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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della negazione

Numero 15, anno VIII, gennaio 2011

 

 

     "RIFLESSIONI SULLA TRANSCULTURALITA'"

 

 

 

 di Silvia Amati Sas

 


Questo testo è una rielaborazione da parte dell' autrice del suo intervento al convegno internazionale "Id-entità mediterranee.Psicoanalisi e luoghi della negazione"(Lecce, 30 ottobre 2010). Esso  verrà ulteriormente elaborato e pubblicato in un prossimo libro delle Edizioni Frenis Zero intitolato "Psicoanalisi e luoghi della negazione". 

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

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Publisher: Schena Editore

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Questo tema dell'ambiguità, e soprattutto  della "depositazione" dell'ambiguità nei contesti, mi è servito per capire delle cose relative a queste situazioni nuove  di violenza che avevano passato questi pazienti che avevo visto. Che cosa dire dell'ambiguità? Insisto moltissimo sull'idea che l'ambiguità è l'espressione clinica dell'indifferenziazione, e che essa c'è in tutti noi e rimane in parte in noi tutta la vita. Quella che è la pertinente idea di Bleger è che questa indifferenziazione non può essere portata da noi e la mettiamo fuori di noi, ossia nei contesti del mondo esterno, che siano oggetti esterni o che siano situazioni, istituzioni, anche situazioni normali della vita quotidiana in cui siamo immersi. Bleger ha descritto ciò attraverso un nucleo ambiguo che è depositato fuori attraverso un vincolo che lui chiama vincolo simbiotico. Però io, per cambiare un po' le cose rispetto a Bleger, rendo questo vincolo un po' più esistenziale, e dico che possiamo descrivere il nucleo ambiguo come un ammasso di incertezze esistenziali,  di indifferenziazioni, di imprecisioni, di in-definizioni, ossia di nostre vulnerabilità esistenziali messe fuori di noi. Il fuori di noi ci rimanda, con questo movimento, appartenenza e, in un certo senso, sicurezza. Però così viviamo tutti i giorni, così non viviamo solo in condizioni estreme.  E tutti i giorni c'è questa partecipazione dell'ambiente e una certa quantità di cose che consideriamo ovvie è depositato in esso. E questo è il senso di questa "depositazione" inconscia. E' questo alla base di un'obbligatoria dipendenza dagli oggetti esterni o da contesti ed  istituzioni. Quando per motivi naturali o provocati (esilio, lutto, violenza) si alterano bruscamente gli abituali depositari esterni del nucleo ambiguo, l'ambiguità in esso depositata ritorna, viene re-introiettata nell'Io, e ciò si manifesta clinicamente sotto diverse forme di angoscia, panico, perplessità, “estraniamento”, confusione. Ma quello che è particolare è che  questo nucleo ambiguo,  dato che  non può non essere depositato, viene obbligatoriamente ed immediatamente ri-depositato nella situazione in cui ci si trova. C'è un naturale conformismo con la nuova situazione. Questo movimento è inconscio, però in una situazione estrema questo diventare ambiguo diventa una difesa maggiore. In questi casi la qualità mimetica, plastica, oscillatoria e malleabile dell'ambiguità protegge con l'adattamento, con l'obnubilamento e l'indifferenza il resto  della personalità che sembra rimanere  sospesa nel tempo, dando il tempo all'Io di mettere in moto altri meccanismi di difesa e resistenza. Dunque è una difesa importante quella dell'ambiguità. In genere l'ambiguità è un problema importante della vita  quotidiana.  Bleger ha aggiunto la "posizione  ambigua" alle due posizioni kleiniane classiche, ne ha fatto una posizione "pre-schizoparanoide", caratterizzata dall'accomodamento alle circostanze e dall'offuscamento degli affetti.  Un'altra caratteristica importante è la penetrabilità che contraddistingue chi si trovi in questa posizione. L'ambiguità può essere uno stato, una difesa, una struttura di personalità. Però nello stato di ambiguità il soggetto o il gruppo diventano facilmente penetrabili e suggestionabili da discorsi caotico-paradossali che possono portare  all'instaurazione di condizioni paranoidi. L'ambiguità può portare, dunque, ad aperture dinamiche - perché è una posizione che permette  aperture - ma anche  ad accomodamenti pregiudizievoli. Le situazioni di transito e di transizionalità  sono situazioni ambigue. Considero il trans-soggettivo come uno spazio condiviso, come la "depositazione" comune di tutti noi in un contesto comune. Kaës parla di comune e di condiviso. Comune è ciò che tutti noi facciamo come reazione a certe circostanze. Condiviso rappresenta  già un qualcosa di più evoluto. Io penso  che il comune possa essere nella posizione   dell'indifferenziazione, il condiviso esige già una certa soggettività. Come si mette  tutto questo in termini di transculturalità? 

L'associazione che si chiama EATGA, Associazione Europea d'Analisi Transculturale di Gruppo, è stata fondata nel 1982 da un gruppo di psicoanalisti (tra i suoi fondatori, Réné Kaës, Jaak Le Roy, Malcolm Pines, Claude Rouchy, Kurt Husemann ed altri) [1] , con l’idea di studiare, attraverso tecniche gruppali, queste situazioni di transculturalità. L’idea principale che è uscita da questa Associazione è che la differenza non è solo questione di sesso e di generazioni, ma anche di differenza culturale, di differenza nelle culture, ed essa si può vedere nei gruppi. Questa Associazione ha avuto molti sviluppi nel tempo, i primi fondatori sono andati via, e questa Associazione è rimasta legata alla storia dell’Europa di questi anni: la caduta del Muro (quello che veniva dal nazismo come anche quello che veniva dal comunismo, dall’occupazione sovietica, e poi negli ultimi anni le storie dei paesi balcanici. Sono entrata in quest'Associazione una quindicina d’anni fa, alla ricerca di quello che le Società psicoanalitiche non mi davano, di scambi cioè intorno alla tematica psico-sociale più specifici rispetto a  quelli offerti dalle istituzioni psicoanalitiche.

La transculturalità è un tema d’oggi, non è solo un sostantivo, ma un aggettivo che sovente definisce situazioni quotidiane in un mondo globalizzato. C’è un lavoro della transcultura nel lavoro della cultura che corrisponde ai nostri tempi in cui vediamo il carattere massivo e multiforme dell'emigrazione di origine economica o politica e gli accentuati scambi di tipo economico provocati dalla mondializzazione, senza parlare delle tecnologie dell’informazione globalizzata. Kaës (seguendo Mauss) considera la nostra epoca come “un fenomeno psicosociale totale”, in cui c'è un “fallimento dello spazio transizionale” che potrebbe “evolvere verso una distruzione della vita psichica, sociale e somatica perché implica un ritorno verso le zone di indifferenziazione dell'Io e il non-Io”.  Questo aumento dell'indifferenziazione si esprime clinicamente con un aumento dell'ambiguità difensiva, che comporta più adattabilità e penetrabilità inconscia.

Lo spazio transizionale a cui si riferisce Kaës è uno spazio trans-personale, comune e condiviso, dove si elaborano la diversità e la similitudine, in un gioco di inclusione ed esclusione, di discriminazione e comparazione.  Il suo fallimento proviene dal fallimento della società in quanto contesto, dalla mancanza di solide garanzie e punti di riferimento morali (meta-psichici e meta-sociali) (Kaës, 2007) che sono facilitati dagli input equivoci e confondenti dei mezzi di comunicazione di massa, dall'instabilità economica e lavorativa, dall'arbitrarietà della giustizia sociale, dalla corruzione, ecc.

 

 

L'incontro iniziale con un gruppo diverso dal proprio comporta, nel soggetto, un piccolo istante di perplessità, una lieve spersonalizzazione, un segnale d'allarme fugace, che possiamo definire come “estraniamento”, perché la presenza di un gruppo  diverso significa sempre una modificazione del contesto di sicurezza.  Anche quando, in una nuova esperienza di gruppo, gli altri sono in buona parte conosciuti, un breve vissuto di anomia fa la sua comparsa, come fosse la sensazione di una “no man's land”.  Occorre allora domandarsi se l'estraniamento (in quanto espressione di angoscia) sia un problema di base della mente, oppure se sia il risultato della Storia, della memoria delle persecuzioni e dei traumi sociali collettivi, di quello che gli esseri umani hanno fatto e possono fare ad altri esseri umani.

Non credo di esagerare prendendo le situazioni di terrore sociale (di “terrificante novità”, come dice Hannah Arendt [2]) e le situazioni chiamate “estreme” come riferimento utile per osservare problemi legati ad altre situazioni di “novità” più banali e quotidiane. La signora Altounian in questo convegno ha detto quanto importante sia il contesto in cui una persona possa elaborare; se non c’è un contesto democratico non si può elaborare, ossia non si accede alla terza posizione  se il contesto non lo permette, se non c’è un contesto facilitante. Io ho avuto la fortuna di lavorare in Svizzera, e mi sembra che sia importante dire dove uno lavora e in che momento storico uno lavora. In quello stesso momento storico i miei colleghi a Buenos Aires non potevano fare quel lavoro, perché non c’erano le condizioni per mettersi in una posizione terza per guardare quella situazione.

Tra le tante possibilità di comprensione, la vasta letteratura e le ricerche sul tema del gruppo e della transculturalità,  mi prendo qui la libertà di utilizzare quei significati e quelle metafore che sento più sintonici, in riferimento alla mia esperienza clinica.

Seguendo la mia abituale bussola teorica, per dare un contributo al tema dell'inconscio transculturale, vorrei sottolineare l’estraniamento come l'“affetto-segnale” più specifico degli incontri transculturali (anche se appare ugualmente in tante altre esperienze gruppali) basandomi sui lavori di J. Bleger e le sue proposte di una “socialità sincretica”, simbiotica, di matrice ambigua (in equilibrio con una “socialità di interazione” o relazionale).

L'estraniamento è un momento che potremmo definire come “dilemma identitario” che propone moltissime sfumature, dall'“effervescente curiosità” per la presenza di una novità, fino all'angoscia-segnale di allarme, con  percezione del sentimento della catastrofe (“paura del crollo”, o entrata massiva dell'ambiguità nell'Io).

Per Bleger, alla base di ogni incontro gruppale, c'è in ognuno la paura dell'indifferenziazione perché i soggetti proiettano e depositano nell'insieme aspetti sconosciuti e indifferenziati del loro sé, e reciprocamente sono depositari degli aspetti più indifferenziati degli altri.  Nel disordine iniziale di questo tessuto “trans-mentale” ambiguo, i partecipanti tendono a ricercare le loro appartenenze e identità con movimenti di aspetto paranoide, che sono interpretati dai diversi autori come aggressività, odio, o distruttività. E’ quello che si vede molto quando uno legge le discussioni nei gruppi: mi pare una grande offerta di Bleger quella di una posizione anteriore a quella schizo-paranoide che spiega molti altri aspetti.

Si presenta all’osservazione l'urgente bisogno transpersonale (comune o condiviso) di uscire dall'indifferenziazione stabilendo delle antinomie, “qualsiasi” antinomia (però certamente basata su convinzioni o pregiudizi precedenti).

Se nei piccoli gruppi il soggetto si aspetta, e sovente trova, un possibile riconoscimento da parte degli altri, che gli permette di essere un altro differenziato, nel “large group” appare il senso dell'anonimato e di perdita dell'appartenenza, e la paura di fondersi, di disperdersi in un'appartenenza qualsiasi (non scelta).

Provo ad associare ed avvicinare questi vissuti gruppali al “meccanismo di sopravvivenza” che ho trovato nel lavoro terapeutico con pazienti singoli che hanno subito l’esperienza della violenta immersione in contesti estremi (campo di concentramento) e che ho chiamato “adattamento a qualsiasi cosa”.

In quelle situazioni di estrema violenza sociale  traumatica c'è un contesto  organizzato con la volontà di  negare l'identità e non riconoscere nell'altro nessuna specificità né diversità, tranne quella voluta dagli aguzzini.  Curiosamente, all'inizio delle situazioni esperienziali e sperimentali (per definizione non violente) che ci siamo imposti volontariamente, appare un breve estraniamento e un bisogno difensivo paranoide di controllo della situazione, che ci permette di sospettare che anche qui sia sopravvenuta  la paura dell'indifferenziazione.

Propongo dunque di pensare che c'è un timore soggettivo intrinseco di “adattarci a qualsiasi cosa”, che si presenta a due livelli: a  livello primario, come paura dell'indifferenziazione e dell'ambiguità, che è la sua espressione psichica, e, paradossalmente, a livello difensivo, attraverso l'ambiguità stessa (ossia assumendo una “posizione ambigua” che è accomodante, porta a prendere tempo e  offusca le emozioni).

Possiamo trovare anche un'altra forma di “resistenza di sopravvivenza” (totalmente scissa dall'“adattamento a qualsiasi cosa”) nel corso del processo terapeutico con pazienti reduci di situazioni estreme.  Questa resistenza alla realtà violenta appare come la preoccupazione (conscia o inconscia) del soggetto per un'altra persona: una preoccupazione che è rimasta nascosta, segreta o perfino rimossa durante il periodo traumatico e che si scopre essere stata una sfida significativa alla situazione perversa. La  scoperta di questo durante la psicoterapia ha un valore soggettivante.

Questo prendersi cura, questo “concern”, per quello che ho chiamato “oggetto da salvare”, non è altro che “una relazione d’oggetto” nella quale si esprime la continuità della capacità di scelta affettiva ed identitaria del soggetto.  L'“oggetto da salvare” è la rappresentazione di un legame che il soggetto ha vissuto nella realtà e che implica elementi dello stile relazionale della sua cultura di appartenenza.  Si potrebbe ipotizzare, attraverso l’“oggetto da salvare”, anche l'esistenza di una “resistenza culturale” soggettiva che comporta un modo o stile particolare di relazionarsi e legarsi [3].

Se ritorniamo all'esperienza del “large group”, non pare che abbia senso, a priori, far riferimento a un “oggetto da salvare” gruppale perché non c'è una situazione di pericolo reale; nondimeno si può percepire una “resistenza” alla “novità” della situazione gruppale nel riferimento che ognuno fa alle proprie appartenenze, dove ci sono sempre dei pre-supposti, dei pre-concetti, dei pre-giudizi che appaiono all'osservazione come elementi di discriminazione verso gli altri e le loro appartenenze.  Queste discriminazioni sono necessarie al “lavoro della transcultura” che ognuno deve fare per trovare una posizione coerente nell'insieme, cionondimeno hanno un aspetto paranoide e potrebbero rimanere a quel livello (pregiudizio, razzismo, ecc.).

 Nella società di massa possiamo immaginare che c’è un  fallimento del contesto sociale che comporta un forte accomodamento a qualsiasi cosa, che si può presentare come una forte tendenza a non reagire (ambiguità difensiva), a non elaborare discriminazioni, ad essere indifferenti, ad accettare la massificazione.  C’è una differenza tra l’ambiguità difensiva e la rimozione. Nella prima uno sa cosa sta succedendo, non è che non sa, non è proprio una negazione. Se fosse una negazione, sarebbe una negazione lieve, “soft”. Però, nell’ambiguità difensiva in fondo si sa cosa sta succedendo. Si sa, però non si fa niente. Questo si manifesta come un grande “lasciar perdere”, un “abbassare le braccia” collettivo di fronte ai profondi equivoci nei quali i poteri sociopolitici ed economici hanno la possibilità di portare le popolazioni, alterando i contesti di sicurezza e le garanzie sociali necessarie per poter funzionare mentalmente in modo coerente.

Questi fattori suggeriscono forse che l'inconscio è diventato più permeabile per via dell'aumento degli aspetti ambigui, incerti, imprecisi che lo rendono più manipolabile, labile a livello della sua indefinitezza di base.  Il cambiamento e l'incoerenza dei contesti dove è depositata l'ambiguità soggettiva, e la facile manipolabilità dei contesti, modificano la transoggettività e, di conseguenza, la transculturalità.

Arriviamo all'idea che l'“adattamento a qualsiasi cosa” esista anche in situazioni meno violente e meno drammatiche di quelle estreme del campo di concentramento, o del terrore.  In questo senso, tale adattamento sarebbe un accomodamento alle situazioni ripetitive, in cui, al limite, possiamo abituarci a delle cose assolutamente negative, come se fosse un'“anestesia al senso della catastrofe”, come lo esprime Eigen, con l'esempio delle rane che si abituano gradualmente al caldo crescente dell'acqua fino alla loro distruzione.

Il conformismo inconscio può portare persino all'alienazione (P. Aulagnier), quando qualcuno vuole imporre la sua forma di pensiero e riesce a farlo senza che il soggetto se ne renda conto.  Se l'inconscio è permeabile alla mentalità altrui, ci sarebbe un’impregnazione che, al dire di Eigen, non risulta perturbante, che non è segnalata dall’angoscia (estraniamento, perplessità) e che passa ad essere parte dell'ovvio, dell'implicito che ci abita.  Possiamo chiederci quale e quanta sia la nostra permeabilità alla cultura del mondo globalizzato, del mondo dei mass-media, del mondo dell'informatica, del mondo della statistica, quanto siamo in balia delle informazioni mutevoli, dei cambiamenti provocati dai diversi interessi (che diventano la nostra comune cultura, al di là delle nostre appartenenze familiari, professionali, ecc.).

 Se l'ambiguità implica una plasticità di base e permette la suggestione e l'”imprinting”, che cosa  viene introdotto o  introiettato nell'inconscio?  A seconda delle diverse teorie, sono simboli, fantasie, rappresentazioni, tracce, particelle α e β.  Il processo  possiamo chiamarlo imitazione, contagio, mimetismo.  Quello che si introietta sarebbe piuttosto nell'ordine dello stile di pensiero, una  “mentalità”, una modalità del funzionamento mentale?  L'agente alienante può essere il discorso di un "leader" che si impone, però può anche essere semplicemente un contesto, una mentalità, uno stile culturale nel quale siamo immersi e che si incorpora inconsciamente in noi.

Possiamo immaginare che questo corrisponda al fenomeno clinico relativo alle persone che, essendo state immerse nella situazione perversa di un campo di concentramento, non potendo esternare la propria ribellione e “resistendo” alla realtà anche a loro insaputa, ne hanno assorbito comunque i modi e la mentalità, e hanno bisogno di una lunga elaborazione per rappresentare l’“irrappresentabile” e per elaborare i propri vissuti di adattamento, vergogna e alienazione, e trovare un significato al contesto politico-sociale e storico nel quale hanno vissuto.

La nostra piccola istituzione EATGA, per la sua lunga storia, è il luogo adatto per fare una rielaborazione di esperienze e di riflessioni sull'interculturalità, ma uno degli ostacoli dell'interculturale e del transculturale sembra essere quello di frenare la possibilità di sintesi; una sintesi che non sarebbe altro che un'utopia perfezionista, perché alla fine dobbiamo accettare che i marchi delle radici culturali siano impressi nel pensiero e nell'azione dei partecipanti ed ognuno rimane inconsciamente leale alle proprie appartenenze culturali al di là del gruppo di lavoro.   Come dice Janine Puget, bisogna tener conto della difficoltà che hanno gli esseri umani a stare insieme. Quello che è possibile osservare in queste esperienze sono il transizionale, il circostanziale, il transitorio, il “transito” tra le culture (Profita, Ruvolo, Lo Mauro).

Nel workshop dell'EATGA, i partecipanti sono immersi per un breve periodo nel contesto offerto dalla cultura locale di quei membri che hanno ospitato e organizzato l'incontro.  Il confronto tra culture (sia nei gruppi piccoli che in quelli allargati) può portare ad un certo grado di “insight” sulla propria cultura, sulla propria identità di appartenenza e anche sulla propria capacità di identificazione e di integrazione delle appartenenze altrui.

Mi pare particolarmente interessante il modo in cui scendiamo a compromessi, sia positivi che negativi, con la cultura altrui o con l'ambiente in cui ci troviamo.

Due anni fa c’è stato un “workshop” dell'EATGA a Marsala.  L'intenzione dell'organizzatore era l'esplorazione di un gruppo transculturale in quanto “luogo transizionale che può permettere l'accesso a uno spazio simbolico intersoggettivo e transoggettivo al di là delle appartenenze e delle identificazioni gruppali anteriori degli individui che si trovano insieme”.  L'intento era la costruzione di un'eventuale “nuova matrice culturale” che avrebbe permesso di mettere in relazione i soggetti al di là delle appartenenze anteriori.  Marsala è uno spazio storico mediterraneo, dove ci sono stati molti passaggi di popolazioni, tra colonizzazioni e dominazioni diverse.  Anche oggi è un porto per gli emigranti che vogliono entrare nei paesi europei.    Gli organizzatori hanno dato molta importanza alla sensorialità, giacché, essendo il mese di maggio, c'era un clima speciale, fatto di sapori, odori e gente nelle strade della città, e la questione era di capire che tipo di appartenenza si sarebbe sviluppato a partire da questo contenitore.  Molto brevemente riferirò come ho vissuto il processo e il tema dell'esperienza.  La riunione del “large group” ebbe luogo in un chiostro antico, con un cortile erboso, in mezzo al quale c’erano un'altissima palma e una piccola aiuola di gerani rossi.  Il sole di maggio creava zone di luce e d'ombra dove i partecipanti si muovevano da una parte all'altra senza trovare una posizione stabile.  Infatti, nelle tre sedute, il gruppo sembrava sempre variabile nella sua forma e molto spesso non si potevano sentire le voci a causa del vento, la difficoltà nel capire le diverse lingue parlate e il numero dei partecipanti (più di 80 persone).  Tutto questo aumentava il disorientamento proprio dei grandi gruppi.  Ho percepito opposizione e aggressività tra gli studenti, allievi degli organizzatori, e il gruppo “estraneo” che veniva dal “continente”; questa differenza si esprimeva in termini economici, di chi pagava, quali fossero gli interessi, dove stesse la mafia, ecc.  Ho vissuto questi dettagli, di cui è impossibile dare conto ora, come un personale disorientamento e un sentimento di difficoltà nel trovare uno “scopo” agli incontri (considero questo l'espressione del mio estraniamento!).  Di solito, la mia personale aspettativa, in questi incontri, è che ne esca qualche verità “esistenziale” o psico-sociale, o un ipotetico “discorso sullo stato dell'umanità” (forse una fantasia messianica?).  Al contrario, certi interventi mi appaiono molto superficiali; alcuni si riferiscono semplicemente al momento in cui siamo (dov'è il sole, chi sta all'ombra, chi sta alla luce), oppure si manifesta un conflitto intorno alle lingue parlate; gli interventi emergono come grida non coordinate, nel tentativo di stabilire separazioni, discriminazioni e antinomie, come per trovare un senso all'incontro, che non è necessariamente spiacevole, però che è sempre imprevedibile, a volte noioso, a volte appassionante.  Io sono stata sensibile al fatto che una mattina fossero passati degli aerei da guerra (giacché nelle immediate vicinanze c'è un aeroporto militare); questo tipo di realtà che mi pareva essere più vicina alla realtà del mondo d'oggi, non sembrava essere condivisa da altri.  In un certo senso qualsiasi argomento proposto si sperdeva come un fiume nella sabbia, come se fossero associazioni libere e fluide, però inconsistenti.  Tra equivoci diversi, ebbi l'impressione che ci fosse l’intenzione dei partecipanti locali di mantenersi separati dai visitatori stranieri, e dei visitatori stranieri di continuare a sentirsi stranieri.  Uscendo dal chiostro, pensai che chi aveva concepito per primo il “large group” avesse avuto un’idea “diabolica”: volevo dire che in queste situazioni si muovono aspetti inafferrabili dell'inconscio transoggettivo.   I colleghi che avevano il ruolo di “osservatori” silenziosi, interpretarono che gli oggetti che stavano al centro del chiostro - la palma e i fiori - erano dei simboli totemici, come elementi sacri per il gruppo.  Mi risultano sorprendenti i tanti diversi modi di leggere queste situazioni gruppali, sia in senso psicoanalitico, come traumi antichi che si ripresentano, o utilizzando termini sociologici o antropologici.

A questo punto, riprendo la mia interpretazione personale: credo che, all'estraniamento iniziale per l'adeguarsi (o il non adeguarsi) a qualsiasi cosa, segua immediatamente la reazione di cercare differenze e appaiano le antinomie di diverso tipo, e anche la tendenza ad unificare il problema attraverso comprensioni di tipo sacro, o mitico.  I problemi psico-sociali (l'immigrazione, la mafia, l'alienazione politica, le incertezze, le insicurezze) sembravano essere evitati come se un patto denegativo condiviso non permettesse di dare troppa coerenza al discorso.

Rimane il problema del perché, alla fine di queste esperienze, che vengono facilmente attribuite all'insufficienza dei conduttori, giacché è molto difficile essere "leader" di un gruppo allargato, soffriamo tanta frustrazione (qualche volta anche rabbia, collera).  Lo stile dell'intervento del conduttore proviene necessariamente dal suo punto di vista teorico e culturale, però bisogna dire che neanche il "leader" è “fuori dalla palude” gruppale.  La difficoltà di pensare e di sintetizzare è evidente in questi incontri.  Il “large group” (ancora di più se è multiculturale) non permette un'espressione precisa e definita della soggettività personale.  Questo fa sì che, tutto sommato, alla fine di queste esperienze, si risente un pochino di più il gusto strano dell'essere nell'anonimato, nella folla o nella massa!  Non che non lo siamo quando camminiamo per strada, però nella strada abbiamo già acquisito la familiarità dello stare tra la gente e di essere parte di un insieme.  Però, dentro al chiostro, tutti quanti, psicologi, psicoanalisti, o studenti, non siamo là per puro caso, ma giustamente perché vogliamo pensare e comprendere quello che succede.  Ed è proprio il pensiero che non funziona.  La difficoltà nel pensare forse assomiglia ad altre situazioni di massa che viviamo nel nostro tempo.  E perché non funzionerebbe il pensiero?  In buona parte perché non abbiamo la possibilità di “contestualizzare” la transcultura, tanto diversificata, tanto multiforme, e  ci troviamo a non  essere capaci di elaborare qualcosa al di là dei contesti limitati di conoscenza ai quali siamo abituati. E alla fin fine, perché no?, questo risulta frustrante.  Si può sospettare che le categorie con le quali proviamo a pensare questi problemi complessi non siano ancora abbastanza adeguate.

Tornando ai due meccanismi di resistenza e sopravvivenza (l'adattamento a qualsiasi cosa e l'“oggetto da salvare”) che ho proposto di pensare che esistano metaforicamente anche nel “large group”, credo che ognuno salvi nell'incontro gruppale un proprio stile relazionale (o di interazione) segnato o marcato dalla propria cultura.  Quello che, nei pazienti reduci appare nel processo terapeutico come la salvaguardia di una relazione interna che, nelle situazioni estremamente distruttive diventa soggettivante per la sua semplice esistenza psichica, equivale nelle situazioni di gruppo, in ogni partecipante, alla salvaguardia della propria cultura implicita, una cultura ovvia, una cultura che non ha bisogno di essere dimostrata, né necessariamente confrontata, la propria.

Negli anni '80 ho partecipato a Lisbona ad un grande confronto di gruppo tra psicologi, psicoanalisti e psichiatri palestinesi e israeliani, ed altri osservatori, specialmente lacaniani, che lo avevano organizzato.  Dopo un intenso lavoro di gruppo durato molti giorni, ci siamo resi conto dell'evidente esistenza di una preoccupazione comune, totalmente simile nei due gruppi nazionali rivali (un “oggetto da salvare”), costituita dai loro rispettivi figli e la preoccupazione per il loro futuro divenire.  Un'esperienza molto emozionante per tutti, però molto depressiva, perché il constatare questa profonda condivisione non avrebbe avuto nessuna conseguenza nella realtà politica e sarebbe rimasta possibile soltanto nella realtà psichica dei partecipanti.  Penso che siano i vissuti di questo tipo ad avere un valore transculturale e a corrispondere alle esperienze umane più mature di solidarietà e responsabilità, in cui non solo si cerca la reciprocità nel divenire un altro per e tra gli altri, ma ci si estende fino alla condivisione della preoccupazione per l'altro degli altri.

 

 

 


 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 
 
 
 
   

 

 

Note:

 

 

 

[1]       Questo gruppo di psicoanalisti che lavoravano alla psicoterapia e alla dinamica dei gruppi, si sono riuniti per interrogarsi sui fondamenti culturali della personalità e per iniziare una ricerca comune.  Con questa prospettiva, hanno fatto un primo seminario europeo d'analisi di gruppo nel 1985 a Maastricht, in un setting transculturale tra culture straniere e familiari.  L'obiettivo era di mettere in evidenza ed analizzare quelle componenti culturali inconsce, che nei processi psichici individuali, interpersonali e gruppali, contribuiscono alla strutturazione del sé e dell'identità e alle attitudini e relazioni verso quello che è straniero, o strano.  “Sono state osservate le basi comuni indifferenziate “del sé e del noi” e si sono rivelate le angosce fondamentali, le difese e i presupposti di base che sono peculiari della propria cultura e di quella degli altri”.  La particolare struttura del setting è stata considerata idonea per mettere in evidenza le formazioni psichiche indifferenziate e i processi di simbolizzazione e di differenziazione che sono in opera negli incontri multiculturali.  I principali risultati concettuali di questa prima esperienza sono stati organizzati intorno al concetto d'appartenenza e di identità culturale (in quanto diversa dalle identità di genere e di generazione).  Negli anni successivi, l'EATGA ha seguito gli “avatar” della storia europea, in particolare, la caduta del muro di Berlino e l'allargamento dell'Europa, che hanno portato a un nuovo confronto tra la diversità storico-culturale Est-Ovest e Nord-Sud.  Le differenze culturali tra europei sono rimaste marcate dai traumi collettivi, sia originati nell'ideologia nazista (Shoah) che in quella comunista (occupazione sovietica), oltre che da altri avvenimenti (mafia, guerra balcanica).  Le differenze tra europei rimangono sfumature in confronto alla differenza culturale con le popolazioni emigranti, che oggi hanno intense conseguenze sociopolitiche.  Il metodo gruppale specifico tradizionalmente utilizzato dall'EATGA (la cui finalità è di organizzare workshop sul tema della transculturalità) è di parlare ognuno la propria lingua o una delle due lingue ufficiali – francese o inglese – senza obbligo di traduzione.  I temi dei workshop sorgono dagli scambi tra i membri e sono organizzati in diversi paesi europei da membri localiUno staff internazionale mantiene la continuità organizzativa, affiancata da un web-site e da una newsletter.

   

[2]        Hannah Arendt dice “E' come se ogni qualvolta siamo confrontati a fenomeni di una terrificante novità, il nostro primo movimento consistesse nel riconoscere la situazione in maniera cieca e incontrollata; in un secondo momento recuperiamo il nostro sangue freddo e, negando di aver percepito qualcosa di nuovo, ci tranquillizziamo facendo come se avessimo già conosciuto un fenomeno simile.  In un terzo momento possiamo riprenderci e ritrovare quello che abbiamo visto, percepito e conosciuto dall'inizio.  In questo momento inizia lo sforzo di comprensione”.  Vediamo che nel primo movimento c'è un brusco allarme che si accompagna al riconoscimento intuitivo e lucido della situazione globale, ossia dell'insieme della novità.  Nel movimento successivo, c'è una tendenza a banalizzare, però in questo modo stiamo di fatto accettando implicitamente le nuove circostanze quali sono e negando che ci sia qualcosa di nuovo.  Un “patto denegativo” legittimizza l'adattamento negando la iniziale percezione del cambiamento catastrofico.  (L'adattamento a qualsiasi cosa e il patto denegativo sono due fenomeni gruppali diversi: l'adattarsi implica piuttosto “indifferenziarsi”; è un fenomeno comune simultaneo che riguarda un insieme di persone, mentre nel patto denegativo c'è una tendenza differenziante che implica una posizione comune e condivisa).

[3]      In riferimento alle situazioni estreme, preferisco considerare l’oggetto da salvare come la metafora di una relazione di protezione (“protettore-protetto”) che, nascosta o scissa dal contesto perverso confondente resiste all'“adattamento a qualsiasi cosa”, ossia al conformismo ricercato dagli aguzzini.

 

 

 

 

 

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