterebbe l’alienazione
sterile di un qualunque integralismo come anche l’oblio del farsi
carico del lavoro della memoria e della giustizia di cui
l’erede è debitore nei confronti dei suoi antenati impunemente
assassinati. Questa proposta tuttavia non si può considerare se non
come una scommessa da sostenere di fronte all’evoluzione
inquietante delle attuali condizioni politiche da cui,
evidentemente, dipende la sua validità. Bisogna dunque temperare
l’ottimismo che potrebbe far emergere il carattere piuttosto
positivo della mia testimonianza. Ho varie volte avanzato
l’ipotesi che una trasmissione traumatica non può essere
elaborata e non può acquisire una voce politica se non
trasferendosi in uno spazio-tempo
“sufficientemente democratico”[ii].
Ora, questa procedura deriva da una strategia divenuta, mi sembra,
relativamente caduca per gli eredi attuali di traumi violenti,
privati di un tale Paese detto “d’accoglienza”. C’è ancora
un senso nel tradurre e nel trasmettere l’eredità dei propri
antenati assassinati nel silenzio del mondo, in quello di Paesi come
la Francia la cui Realpolitik degli anni 1915-1916 dettò
l’opportunismo di un laissez-faire, se il numero dei SDF
(“senza domicilio fisso”) che si incrociano nell’uscire da
casa va aumentando, se il mondo in cui viviamo elimina certi suoi
abitanti a bassa voce e se l’integrazione da parte della scuola
laica, vissuta in passato da me come “madre adottiva dei più
sfortunati”,
è una realtà superata?
Il
mio lavoro non è oramai più rappresentativo di un percorso
possibile. Certamente non ignoro che i primi rifugiati armeni degli
anni ‘20, quei rifugiati “accolti” per bisogno di manodopera,
furono parcheggiati in dei campi in condizioni deplorevoli di vita
nel sud della Francia. Ma essi poterono, in questa Francia “dal
modello repubblicano”, esercitare coraggio ed ingegnosità per
uscire dalla miseria, poterono divenire
dei cittadini francesi permettendo ai loro figli, quindi a
me, di accedere agli studi. Nella nostra epoca in cui
imperversano disoccupazione ed esclusione, gli immigrati
vengono di fatto respinti verso
Paesi in cui andranno a morire di violenze o di fame.
Pensavo
che la sola possibilità “postuma” di cui potesse ancora
beneficiare la memoria degli individui divenuti
“superflui/gettabili” – per riprendere i termini utilizzati in
certi lavori sul (post)totalitarismo mondializzato
- fosse quella di vedersi reinseriti a posteriori (après-coup)
da parte dei portatori di questa eredità nello spazio simbolico dei
luoghi “relativamente democratici” in cui al momento attuale
vivono coloro che “non si possono sterminare”. Ora, la fede
nella mia ipotesi ha perso la sua pertinenza ai miei occhi: queste
istituzioni relativamente democratiche dei Paesi
“d’accoglienza”, che favoriscono il transfert su se stesse, e
quindi la trasmissione al mondo dello scandalo dello sterminio e dei
suoi supplizi, hanno, mi sembra, un avvenire molto incerto.
Non
mi resta allora che accettare il paradosso di una lucidità che non
abolisce pertanto la permanenza di una rivendicazione, quella, ad
esempio, che trasmette a suo figlio il padre del romanzo “La
route”, nell’ora commovente della sua morte. Quando il bambino
mostra scetticismo con queste parole nel vedere suo padre riferirsi
a degli antenati distrutti:
<<Credi
che i tuoi antenati ti guardino? Che essi segnino nel loro grande
libro quanto ti stimino? In rapporto a cosa? Non c’è nessun
grande libro ed i tuoi antenati sono morti e sepolti>>,
costui,
morente in realtà della morte che interessava il suo mondo, gli
ingiunge di non rinunciare alla sua ricerca.
<<-
Se non sono più qui tu potrai ancora parlarmi […] ed io ti
parlerò. […]
-
Ed io ti sentirò?
-
Sì. Mi sentirai. Bisogna che tu faccia come se fosse una
conversazione che tu immagini. […] Soprattutto non rinunciare.
D’accordo?
-
D’accordo.>>
Parimenti,
di fronte a coloro che negano le determinazioni del loro destino,
gli eredi dei sopravvissuti non rinunceranno al dovere che ci viene
dettato da Paul Ricoeur:
<<dove
passa la linea di demarcazione tra l’amnistia e l’amnesia? La
risposta a queste questioni non si trova al livello politico, ma a
quello più intimo di ogni cittadino, nella sua coscienza interiore.
Grazie al lavoro della memoria, completato da quello del lutto,
ognuno di noi ha il dovere di non dimenticare di raccontare il
passato, per quanto doloroso esso sia, in un modo rappacificato
senza collera>>
Dopo
queste riflessioni introduttive, i quattro punti della mia relazione
verteranno su: 1- L’eredità psichica dei figli dei sopravvissuti,
2 – La creazione di una situazione inedita
d’interlocuzione, 3
– L’instaurazione di un terzo, dato che fu assente all’epoca
del crimine, 4 –
L’esempio di un’eredità resa visibile grazie ad un attentato di
fronte al negazionismo, ma portato a termine in un Paese
democratico.
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L’eredità
psichica dei figli dei
sopravvissuti
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Dopo
queste riflessioni introduttive, vorrei portare tre testimonianze
sull’esperienza di terrore che, essendosi esercitato su
perseguitati vivi sotto minaccia di morte, si è trasmesso ai loro
discendenti, poiché esse rievocano ciò che gli eredi dei
sopravvissuti devono specificamente metabolizzare per tentare di
non soccombere, né nell’agire autodistruttivo delle ribellioni
impotenti, né nella pigrizia del perdono profanatore dei morti
senza sepoltura.
La traccia lasciata da questo terrore genera in effetti una
profonda angoscia in chi, insensibile alle tentazioni paranoiche,
non lo proietta sul suo entourage o
sul mondo intero, ma
si preoccupa unicamente della doppia ingiunzione dei suoi
antenati: <<rendi sicura la tua vita affinché noi non siamo
sopravvissuti inutilmente>>, poi <<rivela la nostra
storia ai non sterminabili>>, quindi
<<acquisisci i mezzi per farlo!>>.
Ecco
per prima la testimonianza di uno scrittore, Aharon Appelfeld, poi
quella di un giornalista, Jean Kehayan. Entrambi, il primo
sopravvissuto alla Shoah, il secondo figlio di un sopravvissuto
del genocidio armeno del 1915, rievocano in effetti un legame
paradossale che annoda genitori e figli tra di loro sotto il
terrore e che segna di un’impronta indelebile ciò che si è
loro trasmesso. La vita affettiva di coloro che condividono questa
eredità è costituita, per così dire, di una disagevole miscela
di un tenero attaccamento ai genitori o alla famiglia di
appartenenza e di un sapere condiviso mortifero su ciò che è
vivere i propri giorni sotto minaccia di morte. Ora, tale sapere
intimo, che impregna di un’inquietudine diffusa i giorni della
loro infanzia, è per loro al massimo
grado svantaggioso dato che, se il terrore traumatico,
magari non provato dal soggetto in quanto espulso all’epoca
dell’effrazione,
attraversa spesso le generazioni, esso scava negli eredi uno
scarto, un’inibizione del contatto spontaneo con coloro che
sembrano ignorare questo lato nascosto del mondo: questo sapere
soffocante, che non hanno coloro che vivono nella sicurezza e
nelle sue vane certezze, tende a rinchiudere in un ripiegamento
ghettizzante i genitori sopravvissuti ed i loro figli, a separarli
dal resto del mondo rimasto indifferente, ossia complice o
impotente di fronte al potere sterminatore.
Aharon
Appelfeld:
<<A
causa di questo terrore prolungato per tanti anni ogni nostro
sentimento, ogni nostro pensiero passò per il forno raffinato
della sofferenza […] Una tale sofferenza non fu il destino dei
bambini, sebbene l’avessero assorbita ciecamente con tutte le
loro cellule, come solo i bambini possono assorbire le cose. In
questa confusione, non c’era posto per le parole e per le
domande. Essi appresero dunque molto velocemente a non fare
domande. Le espressioni silenziose insegnarono loro come
imprigionare la paura. […] Come salvare i bambini? […] Eravamo
il senso della loro vita. Già a questa epoca, alla svelta, nella
fuga, quando vedevamo come si sacrificavano per cercare un rifugio
in cui metterci al sicuro, noi sapemmo che, nel loro
autosacrificio, sull’orlo dell’abisso, essi non solamente ci
trasmettevano la vita, ma il significato ultimo della loro
esistenza>>.
Jean
Kehayan:
<<I
nostri genitori, penetrati dalla morte, inspiravano naturalmente
il silenzio. Innanzitutto, niente domande […] i nostri giorni e
le nostre notti si tingevano sempre di nero. Racconti di terrore
a non finire. L’impossibile da trasmettere era dato da
queste litanie di paura e di sofferenza, davanti alle quali non
avevamo il diritto di ribellarci. I morti viventi possono pensare
al destino dei figli? Non ho ancora la risposta a tal punto la
cultura della memoria – con tutti i mezzi – mi sembra vitale
[…] E’ sufficiente ripercorrere la via [della mia piccola
Armenia marsigliese]. Ogni porta, ogni padre, ogni madre divulga
la sua storia. Grazie a questa ostinazione orale, essi sono
riusciti a conservare la memoria dei supplizi di Kars, dei sepolti
vivi di Erzeroum. Essi hanno perpetuato la storia della soluzione
finale nel deserto di Der-Zor in Siria in cui si violentavano le
madri e le sorelle, in cui si sventravano i lattanti […] Non ci
sentivamo stranieri, ma piuttosto degli strani sconosciuti.
Portatori di un segreto intrasmissibile>>.
La
terza testimonianza, quella del cineasta Emmanuel Finkiel,
suggerisce con una particolare discrezione questo affetto di
doppio legame in un episodio segretamente commovente del film
Voyages (1999): assistiamo ad una festa di rimpatriata tra uomini
e donne sfuggiti alla Shoah che, in un’atmosfera commemorativa,
si rallegrano probabilmente di essere rimasti in vita, di essersi
riuniti e di rivedersi. Sembrano essere insieme per parlarsi,
mangiare e bere, persino danzare, come se appartenessero ad
un’associazione locale di “vecchi combattenti” che si
sarebbero rincontrati per dedicarsi ai ricordi che rinverdiscono
il loro passato. Perché siamo così turbati da un tale momento,
nel complesso il solo gioioso di questo film toccante? Senza
dubbio perché la tonalità festiva di questi comportamenti
implicitamente codificati, che cercano di soffocare le tracce dei
terrori non dimenticati, risveglia bruscamente in noi le
percezioni sepolte di simili commemorazioni che noi abbiamo ben
conosciuto da bambini, quando, rannicchiati nel calore particolare
del nostro riparo familiare, ne sentivamo l’insondabile
angoscia. Questa sequenza costituisce come una metafora della
dolorosa gioia di vivere, trasmessa ai discendenti delle vittime,
che costoro devono, prima di tutto e durante tutta la loro vita,
decifrare, sciogliere, liberare del suo peso emotivo esplosivo per
poter, attingendovi, estrarne il loro
rapporto unico al proprio destino.
In
effetti avrei voglia di dire che, in un figlio di un sopravvissuto
invischiato nel legame fusionale di questa miscela, il lavoro
psichico consiste nell’estrarne, come solo viatico per i suoi
giorni a venire, l’affermazione ed il piacere di vivere dei suoi
genitori, il senso generatore di vita che li abitava prima della
catastrofe. Anche la costruzione e la narrazione che elabora
l’erede per costituirsi questo tesoro di identificazioni non è
in realtà nient’altro che il pagamento di un debito da
“onorare” verso questa vita che gli è stata data a caro
prezzo.
<<Nel
racconto>> scrive Jean François Lyotard, <<bisogna
[…] riconoscere [il debito], onorarlo, rimandarlo. Nella
riflessione, interrogarlo. Quindi anche rinviarlo. (Ed è così
che la disputa sorge nella riflessione ed anche nel racconto, o
attorno ad esso)>>.
In
altre parole, ciò che reclama l’amore dei genitori, di cui si
è riusciti a riappropriarsi a posteriori (après coup) grazie al
lavoro del lutto, non è tanto battersi frontalmente contro i
negatori, alleati di chi attentarono ai loro congiunti, ai loro
beni, ai loro legami, ma ridurre tutti questi all’impotenza
acquisendo per sé un luogo di soggetto laddove quello degli
antenati era stato eliminato, un luogo in loro nome e tra gli
altri. Ci si ricorderà qui dell’analisi del filosofo per cui
questa distruzione non deriva da un
“danno” riparabile, ma da un “torto”, ossia da una
“disputa” non riducibile a un “litigio”:
<<Un
torto sarebbe questo: un danno accompagnato dalla perdita dei
mezzi per verificare il danno. E’ il caso in cui […] la frase
della testimonianza è essa stessa priva di autorità […] Alla
privazione, che è il danno, si aggiunge l’impossibilità di
portarlo alla conoscenza altrui, e in particolare alla conoscenza
di un tribunale>>.
Certamente,
di fronte
alle pressioni attuali degli integralismi e dei
negazionismi in pieno sviluppo, si può dubitare della portata
politica di questo affrancamento psichico che, in seno ad un
dibattito democratico, conferirebbe alla parola dell’erede una
qualunque “autorità” suscettibile di portare alla conoscenza
del mondo il “torto”
incorso. Ma nel caso in cui non si credesse più che la
metabolizzazione e la sublimazione della violenza possano generare
un dialogo in cui l’alterità degli interlocutori venga
negoziata, malgrado le esigenze della Realpolitik, in un certo
discorso di verità, nel caso in cui questo esito fosse oramai
caduco, le stesse fondamenta della nostra civiltà se ne
troverebbero annientate. La mia ipotesi ottimista, formulata con
speranza nonostante la perdita di credibilità delle istituzioni
democratiche in Occidente, avanzerà dunque che ciò che provoca
l’implosione dell’influenza della violenza è il
disinvestimento di ogni riferimento a quello pseudo-altro che è
il negatore, e l’elaborazione, in compenso, di situazioni di
interlocuzione con dei terzi da trovare o da creare.
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La creazione di una situazione
inedita di interlocuzione |
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Per
l’erede dei sopravvissuti, l’altro è sprofondato nella Storia
del mondo – egli fu assassino, complice o spettatore impotente
– come anche nelle relazioni precoci della sua storia infantile
– egli fu indisponibile o assente in quanto psichicamente
distrutto. Il compito prioritario che gli s’impone allora è di
instaurare una situazione triangolare che si crea dall’altro, un
altro suscettibile di intendere la verità sulla sua storia.
Ricordiamo qui la definizione che ne dà Dany-Robert Dufour
riguardo ai processi di convalida di una storia:
<<Perché
la trasmissione di una storia sia certa, bisogna in effetti che
essa venga intesa da parte di qualcuno a partire da un altro,
raccontata (tradotta […]) dallo stesso, e re-intesa da un terzo.
L’unità di misura, nella pragmatica narrativa, è dunque
costituita da una sequenza di tre allocuzioni. […] La nozione di
trasmissione di una storia […] implica una sequenza di tre
allocuzioni.>>
Questa
legge che regge la retorica del discorso di trasmissione si può
trasporre in pratica come segue: perché la storia dei miei
antenati sterminati trovi spazio nella storia del
mondo, ho bisogno di incontrare un’istanza
politico-culturale esterna alla mia storia la quale, trovando essa
stessa un qualche interesse proprio da intendere,
le offra una camera di risonanza e si costituisca come
mediatore per “raccontarla/tradurla” agli altri. Ora, questo
incontro diviene possibile in quanto l’esperienza politica
presenta di fatto un punto di giunzione con l’esperienza
analitica di un tale individuo che cerca di liberarsi
dall’influenza che il diniego della sua esistenza, della sua
autonomia o della sua storia esercitano su di lui.
Allo
stesso modo in cui, sulla scena del transfert, l’atto del
liberarsi dalla portata di un’eventuale uccisione psichica dà
luogo, nell’analizzando, ad un’istanza di enunciazione fino ad
allora inesistente in lui, analogamente si vede, alla luce dei
lavori di Jaques Rancière, come sulla scena della
“mésentente” democratica, è la <<situazione
stessa d’interlocuzione>> che si tratta di innovare:
<<il
litigio politico si differenzia da ogni conflitto di interessi tra
parti costituite […] nel senso che
non è una discussione tra interlocutori, ma
un’interlocuzione che mette in gioco la situazione stessa d’interlocuzione>>
Ora,
la temporalità richiesta per raggirare la situazione presente ed
instaurarne una inedita, la cui emergenza smantellerebbe nel campo
della Storia del mondo le relazioni duali carnefice/vittima,
testimoni/negatori, corrisponde a quella che reclama, dalla parte
degli eredi dei sopravvissuti, il lavoro di soggettivazione degli
eventi vissuti da questi ultimi e, di conseguenza,
l’acquisizione correlativa di una lingua adeguata per far ciò.
La privazione della lingua, occultata il più delle volte dai
sostenitori di una concezione positivista della storia che serve
per l’appunto la causa dei negatori della storia, è stata
chiaramente denunciata da Shoshana Felman:
<<Una
vittima, per definizione, non è soltanto qualcuno che è
oppresso, ma anche qualcuno che non ha un linguaggio proprio,
qualcuno che si è fatto rubare il linguaggio nel quale egli
avrebbe potuto articolare la sua vittimizzazione.>>
Parlare
la lingua del paese d’accoglienza della sopravvivenza
genitoriale, che, paradossalmente, contiene attraverso lo
spostamento nelle sue rappresentazioni di parola gli affetti
annientanti e nondimeno nutrienti, trasmessi dall’angoscia
familiare, identificarsi con le forme istituzionali e politiche
della sua cultura rappresentano un apprendistato che necessita, va
da sé, di più generazioni. Il dolore delle perdite e la
ribellione cambiano in effetti psichicamente di luogo e di natura,
sia per il passaggio da una generazione all’altra e delle loro
rispettive determinazioni politiche, sia per il percorso di un
lavoro psichico o quello di ogni altra forma di elaborazione
creatrice. Un reale disinvestimento dell’istanza omicida non si
può avere in un individuo a meno che egli non si
appropri dei dati della sua eredità in posizione di
cittadino soggetto, attraverso l’utilizzo di uno spostamento ed
il ricorso a delle appartenenze plurali, attraverso
un’ibridazione delle sue identificazioni che mantengano un
radicamento a posteriori (après coup) nei confronti
dell’impresa della sopravvivenza genitoriale e, al di là di
un’innovazione psichica portatrice di vita, una posizione
politica feconda in seno agli altri. La ricerca di queste
identificazioni inedite deve prendere in prestito lo spazio
transizionale di mediazione delle istituzioni della cultura
d’accoglienza, per quanto tali istituzioni siano ancora
democratiche. Negli eredi di seconda, terza generazione, essa non
può che poggiare su un’alleanza esogamica con coloro che,
provvisti di linguaggio, vivono in un mondo – può darsi
provvisoriamente – non minacciato. La ferita inflitta resta
intatta nell’intimità del soggetto, ma questa nuova
configurazione opera in costui un clivaggio salvatore che,
salvaguardando una separazione con la storia dei suoi antenati,
libera lo spazio di un dialogo conflittuale con dei nuovi
interlocutori.
Questo
scarto spazio-temporale attraverso il doppio spostamento da una
generazione all’altra e dal luogo sterminatore a quello della
terra d’accoglienza, non è pertanto praticabile quando
si tratta della generazione dello stesso
sopravvissuto o di una situazione in cui egli si vede
condannato a vivere fianco a fianco coi suoi carnefici e coi suoi
negatori. Una sopravvissuta ruandese ci descrive, ad esempio, un
tipo di raggruppamento molto differente da quello evocato dal
cineasta, erede della Shoah:
<<Una
vera vittima è un morto vivente, un morto errante, un morto che
lavora, egli è preso nella società come gli
altri, anche se ha perduto tutto ciò che gli era caro
[…] E’ inguaribile poiché
si immerge tra i suoi simili che lo spingono ancora di più
nel dolore, dato che egli non vive in altro modo che con esso, in
esso, accanto ad esso. Siamo felici dentro, a tal punto che
possiamo passare dei giorni interi insieme agli altri rifugiati
senza parlare del passato>>
Questo
esempio mostra come l’impossibilità dello spostamento, che
permetterebbe l’avvento di una parola del soggetto cittadino,
segna allo stesso tempo l’impossibilità del lavoro del lutto.
Andò allo stesso modo in una situazione analoga in cui vissero
fianco a fianco assassini e vittime sul nostro territorio, nella
Francia di Vichy in cui, come ricorda Bruno Bettelheim:
<<La
società, i poteri che regnavano sulla vita, lo Stato, che ha per
obbligo la protezione della vita dei bambini, erano determinati a
distruggere i bambini ebrei; [...] E’ impossibile piangere un
genitore quando si sa di essere chiamati in prima persona a morire
[…] quando si va a morire non serve a nulla portare il lutto
degli altri.>>
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L’instaurazione
di un terzo, poiché fu assente all’epoca del crimine |
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Sebbene
questa mia relazione non rientri nel campo delle scienze
storiche, notiamo che in ogni configurazione contemporanea di
rifugiati trapiantati dai luoghi della loro vita e della loro
cultura, si può mostrare come gli accordi diplomatici che hanno
sovrinteso alla loro storia abbiano mostrato l’assenza
di qualsiasi terzo mediatore suscettibile d’interdire il
potere assoluto dei criminali a cui essi furono abbandonati.
E’ questa assenza, come anche le violenze da essa autorizzate,
che produce, in un ritorno del reale, il negazionismo.
Conformemente all’opportunismo di una data Realpolitik, i
Paesi d’accoglienza rispettivi dei rifugiati furono spesso
coinvolti, sia direttamente sia per un atteggiamento di
laissez-faire
che prometteva benefici politico-economici, in questi
stessi eventi genocidari che li fecerono espellere fuori dalla
loro Patria e ne fecero delle persone
il cui soggiorno in Patria venne loro interdetto,
lasciati alla mercé dell’ospitalità dei loro Paesi
ospiti. Questo scenario non è per nulla particolare di
questo o quel genocidio (armeno, ebraico, cambogiano, ruandese,
massacri dell’ex-Jugoslavia, d’Algeria, ecc…). Ogni volta
vi si possono riconoscere i processi diplomatici
in cui si combinano e si congegnano senza alcuna
contraddizione la liquidazione degli uni ed il beneficio degli
altri. <<La Turchia ha potuto sopprimere la questione
armena, poiché l’Occidente glielo ha permesso>> scrive
Atom
Egoyan.
Questa scena di uccisioni è emblematica per tutti i rifugiati
che si vedono miracolosamente trapiantati da una parte
sterminatrice del mondo a quest’altra parte che, avendo chiuso
gli occhi sull’eliminazione dei loro congiunti, offre loro un
luogo in cui diventa loro possibile paradossalmente di restare
democraticamente in vita.
Se
i loro eredi devono, ciascuno secondo i propri mezzi, elaborare
psichicamente e politicamente il trauma collettivo della Storia
che ha colpito la loro famiglia di appartenenza,
diviene loro possibile
ricercare una posizione che faccia intendere la loro
parola
solo in certe condizioni sociopolitiche. Nella misura in
cui essi portano le tracce di uno sterminio che si è effettuato
nel silenzio di un mondo impotente o
complice e sotto i colpi di una violenza che è troppo
chiamare
conflitto, questa elaborazione non si può compiere in
essi se non con l’aiuto di ibridazioni instauratrici di
terzietà, dunque grazie all’esistenza di terzi garanti
democratici, suscettibili di affrontare ambivalenze e conflitti.
E’ precisamente la parola di questi terzi che bisognerà
convocare per sventare
l’impatto del negazionismo,
poiché nessun diniego può essere combattuto frontalmente, ma
invece discutendone con un terzo termine, nato da uno
spostamento sociopolitico dai dati iniziali di ciò che fa
l’oggetto del diniego. Le istituzioni dell’accoglienza, che
si suppone si prestino in democrazia ad una verifica e ad una
conflittualità benefica anche per esse stesse, autorizzano
a pensare che se il Terzo fu compromesso, tutti i suoi
rappresentanti non lo furono e non lo sono. Li si può dunque
interpellare al fine di incontrare in loro dei garanti, loro
stessi interessati alla “disidentificazione” dalle sicurezze
illusorie che induce “la causa dell’altro”, mendicante di
verità.
<<La
causa dell’altro come figura politica, è innanzitutto>>
ci ricorda il filosofo Rancière << […] una
disidentificazione in rapporto a un certo sé […] Una
soggettivazione politica implica sempre un “discorso
dell’altro” […] c’è della politica perché c’è una
causa dell’altro, una differenza della cittadinanza con se
stessa>>.
Va
da sé che il ricorso a questa strategia non è tributaria del
solo lavoro intrapsichico. Esso si trova favorito o ostacolato
dalle condizioni sociopolitiche che il luogo di vita degli eredi
è in grado oppure no di offrire ai suoi cittadini. Non si
ignora quanto queste siano compromesse dalla crisi attuale di
quelle funzioni di quadro e di garante che dovrebbe assicurare
il campo socio-culturale dei paesi d’accoglienza su cui si
poggia necessariamente, come spiega René Kaës, ogni
trasmissione.
Inversamente, questo lavoro di costruzione psichica avrà
evidentemente una portata politica, poiché a voler cancellare
l’altro è proprio l’ostinazione o la perversione,
nell’immaginazione onnipotenti, che alimentano i negazionismi
di ogni dove o gli integralismi devastatori.
Ora,
sono queste condizioni che tollerano la conflittualizzazione ad
essere minacciate ai nostri giorni. Gli interessi
economico-politici attaccano i legami del mondo sociale
parcellizzandolo a beneficio di organizzazioni globalizzanti che
predicano l’efficienza, tanto che ci si può chiedere se
lo spazio di questa mondialità commerciale svilupperà
ancora, e con quali dispositivi di scambio, delle costruzioni
fantasmatiche di alterità, dei processi di identificazione/disidentificazione
che permettano l’accoglienza psichica di questa eredità
traumatica in coloro che hanno la responsabilità di tradurla ai
loro concittadini, apparentemente protetti da tali
sconvolgimenti.
Perché
questa traduzione sia in grado di disinnescare ogni negazionismo,
bisognerebbe precisamente che essa potesse essere intesa da un
luogo eterogeneo, suscettibile di essere tollerato nello
“screzio” (“la mésentente”) del litigio politico.
Bisognerebbe che essa crei un dissenso perché l’inadeguatezza
delle rappresentazioni del mondo degli autoctoni rispetto a
quelle dei rifugiati o degli assistiti acquisisca visibilità.
Far intendere una parte del mondo all’altra presuppone che il
dibattito pubblico accetti un discorso eterodosso che eccede il
quadro consensuale delle delegazioni implicite:
<<La
democrazia è il nome di un’interruzione singolare di questo
ordine della distribuzione dei corpi in comunità […] Essa è
l’introduzione nel campo dell’esperienza di un visibile che
modifica il regime del visibile>>.
Esempio
di un’eredità resa visibile grazie ad un attentato contro il
negazionismo ma compiuto in un paese democratico
Per
concludere fornirei l’esempio di un retaggio familiare di cui
solo un evento politico violento a Parigi, concepito tuttavia
all’interno di istituzioni democratiche ancora in vigore, mi
rese possibile, per tre volte, una pubblicazione in tutti i
sensi del termine, e che, a posteriori (après coup), riveste
per il mio lavoro un’importanza psichica e politica.
Avendo
preso conoscenza del Diario di deportazione di mio padre, feci
ricorso dapprima nel 1978, otto anni dopo la sua morte, alla sua
traduzione nel senso abituale del termine. Intitolato “10
agosto 1915, mercoledì, tutto quello che ho passato dal 1915 al
1919”, questo manoscritto restituiva dei racconti che avevano
popolato la mia infanzia e quella di tutti gli armeni della mia
età. La loro trasposizione in una lingua appresa a scuola mi
diede il mezzo di affrontarli in francese
e di pubblicarli dapprima in Temps Modernes nel febbraio 1982,
poi in una raccolta dal titolo ispirato a Cornéille: Ouvrez-moi
seulement les chemins d’Arménie.
Se,
come spiega lo psicoanalista René Kaës:
<<il
dramma catastrofico resta […] in assenza di un enunciato e
innanzitutto di una rappresentazione, poiché
i luoghi e le funzioni psichiche e transsoggettive in cui
si potrebbe costituire e significare sono stati
aboliti>>,
è
sotto l’effetto di uno scandalo politico parigino
che, per la
prima volta, si ruppe un silenzio
di quasi mezzo secolo
sul genocidio armeno: la presa di ostaggi al consolato di
Turchia nel settembre 1981, che mi apparve un sostituto
di quei <<luoghi e funzioni psichiche e
transsoggettive>>. Certo,
senza l’effrazione spettacolare del silenzio dell’opinione
pubblica su questo primo genocidio del XX secolo, vale a dire
senza il paravento protettore di questo scandalo nella vita
pubblica del Paese che aveva accolto mio
padre, mi
sarebbe stato impossibile superare la vergogna di compiere, a
nome mio ed in tutta autonomia, questo processo di pubblicazione
e non avrei incontrato alcuna
accoglienza editoriale per questo Diario.
Pertanto,
se il fattore propriamente giornalistico, che permise la messa
al mondo di questo manoscritto mantenuto sotto i sigilli,
intervenne solo in un secondo tempo, è di capitale importanza
sottolineare che questo tipo di trasmissione mediatica non ha
potuto esistere per me, delegata dal padre, se non in seno ad istituzioni democratiche in grado di
affrontare i richiami fuorvianti del passato e ad un’epoca in
cui il negazionismo dello Stato Turco non era così attivo come
al giorno d’oggi.
Dato
che la rivista Les Temps Modernes aveva già pubblicato (dal
1975 al 1978) tre miei articoli, presentai ad essa anche questo
mio lavoro. Mi fu riferito che esso era stato qualificato come
un “testo selvaggio” da
Simone de Beauvoir e fatto oggetto di alcuni dubbi da
parte sua. Tuttavia, lei lo pubblicò. Lei incarnava nella mia
vita di studentessa e poi di donna quelle figure di maestre
della Scuola di Jules Ferry, piuttosto rispettose di ciò che
andava oltre le loro competenze, <<benevole sebbene troppo
sicure di sé>>.
In
un cittadino erede di sopravvissuti, la soggettivazione della
sua storia può difficilmente realizzarsi in un ambiente
sociopolitico che non offra un tale sostegno alla distanziazione
ed alla mediazione delle istanze di riflessione. La presenza,
divenuta attuale, di queste istanze gli offre in qualche modo lo spazio di una parola che tenta di denunciare,
a posteriori (après coup), la loro assenza allora, quando si
lasciarono impunemente agire i carnefici. Questa presa di
distanza è impossibile quando non si può localizzare nessuna
traduzione culturale, nessun reperimento nella memoria nel mondo
attuale dei vivi, cosa che viene vissuta dall’erede in una
contaminazione e in uno sconfinamento
nel senso winnicottiano.
La mancanza di delimitazione tra i morti ed i vivi, che induce
spesso una rottura dei legami, può spingere a dei passaggi
all’atto inefficaci o alla rinuncia davanti a un compito che
individualmente non ci si può assumere.
L’espulsione
nel campo pubblico di una storia paterna mantenuta segreta mi
permise quindi di leggerla a distanza, tradotta in una lingua
non “materna”, ma acquisita alla “scuola materna” della
Repubblica, quella delle mie maestre “laiche”, madri
sostitutive, che furono altre volte, come le ho già
chiamate, “madri adottive dei più sfortunati”.
E’ alla loro sollecitudine tutta repubblicana, nonostante la
loro ignoranza della mia storia personale, che io devo il
privilegio d’aver potuto apprendere a tradurre un giorno in
parole ciò che si intendeva
inaudibile in questo manoscritto. Stimolando la mia
curiosità per un altro universo rispetto a quello della
vittima, della famiglia, esse prepararono il mio incontro con la
letteratura della loro cultura dominante, ma anche con quella
degli scrittori che attestavano altre Storie di
catastrofe,
di assassini, di complici, di negatori differenti. Le loro
“spiegazioni dei testi” mi permisero di demistificare
il carattere unitario,
omogeneo, che avrei potuto attribuire
nell’immaginazione
ai loro simili.
Una
volta ripreso nel 1990
nel mio primo libro,
questo racconto diede luogo ad un incidente del tutto inatteso
che, provenendo di fatto dal vostro Paese, l’Italia, ebbe come
conseguenza la terza ed ultima pubblicazione nell’aprile 2009
quando, 90 anni dopo la sua redazione, questo manoscritto
terminò alla fine il suo percorso insistente.
In
occasione di una settimana di lavori nel 2007 alla Casa
Internazionale delle
Donne,
Manuela Fraire, psicoanalista
di Roma, ebbe il desiderio di mettere in cantiere la
pubblicazione di una piccola raccolta, Ricordare per dimenticare
in cui figurava, insieme ad un suo saggio, l’intero racconto di mio padre
ed uno dei miei articoli che le avevo fatto conoscere. Quando
ebbi il libro in mano, scoprii dapprima con stupore e
contrarietà “il” nome dell’ autore che l’editore non
aveva giudicato utile precisare
nel contratto: esso era nominato come
“Janine e Vahram Altounian”. Dopo qualche istante
finii non solo per riconoscere che questa denominazione si
giustificasse totalmente grazie al sottotitolo della raccolta
“Il genocidio armeno nel diario di un padre e nella memoria di
una figlia”, ma che un genere di evento psichico mi arrivava
là, dall’altro e dall’estero, un evento a cui bisognava
dare una significatività in Francia attraverso una
pubblicazione dello “stesso autore”.
Questo
scritto, che proseguì, in effetti, al di là della morte del
suo scrittore la resistenza che l’ha prodotto inducendo un
ulteriore “lavoro” di scrittura, di traduzione, di
pubblicazione come sfida al negazionismo, figura dunque
all’interno di un’opera
che riunisce ricercatori e psicoanalisti all’ascolto dei
traumi della Storia. Non solo il loro portare accompagna,
sostiene la sua testimonianza davanti al mondo, ma la sua
traduzione francese, la sola disponibile finora, si duplica in
esso grazie al fac simile della sua versione originale redatta
in lingua turca e trascritta in caratteri armeni. Fu lo stesso,
curatore, in quell’occasione direttore delle P.U.F. (Presses
Universitaires de France), che volle la riproduzione integrale
di questo manoscritto a cui non avrei, evidentemente, osato
pensare, che avrei ancor meno osato reclamare in un’edizione
“universitaria” in cui lo scrittore di tali terribili pagine
è vicino a quei testi freudiani di cui io sono co-traduttrice
dal 1970.
Questo
inserimento del fac simile del manoscritto, che io devo, ancora
una volta, ad un’iniziativa democratica repubblicana,
rappresenta metaforicamente l’inclusione, nel mondo della
Storia, del corpo di coloro che furono esclusi da questo mondo.
Questo manoscritto, incluso nell’opera
in fac simile, rende omaggio all’ingiunzione di
“lavorare”, proferita dall’antenato e trasmessa fino alla
sua bambina che perciò egli non ha il tempo di conoscere.
Grazie
alla sua presenza su un fondo di color seppia con delle
pagine ai bordi rovinate dagli anni, esso rende manifesto il
compimento tangibile di un “lavoro” di resistenza alla
negazione che sarà durato tre generazioni.
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Note: |
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[i]
Hermann Broch, “Esprit et esprit du temps”, conferenza
tenuta a Vienna nell’aprile 1934 : <<Tra l’uomo
e l’uomo, tra il gruppo umano e l’altro regna il mutacismo
ed è il mutacismo dell’omicidio […] E’ il rumore
terribile del mutacismo che accompagna l’omicidio>>,
estratto da un passaggio citato da Catherine Coquio in “À
propos d’un nihilisme contemporain: négation, déni,
témoignage“ in L’histoire
trouée, négation et témoignage,
sotto la direzione di Catherine Coquio,
Éd. L’atalante, 2003, p. 23.
iii
Cf. J. Altounian, L’intraduisible, Deuil,
mémoire, transmission, op. cit., capitolo v : « Traduire au tiers ce qui reste » , p. 97 e
seguenti.
iv
Cf. Marie-Claire Caloz-Tschopp, Résister
en politique, résister en philosophie, avec Arendt,
Castoriadis et Ivekovic. La dispute, 2008 ;
Bertrand Ogilvie, « Violence
et représentation. La production de l’homme jetable »,
in Lignes,
n° 26, Ottobre 1995, Ed. Hazan ;«
Anthropologie du propre à rien », un articolo sulle
poste in gioco antropologiche della globalizzazione in
Le Passant Ordinaire,numero
di ottobre 2003.
v
Cornac McCarthy, La route, Éditions de l’Olivier, 2008,
p. 175 e 246.
vi
Paul Ricœur, « Mémoire, Histoire, Oubli »,
in Esprit,
La pensée Ricœur, n° 323, marzo-aprile 2006, p.
25/26.
vii
Cf. S. Ferenczi, Journal
clinique, Payot, 1985, tra le altre, la lettera del 24
gennaio e del 25 marzo 1932.
viii
Aharon Appelfeld, L’héritage
nu, tradotto dall’inglese da M. Gribinski, Éditions
de l’Olivier, 2006, p. 30.
ix
Jean Kéhayan, L’Arménie « sans retour possible
», in La Revue
Autrement/ Le Livre du retour, 1997, pp. 160-163.
x
J. F. Lyotard, Le Différend, Éd. de Minuit, 1983, p. 256.
xi
J. F. Lyotard, Le Différend, op. cit, p. 19.
xii
Dany- Robert Dufour,
Les mystères
de la trinité, Gallimard 1990, p.157.
xiii
Jacques Rancière, La Mésentente / Politique et Philosophie, Galilée, 1995,
pp. 140-141.
xiv
Shoshana Felman « À l’âge du témoignage :
Shoah de Claude Lanzmann, in Au
sujet de Shoah, le film de Claude Lanzmann »,
Belin, 1990. p. 62.
xv
Speciosa Mukayiranga, « Sentiments de rescapés »
in L’histoire
trouée. Négation et témoignage, op.
cit., p. 781/782.
xvi
Bruno
Bettelheim, Postfazione a
Je ne lui ai pas
dit au revoir, Des enfants de déportés parlent,
Intervista con Claudine Vegh,
Gallimard/ collection folio, 1979, p. 207.
xvii
In The Globe and
Mail (Canada),numero del 3.02.07 : « Nous
sommes tous Arméniens »
xviii
Cf. l’articolo di
Bernard-Henri Lévy apparso nel
numero del 02.02.07 di Le Monde.
E’
così che l’assassinio, il 19 gennaio 2007, a Istanbul
di Hrant Dink, giornalista armeno che aveva rievocato nei
suoi propositi molto moderati il genocidio del 1915, e i
processi che si celebrano regolarmente in Turchia contro i
difensori dei diritti dell’uomo (in applicazione
dell’articolo 301 del codice penale) sono stati i
precursori dei due
eventi recenti che vengono
ad attaccare il diniego della posizione ufficiale turca:
1) L’opera del sociologo turco Taner Akçam : Un
acte honteux. Le génocide arménien et la question de la
responsabilité turque (Denoël, nov. 2008, tradotto
dall’originale pubblicato nel 2006 negli Stati Uniti).
2) Il numero crescente di firmatari di una petizione
indetta su Internet nel dicembre 2008 da parte di quattro
intellettuali turchi, «che chiedono perdono ai fratelli
ed alle sorelle armene».
xix
Jacques Rancière, « La cause de l’autre »,
« L’inadmissible »,
in Aux bords
du politique, pp. 159-160, La fabrique éditions,
1998.
xx
Nei suoi lavori sui luoghi e sulle funzioni transsoggettive ed in particolare
ne « La transmission de la vie psychique et les
contradictions de la modernité », conferenza del 26
marzo 2008 all’interno del « Cours sur les
techniques de soin en psychiatrie de secteur »
organizzato a Villeurbanne dal 25 al 28 marzo 2008
dall’associazione SANTE MENTALE ET COMMUNAUTES sul
tema:« TRANSMISSIONS », in
Transmissions et
soins psychiques, a cura di Marcel Sassolas, érés,
2009.
xxi
La
Mésentente, op. cit., p. 139.
xxii
Questo manoscritto era stato redatto - probabilmente nel
1920, poco dopo l’arrivo dell’autore in Francia - in
lingua turca trascritta in caratteri armeni. Cfr.
la postfazione del traduttore K. Beledian, scrittore
di lingua armena e « maître de Conférences »
all’INALCO, che ne ha ugualmente curato
le note in «
Ouvrez-moi seulement les chemins d’Arménie »,
Un génocide aux déserts de l’inconscient, Belles
Lettres, prefazione di René Kaës, 1990, 2OO3, p. 116, e « Traduire un
témoignage écrit dans la langue des autres »
in Mémoires
du Génocide arménien. Héritage
traumatique et travail analytique,
Vahram
et Janine Altounian,
con il contributo di K. Beledian, J.F. Chiantaretto, M.
Fraire, Y. Gampel, R. Kaës, R. Waintrater, PUF,
2009, p. 13.
xxiii
Les Temps Modernes,
fév. 1982, n° 427,
« Terrorisme d’un génocide », Janine Altounian,
Vahram Altounian, Krikor Beledian.
xxiv
Corneille, versi 1712-1713 di Nicomede : La
regina d’Armenia Laodice, a cui
Attale offre il trono di Bitinia, gli risponde:
« Je ne veux point régner sur votre Bithynie:
Ouvrez-moi seulement les chemins d’Arménie »
xxv
René Kaës, « Ruptures catastrophiques et travail
de la mémoire » in Violence
d’État et psychanalyse, Dunod, 1989. p. 178.
xxvi
Su questa questione, si può consultare tra gli altri:
Yves Ternon, Les
Arméniens, histoire d’un génocide, Points Histoire,
Seuil, 1996; Leslie A. Davis, La
Province de la mort, Archives américaines concernant
le génocide des Arméniens (1915), Éd. Complexe, 1994; Revue
d’histoire de la Shoah, n°177-178,
2003 (dossier coordonné par G. Bensoussan, C.
Mouradian, Y. Ternon):
Ailleurs, hier, autrement : Connaissance et
reconnaissance du génocide des Arméniens ;
Raymond Kévorkian, Le
génocide des Arméniens, Odile Jacob/Histoire, 2006.
xxvii
Cf. «Faute de parler ma langue/ L’arménien qui me
parle, que je ne parle pas » in « Ouvrez-moi seulement les
chemins d’Arménie », op. cit, p. 147:
« Armena di Francia, avevo dovuto nel 1938, come
tanti figli di persone sradicate ai giorni nostri, coi
miei quattro anni, con le mie trecce
rossiccie intrecciate da mia madre e coi miei occhi
neri in agguato, emissari di mio padre, varcare la soglia
della scuola materna, al numero 7 di “rue de la
jussienne”, nel modo in cui a quell’età si può ben
affrontare un paese straniero, minaccioso, del
quale si comprende solo che esso è l’unico territorio
dei giorni avvenire. Le buie foreste in cui vengono
abbandonate le bambine delle favole si aprono talora su
delle belle radure: vi trovai quelle fate benevole sebbene
troppo sicure di sé, le mie maestre, e divenni a poco a
poco colei che non potette tradurre ai propri familiari,
in armeno, nessuno di quelli
affetti strazianti o radiosi che iniziano al mondo,
nessun lavoro del pensiero, nessuna evasione
dell‘immaginario ».
xxviii
Nel senso definito da Winnicott, cf. « Psychose
et soins maternels », in
De la pédiatrie à la psychanalyse, Payot, 1969.
xxix
« L’école de la République, jadis “mère
adoptive” pour les
sinistrés, l’est-elle encore? », in Les
Temps Modernes, 615-616/sett.- ott.-nov. 2001.
xxx
Ad es., al di là delle testimonianze di armeni: Michael
Arlen, Martin Melkonian, Nigoghos Sarafian, quella di
Andromaca in Racine, di Annie Ernaux, Eva Thomas, Semprun,
Améry, Camus, Pachet, Handke, Ruth Klüger, Aharon
Appelfeld. (in«
Ouvrez-moi seulement
les chemins d’Arménie », op. cit.; La
Survivance / Traduire
le trauma collectif, Préface de Pierre Fédida,
Postfazione di René Kaës, Dunod / Inconscient et
Culture, 2000, 2003;
L’Intraduisible, op. cit.; Figures
de l’autre en soi, Le Coq –Héron, 192- 2008).
xxxi
« Ouvrez-moi
seulement les chemins d’Arménie », op.
cit.
xxxii
A partire dal 20 febbraio 2007, settimana di incontri
organizzati da Maria Palazzesi, direttrice della Casa
Internazionale delle Donne.
xxxiii
Ricordare per Dimenticare. Il genocidio armeno nel diario di un padre e
nella memoria di una figlia, Janine e Vahram Altounian,
con un saggio di Manuela Fraire, Donzelli Editore,
Saggine/107, 2007.
xxxiv
Mémoires du
Génocide arménien. Héritage
traumatique et travail analytique, op. cit.
xxxv
Les Œuvres complètes de Freud/Psychanalyse
(Direttori della pubblicazione: André Bourguignon -
Pierre Cotet, Direttore scientifico: Jean Laplanche) sono
in corso di pubblicazione per Les Presses Universitaires
de France, 17 volumi sono apparsi dopo il primo del
1988 ; Cf. anche: Janine Altounian, L’écriture
de Freud/ Traversée traumatique et traduction, PUF/
bibliothèque de psychanalyse, 2003.
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