Questo
tema dell'ambiguità, e soprattutto della "depositazione"
dell'ambiguità nei contesti, mi è servito per capire delle cose
relative a queste situazioni nuove di violenza che avevano
passato questi pazienti che avevo visto. Che cosa dire dell'ambiguità?
Insisto moltissimo sull'idea che l'ambiguità è l'espressione
clinica dell'indifferenziazione, e che essa c'è in tutti noi e
rimane in parte in noi tutta la vita. Quella che è la pertinente
idea di Bleger è che questa indifferenziazione non può essere
portata da noi e la mettiamo fuori di noi, ossia nei contesti del
mondo esterno, che siano oggetti esterni o che siano situazioni,
istituzioni, anche situazioni normali della vita quotidiana in cui
siamo immersi. Bleger ha descritto ciò attraverso un nucleo ambiguo
che è depositato fuori attraverso un vincolo che lui chiama vincolo
simbiotico. Però io, per cambiare un po' le cose rispetto a Bleger,
rendo questo vincolo un po' più esistenziale, e dico che possiamo
descrivere il nucleo ambiguo come un ammasso di incertezze
esistenziali, di indifferenziazioni, di imprecisioni, di
in-definizioni, ossia di nostre vulnerabilità esistenziali messe
fuori di noi. Il fuori di noi ci rimanda, con questo movimento,
appartenenza e, in un certo senso, sicurezza. Però così viviamo
tutti i giorni, così non viviamo solo in condizioni estreme.
E tutti i giorni c'è questa partecipazione dell'ambiente e una
certa quantità di cose che consideriamo ovvie è depositato in
esso. E questo è il senso di questa "depositazione"
inconscia. E' questo alla base di un'obbligatoria dipendenza dagli
oggetti esterni o da contesti ed istituzioni. Quando per
motivi naturali o provocati (esilio, lutto, violenza) si alterano
bruscamente gli abituali depositari esterni del nucleo ambiguo,
l'ambiguità in esso depositata ritorna, viene re-introiettata
nell'Io, e ciò si manifesta clinicamente sotto diverse forme di
angoscia, panico, perplessità, “estraniamento”, confusione. Ma
quello che è particolare è che questo nucleo ambiguo,
dato che non può non essere depositato, viene
obbligatoriamente ed immediatamente ri-depositato nella situazione
in cui ci si trova. C'è un naturale conformismo con la nuova
situazione. Questo movimento è inconscio, però in una situazione
estrema questo diventare ambiguo diventa una difesa maggiore. In
questi casi la qualità mimetica, plastica, oscillatoria e
malleabile dell'ambiguità protegge con l'adattamento, con
l'obnubilamento e l'indifferenza il resto della personalità
che sembra rimanere sospesa nel tempo, dando il tempo all'Io
di mettere in moto altri meccanismi di difesa e resistenza. Dunque
è una difesa importante quella dell'ambiguità. In genere
l'ambiguità è un problema importante della vita quotidiana.
Bleger ha aggiunto la "posizione ambigua" alle due
posizioni kleiniane classiche, ne ha fatto una posizione "pre-schizoparanoide",
caratterizzata dall'accomodamento alle circostanze e
dall'offuscamento degli affetti. Un'altra caratteristica
importante è la penetrabilità che contraddistingue chi si trovi in
questa posizione. L'ambiguità può essere uno stato, una difesa,
una struttura di personalità. Però nello stato di ambiguità il
soggetto o il gruppo diventano facilmente penetrabili e
suggestionabili da discorsi caotico-paradossali che possono portare
all'instaurazione di condizioni paranoidi. L'ambiguità può
portare, dunque, ad aperture dinamiche - perché è una posizione
che permette aperture - ma anche ad accomodamenti
pregiudizievoli. Le situazioni di transito e di transizionalità
sono situazioni ambigue. Considero il trans-soggettivo come
uno spazio condiviso, come la "depositazione" comune di
tutti noi in un contesto comune. Kaës parla di comune e di
condiviso. Comune è ciò che tutti noi facciamo come reazione a
certe circostanze. Condiviso rappresenta già un qualcosa di
più evoluto. Io penso che il comune possa essere nella
posizione dell'indifferenziazione,
il condiviso esige già una certa soggettività. Come si mette
tutto questo in termini di transculturalità?
L'associazione
che si chiama EATGA, Associazione Europea d'Analisi Transculturale
di Gruppo, è stata fondata nel 1982 da un gruppo di psicoanalisti
(tra i suoi fondatori, Réné Kaës, Jaak Le Roy, Malcolm Pines,
Claude Rouchy, Kurt Husemann ed altri)
[1]
, con l’idea di studiare, attraverso tecniche gruppali, queste
situazioni di transculturalità. L’idea principale che è uscita
da questa Associazione è che la differenza non è solo questione di
sesso e di generazioni, ma anche di differenza culturale, di
differenza nelle culture, ed essa si può vedere nei gruppi. Questa
Associazione ha avuto molti sviluppi nel tempo, i primi fondatori
sono andati via, e questa Associazione è rimasta legata alla storia
dell’Europa di questi anni: la caduta del Muro (quello che veniva
dal nazismo come anche quello che veniva dal comunismo,
dall’occupazione sovietica, e poi negli ultimi anni le storie dei
paesi balcanici. Sono entrata in quest'Associazione una quindicina
d’anni fa, alla ricerca di quello che le Società psicoanalitiche
non mi davano, di scambi cioè intorno alla tematica psico-sociale
più specifici rispetto a quelli
offerti dalle istituzioni psicoanalitiche.
La
transculturalità è un tema d’oggi, non è solo un sostantivo, ma
un aggettivo che sovente definisce situazioni quotidiane in un mondo
globalizzato. C’è un lavoro della transcultura nel lavoro della
cultura che corrisponde ai nostri tempi in cui vediamo il
carattere massivo e multiforme dell'emigrazione di origine economica
o politica e gli accentuati scambi di tipo economico provocati dalla
mondializzazione, senza parlare delle tecnologie dell’informazione
globalizzata. Kaës (seguendo Mauss) considera la nostra epoca come
“un fenomeno psicosociale totale”, in cui c'è un “fallimento
dello spazio transizionale” che potrebbe “evolvere verso una
distruzione della vita psichica, sociale e somatica perché implica
un ritorno verso le zone di indifferenziazione dell'Io e il
non-Io”. Questo aumento dell'indifferenziazione si esprime
clinicamente con un aumento dell'ambiguità difensiva, che comporta
più adattabilità e penetrabilità inconscia.
Lo
spazio transizionale a cui si riferisce Kaës è uno spazio
trans-personale, comune e condiviso, dove si elaborano la diversità
e la similitudine, in un gioco di inclusione ed esclusione, di
discriminazione e comparazione. Il suo fallimento proviene dal
fallimento della società in quanto contesto, dalla mancanza di
solide garanzie e punti di riferimento morali (meta-psichici e
meta-sociali) (Kaës, 2007) che sono facilitati dagli input equivoci
e confondenti dei mezzi di comunicazione di massa, dall'instabilità
economica e lavorativa, dall'arbitrarietà della giustizia sociale,
dalla corruzione, ecc.
L'incontro
iniziale con un gruppo diverso dal proprio comporta, nel soggetto,
un piccolo istante di perplessità, una lieve spersonalizzazione, un
segnale d'allarme fugace, che possiamo definire come “estraniamento”,
perché la presenza di un gruppo
diverso significa sempre una modificazione del contesto di
sicurezza. Anche quando, in una nuova esperienza di gruppo,
gli altri sono in buona parte conosciuti, un breve vissuto di anomia
fa la sua comparsa, come fosse la sensazione di una “no man's
land”. Occorre allora domandarsi se l'estraniamento (in
quanto espressione di angoscia) sia un problema di base della mente,
oppure se sia il risultato della Storia, della memoria delle
persecuzioni e dei traumi sociali collettivi,
di quello che gli esseri umani hanno fatto e possono fare ad altri
esseri umani.
Non
credo di esagerare prendendo le situazioni di terrore sociale (di
“terrificante novità”, come dice Hannah Arendt
[2])
e le situazioni chiamate “estreme” come riferimento utile per
osservare problemi legati ad altre situazioni di “novità” più
banali e quotidiane. La signora Altounian in questo convegno ha
detto quanto importante sia il contesto in cui una persona possa
elaborare; se non c’è un contesto democratico non si può
elaborare, ossia non si accede alla terza posizione
se il contesto non lo permette, se non c’è un contesto
facilitante. Io ho avuto la fortuna di lavorare in Svizzera, e mi
sembra che sia importante dire dove uno lavora e in che momento
storico uno lavora. In quello stesso momento storico i miei colleghi
a Buenos Aires non potevano fare quel lavoro, perché non c’erano
le condizioni per mettersi in una posizione terza per guardare
quella situazione.
Tra
le tante possibilità di comprensione, la vasta letteratura e le
ricerche sul tema del gruppo e della transculturalità,
mi prendo qui la libertà di utilizzare quei significati e
quelle metafore che sento più sintonici, in riferimento alla mia
esperienza clinica.
Seguendo
la mia abituale bussola teorica, per dare un contributo al tema
dell'inconscio transculturale, vorrei sottolineare l’estraniamento
come l'“affetto-segnale” più specifico degli incontri
transculturali (anche se appare ugualmente in tante altre esperienze
gruppali) basandomi sui lavori di J. Bleger e le sue proposte di una
“socialità sincretica”, simbiotica, di matrice ambigua (in
equilibrio con una “socialità di interazione” o relazionale).
L'estraniamento
è un momento che potremmo definire come “dilemma identitario”
che propone moltissime sfumature, dall'“effervescente curiosità”
per la presenza di una novità, fino all'angoscia-segnale di
allarme, con percezione
del sentimento della catastrofe (“paura del crollo”, o entrata
massiva dell'ambiguità nell'Io).
Per
Bleger, alla base di ogni incontro gruppale, c'è in ognuno la paura
dell'indifferenziazione perché i soggetti proiettano e depositano
nell'insieme aspetti sconosciuti e indifferenziati del loro sé, e
reciprocamente sono depositari degli aspetti più indifferenziati
degli altri. Nel disordine iniziale di questo tessuto
“trans-mentale” ambiguo, i partecipanti tendono a ricercare le
loro appartenenze e identità con movimenti di aspetto paranoide,
che sono interpretati dai diversi autori come aggressività, odio, o
distruttività. E’ quello che si vede molto quando uno legge le
discussioni nei gruppi: mi pare una grande offerta di Bleger quella
di una posizione anteriore a quella schizo-paranoide che spiega
molti altri aspetti.
Si
presenta all’osservazione l'urgente bisogno transpersonale (comune
o condiviso) di uscire dall'indifferenziazione stabilendo delle
antinomie, “qualsiasi” antinomia (però certamente basata su
convinzioni o pregiudizi precedenti).
Se
nei piccoli gruppi il soggetto si aspetta, e sovente trova, un
possibile riconoscimento da parte degli altri, che gli permette di
essere un altro differenziato, nel “large group” appare il senso
dell'anonimato e di perdita dell'appartenenza, e la paura di
fondersi, di disperdersi in un'appartenenza qualsiasi (non scelta).
Provo
ad associare ed avvicinare questi vissuti gruppali al “meccanismo
di sopravvivenza” che ho trovato nel lavoro terapeutico con
pazienti singoli che hanno subito l’esperienza della violenta
immersione in contesti estremi (campo di concentramento) e che ho
chiamato “adattamento a qualsiasi cosa”.
In
quelle situazioni di estrema violenza sociale traumatica c'è un contesto
organizzato con la volontà di
negare l'identità e non riconoscere nell'altro nessuna
specificità né diversità, tranne quella voluta dagli aguzzini. Curiosamente, all'inizio delle situazioni esperienziali e
sperimentali (per definizione non violente) che ci siamo imposti
volontariamente, appare un breve estraniamento e un bisogno
difensivo paranoide di controllo della situazione, che ci permette
di sospettare che anche qui sia sopravvenuta
la paura dell'indifferenziazione.
Propongo
dunque di pensare che c'è un timore soggettivo intrinseco di
“adattarci a qualsiasi cosa”, che si presenta a due livelli: a
livello primario, come paura dell'indifferenziazione e
dell'ambiguità, che è la sua espressione psichica, e,
paradossalmente, a livello difensivo, attraverso l'ambiguità stessa
(ossia assumendo una “posizione ambigua” che è accomodante,
porta a prendere tempo e offusca
le emozioni).
Possiamo
trovare anche un'altra forma di “resistenza di sopravvivenza”
(totalmente scissa dall'“adattamento a qualsiasi cosa”) nel
corso del processo terapeutico con pazienti reduci di situazioni
estreme. Questa
resistenza alla realtà violenta appare come la preoccupazione
(conscia o inconscia) del soggetto per un'altra persona: una
preoccupazione che è rimasta nascosta, segreta o perfino rimossa
durante il periodo traumatico e che si scopre essere stata una sfida
significativa alla situazione perversa. La
scoperta di questo durante la psicoterapia ha un valore
soggettivante.
Questo
prendersi cura, questo “concern”, per quello che ho chiamato
“oggetto da salvare”, non è altro che “una relazione
d’oggetto” nella quale si esprime la continuità della capacità
di scelta affettiva ed identitaria del soggetto. L'“oggetto
da salvare” è la rappresentazione di un legame che il soggetto ha
vissuto nella realtà e che implica elementi dello stile relazionale
della sua cultura di appartenenza. Si potrebbe ipotizzare,
attraverso l’“oggetto da salvare”, anche l'esistenza di una
“resistenza culturale” soggettiva che comporta un modo o stile
particolare di relazionarsi e legarsi
[3].
Se
ritorniamo all'esperienza del “large
group”, non pare che abbia senso, a priori, far riferimento a
un “oggetto da salvare” gruppale perché non c'è una situazione
di pericolo reale; nondimeno si può percepire una “resistenza”
alla “novità” della situazione gruppale nel riferimento che
ognuno fa alle proprie appartenenze, dove ci sono sempre dei
pre-supposti, dei pre-concetti, dei pre-giudizi che appaiono
all'osservazione come elementi di discriminazione verso gli altri e
le loro appartenenze. Queste discriminazioni sono necessarie
al “lavoro della transcultura” che ognuno deve fare per trovare
una posizione coerente nell'insieme, cionondimeno hanno un aspetto
paranoide e potrebbero rimanere a quel livello (pregiudizio,
razzismo, ecc.).
Nella
società di massa possiamo immaginare che c’è un
fallimento del contesto sociale che comporta un forte
accomodamento a qualsiasi cosa, che si può presentare come una
forte tendenza a non reagire (ambiguità difensiva), a non elaborare
discriminazioni, ad essere indifferenti, ad accettare la
massificazione. C’è una differenza tra l’ambiguità
difensiva e la rimozione. Nella prima uno sa cosa sta succedendo,
non è che non sa, non è proprio una negazione. Se fosse una
negazione, sarebbe una negazione lieve, “soft”. Però,
nell’ambiguità difensiva in fondo si sa cosa sta succedendo. Si
sa, però non si fa niente. Questo si manifesta come un grande
“lasciar perdere”, un “abbassare le braccia” collettivo di
fronte ai profondi equivoci nei quali i poteri sociopolitici ed
economici hanno la possibilità di portare le popolazioni, alterando
i contesti di sicurezza e le garanzie sociali necessarie per poter
funzionare mentalmente in modo coerente.
Questi
fattori suggeriscono forse che l'inconscio è diventato più
permeabile per via dell'aumento degli aspetti ambigui, incerti,
imprecisi che lo rendono più manipolabile, labile a livello della
sua indefinitezza di base. Il cambiamento e l'incoerenza dei
contesti dove è depositata l'ambiguità soggettiva, e la facile
manipolabilità dei contesti, modificano la transoggettività e, di
conseguenza, la transculturalità.
Arriviamo
all'idea che l'“adattamento a qualsiasi cosa” esista anche in
situazioni meno violente e meno drammatiche di quelle estreme del
campo di concentramento, o del terrore.
In questo senso, tale adattamento sarebbe un accomodamento
alle situazioni ripetitive, in cui, al limite, possiamo abituarci a
delle cose assolutamente negative, come se fosse un'“anestesia al
senso della catastrofe”, come lo esprime Eigen, con l'esempio
delle rane che si abituano gradualmente al caldo crescente
dell'acqua fino alla loro distruzione.
Il
conformismo inconscio può portare persino all'alienazione (P.
Aulagnier), quando qualcuno vuole imporre la sua forma di pensiero e
riesce a farlo senza che il soggetto se ne renda conto. Se
l'inconscio è permeabile alla mentalità altrui, ci sarebbe un’impregnazione
che, al dire di Eigen, non risulta perturbante, che non è segnalata
dall’angoscia (estraniamento, perplessità) e che passa ad essere
parte dell'ovvio, dell'implicito che ci abita. Possiamo
chiederci quale e quanta sia la nostra permeabilità alla cultura
del mondo globalizzato, del mondo dei mass-media, del mondo
dell'informatica, del mondo della statistica, quanto siamo in balia
delle informazioni mutevoli, dei cambiamenti provocati dai diversi
interessi (che diventano la nostra comune cultura, al di là delle
nostre appartenenze familiari, professionali, ecc.).
Se
l'ambiguità implica una plasticità di base e permette la
suggestione e l'”imprinting”, che cosa
viene introdotto o introiettato
nell'inconscio? A seconda delle diverse teorie, sono simboli,
fantasie, rappresentazioni, tracce, particelle α e β.
Il processo possiamo
chiamarlo imitazione, contagio, mimetismo. Quello che si
introietta sarebbe piuttosto nell'ordine dello stile di pensiero,
una “mentalità”,
una modalità del funzionamento mentale? L'agente alienante può
essere il discorso di un "leader" che si impone, però può
anche essere semplicemente un contesto, una mentalità, uno stile
culturale nel quale siamo immersi e che si incorpora inconsciamente
in noi.
Possiamo
immaginare che questo corrisponda al fenomeno clinico relativo alle
persone che, essendo state immerse nella situazione perversa di un
campo di concentramento, non potendo esternare la propria ribellione
e “resistendo” alla realtà anche a loro insaputa, ne hanno
assorbito comunque i modi e la mentalità, e hanno bisogno di una
lunga elaborazione per rappresentare l’“irrappresentabile” e
per elaborare i propri vissuti di adattamento, vergogna e
alienazione, e trovare un significato al contesto politico-sociale e
storico nel quale hanno vissuto.
La
nostra piccola istituzione EATGA, per la sua lunga storia, è il
luogo adatto per fare una rielaborazione di esperienze e di
riflessioni sull'interculturalità, ma uno degli ostacoli
dell'interculturale e del transculturale sembra essere quello di
frenare la possibilità di sintesi; una sintesi che non sarebbe
altro che un'utopia perfezionista, perché alla fine dobbiamo
accettare che i marchi delle radici culturali siano impressi nel
pensiero e nell'azione dei partecipanti ed ognuno rimane
inconsciamente leale alle proprie appartenenze culturali al di là
del gruppo di lavoro. Come dice Janine Puget, bisogna
tener conto della difficoltà che hanno gli esseri umani a stare
insieme. Quello che è possibile osservare in queste esperienze sono
il transizionale, il circostanziale, il transitorio, il
“transito” tra le culture (Profita, Ruvolo, Lo Mauro).
Nel
workshop dell'EATGA, i partecipanti sono immersi per un breve
periodo nel contesto offerto dalla cultura locale di quei membri che
hanno ospitato e organizzato l'incontro. Il confronto tra
culture (sia nei gruppi piccoli che in quelli allargati) può
portare ad un certo grado di “insight” sulla propria cultura,
sulla propria identità di appartenenza e anche sulla propria
capacità di identificazione e di integrazione delle appartenenze
altrui.
Mi
pare particolarmente interessante il modo in cui scendiamo a
compromessi, sia positivi che negativi, con la cultura altrui o con
l'ambiente in cui ci troviamo.
Due
anni fa c’è stato un “workshop” dell'EATGA a Marsala.
L'intenzione dell'organizzatore era l'esplorazione di un gruppo
transculturale in quanto “luogo transizionale che può permettere
l'accesso a uno spazio simbolico intersoggettivo e transoggettivo al
di là delle appartenenze e delle identificazioni gruppali anteriori
degli individui che si trovano insieme”. L'intento era la
costruzione di un'eventuale “nuova matrice culturale” che
avrebbe permesso di mettere in relazione i soggetti al di là delle
appartenenze anteriori. Marsala è uno spazio storico
mediterraneo, dove ci sono stati molti passaggi di popolazioni, tra
colonizzazioni e dominazioni diverse.
Anche oggi è un porto per gli emigranti che vogliono entrare
nei paesi europei.
Gli organizzatori hanno dato molta importanza alla
sensorialità, giacché, essendo il mese di maggio, c'era un clima
speciale, fatto di sapori, odori e gente nelle strade della città,
e la questione era di capire che tipo di appartenenza si sarebbe
sviluppato a partire da questo contenitore. Molto brevemente
riferirò come ho vissuto il processo e il tema dell'esperienza.
La riunione del “large group” ebbe luogo in un chiostro antico,
con un cortile erboso, in mezzo al quale c’erano un'altissima
palma e una piccola aiuola di gerani rossi. Il sole di maggio
creava zone di luce e d'ombra dove i partecipanti si muovevano da
una parte all'altra senza trovare una posizione stabile.
Infatti, nelle tre sedute, il gruppo sembrava sempre variabile nella
sua forma e molto spesso non si potevano sentire le voci a causa del
vento, la difficoltà nel capire le diverse lingue parlate e il
numero dei partecipanti (più di 80 persone). Tutto questo
aumentava il disorientamento proprio dei grandi gruppi. Ho
percepito opposizione e aggressività tra gli studenti, allievi
degli organizzatori, e il gruppo “estraneo” che veniva dal
“continente”; questa differenza si esprimeva in termini
economici, di chi pagava, quali fossero gli interessi, dove stesse
la mafia, ecc. Ho vissuto questi dettagli, di cui è impossibile
dare conto ora, come un personale disorientamento e un sentimento di
difficoltà nel trovare uno “scopo” agli incontri (considero
questo l'espressione del mio estraniamento!). Di solito, la
mia personale aspettativa, in questi incontri, è che ne esca
qualche verità “esistenziale” o psico-sociale, o un ipotetico
“discorso sullo stato dell'umanità” (forse una fantasia
messianica?). Al contrario, certi interventi mi appaiono molto
superficiali; alcuni si riferiscono semplicemente al momento in cui
siamo (dov'è il sole, chi sta all'ombra, chi sta alla luce), oppure
si manifesta un conflitto intorno alle lingue parlate; gli
interventi emergono come grida non coordinate, nel tentativo di
stabilire separazioni, discriminazioni e antinomie, come per trovare
un senso all'incontro, che non è necessariamente spiacevole, però
che è sempre imprevedibile, a volte noioso, a volte appassionante.
Io sono stata sensibile al fatto che una mattina fossero passati
degli aerei da guerra (giacché nelle immediate vicinanze c'è un
aeroporto militare); questo tipo di realtà che mi pareva essere più
vicina alla realtà del mondo d'oggi, non sembrava essere condivisa
da altri. In un certo senso qualsiasi argomento proposto si
sperdeva come un fiume nella sabbia, come se fossero associazioni
libere e fluide, però inconsistenti. Tra equivoci diversi,
ebbi l'impressione che ci fosse l’intenzione dei partecipanti
locali di mantenersi separati dai visitatori stranieri, e dei
visitatori stranieri di continuare a sentirsi stranieri.
Uscendo dal chiostro, pensai che chi aveva concepito per primo il
“large group” avesse avuto un’idea “diabolica”: volevo
dire che in queste situazioni si muovono aspetti inafferrabili
dell'inconscio transoggettivo.
I colleghi che avevano il ruolo di “osservatori”
silenziosi, interpretarono che gli oggetti che stavano al centro del
chiostro - la palma e i fiori - erano dei simboli totemici, come
elementi sacri per il gruppo. Mi
risultano sorprendenti i tanti diversi modi di leggere queste
situazioni gruppali, sia in senso psicoanalitico, come traumi
antichi che si ripresentano, o utilizzando termini sociologici o
antropologici.
A
questo punto, riprendo la mia interpretazione personale: credo che,
all'estraniamento iniziale per l'adeguarsi (o il non adeguarsi) a
qualsiasi cosa, segua immediatamente la reazione di cercare
differenze e appaiano le antinomie di diverso tipo, e anche la
tendenza ad unificare il problema attraverso comprensioni di tipo
sacro, o mitico. I problemi psico-sociali (l'immigrazione, la mafia,
l'alienazione politica, le incertezze, le insicurezze) sembravano
essere evitati come se un patto denegativo condiviso non permettesse
di dare troppa coerenza al discorso.
Rimane
il problema del perché, alla fine di queste esperienze, che vengono
facilmente attribuite all'insufficienza dei conduttori, giacché è
molto difficile essere "leader" di un gruppo allargato,
soffriamo tanta frustrazione (qualche volta anche rabbia, collera).
Lo stile dell'intervento del conduttore proviene necessariamente dal
suo punto di vista teorico e culturale, però bisogna dire che
neanche il "leader" è “fuori dalla palude” gruppale.
La difficoltà di pensare e di sintetizzare è evidente in questi
incontri. Il “large group” (ancora di più se è
multiculturale) non permette un'espressione precisa e definita della
soggettività personale. Questo fa sì che, tutto sommato,
alla fine di queste esperienze, si risente un pochino di più il
gusto strano dell'essere nell'anonimato, nella folla o nella massa!
Non che non lo siamo quando camminiamo per strada, però nella
strada abbiamo già acquisito la familiarità dello stare tra la
gente e di essere parte di un insieme. Però, dentro al
chiostro, tutti quanti, psicologi, psicoanalisti, o studenti, non
siamo là per puro caso, ma giustamente perché vogliamo pensare e
comprendere quello che succede. Ed è proprio il pensiero che
non funziona. La
difficoltà nel pensare forse assomiglia ad altre situazioni di
massa che viviamo nel nostro tempo. E perché non
funzionerebbe il pensiero? In buona parte perché non abbiamo
la possibilità di “contestualizzare” la transcultura, tanto
diversificata, tanto multiforme, e
ci troviamo a non essere capaci di elaborare qualcosa al di là dei contesti
limitati di conoscenza ai quali siamo abituati. E alla fin fine,
perché no?, questo risulta frustrante. Si può sospettare che
le categorie con le quali proviamo a pensare questi problemi
complessi non siano ancora abbastanza adeguate.
Tornando
ai due meccanismi di resistenza e sopravvivenza (l'adattamento a
qualsiasi cosa e l'“oggetto da salvare”) che ho proposto di
pensare che esistano metaforicamente anche nel “large group”,
credo che ognuno salvi nell'incontro gruppale un proprio stile
relazionale (o di interazione) segnato o marcato dalla propria
cultura. Quello che,
nei pazienti reduci appare nel processo terapeutico come la
salvaguardia di una relazione interna che, nelle situazioni
estremamente distruttive diventa soggettivante per la sua semplice
esistenza psichica, equivale nelle situazioni di gruppo, in ogni
partecipante, alla salvaguardia della propria cultura implicita, una
cultura ovvia, una cultura che non ha bisogno di essere dimostrata,
né necessariamente confrontata, la propria.
Negli
anni '80 ho partecipato a Lisbona ad un grande confronto di gruppo
tra psicologi, psicoanalisti e psichiatri palestinesi e israeliani,
ed altri osservatori, specialmente lacaniani, che lo avevano
organizzato. Dopo un intenso lavoro di gruppo durato molti
giorni, ci siamo resi conto dell'evidente esistenza di una
preoccupazione comune, totalmente simile nei due gruppi nazionali
rivali (un “oggetto da salvare”), costituita dai loro rispettivi
figli e la preoccupazione per il loro futuro divenire.
Un'esperienza molto emozionante per tutti, però molto depressiva,
perché il constatare questa profonda condivisione non avrebbe avuto
nessuna conseguenza nella realtà politica e sarebbe rimasta
possibile soltanto nella realtà psichica dei partecipanti.
Penso che siano i vissuti di questo tipo ad avere un valore
transculturale e a corrispondere alle esperienze umane più mature
di solidarietà e responsabilità, in cui non solo si cerca la
reciprocità nel divenire un altro per e tra gli altri, ma ci si
estende fino alla condivisione della preoccupazione per l'altro
degli altri.