L'AUTORE
Francesco
Corsini nasce a Pisa nel 1977. Conseguita la maturità
scientifica nel 1996, si laurea in filosofia all’Università di
Pisa con lode nel 2002, con una tesi dal titolo “Irreversibilità
del tempo e poetica della nostalgia nell’opera di Vladimir Jankélévitch”,
svolta sotto la direzione del Prof. Remo Bodei. Vince il concorso
per il Dottorato di ricerca in Discipline Filosofiche lo stesso
anno, nel cui quadro svolgerà ricerche dirette ancora dal Prof.
Bodei. Nel corso del dottorato, ha modo di lavorare col Prof. Aldo
G. Gargani, che gli permetterà di occuparsi di psicoanalisi e
psichiatria negli working papers. A Parigi, ha modo di lavorare con
Salomon Resnik.
Attualmente, sta
lavorando alla tesi
di dottorato,
sull’interpretazione
che Jankélévitch
da di Bergson, in
cotutela con
l’Université de
Lille-3, sotto la
direzione del Prof.
Frédéric Worms.
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Considerazioni
introduttive
Lo
statuto epistemologico della psicoanalisi diventerebbe sempre più
fragile nella misura in cui, chi ne volesse rivendicare una supposta
“scientificità”, lo facesse attingendo da modelli paradigmatici
relativi alle cosiddette “scienze dure”. Il risultato di una
simile operazione risulterebbe penoso, qualora venisse effettuata da
chi, riferendosi consciamente o inconsciamente alla matrice
scientifica che è inevitabile rinvenire almeno nei primi scritti di
Freud, si agganciasse ad un paradigma veteropositivista, in cui
ormai non si riconoscono più neppure matematici e fisici.
Assisteremmo in un certo senso ad un tentativo di legittimare una
ricerca che, proprio perché appare fragile – ad esempio in
termini popperiani nella scarsa possibilità di una confutazione
– cercherebbe di sopperire con un gergo estremamente preciso e
dogmatico, funzionale piuttosto al pensiero organicista (per quanto
riguarda l’eziologia dei
disturbi psichici) che è poi espressione di quella tendenza a
localizzare neurologicamente e addirittura a livello cromosomico
tutto lo scibile su psiche e soma, oggi tanto in voga.
Ma,
come sempre, la pratica di una disciplina supera con facilità le
aporie apparenti, gli pseudoproblemi sofistici su cui si avvitano le
riflessioni teoriche: è quanto possiamo constatare nell’opera e
nell’attività di Salomon Resnik.
Foto: Salomon Resnik
La
sua pratica di analista e le sue scelte teoriche, quali appaiono dai
suoi scritti (due piani sempre intrecciati), muovono infatti da una
prospettiva antitetica ad ogni dogmatizzazione concettuale,
ridefinendo la relazione psicoanalitica come qualcosa che creano
ogni volta “su misura” il terapeuta e il paziente insieme: si
edifica uno campo specifico ad un’unica e irripetibile relazione.
La
caduta nella tentazione di una mathesis universalis della teoria
analitica da parte dell’analista o dello psicoterapeuta, che gli
consentirebbe di applicare principi prefabbricati alla realtà
dinamica del paziente impoverirebbe e forse vanificherebbe
l’incontro terapeutico, imprigionandolo in schemi categorici
vicini al delirio psicotico stesso; si riproporrebbe – in un
labirintico gioco di specchi – “un approccio narcisistico che si
oppone a una vera accettazione dell’alterità”. I supposti segni e
sintomi non sono entità dal significato indeformabile; ogni ipotesi
definitoria ha valore metaforico.
La
relazione analitica non può di conseguenza essere asservita ad un
paradigma epistemologico rigido, perché non vi trova posto il
determinismo rigido della fisica classica, basato su funzioni
biunivoche in cui ad ogni input corrisponde un solo output. Per
questo ritengo che il dibattito sullo statuto epistemologico della
psicoanalisi sia sterile, qualora venga condotto in base a criteri
nomologico-deduttivi che rifiutino l’ibridazione di codici
linguistici tipica di una disciplina che, tutto sommato, si iscrive
più nel solco delle diltheyane Geisteswissenschaftes, che non
nell’ambito delle scienze naturali. Il problema del linguaggio,
prima di essere un testo costante della ricerca di Resnik, si
riallaccia innanzitutto alle questioni epistemologiche di cui sopra:
già Wittgenstein avvicinava la psicoanalisi all’estetica e
all’analisi del linguaggio, contestandone l’appartenenza
all’ambito delle scienze naturali.
Se
si ritiene obsoleta la distinzione di Dilthey, non si può
rinfacciare alla psicanalisi di essere un composto ibrido di
suggestioni energetiste derivate dalla idrodinamica di fine
Ottocento ed espedienti metaforici e metonimici di natura
letteraria. Questa ibridazione è piuttosto la sua ricchezza,
laddove assurga a criterio di valutazione epistemologica la validità
operativa. Si può
tuttavia legittimamente aspirare ad un coefficiente minimo di
autotrasparenza che sia la sfida del lavoro metateorico sulla
psicoanalisi, alla ricerca della struttura del discorso
psicanalitico che sottende le varie teorie. Tuffato con estrema
lucidità in questo sforzo, Wilfred Bion rilevava che negare la
scientificità della psicoanalisi aveva lo stesso senso di accusare
la scienza di non essere artistica o religiosa.
Foto: W.R. Bion
D’altro
canto l’opera di A. Grünbaum
è estremamente importante, perché si presenta come un monito ad
evitare di ipostatizzare le nozioni della metapsicologia, anche
perché nel caso di Freud ci troviamo di fronte ad “una traduzione
di tipo qualitativo e letterario di concetti obsoleti propri di una
fisiologia e di una biologia evoluzioniste ormai datate” . Anche Davidson
rileva un problema nella metodologia freudiana, nella misura in cui
da un lato egli ha teso ad estendere il campo dei fenomeni soggetti
a spiegazioni razionali, dall’altro ha trattato sovente questi
fenomeni alla stregua di stati e forze delle scienze naturali coeve,
dove non esistevano atteggiamenti propositivi ma solo causalità
rigida.
Ciò è inerente – secondo Davidson - anche al fatto che una
disciplina che studi il mentale deve far uso di concetti misti,
perché debitori da un lato alle loro connessioni con strutture
organiche, dall’altro col loro carattere mentale. A mio avviso, in
ultima analisi, non bisogna rivendicare la scientificità della
psicoanalisi, benché con la modificazione del paradigma
deterministico in seno alla travagliata vicenda della fisica
novecentesca le cose cambiano: noi costruiamo immagini degli oggetti
fisici, elaboriamo modelli interpretativi che agli occhi del
ricercatore vanno al di là del volgare contrassegno di una
corrispondenza, che possono anche coabitare e interagire come
complementari. In ogni caso, la scuola postkleiniana ha rivendicato
la specificità della disciplina psicoanalitica, il cui paradigma
epistemologico non deve per forza adeguarsi al modello delle scienze
empiriche.
La ricerca linguistica sul paziente psicotico
La
preoccupazione fondamentale che anima la ricerca di Resnik è di
natura clinica: nei testi che ho esaminato l’autore si occupa
prevalentemente di soggetti psicotici, tentando di trarre
dall’analisi il massimo vantaggio terapeutico. Egli era un
profondo conoscitore della nosografia psichiatrica classica, e non
ha mai perso il contatto con il mondo psichiatrico. Contestava però
– nella descrizione dei disturbi -
l’attitudine pseudo-naturalistica di derivazione
kraepeliniana, che escludeva il ruolo dell’osservatore nel campo
clinico; a ciò opponeva istanze più vicine al contatto fra
psichiatria e fenomenologia, come in Binswanger.
Fondamentale è l’incontro fra analista e paziente: il transfert
coinvolge in egual misura i due soggetti. Tuttavia, la particolare
difficoltà del lavoro analitico con pazienti dalla personalità
frammentata, con gravi disturbi nell’integrazione del Self, lo ha
obbligato a raggiungere un coefficiente metapsicologico nella
ricerca piuttosto alto. È altresì vero che il delirio psicotico
porta l’analista prepotentemente a contatto con alcune delle
domande metafisiche fondamentali con cui il pensiero occidentale si
è cimentato, un delirio sistematizzato che può sedurre
l’analista ostacolando la terapia. Dunque, da un lato l’Autore
ci presenta una sintesi originale del pensiero metapsicologico di
Melanie Klein, di Wilfred Bion ma anche di Winnicott e Rosenfeld,
dall’altro offre spunti interessanti alla ricerca filosofica anche
prescindendo dagli schemi metapsicologici, in una contiguità con
esiti contemporanei del pensiero talora sorprendente.
Nuclei
estremamente pregni di rilevanza filosofica sono il suo modo di
avvicinarsi al problema del linguaggio, in una prospettiva collegata
ai vissuti dello spazio e del tempo, e il tema del campo analitico,
in cui prevale – fenomenologicamente – la relazione fra paziente
e analista, una comunicazione che si espleta nella modalità che
Resnik chiama doppio transfert.
Ho
trovato particolarmente interessante il fatto di centrare il
compasso della propria teoria sul concetto di persona, che si
inserisce in un dibattito filosofico tornato di attualità.
Infatti Resnik avalla la tesi che anche presso lo psicotico si
possano rinvenire tratti ancora integrati della propria
“personalità”, in polemica con alcuni esiti estremi del
pensiero postkleiniano. Egli pone l’accento sull’etimologia del
termine “persona”, che in latino significava “maschera”: la
maschera è la costruzione, ciò che appare, che, nell’ottica
dell’integrazione progressiva della personalità, va a coincidere
con ciò che l’individuo è. Questa maschera è anche corporea, e
si esprime attraverso un linguaggio fatto anche di smorfie e
atteggiamenti, linguaggio non verbalizzato che è una cifra
fondamentale dell’approccio di Resnik al problema linguistico
nella teoria e nella pratica analitica.
Sul
tema del linguaggio, dobbiamo soprattutto notare che la psicoanalisi
è essenzialmente una pratica discorsiva, in cui crollano le
strutture denotative rigide, in cui la categorizzazione coerente
viene esautorata dall’ “attenzione fluttuante”, concetto
introdotto da Freud e rielaborato da Bion, un atteggiamento in cui
l’analista, per avvicinarsi al mondo del paziente, evita
“possibilmente la meditazione e la formulazione di aspettative
coscienti”
e di voler fissare qualcosa di particolare di quello che ode nella
memoria.
In
questo contesto acquistano rilevanza l’aspetto fonetico della
parola, che permette all’inconscio di elaborare nuove alchimie
semantiche, e la struttura ritmica del discorso, con le sue
inflessioni, i suoi toni e le sue pause: il silenzio ha una sua
semantica che Resnik si preoccupa di studiare. Talvolta,
nell’ambito del quadro analitico, la classica relazione
figura-sfondo fra parola e silenzio è invertita. Resnik distingue
silenzi comunicativi, altri “impermeabili”, silenzi tesi e
silenzi rilassati. Si tratterà
di tener conto di tutto ciò che si esprime al di là della
verbalizzazione in senso stretto. L’ascolto reciproco che anima il
campo analitico fa leva inoltre su ciò che rimane non detto, non
manifesto, in un gioco di comunicazione nascosta fra i due inconsci
che si confrontano.
Il terapeuta può essere d’aiuto al paziente se ha lui stesso
elaborato certi traumi, vissuto certe sofferenze.
Lo
spazio linguistico che si crea nell’ambito della relazione
analitica è un mondo che viene scoperto e inventato al contempo,
creato e individuato, nell’ottica di un superamento della nozione
di verità come corrispondenza fra idea e cosa, fra parola e fatto.
Questa struttura sarebbe infatti schiava del bisogno di un’autorità
superiore eteronoma, un’istanza paterna che garantisca la validità
gnoseologica del discorso. Le lenti con cui Resnik legge
l’incontro analitico lo pongono per forza di cose a ridefinire lo
statuto dell’oggetto interno kleiniano, che non è più un mero
riflesso speculare del dato esterno, ma se ne emancipa come istanza
originale e specifica. Anche i concetti di cui ci si serve nella
relazione analitica non trovano la loro legittimazione in strutture
estrinseche alla loro formulazione linguistica, come sarebbe secondo
una concezione rappresentazionalista, ma sono il frutto di un
processo costruttivo continuo.
L’esperienza mentale è quella che è grazie alle negoziazioni
simboliche con cui è stata metabolizzata,
in quel processo di scissione e demarcazione continua che è la
genesi dell’apparato psichico. La funzione simbolizzante che
l’inconscio esercita fin dalla nascita si incontra dunque con
quelle correnti della filosofia novecentesca che considerano il
linguaggio come oggetto privilegiato dell’indagine filosofica.
Il
prevalere del concetto di funzione su quello di sostanza che
Cassirer individuava nella scienza moderna, e il correlativo
riconoscimento del ruolo costitutivo del linguaggio nella sua
genesi, possono essere felicemente avvicinati al rilancio
nell’ambito della teoria psicoanalitica degli aspetti di
relazione: in primo luogo la relazione fra analista e paziente, che
sottende tutta una dinamica di relazioni fra i loro linguaggi e fra
i loro mondi, inevitabilmente sorretti da una logica privata che
l’incontro analitico si sforza di portare a comunicazione.
In
questo frangente però l’incontro filosofico decisivo della
ricerca di Resnik doveva essere quello con il pensiero di Husserl, e
con la fenomenologia di Merleau-Ponty, di cui aveva seguito alcuni
corsi al Collège de France.
Foto: M. Merleau-Ponty
È
infatti l’aspetto relazionale che caratterizza l’intenzionalità
della coscienza, così come nella relazione analitica: l’oggetto
esterno interessa analiticamente nel suo aspetto noematico, e
l’analista è ben conscio dello scarto che separa l’esperienza
vissuta e riferita dal paziente da una realtà esterna dallo statuto
problematico. Il debito, o meglio la convergenza, con Merleau-Ponty,
si realizza d’altronde nello studio del soggetto in rapporto
sempre ad un campo intersoggettivo, che emerge in maniera veemente
nello spazio, nel campo che si crea e si scopre con la
relazione analitica. Il problema della percezione, centrale
in Merleau-Ponty, rinvia in ambedue gli Autori al tema del corpo,
che nella fenomenologia
di Resnik è il limite problematico del rapporto coscienza-mondo.
L’indirizzo della psicoanalisi di Resnik – sostiene Gargani
–introduce infatti una fenomenologia dell’intenzionalità
corporea. Il corpo in senso prettamente fenomenologico viene fuori,
si autotrascende attraverso la parola intesa come geste (l’Autore
cita Aragon), in una accezione in cui anche l’atteggiamento
corporeo tenuto nel corso della seduta fa parte dello spazio
linguistico. Il linguaggio del corpo assume una plasticità
impressionante nell’ipocondria e nei disturbi psicosomatici: il
vissuto angoscioso viene spostato sui vari organi non casualmente,
ma secondo una semantica del corpo che cambia – entro margini
molto vasti – da paziente a paziente. La sintassi corporea che il
paziente costruisce attraverso le sue proiezioni interne
costituisce una specie di teatro del corpo che l’analista-semiologo
deve interpretare nella sua valenza simbolica. Parlo di teatro perché
il corpo si configura infine come una spazio narrativo, in cui è
raccontata la storia della persona-maschera in un linguaggio
estraneo alla logica formale. La biografia di ogni individuo è
presente nella sua maschera corporea.
Da
un punto di vista dinamico, il superamento della dimensione
precategoriale, indifferenziata, fusionale attraverso il linguaggio
è l’introduzione della discontinuità, della separazione fra
madre e bambino, che è preludio di ogni accettazione – benché
sempre traumatica – dell’alterità. Questo incontro con
l’altro che assume sempre le vesti di una scissione, di un
differimento del soddisfacimento delle pulsioni, è al contempo
genesi della spazialità e della temporalità. In una concezione
pragmatica della percezione e dell’intelligenza, il tempo e lo
spazio nascono laddove il bambino avverte il dolore dell’assenza,
dispensata dal “capezzolo-rubinetto che detta la legge del fluire
o dell’arresto del contenuto del seno”.
Lo psicotico non accetta la differenziazione, la temporalità, la
discontinuità e quindi la distinzione concettuale. Chiaramente,
nella terapia l’analista deve impedire che il paziente porti il
transfert ad esiti fusionali.
Una
volta che il paziente ritrova quella differenziazione perduta,
ricompare il dolore, che era stato congelato, pietrificato dalla
negazione psicotica. Lo stadio della depressione narcisistica (che
corrisponde all’assunzione della posizione depressiva), in cui il
soggetto perde l’onnipotenza conferitagli dal delirio psicotico,
assomiglia ad un disgelo, in quanto il linguaggio torna a fluire
nella sua funzione comunicativa. Le lacrime
sono un esempio di come, attraverso una modalità preverbale e
dunque metaverbale, si riesca a restituire una forma al dolore, che
è un modo per viverlo; il flusso del pianto esemplifica felicemente
questa metafora del disgelo.
L’analista
deve cercare di avvicinarsi al mondo interiore del paziente, e
l’analisi diventa una vera e propria “ricerca linguistica”
che crei una comunicazione, fra paziente e analista come fra
paziente e mondo circostante; il “luogo” che questo incontro
mira a creare è lo spazio mentale del paziente. Bisogna che il
paziente impari a percepire il volume del proprio mondo interiore,
per passare da una geometrizzazione piatta, bidimensionale del mondo
tipica della spazializzazione psicotica, a una geometria
tridimensionale, anzi quadridimensionale nel suo confronto col
divenire. Ma per creare questo spazio mentale
è indispensabile l’incontro con l’altro, l’idea di un
transfert concepito come scambio che si ripropone nella struttura
diadica della relazione analitica.
Lo spazio bidimensionale del soggetto psicotico assomiglia invece al
mondo di Flatlandia di E. Abbott. Nel romanzo di Abbott si
parla di un paese piatto fatto di figure geometriche, divise in
classi scandite dal numero sempre maggiore di lati. Il cerchio
rappresenta il massimo della saggezza e dell’intelligenza: Resnik
avvicina questa saggezza a quella del bambino autistico, della
condensazione in un cerchio di ogni esperienza. Il cerchio perfetto
racchiuderebbe in una forma la totalità, escludendo ogni forma di
differenziazione, divenire e alterità. Sarebbe dunque la cessazione
di ogni processo noetico, lo zero assoluto fenomenologico, ovvero la
glaciazione assoluta, la cessazione di ogni interazione molecolare,
il dissolvimento del “cono di luce” di ogni particella,
l’agitazione termica nulla (0 K= -273,15˚ C, una temperatura
il cui raggiungimento è un limite asintotico). Anche l’analista
dovrà compiere un vero e proprio sforzo di acculturazione,
specialmente quando si trova in contatto con pazienti psicotici, con
una Weltanschaaung complessa con cui è indispensabile fare i conti:
esplorare l’esperienza psicotica significa escludere di liquidare
come privo di coerenze il mondo interno del paziente.
Il
linguaggio è l’organo del tentativo di integrazione del Self
del
soggetto psicotico che il campo analitico si sforza di compiere. Il
linguaggio che si produce all’interno del campo analitico è lo
strumento di lavoro principale nel transfert. Anche
nell’interpretazione della risposta controtransferale
dell’analista, il paziente si avvale dell’interpretazione di
messaggi non denotativi: il tono e il timbro della voce, ecc... Lo
spazio analitico è sempre “in movimento”, deve essere ad ogni
seduta rimesso in discussione nella pratica, non è una struttura
che si crei una volta per tutte. La Gestalt che questo rapporto
prende, in altre parole, va sempre letta nel senso di un equilibrio
dinamico, soggetto ad una ristrutturazione continua nel tempo, in
analogia con la continua modificazione dell’io nella durée
bergsoniana.
Foto: Aldo Giorgio Gargani durante un
intervento alla giornata di studio tenutasi a San Servolo
(Venezia) il 19 marzo 2005, organizzata dal C.I.S.P.P. (Presidente:
S. Resnik), dal titolo "Luoghi e forme del paesaggio
interno/esterno".
Gargani
battezza metodo morfologico la procedura di Resnik: bisogna
emancipare dal modello deterministico rigido il rapporto
causa-effetto nelle implicazioni linguistiche, sia nell’analisi
del paziente che nella risposta dell’analista (doppio transfert),
e al contempo liberare il linguaggio dalle strutture denotative
rigide, valorizzandone invece le procedure metaforiche, metonimiche
e similitudini fonetiche. Il campo che si crea e si scopre
nell’incontro analitico viene dunque collocato nell’ambito del
narrativismo, nell’ottica di una costruzione della realtà che è
apertura di nuovi scenari di senso. Formazioni simboliche creative
daranno un nome a sensazioni, sentimenti e pensieri di cui il
paziente non riusciva a rendere conto verbalmente.
Resnik chiama “strumentazione” il processo mediante il quale
l’analista decifra il linguaggio verbale e non verbale del
paziente e lo utilizza nel campo analitico. Lo sforzo linguistico
dell’analista è di tradurre in parole il sistema di segni del
paziente. Il sistema linguistico che si crea nel campo analitico è
inevitabilmente arbitrario, in quanto creato dal campo stesso. Si
tenga presente che nel lavoro di strumentazione l’analista dovrà
fare i conti con identificazioni proiettive massive da parte del
paziente, proiezioni di parti dell’Io nel mondo esterno,
modificazioni del vissuto temporale nel senso di una sua
spazializzazione meccanica, impoverimento delle facoltà percettive
e cognitive.
Spazio
linguistico e personalizzazione
Anche
curando la voce Inconscio dell’Enciclopedia Einaudi, Resnik pone
attenzione all’inconscio come luogo di vissuto arcaico, primitivo
e legato all’esperienza corporea che cerca di farsi parola, di
entrare in comunicazione. Prima ancora che con la realtà esterna,
la radice primitiva dell’inconscio ha a che fare con la corporeità
originaria della persona.
L’interazione
madre-bambino offre la possibilità a quest’ultimo di formare il
proprio apparato psichico e la propria capacità di comunicazione.
Il processo attraverso il quale il bambino prende coscienza della
propria esistenza è sempre in rapporto alla percezione
dell’esistenza dell’Altro. É la personalizzazione
di Winnicott. Infatti il punto di partenza è uno stato di tipo
confusionale, cui fa seguito una differenziazione che è separazione
nello spazio, pausa del tempo e genesi del numero: originariamente
come dualità bambino-madre (bocca-seno nella relazione oggettuale
parziale), in seguito come “uno” del bambino e in terzo luogo il
padre (tre),
o il capezzolo nella teoria kleiniana. Il rapporto bambino-madre,
relazione di interazione reciproca, permette al bambino di elaborare
e superare le ansie dello svezzamento. Riconoscere la madre in
quanto persona significa per il bambino riconoscere già un
distanziamento, e l’introduzione della parola “mamma”
“corrisponde ad un’accettazione dell’assenza fisica della
madre”(Persona e psicosi, p. 35). Tutta la biografia del
linguaggio dell’Io può essere letta nella sua genesi in questo
modo. Anche la parola può essere interpretata – nei suoi termini
connotativi – come un fenomeno transizionale.
Foto: D.W. Winnicott
Questa
esperienza di differenziazione è indispensabile per poter
localizzare nello spazio i limiti del proprio corpo: è l’ultima
fase winnicottiana del processo di “personalizzazione” in senso
lato, la realizzazione, la presa di coscienza dell’esistenza di un
modo esterno in termini di spazio e di tempo, cifra di un rapporto
con l’alterità che apre in primo luogo un rapporto con sé
stessi. L’io dello psicotico invece è frammentato, disintegrato;
le diverse maschere perdono il contatto e l’armonia. Per questo,
talvolta il paziente vuole assumere il ruolo dell’analista,
entrare in una maschera, travestirsi sulla base di un modello di
identificazione.
La
presa di coscienza di sé stessi e dell’altro nei termini di una
visione globale avviene – nelle categorie kleiniane – nel
raggiungimento della posizione depressiva. In questo modo il
soggetto conquista un’identità personale, identità che nasce
sempre in rapporto alla differenza che il rapporto con l’altro
schiude. Nella posizione depressiva il seno non è più concepito
dal bambino come un prolungamento della sua bocca, ma come parte di
una totalità: la madre.
L’identificazione personale passa per la presa di coscienza dei
propri confini, in un processo che è allo stesso tempo costruzione,
da un’esperienza confusa verso una graduale separazione: è
un’evoluzione fisiologicamente traumatica.
Anche lo sviluppo della categorizzazione linguistica è parallelo a
questo processo, perché carpire i concetti in un orizzonte di
globalità passa attraverso la loro demarcazione, e la influenza
reciprocamente.
Resnik
studia i fenomeni di dis-personalizzazione (“complesso dei
disturbi del processo di personalizzazione:diventare persona”).
Un gruppo di sintomi della sindrome di Cotard o
dis-personalizzazione comprende idee deliranti di negazione:
negazione ipocondriaca della presenza dei propri organi, negazione
del tempo, negazione della realtà esterna, negazione del corpo e
della propria esistenza (si noti la convergenza con posizioni
filosofiche di nichilismo estremo). Resnik ci spiega brevemente il
significato della negazione in termini kleiniani:
Foto: Melanie Klein
<<Melanie
Klein concede al meccanismo di negazione un’importanza
particolare. Lo considera una difesa specifica della posizione
schizo-paranoide. L’oggetto cattivo o persecutorio non soltanto
resta dissociato dal buono, ma la sua stessa esistenza viene negata,
mentre gli aspetti buoni vengono esaltati o idealizzati per
salvaguardarsi dalla persecuzione. Ciò che si nega non è soltanto
l’oggetto, ma piuttosto un rapporto oggettuale, cioè la parte
dell’Io legata all’oggetto e la parte della realtà in cui
l’oggetto si proietta >> (Persona e psicosi, p. 55).
In
questi contesti la parola dell’analista assume un valore di
nutrimento, come per riempire il vuoto creato dalla negazione,
l’Io svuotato dalla proiezione patologica. Non essere capaci di
evocare linguisticamente significa non poter recuperare l’oggetto
perduto con una sua immagine simbolica, meccanismo riparatore della
posizione depressiva, non poter elaborare il lutto dell’assenza
dell’oggetto.
Nell’ambito
del racconto dell’analisi di una paziente, Resnik inserisce una
serie di considerazioni di valore filosofico.
La paziente in questione, che presentava una semeiotica
classificabile come caso di sindrome di Cotard, giungeva a negare il
proprio pensiero. Negava la parte del suo mondo interno in cui
trasferiva tutto quanto c’era di penoso e persecutorio sia nel
corpo che nel mondo esterno:
<<Il
suo mondo sconvolto e sconvolgente si inscrive corporalmente come
frammento di un linguaggio staccato dal suo apparato mentale e
gettato nell’esteriorità>> (Persona e psicosi, p. 76)
Ecco
che emerge la possibilità di una radice psicodinamica della
tradizionale scissione fra pensiero e corpo: il corpo è da un lato
il ricettacolo di tutti i vissuti penosi e inaccettabili,
dall’altro il linguaggio originario essenziale. Il bambino
comunica attraverso il corpo i propri desideri. Dunque il dualismo
corpo-pensiero avrebbe origine – l’autore parafrasa Clifford
Scott
- in “una dissociazione primitiva dell’Io”, allo scopo di
relegare tutti gli aspetti persecutori e pericolosi nel corpo per
preservare il resto, quasi in guisa di capro espiatorio.
L’incontro con pazienti psicotici fa vedere da un angolo diverso
tutta una serie di problemi metafisici tradizionali; in questo caso
la suggestione di un parallelo con il nichilismo lascia il posto ad
una interessante metacritica del problema del rapporto fra res
cogitans e res extensa. In seguito l’esito di un’ideazione
delirante, per cui il mondo esterno non sarebbe che un parto della
mente onnipotente del paziente,
non potrà fare a meno di richiamare – seppur fraintendendolo –
l’impianto gnoseologico fichtiano.
Il
rapporto col proprio corpo può subire una serie di perversioni in
situazioni patologiche, che – interpretate in termini dinamici –
confermano l’idea di un corpo come spazio del rapporto fra mondo
interno e mondo esterno. Un’eccessiva scissione fra corpo, mondo
interno e mondo esterno può essere al servizio della difesa
psicotica.
A
livello metodologico, l’opera di Resnik è un invito a superare la
dimensione iper-specialistica tipica di molti medici. A mio avviso,
dopo che la batteriologia pasteuriana ha soppiantato l’approccio
volgarmente psicosomatico, la pratica di molti medici si è ancorata
ad un paradigma meccanicistico superato a livello teorico,
localizzando in aggressioni esterne tutte le patologie,
misconoscendo quell’influenza della psiche che – invece – è
ampiamente attestata perfino dalla saggezza popolare (es. rodersi il
fegato, ecc...). L’espressione corporea - anche patologica - deve
sempre essere interpretata come un protolinguaggio, in cui la mimica
e le sue modificazioni così come l’assenza o l’eccesso di
movimenti fanno parte di una semantica del corpo che fa di
quest’ultimo un vettore del pensiero.
Ogni volta che il linguaggio della parola viene meno, l’uomo parla
il linguaggio del corpo in maniera più evidente.
Del resto i primi suoni
che il bambino emette sono piuttosto un’espansione sonora del
corpo. La lallazione si configura come un gioco nell’ambito della
coppia madre-figlio, che aiuta a superare le ansie dello
svezzamento. É importante, e ciò si ripercuote sulla struttura
della relazione analitica, che l’adulto si adatti al modello
fonemico del bambino per avvicinarglisi. La capacità ludica
dell’adulto è fondamentale per insegnare a parlare, dunque ad
accettare l’altro, al bambino. In quel momento, l’adulto si
confronta col proprio Io infantile, rispondendo al bambino in una
specie di controtransfert. Dunque non esiste un linguaggio esclusivo
del bambino, ma ciò che nasce è il prodotto di un interscambio fra
il mondo del bambino e quello dei genitori. L’acquisizione della
strutturazione grammaticale permette all’Io di comunicare con sé
stesso e con l’altro, nell’ottica di un passaggio kleiniano alla
posizione depressiva.
La stessa dinamica dovrà essere ritrovata nell’ambito della
relazione analitica: l’analista dovrà recuperare il proprio Io
ludico per andare incontro all’Io ludico del paziente,
strutturando così lo spazio linguistico del setting analitico.
La
comunicazione presuppone una differenziazione fra colui che comunica
e colui al quale il messaggio è destinato. Ora, nell’ambito della
comunicazione preverbale o corporea il bambino è influenzato –
l’Autore si rifà esplicitamente ai corsi di Merleau-Ponty – dal
fatto di avere un’esperienza minima del suo “corpo visivo”.
Lo “stadio dello specchio” è un passaggio comunicativo
fondamentale per la strutturazione del Self:
<<Le
immagini parziali disintegrate o frammentate del corpo finiscono per
integrarsi. Questa costruzione dinamica acquista un carattere
operativo e simbolico>> (Persona e psicosi, p. 105)
La
dissociazione che ne consegue aiuta a strutturare il linguaggio come
simbolizzazione, ovvero come riproduzione dell’oggetto assente.
“Assumere” la parola significa accettare la distanza
dell’oggetto. La
trasformazione dei suoni da gesto corporeo a espressione simbolica
è dunque in relazione col processo di differenziazione. Si tratta
di un’esperienza faticosa, traumatica, perché il bambino deve
accettare il fatto che la parola “mamma” implica l’assenza
della madre. “Il simbolo è un modello di assenza” (Persona e
psicosi, p. 111). Per questo il paziente schizofrenico, incapace di
vivere l’assenza, trasforma la parola in presenza concreta.
Talvolta, in questi soggetti, c’è un ritorno al balbettamento
infantile, ma nell’ottica di un disturbo della differenziazione,
all’interno della parola, fra significante e significato: il
paziente “drammatizza” l’aspetto fonico della parola,
veicolandovi il significato, e prescinde così dalle articolazioni
categoriali adulte. Questa impossibilità di accettare l’aspetto
simbolico della parola è da mettere in relazione al rifiuto della
posizione depressiva. L’intenzionalità del significante acquista
comunque sempre valore nel campo analitico, ad esempio nella
modulazione della voce.
Anche
la strutturazione del pensiero in immagini si colloca all’interno
di un processo di simbolizzazione – in senso lato - linguistico. Con l’immagine il
soggetto impara a sostituire l’oggetto assente. È il tempo
vissuto che agisce trasformando l’esperienza spaziale dalla
funzione sensorio-percettiva a quella intellettualizzata, adatta
alla simbolizzazione. Lo sviluppo nel tempo – a livello di mondo
interiore – dell’immagine, le apporta un valore categoriale che
la rende funzionale alla riflessione. L’Autore dichiara di rifarsi
a Leibniz:
l’immagine pensante nascerebbe da una intellettualizzazione
dell’immagine sensoriale. Il controesempio lampante della riuscita
di questo processo di simbolizzazione è il paziente schizofrenico,
nella fattispecie l’esempio portato dall’Autore di un uomo che
– pensando ad una località di mare – si recava veramente, nel
suo mondo interno, in quella località. Egli non riusciva a
sopperire all’assenza dell’oggetto (il mare –mer, mère) con
un simbolo che ne riconoscesse, come tutti i simboli, l’assenza.
Durante la lallazione e il balbettamento, il bambino attraversa
infatti una fase intermedia fra il suono come espansione del corpo e
la sua proiezione nella chiave di una semantizzazione del mondo
esterno: si tratta della fase in cui c’è un’identità
provvisoria fra suono e esperienza significativa.
Il linguaggio verbale, rispetto all’immagine, è portavoce di una
acquisita plasticità della mente, di una specializzazione in chiave
di strumentalità comunicativa.
Dietro
il sipario il vuoto
Il
linguaggio è essenzialmente un fenomeno proiettivo,
che nello schizofrenico riveste il ruolo patologico di un mezzo per
“entrare dentro” al mondo esterno, per proiettarsi nell’altro
con lo scopo finale di non essere alla mercé del mondo esterno
stesso e delle sue leggi. Lo schizofrenico può servirsi del
linguaggio anche tentando di addormentare l’analista
valorizzandone l’effetto ipnotico.
Il
rischio – a mio avviso – della radicalizzazione filosofica della
concezione del linguaggio come fenomeno proiettivo, è di fare di
ogni sforzo di conoscenza l’applicazione di un meccanismo di
identificazione proiettiva, ovvero un tentativo di inglobamento
orale e digestione che esorcizzi l’alterità. Il tentativo di
s-piegare l’irriducibile differenza che l’altro introduce
perpetrerebbe una sorta di stupro ai suoi danni, come se per
esplorare un terreno difficile lo si spianasse con le ruspe.
Ovviamente non ci sarebbe più alcuna forma di com-prensione, ma
soltanto una penetrazione violenta in un altro che perderebbe la sua
alterità stessa nel momento della sua metabolizzazione. In questa
chiave, assume le vesti di una modalità alternativa di esperienza
il modello della sessualità femminile, anche se i termini di un
“lasciarsi penetrare” dalla realtà rimangono fortemente
problematici. Portando all’estremo gli esiti metaforici del
linguaggio, diremmo che la s-piegazione dovrebbe lasciare il posto
all’accettazione delle pieghe del reale.
Bergson
è stato autore di una vasta critica al linguaggio nelle sue pretese
conoscitive, in quanto letto come uno strumento dell’intelligenza
logico-concettuale, la cui funzione pratica e utilitaristica esclude
la conoscenza disinteressata per ritenere solo ciò che serve
all’azione e al dominio pratico-tecnologico (funzione
utilitaristica della scienza). Ma egli non ha mancato di prendere
coscienza dell’estrema difficoltà della sua filosofia
dell’intuizione,
dovendone comunque renderne conto linguisticamente e
concettualmente; anzi, alla fine, le sue opere maggiori presentano
una concettualità piuttosto rigida. Uno sforzo veramente originale
in questa direzione è stato compiuto nei testi di Jankélévitch,
che pur manifestando costantemente riserve sul linguaggio verbale,
si è avvalso di uno stile poetico e “musicale”, per sfiorare
argomenti al limite dell’inesprimibile.
Per liberare il linguaggio dalle pastoie denotative che lo rendono
asfittico, Jankélévitch non ha esitato a fare uso di arcaismi, a
periodare alternando punteggiature frequenti con periodi “alla
Proust”, a passare velocemente dal concettualismo complesso alla
metafora poetica.
Ecco
dunque un tentativo di seguire, simpateticamente, l’andamento
complesso del reale. Invece nello schizofrenico c’è un tentativo
di “colonizzazione” del reale e presa di possesso, nel senso di
un’identificazione proiettiva che distrugge le possibilità di un
vero rapporto conoscitivo. Ma in ogni caso, la conoscenza implica
una metabolizzazione, uno svilimento di un’alterità che perde la
sua specificità appena le si volge lo sguardo. Il processo noetico
esclude una conoscenza diafana; è sempre in gioco una costruzione,
un campo che comprende il soggetto, l’oggetto e l’attività
conoscitiva. Al limite, queste tre “ipostasi” potrebbero essere
solo astrazioni, funzionali allo schematismo logico-concettuale. La
concezione psicoanalitica di Resnik esclude le dicotomie
gnoseologiche classiche, per valorizzare filosoficamente le
relazioni, i processi di elaborazione simbolica. Si abbatte la
barriera fra linguaggio ed esperienza, la realtà sono questi stessi
processi simbolici. Tutta la nostra
concettualità è una sorta di mitologia funzionale, come in Quine.
In ogni caso, bisognerà distinguere – come ha fatto Herbert
Rosenfeld – fra processi proiettivi normali, che hanno uno scopo
comunicativo e conoscitivo, e l’identificazione proiettiva
patologica, che è una forma di invasione dell’altro volta ad
esorcizzarne l’alterità. Lo sforzo terapeutico da compiere è di
costruire nel soggetto un rapporto con lo spazio esterno che non sia
di natura invasiva, tenendo presente che questa costruzione di senso
avrà per il paziente l’assetto traumatico di una vera e propria
rinascita:
Foto: H. Rosenfeld
<<Il
significato si sposta nello spazio all’interno di un
oggetto-veicolo: il significante. Gli astronauti, all’interno
dell’astronave, non comunicano con lo spazio. Lo guardano. Ma
quando escono dall’oggetto contenitore, e camminano nello spazio,
sono in comunicazione “fluttuante” con un aspetto
dell’universo. Uscire nell’ignoto è un’esperienza ontologica
altrettanto angosciosa come quella del nascere: è rinascere
>> (Persona e psicosi, p. 232).
Uscire
dall’astronave porta l’astronauta a contatto con un mondo che
appare, da un punto di vista semantico, silenzioso, avulso da ogni
logica rassicurante. Se i ritagli netti dei solidi nello spazio
esterno sono forgiati dai limiti possibili della nostra azione, come
afferma Bergson in 'Materia e memoria', lo spazio
in cui l’astronauta si tuffa con un salto kierkegaardiano
ha piuttosto, nella sua dimensione di estraneità, dei tratti
brumosi e oniroidi. Il sogno infatti è il tipico esempio di un
“luogo” in cui il pensiero si affranca dalla categorizzazione
logica classica per giovarsi di modalità alternative di
estrinsecazione in forme, verbali o visive, del vissuto interiore
del paziente. Resnik valorizza l’aspetto più propriamente
linguistico dell’esperienza onirica: il sogno come messaggio.
Sognare significa aver già assunto la capacità di simbolizzare;
per questo lo schizofrenico fatica a sognare, o meglio a distinguere
il sogno dalla veglia, nell’ottica di una fusione fra significato
e significante che misconosce la natura comunicativa di ogni
linguaggio. Nel sogno - secondo Resnik - assistiamo ad una
drammatizzazione narrativa, da parte del soggetto, dei propri
fantasmi. Esso fa parte dell’aspetto intracomunicativo della
comunicazione: un pensiero, prima di esteriorizzarsi, deve essere
formulato dentro di sé (l’Autore riprende uno schema di Marcel).
Anche questo aspetto viene letto da un punto di vista
metapsicologico: <<Secondo
Melanie Klein l’integrazione intrapsichica dipende dalla capacità
di superare le ansie paranoidi e i meccanismi dissociativi
corrispondenti>> (Persona e psicosi, p. 125).
Ci
collochiamo ancora dunque – in termini kleiniani – nel processo
di passaggio dalla posizione schizo-paranoide alla posizione
depressiva. Quelle che erano in principio difese dissociative
diventano strumenti di simbolizzazione e categorizzazione,
importanti per acquisire le discriminazioni ma anche le unità, nel
mondo esterno come interno. Quando, come nel soggetto schizofrenico,
le parole hanno perso il loro valore simbolico, esse sono vissute
come veri oggetti, e possono rappresentare un reale pericolo
distruttivo per il paziente. Talvolta in questi casi l’analista
diventa un Io sussidiario che permette al paziente di esprimersi,
proiettandosi in una bocca propizia: si riproduce così un aspetto
della relazione bambino-madre, dove la madre “afferra e traduce ciò
che il bambino sente”(Persona e psicosi, p. 145).
Ma
il silenzio dello spazio cosmico è un’esperienza di solitudine
radicale, per certi versi originaria. Già nell’Ottocento alcuni
psichiatri avevano notato che ogni psicosi parte da una depressione
iniziale, e W. Griesinger riconosceva in questa depressione
intollerabile il punto di partenza di ogni disturbo mentale. Resnik
traduce psicoanaliticamente questa impostazione, nei termini di un
“lutto non elaborato” originario rispetto all’eziologia della
psicosi.
Il cammino dell’esperienza psicotica parte dalla “siderazione
del dolore depressivo di una perdita intollerabile”.
Solo ripercorrendo questo salto nel buio possiamo confrontarci con
la “semantica del silenzio”: vi sono silenzi che bloccano la
comunicazione e altri che l’annunciano. La musica ad esempio, può
essere una forma di silenzio dal vociare quotidiano, un silenzio che
fa posto a qualcosa d’altro.
Allora, se da un lato la nostra esistenza è come una piccola isola
di festa che si staglia su un oceano di silenzio, dall’altro il
silenzio può essere come un’oasi di comunicazione, come un lago
incastonato fra aspre montagne. La notte, patria dell’oscurità e
del mistero, è il momento in cui le voci calano, le ombre sfumano
fino a svanire nell’oscurità indistinta. È il momento in cui –
a teatro – si spengono le luci, e il pubblico tace quasi
bruscamente: il sipario del sogno si apre.
Ciò
che Freud ha studiato, il sogno come via d’accesso
all’inconscio, non è scientifico nei termini di un rigido
determinismo causa-effetto; non è verificabile né falsificabile.
Anche il paradigma dell’efficacia terapeutica risulta forse
limitante, da un punto di vista teorico. I punti di vista topico,
dinamico, economico, potrebbero essere semplicemente delle
costruzioni, delle narrazioni che non hanno una legittimazione
epistemologica se non all’interno di un ambito in cui tutto si
crea e si rielabora continuamente. Freud avrebbe aperto un ulteriore
sipario in cui si metterebbe in scena uno spettacolo metateatrale:
una metanarrazione della narrazione onirica. Ogni interpretazione di
un sogno è una costruzione, che l’analista fa con l’aiuto del
paziente, una costruzione sopra un’altra costruzione che è il
sogno stesso. Raccontare il sogno di un paziente è in realtà
raccontare un proprio sogno.
Tale costruzione deve però rispondere a criteri di funzionalità
terapeutica: l’analista dovrà ispirarsi all’estetica del Bauhaus. In altre parole, spesso è inutile – prima ancora che
impossibile – fornire un’analisi esaustiva del sogno, e il
compito dell’analista non è di sfornare interpretazioni fatte in
serie ad ogni domanda del paziente, né l’insight del paziente
dovrà avere un esito di questo genere. Le costruzioni dovranno
avere un senso, i quadri dovranno ricercare la propria cornice.
Tutta la genesi dell’apparato psichico è un processo di
costruzione: “ciò che viene designato come madre reale è
relativo, poiché essa è già investita di proiezioni intenzionali,
e in ogni percezione c’è una proiezione fantasmatica di ognuno di
noi”.
La maschera-persona non ottunde le capacità di attingere a una
realtà psichica originaria, ma è un prodotto del processo di
formazione dell’apparato psichico stesso, costruzione di simboli
che interpretano anche il mondo esterno. Il linguaggio fa parte di
questo processo di costruzione della realtà, di continua messa in
scena attraverso quelle maschere teatrali che sono le parole.
Non possiamo dire nulla di una realtà esterna di cui le parole
sarebbero un travestimento, perché non la incontriamo mai se non
costruendola con i nostri processi simbolici.
E l’incontro fra il codice simbolico dell’analista e quello del
paziente ha la stessa dinamica di quello stupore, di quella
meraviglia di fronte al mondo che – disse il filosofo – è
all’origine della filosofia, stupore come “transizione da un
vocabolario all’altro”,
da un codice all’altro. La sordità rispetto a queste transizioni
è all’origine di molte incomprensioni fra correnti di pensiero.
Chiaramente, vi è una prospettiva di contiguità con gli esponenti
della filosofia post-analitica o neopragmatistica, quella linguistic
turn che ha sancito il tramonto dell’immediately given in favore
di un’ottica inferenzialista. Un evento psichico diventa cognitivo
se e solo se lo sappiamo inserire in una catena di argomentazioni.
Se il linguaggio verbale è soltanto una delle “forme
simboliche” con cui interpretiamo-costruiamo la realtà, la
grammatica del sogno sembra collocarsi ad un livello più profondo,
primitivo, di una messa in scena rituale che attinge dalle viscere
ontogenetiche e filogenetiche.
Il
poeta dice:
La
Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent
parfois sortir de confuses paroles ;
L’homme
y passe à travers des forêts de symboles
Qui
l’observent avec des regards familiers.
È
attraverso una foresta di simboli che l’uomo può entrare nel
tempio della natura;
simboli viventi, che gli rendono il mondo familiare.
Perché
allora forse la scena primaria ci vide registi, e non semplici
spettatori, e forse il sogno è il palcoscenico in cui si recita
tutte le notti l’archetipo di tutti i drammi: il dramma del taglio
del cordone ombelicale, il dramma della separazione, dell’addio
insito in ogni istante. Il lutto viene ritualizzato, come nella
tragedia greca secondo R. Girard. Accettare il fluire del tempo
significa infatti accettare la morte; per questo il tempo dello
schizofrenico è paralizzato, spazializzato. Accettare l’idea di
avere un corpo, assumere uno spazio mentale è un compito difficile,
perché significa assumere la finitezza della propria esistenza,
carpire il fluire del tempo come esperienza di lutto.
L’Io onnipotente infantile dello schizofrenico non può accettare
la separazione, la finitezza, il tempo, la morte. La vita.
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