Presentation   News Editorial    board   Archives    Links   Events Submit a     paper Sections
contacts & mail

FRENIS  zero            Home Frenis Zero 

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività
Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness 

  Numero 4, anno II, giugno 2005 

 

LO SPAZIO LINGUISTICO DI SALOMON RESNIK

 

di Francesco Corsini

 

 

L'AUTORE

Francesco Corsini  nasce a Pisa nel 1977. Conseguita la maturità scientifica nel 1996, si laurea in filosofia all’Università di Pisa con lode nel 2002, con una tesi dal titolo “Irreversibilità del tempo e poetica della nostalgia nell’opera di Vladimir Jankélévitch”, svolta sotto la direzione del Prof. Remo Bodei. Vince il concorso per il Dottorato di ricerca in Discipline Filosofiche lo stesso anno, nel cui quadro svolgerà ricerche dirette ancora dal Prof. Bodei. Nel corso del dottorato, ha modo di lavorare col Prof. Aldo G. Gargani, che gli permetterà di occuparsi di psicoanalisi e psichiatria negli working papers. A Parigi, ha modo di lavorare con Salomon Resnik.

Attualmente, sta

 lavorando alla tesi

 di dottorato,

 sull’interpretazione

 che Jankélévitch

 da di Bergson, in

 cotutela con

 l’Université de

 Lille-3, sotto la

 direzione del Prof.

 Frédéric Worms. 

 

 

 

Considerazioni introduttive

 

Lo statuto epistemologico della psicoanalisi diventerebbe sempre più fragile nella misura in cui, chi ne volesse rivendicare una supposta “scientificità”, lo facesse attingendo da modelli paradigmatici relativi alle cosiddette “scienze dure”. Il risultato di una simile operazione risulterebbe penoso, qualora venisse effettuata da chi, riferendosi consciamente o inconsciamente alla matrice scientifica che è inevitabile rinvenire almeno nei primi scritti di Freud, si agganciasse ad un paradigma veteropositivista, in cui ormai non si riconoscono più neppure matematici e fisici. Assisteremmo in un certo senso ad un tentativo di legittimare una ricerca che, proprio perché appare fragile – ad esempio in termini popperiani nella scarsa possibilità di una confutazione[1] – cercherebbe di sopperire con un gergo estremamente preciso e dogmatico, funzionale piuttosto al pensiero organicista (per quanto riguarda l’eziologia  dei disturbi psichici) che è poi espressione di quella tendenza a localizzare neurologicamente e addirittura a livello cromosomico tutto lo scibile su psiche e soma, oggi tanto in voga.

Ma, come sempre, la pratica di una disciplina supera con facilità le aporie apparenti, gli pseudoproblemi sofistici su cui si avvitano le riflessioni teoriche: è quanto possiamo constatare nell’opera e nell’attività di Salomon Resnik.

  Foto: Salomon Resnik

La sua pratica di analista e le sue scelte teoriche, quali appaiono dai suoi scritti (due piani sempre intrecciati), muovono infatti da una prospettiva antitetica ad ogni dogmatizzazione concettuale, ridefinendo la relazione psicoanalitica come qualcosa che creano ogni volta “su misura” il terapeuta e il paziente insieme: si edifica uno campo specifico ad un’unica e irripetibile relazione.

La caduta nella tentazione di una mathesis universalis della teoria analitica da parte dell’analista o dello psicoterapeuta, che gli consentirebbe di applicare principi prefabbricati alla realtà dinamica del paziente impoverirebbe e forse vanificherebbe l’incontro terapeutico, imprigionandolo in schemi categorici vicini al delirio psicotico stesso; si riproporrebbe – in un labirintico gioco di specchi – “un approccio narcisistico che si oppone a una vera accettazione dell’alterità”[2]. I supposti segni e sintomi non sono entità dal significato indeformabile; ogni ipotesi definitoria ha valore metaforico[3].

La relazione analitica non può di conseguenza essere asservita ad un paradigma epistemologico rigido, perché non vi trova posto il determinismo rigido della fisica classica, basato su funzioni biunivoche in cui ad ogni input corrisponde un solo output. Per questo ritengo che il dibattito sullo statuto epistemologico della psicoanalisi sia sterile, qualora venga condotto in base a criteri nomologico-deduttivi che rifiutino l’ibridazione di codici linguistici tipica di una disciplina che, tutto sommato, si iscrive più nel solco delle diltheyane Geisteswissenschaftes, che non nell’ambito delle scienze naturali. Il problema del linguaggio, prima di essere un testo costante della ricerca di Resnik, si riallaccia innanzitutto alle questioni epistemologiche di cui sopra: già Wittgenstein avvicinava la psicoanalisi all’estetica e all’analisi del linguaggio, contestandone l’appartenenza all’ambito delle scienze naturali[4].

Se si ritiene obsoleta la distinzione di Dilthey, non si può rinfacciare alla psicanalisi di essere un composto ibrido di suggestioni energetiste derivate dalla idrodinamica di fine Ottocento ed espedienti metaforici e metonimici di natura letteraria. Questa ibridazione è piuttosto la sua ricchezza, laddove assurga a criterio di valutazione epistemologica la validità operativa.  Si può tuttavia legittimamente aspirare ad un coefficiente minimo di autotrasparenza che sia la sfida del lavoro metateorico sulla psicoanalisi, alla ricerca della struttura del discorso psicanalitico che sottende le varie teorie. Tuffato con estrema lucidità in questo sforzo, Wilfred Bion rilevava che negare la scientificità della psicoanalisi aveva lo stesso senso di accusare la scienza di non essere artistica o religiosa[5]. 

  Foto: W.R. Bion

D’altro canto l’opera di A. Grünbaum[6] è estremamente importante, perché si presenta come un monito ad evitare di ipostatizzare le nozioni della metapsicologia, anche perché nel caso di Freud ci troviamo di fronte ad “una traduzione di tipo qualitativo e letterario di concetti obsoleti propri di una fisiologia e di una biologia evoluzioniste ormai datate”[7] . Anche Davidson[8] rileva un problema nella metodologia freudiana, nella misura in cui da un lato egli ha teso ad estendere il campo dei fenomeni soggetti a spiegazioni razionali, dall’altro ha trattato sovente questi fenomeni alla stregua di stati e forze delle scienze naturali coeve, dove non esistevano atteggiamenti propositivi ma solo causalità rigida[9]. Ciò è inerente – secondo Davidson - anche al fatto che una disciplina che studi il mentale deve far uso di concetti misti, perché debitori da un lato alle loro connessioni con strutture organiche, dall’altro col loro carattere mentale. A mio avviso, in ultima analisi, non bisogna rivendicare la scientificità della psicoanalisi, benché con la modificazione del paradigma deterministico in seno alla travagliata vicenda della fisica novecentesca le cose cambiano: noi costruiamo immagini degli oggetti fisici, elaboriamo modelli interpretativi che agli occhi del ricercatore vanno al di là del volgare contrassegno di una corrispondenza, che possono anche coabitare e interagire come complementari. In ogni caso, la scuola postkleiniana ha rivendicato la specificità della disciplina psicoanalitica, il cui paradigma epistemologico non deve per forza adeguarsi al modello delle scienze empiriche. 

               

La ricerca linguistica sul paziente psicotico

La preoccupazione fondamentale che anima la ricerca di Resnik è di natura clinica: nei testi che ho esaminato l’autore si occupa prevalentemente di soggetti psicotici, tentando di trarre dall’analisi il massimo vantaggio terapeutico. Egli era un profondo conoscitore della nosografia psichiatrica classica, e non ha mai perso il contatto con il mondo psichiatrico. Contestava però – nella descrizione dei disturbi -  l’attitudine pseudo-naturalistica di derivazione kraepeliniana, che escludeva il ruolo dell’osservatore nel campo clinico; a ciò opponeva istanze più vicine al contatto fra psichiatria e fenomenologia, come in Binswanger[10]. Fondamentale è l’incontro fra analista e paziente: il transfert coinvolge in egual misura i due soggetti. Tuttavia, la particolare difficoltà del lavoro analitico con pazienti dalla personalità frammentata, con gravi disturbi nell’integrazione del Self, lo ha obbligato a raggiungere un coefficiente metapsicologico nella ricerca piuttosto alto. È altresì vero che il delirio psicotico porta l’analista prepotentemente a contatto con alcune delle domande metafisiche fondamentali con cui il pensiero occidentale si è cimentato, un delirio sistematizzato che può sedurre l’analista ostacolando la terapia. Dunque, da un lato l’Autore ci presenta una sintesi originale del pensiero metapsicologico di Melanie Klein, di Wilfred Bion ma anche di Winnicott e Rosenfeld, dall’altro offre spunti interessanti alla ricerca filosofica anche prescindendo dagli schemi metapsicologici, in una contiguità con esiti contemporanei del pensiero talora sorprendente.

Nuclei estremamente pregni di rilevanza filosofica sono il suo modo di avvicinarsi al problema del linguaggio, in una prospettiva collegata ai vissuti dello spazio e del tempo, e il tema del campo analitico, in cui prevale – fenomenologicamente – la relazione fra paziente e analista, una comunicazione che si espleta nella modalità che Resnik chiama doppio transfert[11].

Ho trovato particolarmente interessante il fatto di centrare il compasso della propria teoria sul concetto di persona, che si inserisce in un dibattito filosofico tornato di attualità[12]. Infatti Resnik avalla la tesi che anche presso lo psicotico si possano rinvenire tratti ancora integrati della propria “personalità”, in polemica con alcuni esiti estremi del pensiero postkleiniano. Egli pone l’accento sull’etimologia del termine “persona”, che in latino significava “maschera”: la maschera è la costruzione, ciò che appare, che, nell’ottica dell’integrazione progressiva della personalità, va a coincidere con ciò che l’individuo è. Questa maschera è anche corporea, e si esprime attraverso un linguaggio fatto anche di smorfie e atteggiamenti, linguaggio non verbalizzato che è una cifra fondamentale dell’approccio di Resnik al problema linguistico nella teoria e nella pratica analitica.

Sul tema del linguaggio, dobbiamo soprattutto notare che la psicoanalisi è essenzialmente una pratica discorsiva, in cui crollano le strutture denotative rigide, in cui la categorizzazione coerente viene esautorata dall’ “attenzione fluttuante”, concetto introdotto da Freud e rielaborato da Bion, un atteggiamento in cui l’analista, per avvicinarsi al mondo del paziente, evita “possibilmente la meditazione e la formulazione di aspettative coscienti”[13] e di voler fissare qualcosa di particolare di quello che ode nella memoria.

In questo contesto acquistano rilevanza l’aspetto fonetico della parola, che permette all’inconscio di elaborare nuove alchimie semantiche, e la struttura ritmica del discorso, con le sue inflessioni, i suoi toni e le sue pause: il silenzio ha una sua semantica che Resnik si preoccupa di studiare. Talvolta, nell’ambito del quadro analitico, la classica relazione figura-sfondo fra parola e silenzio è invertita. Resnik distingue silenzi comunicativi, altri “impermeabili”, silenzi tesi e silenzi rilassati. Si tratterà  di tener conto di tutto ciò che si esprime al di là della verbalizzazione in senso stretto. L’ascolto reciproco che anima il campo analitico fa leva inoltre su ciò che rimane non detto, non manifesto, in un gioco di comunicazione nascosta fra i due inconsci che si confrontano[14]. Il terapeuta può essere d’aiuto al paziente se ha lui stesso elaborato certi traumi, vissuto certe sofferenze.

Lo spazio linguistico che si crea nell’ambito della relazione analitica è un mondo che viene scoperto e inventato al contempo, creato e individuato, nell’ottica di un superamento della nozione di verità come corrispondenza fra idea e cosa, fra parola e fatto. Questa struttura sarebbe infatti schiava del bisogno di un’autorità superiore eteronoma, un’istanza paterna che garantisca la validità gnoseologica del discorso. Le lenti con cui Resnik legge l’incontro analitico lo pongono per forza di cose a ridefinire lo statuto dell’oggetto interno kleiniano, che non è più un mero riflesso speculare del dato esterno, ma se ne emancipa come istanza originale e specifica. Anche i concetti di cui ci si serve nella relazione analitica non trovano la loro legittimazione in strutture estrinseche alla loro formulazione linguistica, come sarebbe secondo una concezione rappresentazionalista, ma sono il frutto di un processo costruttivo continuo[15]. L’esperienza mentale è quella che è grazie alle negoziazioni simboliche con cui è stata metabolizzata[16], in quel processo di scissione e demarcazione continua che è la genesi dell’apparato psichico. La funzione simbolizzante che l’inconscio esercita fin dalla nascita si incontra dunque con quelle correnti della filosofia novecentesca che considerano il linguaggio come oggetto privilegiato dell’indagine filosofica.

Il prevalere del concetto di funzione su quello di sostanza che Cassirer individuava nella scienza moderna, e il correlativo riconoscimento del ruolo costitutivo del linguaggio nella sua genesi, possono essere felicemente avvicinati al rilancio nell’ambito della teoria psicoanalitica degli aspetti di relazione: in primo luogo la relazione fra analista e paziente, che sottende tutta una dinamica di relazioni fra i loro linguaggi e fra i loro mondi, inevitabilmente sorretti da una logica privata che l’incontro analitico si sforza di portare a comunicazione.

In questo frangente però l’incontro filosofico decisivo della ricerca di Resnik doveva essere quello con il pensiero di Husserl, e con la fenomenologia di Merleau-Ponty, di cui aveva seguito alcuni corsi al Collège de France.

   Foto: M. Merleau-Ponty  

È infatti l’aspetto relazionale che caratterizza l’intenzionalità della coscienza, così come nella relazione analitica: l’oggetto esterno interessa analiticamente nel suo aspetto noematico, e l’analista è ben conscio dello scarto che separa l’esperienza vissuta e riferita dal paziente da una realtà esterna dallo statuto problematico. Il debito, o meglio la convergenza, con Merleau-Ponty, si realizza d’altronde nello studio del soggetto in rapporto sempre ad un campo intersoggettivo, che emerge in maniera veemente nello spazio, nel campo che si crea e si scopre con la  relazione analitica. Il problema della percezione, centrale in Merleau-Ponty, rinvia in ambedue gli Autori al tema del corpo, che nella fenomenologia[17] di Resnik è il limite problematico del rapporto coscienza-mondo. L’indirizzo della psicoanalisi di Resnik – sostiene Gargani[18] –introduce infatti una fenomenologia dell’intenzionalità corporea. Il corpo in senso prettamente fenomenologico viene fuori, si autotrascende attraverso la parola intesa come geste (l’Autore cita Aragon), in una accezione in cui anche l’atteggiamento corporeo tenuto nel corso della seduta fa parte dello spazio linguistico. Il linguaggio del corpo assume una plasticità impressionante nell’ipocondria e nei disturbi psicosomatici: il vissuto angoscioso viene spostato sui vari organi non casualmente, ma secondo una semantica del corpo che cambia – entro margini molto vasti – da paziente a paziente. La sintassi corporea che il paziente costruisce attraverso le sue proiezioni interne[19] costituisce una specie di teatro del corpo che l’analista-semiologo deve interpretare nella sua valenza simbolica. Parlo di teatro perché il corpo si configura infine come una spazio narrativo, in cui è raccontata la storia della persona-maschera in un linguaggio estraneo alla logica formale. La biografia di ogni individuo è presente nella sua maschera corporea[20].

Da un punto di vista dinamico, il superamento della dimensione precategoriale, indifferenziata, fusionale attraverso il linguaggio è l’introduzione della discontinuità, della separazione fra madre e bambino, che è preludio di ogni accettazione – benché sempre traumatica – dell’alterità. Questo incontro con l’altro che assume sempre le vesti di una scissione, di un differimento del soddisfacimento delle pulsioni, è al contempo genesi della spazialità e della temporalità. In una concezione pragmatica della percezione e dell’intelligenza, il tempo e lo spazio nascono laddove il bambino avverte il dolore dell’assenza, dispensata dal “capezzolo-rubinetto che detta la legge del fluire o dell’arresto del contenuto del seno”[21]. Lo psicotico non accetta la differenziazione, la temporalità, la discontinuità e quindi la distinzione concettuale. Chiaramente, nella terapia l’analista deve impedire che il paziente porti il transfert ad esiti fusionali.

Una volta che il paziente ritrova quella differenziazione perduta, ricompare il dolore, che era stato congelato, pietrificato dalla negazione psicotica. Lo stadio della depressione narcisistica (che corrisponde all’assunzione della posizione depressiva), in cui il soggetto perde l’onnipotenza conferitagli dal delirio psicotico, assomiglia ad un disgelo, in quanto il linguaggio torna a fluire nella sua funzione comunicativa. Le lacrime[22] sono un esempio di come, attraverso una modalità preverbale e dunque metaverbale, si riesca a restituire una forma al dolore, che è un modo per viverlo; il flusso del pianto esemplifica felicemente questa metafora del disgelo[23].

L’analista deve cercare di avvicinarsi al mondo interiore del paziente, e l’analisi diventa una vera e propria “ricerca linguistica”[24] che crei una comunicazione, fra paziente e analista come fra paziente e mondo circostante; il “luogo” che questo incontro mira a  creare è lo spazio mentale del paziente. Bisogna che il paziente impari a percepire il volume del proprio mondo interiore, per passare da una geometrizzazione piatta, bidimensionale del mondo tipica della spazializzazione psicotica, a una geometria tridimensionale, anzi quadridimensionale nel suo confronto col divenire. Ma per creare questo spazio mentale[25] è indispensabile l’incontro con l’altro, l’idea di un transfert concepito come scambio che si ripropone nella struttura diadica della relazione analitica[26]. Lo spazio bidimensionale del soggetto psicotico assomiglia invece al mondo di Flatlandia di E. Abbott[27]. Nel romanzo di Abbott si parla di un paese piatto fatto di figure geometriche, divise in classi scandite dal numero sempre maggiore di lati. Il cerchio rappresenta il massimo della saggezza e dell’intelligenza: Resnik avvicina questa saggezza a quella del bambino autistico, della condensazione in un cerchio di ogni esperienza. Il cerchio perfetto racchiuderebbe in una forma la totalità, escludendo ogni forma di differenziazione, divenire e alterità. Sarebbe dunque la cessazione di ogni processo noetico, lo zero assoluto fenomenologico, ovvero la glaciazione assoluta, la cessazione di ogni interazione molecolare, il dissolvimento del “cono di luce” di ogni particella, l’agitazione termica nulla (0 K= -273,15˚ C, una temperatura il cui raggiungimento è un limite asintotico). Anche l’analista dovrà compiere un vero e proprio sforzo di acculturazione, specialmente quando si trova in contatto con pazienti psicotici, con una Weltanschaaung  complessa con cui è indispensabile fare i conti: esplorare l’esperienza psicotica significa escludere di liquidare come privo di coerenze il mondo interno del paziente[28].

Il linguaggio è l’organo del tentativo di integrazione del Self  del soggetto psicotico che il campo analitico si sforza di compiere. Il linguaggio che si produce all’interno del campo analitico è lo strumento di lavoro principale nel transfert. Anche nell’interpretazione della risposta controtransferale dell’analista, il paziente si avvale dell’interpretazione di messaggi non denotativi: il tono e il timbro della voce, ecc... Lo spazio analitico è sempre “in movimento”, deve essere ad ogni seduta rimesso in discussione nella pratica, non è una struttura che si crei una volta per tutte. La Gestalt che questo rapporto prende, in altre parole, va sempre letta nel senso di un equilibrio dinamico, soggetto ad una ristrutturazione continua nel tempo, in analogia con la continua modificazione dell’io nella durée bergsoniana.

  

Foto: Aldo  Giorgio Gargani durante un intervento alla giornata di studio  tenutasi a San Servolo (Venezia) il 19 marzo 2005, organizzata dal C.I.S.P.P. (Presidente: S. Resnik), dal titolo "Luoghi e forme del paesaggio interno/esterno".

Gargani battezza metodo morfologico la procedura di Resnik: bisogna emancipare dal modello deterministico rigido il rapporto causa-effetto nelle implicazioni linguistiche, sia nell’analisi del paziente che nella risposta dell’analista (doppio transfert), e al contempo liberare il linguaggio dalle strutture denotative rigide, valorizzandone invece le procedure metaforiche, metonimiche e similitudini fonetiche. Il campo che si crea e si scopre nell’incontro analitico viene dunque collocato nell’ambito del narrativismo, nell’ottica di una costruzione della realtà che è apertura di nuovi scenari di senso. Formazioni simboliche creative daranno un nome a sensazioni, sentimenti e pensieri di cui il paziente non riusciva a rendere conto verbalmente[29]. Resnik chiama “strumentazione” il processo mediante il quale l’analista decifra il linguaggio verbale e non verbale del paziente e lo utilizza nel campo analitico. Lo sforzo linguistico dell’analista è di tradurre in parole il sistema di segni del paziente. Il sistema linguistico che si crea nel campo analitico è inevitabilmente arbitrario, in quanto creato dal campo stesso. Si tenga presente che nel lavoro di strumentazione l’analista dovrà fare i conti con identificazioni proiettive massive da parte del paziente, proiezioni di parti dell’Io nel mondo esterno, modificazioni del vissuto temporale nel senso di una sua spazializzazione meccanica, impoverimento delle facoltà percettive e cognitive.

 

Spazio linguistico e personalizzazione

Anche curando la voce Inconscio dell’Enciclopedia Einaudi, Resnik pone attenzione all’inconscio come luogo di vissuto arcaico, primitivo e legato all’esperienza corporea che cerca di farsi parola, di entrare in comunicazione. Prima ancora che con la realtà esterna, la radice primitiva dell’inconscio ha a che fare con la corporeità originaria della persona[30].

L’interazione madre-bambino offre la possibilità a quest’ultimo di formare il proprio apparato psichico e la propria capacità di comunicazione. Il processo attraverso il quale il bambino prende coscienza della propria esistenza è sempre in rapporto alla percezione dell’esistenza dell’Altro. É la personalizzazione[31] di Winnicott. Infatti il punto di partenza è uno stato di tipo confusionale, cui fa seguito una differenziazione che è separazione nello spazio, pausa del tempo e genesi del numero: originariamente come dualità bambino-madre (bocca-seno nella relazione oggettuale parziale), in seguito come “uno” del bambino e in terzo luogo il padre (tre)[32], o il capezzolo nella teoria kleiniana. Il rapporto bambino-madre, relazione di interazione reciproca, permette al bambino di elaborare e superare le ansie dello svezzamento. Riconoscere la madre in quanto persona significa per il bambino riconoscere già un distanziamento, e l’introduzione della parola “mamma” “corrisponde ad un’accettazione dell’assenza fisica della madre”(Persona e psicosi, p. 35). Tutta la biografia del linguaggio dell’Io può essere letta nella sua genesi in questo modo. Anche la parola può essere interpretata – nei suoi termini connotativi – come un fenomeno transizionale.

   Foto: D.W. Winnicott

Questa esperienza di differenziazione è indispensabile per poter localizzare nello spazio i limiti del proprio corpo: è l’ultima fase winnicottiana del processo di “personalizzazione” in senso lato, la realizzazione, la presa di coscienza dell’esistenza di un modo esterno in termini di spazio e di tempo, cifra di un rapporto con l’alterità che apre in primo luogo un rapporto con sé stessi. L’io dello psicotico invece è frammentato, disintegrato; le diverse maschere perdono il contatto e l’armonia. Per questo, talvolta il paziente vuole assumere il ruolo dell’analista[33], entrare in una maschera, travestirsi sulla base di un modello di identificazione.

La presa di coscienza di sé stessi e dell’altro nei termini di una visione globale avviene – nelle categorie kleiniane – nel raggiungimento della posizione depressiva. In questo modo il soggetto conquista un’identità personale, identità che nasce sempre in rapporto alla differenza che il rapporto con l’altro schiude. Nella posizione depressiva il seno non è più concepito dal bambino come un prolungamento della sua bocca, ma come parte di una totalità: la madre[34]. L’identificazione personale passa per la presa di coscienza dei propri confini, in un processo che è allo stesso tempo costruzione, da un’esperienza confusa verso una graduale separazione: è un’evoluzione fisiologicamente traumatica[35]. Anche lo sviluppo della categorizzazione linguistica è parallelo a questo processo, perché carpire i concetti in un orizzonte di globalità passa attraverso la loro demarcazione, e la influenza reciprocamente[36].

Resnik studia i fenomeni di dis-personalizzazione (“complesso dei disturbi del processo di personalizzazione:diventare persona”[37]). Un gruppo di sintomi della sindrome di Cotard o dis-personalizzazione comprende idee deliranti di negazione: negazione ipocondriaca della presenza dei propri organi, negazione del tempo, negazione della realtà esterna, negazione del corpo e della propria esistenza (si noti la convergenza con posizioni filosofiche di nichilismo estremo). Resnik ci spiega brevemente il significato della negazione in termini kleiniani:

     Foto: Melanie Klein

<<Melanie Klein concede al meccanismo di negazione un’importanza particolare. Lo considera una difesa specifica della posizione schizo-paranoide. L’oggetto cattivo o persecutorio non soltanto resta dissociato dal buono, ma la sua stessa esistenza viene negata, mentre gli aspetti buoni vengono esaltati o idealizzati per salvaguardarsi dalla persecuzione. Ciò che si nega non è soltanto l’oggetto, ma piuttosto un rapporto oggettuale, cioè la parte dell’Io legata all’oggetto e la parte della realtà in cui l’oggetto si proietta >> (Persona e psicosi, p. 55).

 

In questi contesti la parola dell’analista assume un valore di nutrimento, come per riempire il vuoto creato dalla negazione, l’Io svuotato dalla proiezione patologica. Non essere capaci di evocare linguisticamente significa non poter recuperare l’oggetto perduto con una sua immagine simbolica, meccanismo riparatore della posizione depressiva, non poter elaborare il lutto dell’assenza dell’oggetto.

 

Nell’ambito del racconto dell’analisi di una paziente, Resnik inserisce una serie di considerazioni di  valore filosofico[38]. La paziente in questione, che presentava una semeiotica classificabile come caso di sindrome di Cotard, giungeva a negare il proprio pensiero. Negava la parte del suo mondo interno in cui trasferiva tutto quanto c’era di penoso e persecutorio sia nel corpo che nel mondo esterno:

 

<<Il suo mondo sconvolto e sconvolgente si inscrive corporalmente come frammento di un linguaggio staccato dal suo apparato mentale e gettato nell’esteriorità>> (Persona e psicosi, p. 76)

 

Ecco che emerge la possibilità di una radice psicodinamica della tradizionale scissione fra pensiero e corpo: il corpo è da un lato il ricettacolo di tutti i vissuti penosi e inaccettabili, dall’altro il linguaggio originario essenziale. Il bambino comunica attraverso il corpo i propri desideri. Dunque il dualismo corpo-pensiero avrebbe origine – l’autore parafrasa Clifford Scott[39] - in “una dissociazione primitiva dell’Io”, allo scopo di relegare tutti gli aspetti persecutori e pericolosi nel corpo per preservare il resto, quasi in guisa di capro espiatorio. L’incontro con pazienti psicotici fa vedere da un angolo diverso tutta una serie di problemi metafisici tradizionali; in questo caso la suggestione di un parallelo con il nichilismo lascia il posto ad una interessante metacritica del problema del rapporto fra res cogitans e res extensa. In seguito l’esito di un’ideazione delirante, per cui il mondo esterno non sarebbe che un parto della mente onnipotente del paziente[40], non potrà fare a meno di richiamare – seppur fraintendendolo – l’impianto gnoseologico fichtiano.

Il rapporto col proprio corpo può subire una serie di perversioni in situazioni patologiche, che – interpretate in termini dinamici – confermano l’idea di un corpo come spazio del rapporto fra mondo interno e mondo esterno. Un’eccessiva scissione fra corpo, mondo interno e mondo esterno può essere al servizio della difesa psicotica.

A livello metodologico, l’opera di Resnik è un invito a superare la dimensione iper-specialistica tipica di molti medici. A mio avviso, dopo che la batteriologia pasteuriana ha soppiantato l’approccio volgarmente psicosomatico, la pratica di molti medici si è ancorata ad un paradigma meccanicistico superato a livello teorico, localizzando in aggressioni esterne tutte le patologie, misconoscendo quell’influenza della psiche che – invece – è ampiamente attestata perfino dalla saggezza popolare (es. rodersi il fegato, ecc...). L’espressione corporea - anche patologica - deve sempre essere interpretata come un protolinguaggio, in cui la mimica e le sue modificazioni così come l’assenza o l’eccesso di movimenti fanno parte di una semantica del corpo che fa di quest’ultimo un vettore del pensiero[41]. Ogni volta che il linguaggio della parola viene meno, l’uomo parla il linguaggio del corpo in maniera più evidente[42]. Del resto  i primi suoni che il bambino emette sono piuttosto un’espansione sonora del corpo. La lallazione si configura come un gioco nell’ambito della coppia madre-figlio, che aiuta a superare le ansie dello svezzamento. É importante, e ciò si ripercuote sulla struttura della relazione analitica, che l’adulto si adatti al modello fonemico del bambino per avvicinarglisi. La capacità ludica dell’adulto è fondamentale per insegnare a parlare, dunque ad accettare l’altro, al bambino. In quel momento, l’adulto si confronta col proprio Io infantile, rispondendo al bambino in una specie di controtransfert. Dunque non esiste un linguaggio esclusivo del bambino, ma ciò che nasce è il prodotto di un interscambio fra il mondo del bambino e quello dei genitori. L’acquisizione della strutturazione grammaticale permette all’Io di comunicare con sé stesso e con l’altro, nell’ottica di un passaggio kleiniano alla posizione  depressiva. La stessa dinamica dovrà essere ritrovata nell’ambito della relazione analitica: l’analista dovrà recuperare il proprio Io ludico per andare incontro all’Io ludico del paziente[43], strutturando così lo spazio linguistico del setting analitico.

La comunicazione presuppone una differenziazione fra colui che comunica e colui al quale il messaggio è destinato. Ora, nell’ambito della comunicazione preverbale o corporea il bambino è influenzato – l’Autore si rifà esplicitamente ai corsi di Merleau-Ponty – dal fatto di avere un’esperienza minima del suo “corpo visivo”[44]. Lo “stadio dello specchio” è un passaggio comunicativo fondamentale per la strutturazione del Self:

 

<<Le immagini parziali disintegrate o frammentate del corpo finiscono per integrarsi. Questa costruzione dinamica acquista un carattere operativo e simbolico>> (Persona e psicosi, p. 105)[45]

 

La dissociazione che ne consegue aiuta a strutturare il linguaggio come simbolizzazione, ovvero come riproduzione dell’oggetto assente. “Assumere” la parola significa accettare la distanza dell’oggetto.  La trasformazione dei suoni da gesto corporeo a espressione simbolica è dunque in relazione col processo di differenziazione. Si tratta di un’esperienza faticosa, traumatica, perché il bambino deve accettare il fatto che la parola “mamma” implica l’assenza della madre. “Il simbolo è un modello di assenza” (Persona e psicosi, p. 111). Per questo il paziente schizofrenico, incapace di vivere l’assenza, trasforma la parola in presenza concreta. Talvolta, in questi soggetti, c’è un ritorno al balbettamento infantile, ma nell’ottica di un disturbo della differenziazione, all’interno della parola, fra significante e significato: il paziente “drammatizza” l’aspetto fonico della parola, veicolandovi il significato, e prescinde così dalle articolazioni categoriali adulte. Questa impossibilità di accettare l’aspetto simbolico della parola è da mettere in relazione al rifiuto della posizione depressiva. L’intenzionalità del significante acquista comunque sempre valore nel campo analitico, ad esempio nella modulazione della voce.

Anche la strutturazione del pensiero in immagini si colloca all’interno di un processo di simbolizzazione – in senso lato - linguistico[46]. Con l’immagine il soggetto impara a sostituire l’oggetto assente. È il tempo vissuto che agisce trasformando l’esperienza spaziale dalla funzione sensorio-percettiva a quella intellettualizzata, adatta alla simbolizzazione. Lo sviluppo nel tempo – a livello di mondo interiore – dell’immagine, le apporta un valore categoriale che la rende funzionale alla riflessione. L’Autore dichiara di rifarsi a Leibniz[47]: l’immagine pensante nascerebbe da una intellettualizzazione dell’immagine sensoriale. Il controesempio lampante della riuscita di questo processo di simbolizzazione è il paziente schizofrenico, nella fattispecie l’esempio portato dall’Autore di un uomo che – pensando ad una località di mare – si recava veramente, nel suo mondo interno, in quella località. Egli non riusciva a sopperire all’assenza dell’oggetto (il mare –mer, mère) con un simbolo che ne riconoscesse, come tutti i simboli, l’assenza. Durante la lallazione e il balbettamento, il bambino attraversa infatti una fase intermedia fra il suono come espansione del corpo e la sua proiezione nella chiave di una semantizzazione del mondo esterno: si tratta della fase in cui c’è un’identità provvisoria fra suono e esperienza significativa[48]. Il linguaggio verbale, rispetto all’immagine, è portavoce di una acquisita plasticità della mente, di una specializzazione in chiave di strumentalità comunicativa.

  

Dietro il sipario il vuoto

Il linguaggio è essenzialmente un fenomeno proiettivo[49], che nello schizofrenico riveste il ruolo patologico di un mezzo per “entrare dentro” al mondo esterno, per proiettarsi nell’altro con lo scopo finale di non essere alla mercé del mondo esterno stesso e delle sue leggi. Lo schizofrenico può servirsi del linguaggio anche tentando di addormentare l’analista valorizzandone l’effetto ipnotico.

Il rischio – a mio avviso – della radicalizzazione filosofica della concezione del linguaggio come fenomeno proiettivo, è di fare di ogni sforzo di conoscenza l’applicazione di un meccanismo di identificazione proiettiva, ovvero un tentativo di inglobamento orale e digestione che esorcizzi l’alterità. Il tentativo di s-piegare l’irriducibile differenza che l’altro introduce perpetrerebbe una sorta di stupro ai suoi danni, come se per esplorare un terreno difficile lo si spianasse con le ruspe. Ovviamente non ci sarebbe più alcuna forma di com-prensione, ma soltanto una penetrazione violenta in un altro che perderebbe la sua alterità stessa nel momento della sua metabolizzazione. In questa chiave, assume le vesti di una modalità alternativa di esperienza il modello della sessualità femminile, anche se i termini di un “lasciarsi penetrare” dalla realtà rimangono fortemente problematici. Portando all’estremo gli esiti metaforici del linguaggio, diremmo che la s-piegazione dovrebbe lasciare il posto all’accettazione delle pieghe del reale.

Bergson è stato autore di una vasta critica al linguaggio nelle sue pretese conoscitive, in quanto letto come uno strumento dell’intelligenza logico-concettuale, la cui funzione pratica e utilitaristica esclude la conoscenza disinteressata per ritenere solo ciò che serve all’azione e al dominio pratico-tecnologico (funzione utilitaristica della scienza). Ma egli non ha mancato di prendere coscienza dell’estrema difficoltà della sua filosofia dell’intuizione[50], dovendone comunque renderne conto linguisticamente e concettualmente; anzi, alla fine, le sue opere maggiori presentano una concettualità piuttosto rigida. Uno sforzo veramente originale in questa direzione è stato compiuto nei testi di Jankélévitch, che pur manifestando costantemente riserve sul linguaggio verbale, si è avvalso di uno stile poetico e “musicale”, per sfiorare argomenti al limite dell’inesprimibile[51]. Per liberare il linguaggio dalle pastoie denotative che lo rendono asfittico, Jankélévitch non ha esitato a fare uso di arcaismi, a periodare alternando punteggiature frequenti con periodi “alla Proust”, a passare velocemente dal concettualismo complesso alla metafora poetica.

Ecco dunque un tentativo di seguire, simpateticamente, l’andamento complesso del reale. Invece nello schizofrenico c’è un tentativo di “colonizzazione” del reale e presa di possesso, nel senso di un’identificazione proiettiva che distrugge le possibilità di un vero rapporto conoscitivo. Ma in ogni caso, la conoscenza implica una metabolizzazione, uno svilimento di un’alterità che perde la sua specificità appena le si volge lo sguardo. Il processo noetico esclude una conoscenza diafana; è sempre in gioco una costruzione, un campo che comprende il soggetto, l’oggetto e l’attività conoscitiva. Al limite, queste tre “ipostasi” potrebbero essere solo astrazioni, funzionali allo schematismo logico-concettuale. La concezione psicoanalitica di Resnik esclude le dicotomie gnoseologiche classiche, per valorizzare filosoficamente le relazioni, i processi di elaborazione simbolica. Si abbatte la barriera fra linguaggio ed esperienza, la realtà sono questi stessi processi simbolici[52]. Tutta la nostra concettualità è una sorta di mitologia funzionale, come in Quine[53]. In ogni caso, bisognerà distinguere – come ha fatto Herbert Rosenfeld – fra processi proiettivi normali, che hanno uno scopo comunicativo e conoscitivo, e l’identificazione proiettiva patologica, che è una forma di invasione dell’altro volta ad esorcizzarne l’alterità. Lo sforzo terapeutico da compiere è di costruire nel soggetto un rapporto con lo spazio esterno che non sia di natura invasiva, tenendo presente che questa costruzione di senso avrà per il paziente l’assetto traumatico di una vera e propria rinascita:

    Foto: H. Rosenfeld

<<Il significato si sposta nello spazio all’interno di un oggetto-veicolo: il significante. Gli astronauti, all’interno dell’astronave, non comunicano con lo spazio. Lo guardano. Ma quando escono dall’oggetto contenitore, e camminano nello spazio, sono in comunicazione “fluttuante” con un aspetto dell’universo. Uscire nell’ignoto è un’esperienza ontologica altrettanto angosciosa come quella del nascere: è rinascere >> (Persona e psicosi, p. 232).

 

Uscire dall’astronave porta l’astronauta a contatto con un mondo che appare, da un punto di vista semantico, silenzioso, avulso da ogni logica rassicurante. Se i ritagli netti dei solidi nello spazio esterno sono forgiati dai limiti possibili della nostra azione, come afferma Bergson in 'Materia e memoria', lo spazio  in cui l’astronauta si tuffa con un salto kierkegaardiano ha piuttosto, nella sua dimensione di estraneità, dei tratti brumosi e oniroidi. Il sogno infatti è il tipico esempio di un “luogo” in cui il pensiero si affranca dalla categorizzazione logica classica per giovarsi di modalità alternative di estrinsecazione in forme, verbali o visive, del vissuto interiore del paziente. Resnik valorizza l’aspetto più propriamente linguistico dell’esperienza onirica: il sogno come messaggio. Sognare significa aver già assunto la capacità di simbolizzare; per questo lo schizofrenico fatica a sognare, o meglio a distinguere il sogno dalla veglia, nell’ottica di una fusione fra significato e significante che misconosce la natura comunicativa di ogni linguaggio. Nel sogno - secondo Resnik - assistiamo ad una drammatizzazione narrativa, da parte del soggetto, dei propri fantasmi. Esso fa parte dell’aspetto intracomunicativo della comunicazione: un pensiero, prima di esteriorizzarsi, deve essere formulato dentro di sé (l’Autore riprende uno schema di Marcel). Anche questo aspetto viene letto da un punto di vista metapsicologico: <<Secondo Melanie Klein l’integrazione intrapsichica dipende dalla capacità di superare le ansie paranoidi e i meccanismi dissociativi corrispondenti>> (Persona e psicosi, p. 125).

 

Ci collochiamo ancora dunque – in termini kleiniani – nel processo di passaggio dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva. Quelle che erano in principio difese dissociative diventano strumenti di simbolizzazione e categorizzazione, importanti per acquisire le discriminazioni ma anche le unità, nel mondo esterno come interno. Quando, come nel soggetto schizofrenico, le parole hanno perso il loro valore simbolico, esse sono vissute come veri oggetti, e possono rappresentare un reale pericolo distruttivo per il paziente. Talvolta in questi casi l’analista diventa un Io sussidiario che permette al paziente di esprimersi, proiettandosi in una bocca propizia: si riproduce così un aspetto della relazione bambino-madre, dove la madre “afferra e traduce ciò che il bambino sente”(Persona e psicosi, p. 145).

Ma il silenzio dello spazio cosmico è un’esperienza di solitudine radicale, per certi versi originaria. Già nell’Ottocento alcuni psichiatri avevano notato che ogni psicosi parte da una depressione iniziale, e W. Griesinger riconosceva in questa depressione intollerabile il punto di partenza di ogni disturbo mentale. Resnik traduce psicoanaliticamente questa impostazione, nei termini di un “lutto non elaborato” originario rispetto all’eziologia della psicosi[54]. Il cammino dell’esperienza psicotica parte dalla “siderazione del dolore depressivo di una perdita intollerabile”[55]. Solo ripercorrendo questo salto nel buio possiamo confrontarci con la “semantica del silenzio”: vi sono silenzi che bloccano la comunicazione e altri che l’annunciano. La musica ad esempio, può essere una forma di silenzio dal vociare quotidiano, un silenzio che fa posto a qualcosa d’altro[56]. Allora, se da un lato la nostra esistenza è come una piccola isola di festa che si staglia su un oceano di silenzio, dall’altro il silenzio può essere come un’oasi di comunicazione, come un lago incastonato fra aspre montagne. La notte, patria dell’oscurità e del mistero, è il momento in cui le voci calano, le ombre sfumano fino a svanire nell’oscurità indistinta. È il momento in cui – a teatro – si spengono le luci, e il pubblico tace quasi bruscamente: il sipario del sogno si apre.

Ciò che Freud ha studiato, il sogno come via d’accesso all’inconscio, non è scientifico nei termini di un rigido determinismo causa-effetto; non è verificabile né falsificabile. Anche il paradigma dell’efficacia terapeutica risulta forse limitante, da un punto di vista teorico. I punti di vista topico, dinamico, economico, potrebbero essere semplicemente delle costruzioni, delle narrazioni che non hanno una legittimazione epistemologica se non all’interno di un ambito in cui tutto si crea e si rielabora continuamente. Freud avrebbe aperto un ulteriore sipario in cui si metterebbe in scena uno spettacolo metateatrale: una metanarrazione della narrazione onirica. Ogni interpretazione di un sogno è una costruzione, che l’analista fa con l’aiuto del paziente, una costruzione sopra un’altra costruzione che è il sogno stesso. Raccontare il sogno di un paziente è in realtà raccontare un proprio sogno[57]. Tale costruzione deve però rispondere a criteri di funzionalità terapeutica: l’analista dovrà ispirarsi all’estetica del Bauhaus. In altre parole, spesso è inutile – prima ancora che impossibile – fornire un’analisi esaustiva del sogno, e il compito dell’analista non è di sfornare interpretazioni fatte in serie ad ogni domanda del paziente, né l’insight del paziente dovrà avere un esito di questo genere. Le costruzioni dovranno avere un senso, i quadri dovranno ricercare la propria cornice[58]. Tutta la genesi dell’apparato psichico è un processo di costruzione: “ciò che viene designato come madre reale è relativo, poiché essa è già investita di proiezioni intenzionali, e in ogni percezione c’è una proiezione fantasmatica di ognuno di noi”[59]. La maschera-persona non ottunde le capacità di attingere a una realtà psichica originaria, ma è un prodotto del processo di formazione dell’apparato psichico stesso, costruzione di simboli che interpretano anche il mondo esterno. Il linguaggio fa parte di questo processo di costruzione della realtà, di continua messa in scena attraverso quelle maschere teatrali che sono le parole[60]. Non possiamo dire nulla di una realtà esterna di cui le parole sarebbero un travestimento, perché non la incontriamo mai se non costruendola con i nostri processi simbolici[61]. E l’incontro fra il codice simbolico dell’analista e quello del paziente ha la stessa dinamica di quello stupore, di quella meraviglia di fronte al mondo che – disse il filosofo – è all’origine della filosofia, stupore come “transizione da un vocabolario all’altro”[62], da un codice all’altro. La sordità rispetto a queste transizioni è all’origine di molte incomprensioni fra correnti di pensiero. Chiaramente, vi è una prospettiva di contiguità con gli esponenti della filosofia post-analitica o neopragmatistica, quella linguistic turn che ha sancito il tramonto dell’immediately given in favore di un’ottica inferenzialista. Un evento psichico diventa cognitivo se e solo se lo sappiamo inserire in una catena di argomentazioni. Se il linguaggio verbale è soltanto una delle “forme simboliche” con cui interpretiamo-costruiamo la realtà, la grammatica del sogno sembra collocarsi ad un livello più profondo, primitivo, di una messa in scena rituale che attinge dalle viscere ontogenetiche e filogenetiche[63].

Il poeta dice:

 

La Nature est un temple où de vivants piliers

Laissent parfois sortir de confuses paroles ;

L’homme y passe à travers des forêts de symboles

Qui l’observent avec des regards familiers.[64]

 

È attraverso una foresta di simboli che l’uomo può entrare nel tempio della natura[65]; simboli viventi, che gli rendono il mondo familiare.

Perché allora forse la scena primaria ci vide registi, e non semplici spettatori, e forse il sogno è il palcoscenico in cui si recita tutte le notti l’archetipo di tutti i drammi: il dramma del taglio del cordone ombelicale, il dramma della separazione, dell’addio insito in ogni istante. Il lutto viene ritualizzato, come nella tragedia greca secondo R. Girard. Accettare il fluire del tempo significa infatti accettare la morte; per questo il tempo dello schizofrenico è paralizzato, spazializzato. Accettare l’idea di avere un corpo, assumere uno spazio mentale è un compito difficile, perché significa assumere la finitezza della propria esistenza, carpire il fluire del tempo come esperienza di lutto[66]. L’Io onnipotente infantile dello schizofrenico non può accettare la separazione, la finitezza, il tempo, la morte. La vita. 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. F. Waismann: il significato di una proposizione si evince dalla sua verificabilità.

[2] P. LUSSANA, Spazio, grammatica, tempi del sogno in Resnik e Meltzer in Forme di vita, forme di conoscenza. Un percorso fra psicoanalisi e cultura, a cura di E. Levis, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 184-191. La citazione si trova a pag. 188.

[3] Cfr. G. GOZZETTI, “Glosse” fenomenologiche sugli scritti di Salomon Resnik in Forme di vita, forme di conoscenza, cit., pp. 64-79.

[4] Cfr. A. G. GARGANI, La morfologia psicoanalitica di Salomon Resnik, Prefazione a S. RESNIK, Persona e psicosi,  Einaudi, Torino 2001².

[5] Cfr. W. R. BION, Elements of Psychoanalisis, tr. It. Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma 1979².

[6] Autore – nel corso degli anni Ottanta - di una vasta critica epistemologica della metapsicologia freudiana. Si veda I fondamenti della psicoanalisi. Una critica filosofica. Tr. It. Milano 1988

[7] A. G. GARGANI, cit. , XII

[8] Cfr. D. DAVIDSON, Paradossi dell’irrazionalità in AAVV, Studi freudiani, Guerini e associati, Milano 1989, pp. 17-41.

[9] Davidson salva il punto di vista topico come l’unica maniera possibile di spiegare l’irrazionalità di alcuni comportamenti umani: la divisione della mente in strutture semi-indipendenti, l’autonomia notevole di queste parti e le loro interazioni causali non-logiche (v. DAVIDSON, cit., p. 33-39).

[10] Cfr. F. PETRELLA, Descrivere l’esperienza clinica. Nota sull’antropofenomenologia psicoanalitica di Salomon Resnik, in Forme di vita, forme di conoscenza, cit. pp.28-37.

[11] Si veda Spazio mentale, pp. 85-6. Siamo nell’ottica di un superamento della diade classica transfert-controtransfert. Anche perché spesso gli analisti hanno idee diverse su cosa è transfert e cosa controtransfert. Cfr. LAPLANCHE, PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. I, Roma-Bari 19984 , voce controtransfert, pp. 106-8. Doppio transfert, se il transfert è l’essenza dell’esperienza analitica, allude anche alla collaborazione fra paziente e analista nel senso di una duplicità di direzioni, uno scambio che Resnik chiama interprestazione. V. anche G. GOZZETTI, cit., p. 66.

[12] Alludo naturalmente a quelle correnti che, in polemica antiriduzionista, hanno cercato negli ultimi anni di rivendicare un nucleo irriducibile nella persona che ne fa l’unicità e l’irripetibilità, nucleo che non può essere indagato coi criteri delle scienze nomotetiche.

[13] S. FREUD, cit. in GARGANI, cit., XV

[14] Cfr. A. VERGINE, Sul “limite” in psicoanalisi, in Forme di vita, forme di conoscenza, cit., pp. 99-110

[15] Da un punto di vista epistemologico tutte le teorie sono miti funzionali all’interpretazione, lo affermava Quine in The two dogmas of empiricism, ove muoveva verso una concezione pragmatista dell’epistemologia. Egli poneva l’accento dunque sulla mobilità dei nostri apparati teorici, dei nostri abiti concettuali in chiave della funzionalità pragmatica.

[16] V. A. G. GARGANI, Psiche e racconto in Forme di vita, forme di conoscenza, cit., pp. 244-257

[17] Credo che l’impianto filosofico che affianca la morfologia analitica di Salomon Resnik sia in ultima analisi di stampo fenomenologico

[18] GARGANI, cit., XVII

[19] “Il termine proiezione interna significa ‘espellere’ od evacuare nel corpo o in una rappresentazione corporea quello che non viene tollerato dalla mente”(Persona e psicosi, p. 9, nota 5)

[20] La catatonia rappresenta un terreno privilegiato per l’elaborazione di una “fenomenologia dell’intenzionalità corporea”, in quanto la povertà di espressione verbale del paziente valorizza all’estremo gli elementi non verbali (v. Persona e psicosi, p. 12)

[21] RESNIK, Persona e psicosi, cit., p. 13-14. Questa legge esprime già una forma di Super-Io primitivo, a partire dall’opera della Klein.

[22] Cfr. Spazio mentale, pp. 60-63. L’Autore riporta due esempi legati alle lacrime come momento topico di raggiungimento della capacità di assumere un grave lutto, capacità necessaria alla vita. Questo pianto ha rappresentato il turning point dell’analisi, il momento in cui iniziano a decollare la capacità di provare sentimenti, di godere e di soffrire, nel paziente; nel transfert come nella vita. Il mondo interno del paziente ha acquistato volume, si è creato uno spazio mentale.

[23] Cfr. il mito di Snegurka, la vergine glaciale, la fata delle nevi delle leggende russe, che fonde sciogliendosi in lacrime al sole della primavera. Lì è in gioco il ruolo simbolico della primavera nella liturgia pravoslava, qui si tratta di una primavera della coscienza. Si veda V. JANKÉLÉVITCH, Il non-so-che e il quasi niente, tr. It. Genova 1987, p. 279. Il tema delle lacrime come passaggio dal “rimorso” al “pentimento” è trattato dallo stesso Autore – figlio come Resnik di ebrei immigrati russi - in una prospettiva di disgelo simile a quella di cui sopra in La cattiva coscienza, tr. It. Bari 2000.

[24] Persona e psicosi, p. 15 e p. 263

[25] Sulla modellazione dello spazio mentale in base ai primi rapporti con lo spazio esterno cfr. P. FOLCH MATEU, Realtà psichica, simbolizzazione e spazio mentale in Forme di vita, forme di conoscenza, cit., pp. 80-89.

[26] Cfr. Spazio mentale, pp. 25-6. Lo spazio della relazione analitica assume le caratteristiche di un quadro (Cfr. Temps des glaciations, p. 28 e 35-6) delimitato da una “cornice analitica”(Spazio mentale, p. 30), un atelier di lavoro delimitato dall’incontro fra analista e paziente, dal ritmo e dai luoghi delle sedute.

[27] Cit. in Spazio mentale, p. 65

[28] Cfr. PETRELLA, cit., p. 34-5

[29] Per esempio, un sentimento particolare nello spazio linguistico dell’analisi può chiamarsi “tristezza” o “piccione” o “papà”.

[30] Concezione che Resnik eredita da I. Matte Blanco. Cfr. P. Bria, Inconscio e preistoria del corpo nell’opera di Salomon Resnik, Introduzione a Persona e psicosi, p. XXIX.

[31] “Il processo che permette al bambino di forgiare la propria identità attraverso il riconoscimento di quella dell’altro”(Persona e psicosi, p. 8). La personalizzazione implica il sentimento di vivere il proprio corpo, e segue secondo Winnicott un processo di integrazione dell’Io, mentre la Klein parla di un’Io primitivo esistente fin dalla nascita (ib. 33).

[32] V. Persona e psicosi, pp. 14-15

[33] V. Spazio mentale, p. 89

[34] V. Persona e psicosi, p. 110

[35] Cfr. VERGINE, cit., p. 103

[36] Come dice Robert Brandom, voler pensare un concetto solo, dal punto di vista cognitivo, è come voler applaudire con una mano sola.

[37] Persona e psicosi, p. 51 nota 1.

[38] Cfr. Persona e psicosi, pp. 76-82

[39] C. SCOTT, A problem of Ego Structure, in “The Psychoanalytic Quarterly”, XVII, n. 1, 1948, cit. in Persona e psicosi, p. 77, rif. bibliografico  a p. 83.

[40] In ogni caso il mondo, così come lo vede il paziente psicotico, è un suo parto alternativo alla percezione “normale” e intercomunicabile. Egli non accetta di negoziare col principio di realtà, il suo Io narcisistico è un demiurgo che impone i suoi poteri al mondo esterno. V. GOZZETTI, cit., p. 77.

[41] V. Persona e psicosi, p. 87 Il capitolo terzo è il resoconto dell’analisi di un caso di “negativismo catatonico”, in cui la ripresa di comunicazione col paziente avviene a livello corporeo e preverbale

[42] Conferenza di Binswanger del 1934, cit. in GOZZETTI, cit., p. 69.

[43] V. Spazio mentale, p. 33.

[44] Il corpo visivo è l’immagine che il bambino ha del corpo, attraverso il corpo altrui e lo “stadio dello specchio”, in contrapposizione all’immagine tattile sorta attraverso la cenestesi personale.

[45] Riferimenti dell’Autore: M. MERLEAU-PONTY, Les relations avec autrui chez l’enfant, Centre de documentation universitaire, Paris 1955, Parte I; J. LACAN, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, a cura di G. Contri, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol 1, pp. 87-94

[46] Linguaggio è tutto ciò che ha velleità comunicative, perché il “gioco” della fonazione che è coinvolto nel lemma stesso “linguaggio” rientra nello spazio semantico stomatologico, lo spazio orale da cui il neonato fa partire i primi vagiti, con cui introietta il primo ossigeno dal mondo esterno, con cui vive la relazione oggettuale parziale con la madre. Lo spazio buccale è allora l’archetipo di ogni forma di comunicazione.

[47] Cfr. Persona e psicosi,  p.213 nota 6 e p. 214.

[48] Cfr. Persona e psicosi, p. 215.

[49] Estremamente interessante è la teoria della Álvarez de Toledo, così come la riporta Resnik. Secondo l’Autrice “il processo di simbolizzazione della parola consisterebbe originalmente nella proiezione degli ‘organi’ e delle ‘funzioni’ sugli oggetti del mondo esterno”(Persona e psicosi, p. 116 nota 11). Dopo una fase intermedia di identificazione, l’oggetto caricato di proiezioni e spostamenti verrebbe introiettato, con rimozione degli elementi corporei corrispondenti. Rif. Di Resnik : ÁLVAREZ de TOLEDO, L. G. de, “El análisis”  del “asociar”, del “ interpretar”  y de las ” palabras”, in  “Revista psicoanalítica argentina”, XI, n. 3, Buenos Aires 1954

[50] Cfr. H. BERGSON, Pensiero e movimento, ed. it. a cura di P. A. Rovatti, Bompiani, Milano 2000, pp. 100-101

[51] In questo senso si vedano soprattutto Il non-so-che e il quasi-niente, cit., e  Quelque-part dans l’inachevé, in coll. Con B. Berlowitz, Gallimard, Paris 1978

[52] Cfr. GARGANI, Psiche e racconto, cit., pp. 246-7.

[53] Cfr. le tesi radicali di N. Goodman: “There are many different equally true descriptions of the world and their truth is only standard of their faithfulness”. Oppure: “There are many ways the world is and every description captures one of them”. Egli insiste sul carattere convenzionale di ogni visione di realtà, e propone di sostituire in epistemologia la nozione di verità di una teoria con concetti come maneggiabilità, verificabilità, potere predittivo.

[54] Cfr. GOZZETTI, cit. p 78-9.

[55] Ibid.

[56] Cfr. V. JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile, tr. It. Bompiani, Milano 1998, pp. 111-131. Secondo  Jankélévitch la musica rende meno doloroso, reiterando le melodie, il pathos dell’irreversibilità del tempo. Anche secondo Resnik, essa permette di “ricreare e sublimare un’assenza”(Spazio mentale, p. 98). Il silenzio dell’oggetto assente diventa un silenzio comunicativo. La nostalgia è in ambedue gli autori un pathos fondamentale dell’esistenza umana, nel primo come molla propulsiva per l’esistenza, nel secondo come elaborazione necessaria del lutto. È comunque presente la radice nostalgica tipica dell’anima russa, dinamizzata dal portato ebraico della diade nostalgia-speranza.

[57] Cfr. Spazio mentale, p. 85

[58] Cfr. Spazio mentale, p. 44 e figg. 2, 3 e 13 (quadri di Magritte che problematizzano il tema della cornice)

[59] Cfr. Spazio mentale, p. 46

[60] Cfr. GARGANI, Psiche e racconto, cit.

[61] Già Carnap riconosceva che se la serie delle Erlebnisse è diversa per ogni soggetto, allora la comunicazione ha senso solo in termini formali, a prescindere da un’effettiva corrispondenza contenutistica. E M. Schlick asseriva che abbiamo paradigmi grammaticali  che preorganizzano le nostre percezioni empiriche, procedure linguistiche che informano i processi esperienziali.

[62] Ib., p. 254.

[63] Cfr. LUSSANA, cit., pp.190-191. L’Autore dell’articolo approfondisce questo argomento in relazione al tema del sogno in Meltzer, e alla nozione di Chomsky di struttura profonda e struttura superficiale nel linguaggio.

[64] Charles Baudelaire, Correspondances (Les fleurs du mal, IV), vv. 1-4.

[65] È l’esito dell’epistemologia novecentesca, il “gioco” della scienza come tessitura di sistemi simbolici che creano-scoprono la natura.

[66] Cfr. Spazio mentale, p.20 e 22

 

 

 

 

Bibliografia[1]

 

 

AAVV, Studi freudiani, Guerini e associati, Milano 1989

 

Ch. BAUDELAIRE, Les fleurs du mal, in Œuvres complètes, Seuil, Paris 1968

 

H. BERGSON, Matière et mémoire, in Œuvres, PUF, Paris 20016, pp. 161-379

 

H. BERGSON, Pensiero e movimento, tr. It. Bompiani, Milano 2000

 

B. BERLOWITZ, V. JANKÉLÉVITCH, Quelque-part dans l’inachevé, Gallimard, Paris 1978

 

W. R. BION, Attenzione e interpretazione, tr. It. Armando, Roma 1973

 

W. R. BION, Gli elementi della psicoanalisi, tr. It. Armando, Roma 19792

 

S. FREUD, Al di là del principio di piacere, ed. critica a cura di A. Civita, Bruno Mondadori, Milano 1995

 

S. FREUD, Analisi terminabile e interminabile, tr. It. in Opere, vol. XI, Boringhieri 1979, pp. 497-539

 

S. FREUD, Costruzioni in analisi, tr. It. in Opere, vol. XI, Boringhieri 1979, pp. 539-555

 

S. FREUD, L’interpretazione dei sogni, ed. it. Boringhieri, Torino 1973

 

N. GOODMAN, Problems and projects, The Bobbs-Merrill Co., Indianapolis 1972

 

A. GRÜNBAUM, I fondamenti della psicoanalisi. Una critica filosofica, tr. It. Mondadori, Milano 1988

 

V. JANKÉLÉVITCH, Il non-so-che e il quasi-niente, tr. It. Marietti, Genova 1987

 

V. JANKÉLÉVITCH, La cattiva coscienza, tr. It. Dedalo, Bari 2000

 

V. JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile, tr. It. Bompiani, Milano 1998

 

I. KANT, Critica della ragion pratica, tr. It. Laterza, Roma-Bari 19937

 

J. LAPLANCHE, J.-B. PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, 2 tomi, Laterza, Roma-Bari 19984 e 20005  

 

A. LORENZER, Crisi del linguaggio e psicanalisi, tr. It. Laterza, Roma-Bari 1975

 

E. LEVIS (a cura di), Forme di vita, forme di conoscenza, Bollati Boringhieri, Torino 2000

 

W. V. O. QUINE, Two dogmas of empiricism, in “Phil. Review”, n. 60, 1951; poi in From a logical point of view, ed. Riveduta, Harvard 1961

 

S. RESNIK, Il teatro del sogno, Boringhieri, Torino 1982

 

S. RESNIK, L’esperienza psicotica, Boringhieri, Torino 1986

 

S. RESNIK, Persona e psicosi, ed. it. a cura di P. Bria, Einaudi, Torino 2001²

 

S. RESNIK, Spazio mentale. Sette lezioni alla Sorbona, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990

 

S. RESNIK, Temps des glaciations. Voyage dans le monde de la folie, Érès, Toulouse 1999

 

S. RESNIK, Voce Inconscio dell’Enciclopedia Einaudi, vol. VII, Torino 1979, pp. 263-291

 

M. SERRES, Bergson e la scienza, in “aut-aut”, dicembre 1984


[1] Non sono stati inseriti i testi citati da altri testi, di cui si è data l’indicazione nel corso dello scritto.

 

Editor sito web e responsabile editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Rivista  "FRENIS ZERO" All right reserved 2003-2004-2005

 

Copyright

Tutti i contenuti delle pagine web di questa rivista telematica  sono proprietà dei rispettivi autori. Ogni riproduzione, ri-pubblicazione, trasmissione, modificazione, distribuzione e download del materiale tratto da questo sito a fini commerciali deve essere preventivamente concordato con gli autori e con il responsabile editoriale Giuseppe Leo. E` consentito visionare, scaricare e stampare materiale da questo sito per uso personale, domestico e non commerciale.