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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Predrag Matvejevic' (Zagabria), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

 

Numero 14, anno VII, giugno 2010

Rivista di Psicoanalisi Neuro-evolutiva

(Revue of Evolutionary Neuro-psychoanalysis)

 

 

 

 

"LO SPECCHIO INFRANTO: DISSOCIAZIONE E RIFLESSIVITA' NEL SE' E NEI FENOMENI GRUPPALI"

 

 

di David W. Mann

 

 

 

 

Questo articolo è stato pubblicato in Contemporary Psychoanalysis, 44(2), 2008. David Mann è psicoanalista del Massachusetts Institute for Psychoanalysis e del Boston Neuropsychoanalysis Study Group.

La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

 

“… that which differs with itself is in agreement: harmony consists of opposing tension, like that of the bow and of the lyre” (Heraclitus, ca 500 BC)

 

 

Abstract in English

The human atom is the self; the human molecule, the relationship; the human substance, the group. I will try here to show how reflexive processes generate each of these levels of the human system and integrate them one to another, while dissociate processes tend throughout to pull them apart. Health and illness within the self, the relationship and the group can be understood as special states of the dynamic equilibria between these cohesive and dispersive trends. Both Janet’s model of dissociation and that of Freud have a place in understanding these states. The move from a biological to a relational psychoanalysis replaces sexuality with empathy as the link between the individual and the group, as well as the province of both pathogenic and therapeutic action. Such a perspective brings psychoanalytic explanation into line with key findings from neurophysiology, supporting the recently resurrected Freudian project of a unitary theory of physiologic and psychological functioning.

Key words: self, dissociation, reflexivity, empathy, psychoanalysis, neuropsychoanalysis

 

 

 Abstract in italiano

L'atomo umano è il sé; la molecola umana è la relazione; la sostanza umana è il gruppo. Cercherò di mostrare in che modo i processi riflessivi generano ciascuno di questi livelli del sistema umano e li integrano uno con l'altro, mentre i processi dissociativi tendono sempre a separarli. La salute e la malattia all'interno del sé, all'interno della relazione e del gruppo possono essere comprese come speciali stati di equilibrio dinamico tra queste tendenze coesive e quelle dispersive. Sia il modello della dissociazione di Janet che quello di Freud hanno un loro posto nella comprensione di questi stati. Il muoversi da una psicoanalisi biologica ad una relazionale fa sì che la sessualità venga sostituita dall'empatia come legame tra l'individuo ed il gruppo, così come anche nel campo sia dell'azione patogena che terapeutica. Una tale prospettiva porta la spiegazione psicoanalitica in linea con le scoperte chiave della neurofisiologia, supportando la riscoperta del progetto freudiano di una teoria unitaria del funzionamento fisiologico e psicologico.

Parole chiave: sé, dissociazione, riflessività, empatia, psicoanalisi, neuropsicoanalisi

 

La dissociazione all'interno del sé

 

 Come accade per così tante storie traumatiche, i titoli dei giornali affascinano e ripugnano allo stesso tempo:"Ragazza, 8 anni, trovata sepolta viva".  Stordita ma intrappolata, continuiamo a leggere:

<<La ragazza di 8 anni, che era stata violentata e sepolta viva, ha detto di ricordare il suo aggressore mentre si ergeva sopra di lei prima che lei svenisse ed ha atteso ben sette ore, sotto un cumulo di pietre e di blocchi di cemento all'interno di un deposito della spazzatura, prima di udire le voci dei soccorritori.

[Secondo un amico di famiglia]:"Disse che l'ultima cosa che ricordava era che lui la esaminava con lo sguardo con quei grandi occhi e allora lei disse che andava a dormire. Lei disse che ci stava aspettando perché la trovassero... non appena arrivò la polizia  contorse le dita>>"(Barton, 2005).

Svenuta e in attesa? Come possono coincidere queste due azioni? Una stessa mente non può fare entrambe le cose allo stesso tempo. Al contrario, costretta a mantenere due stati reciprocamente incompatibili, la mente deve suddividere, lasciando un tema letteralmente di due menti, simultaneamente addormentata di fronte alla violazione del proprio corpo e pazientemente in condizione di anticipare segnali di soccorso, di preparare la risposta dei soccorritori.

Una divisione della coscienza così radicale richiama alla mente molti stati psicopatologici caratterizzati da profondi livelli di dissociazione - fuga, amnesia, paralisi funzionale e personalità multipla, per nominarne alcuni - eppure qui si manifesta in una persona precedentemente normale sottoposta ad un'eccezionale grado di coercizione violenta. Su questo punto Sigmund Freud ed il suo precursore, Pierre Janet, fondamentalmente avevano visioni contrapposte. Janet riteneva che la mente si dissociasse nel trauma solo se predisposta attraverso una qualche forma di debolezza mentale, innata o acquisita. Freud, al contrario, pensava che una "mente indebolita" non fosse una precondizione necessaria per la dissociazione, ma che la coscienza si potesse frammentare ogniqualvolta il conflitto pulsionale sfociasse nell'azione dirompente di altre forze mentali che operano nel bandire un tale conflitto dalla coscienza. Per Freud, cioè, la dissociazione non era il contrassegno di una mente difettosa, ma di una mente che è al lavoro su altri piani - nel preservare un equilibrio che è in quel momento più importante della coscienza.

Freud più di una volta ha riconosciuto che <<la teoria psicoanalitica non  fallisce in alcun modo nell'indicare che le neurosi hanno una base organica>>(Freud, 1940), ma allo stesso tempo egli ha visto con favore ciò che in seguito Sullivan avrebbe chiamato l'Ipotesi di un Solo Genere, ossia l'idea per cui, qualsiasi fosse la loro base organica, gli stati psicopatologici rappresentano tratti universali dell'uomo portati al loro estremo. Il tenere in mente entrambi questi punti di vista (che si abbia o meno in questo modo la dissociazione attiva  richiesta da parte di Freud) ha permesso a Freud di estendere la psicoanalisi oltre la fenomenologia clinica verso una teoria più generale della psicologia umana che egli ha cercato di stabilire. Per precisare ciò da un più ampio punto di vista: dato che le nostre pulsioni basilari ci pongono inevitabilmente in una condizione di conflitto - l'uno contro l'altro oppure all'interno di noi stessi - dobbiamo trovare dei modi di vita nonostante tale conflitto pulsionale. Tra questi modi, uno dei più primitivi e perciò dei più universali consiste nell'espellere dalla coscienza le pulsioni in conflitto, un processo che Freud ha chiamato   'verdrangt', "rimozione". Così, per Freud, non una mente che manca di integrazione, che cade a pezzi in condizioni di stress, ma la rimozione di pulsioni antitetiche lascia il marchio nella coscienza nelle "dissociazioni psichiche" e nella "scissione della mente" che  caratterizza la nevrosi (1913, p. 208). Come potremmo dire oggi, la rimozione del sentimento produce dissociazione della mente. Forse nel modo più significativo, questo modo di evitare l'"ipotesi del difetto" di Janet ha anche aperto a Freud la dimensione terapeutica della psicoanalisi: se il conflitto che genera rimozione crea dissociazione, allora ripercorrerlo e trovare una nuova e migliore modalità di risolverlo offre la prospettiva di una cura psicoanalitica.

Forse a causa di tali promesse terapeutiche, come anche per la sua ampiezza intellettuale e la sua presentazione letteraria sempre affascinante, la prospettiva di Freud eclissò quella di Janet per gran parte del secolo che fece seguito alle loro contrastanti posizioni. Perciò, fino a tempi molto recenti, il discorso sulla rimozione ha oscurato quello sulla dissociazione se non solo in poche aree specializzate del discorso psicologico. Per svariati decenni passati, tuttavia, la corrente maggioritaria degli psicologi e degli psichiatri ha abbandonato la nosologia psicodinamica di Freud a favore delle diagnosi descrittive del DSM-IV - basato su quadri sintomatologici piuttosto che su cause presumibilmente psicodinamiche. Allo stesso tempo, tanto le opinioni dei  profani che quelle dei professionisti hanno visto con favore una versione dell'ipotesi della "mente indebolita" di Janet. La predisposizione genetica, gli squilibri biochimici e cose simili hanno finito di nuovo per prevalere sulle spiegazioni psicodinamiche del disturbo e del disagio psichico.

Di conseguenza, il modello imperante di cura pone minore enfasi sull'analisi e su una nuova risoluzione del conflitto, piuttosto che sulla ricerca di agenti biochimici che potrebbero sostenere l'ipotesi di un cervello presumibilmente difettoso. Non voglio sottintendere che questo approccio sia sempre sbagliato; ma solo che, persino quando esso è corretto, esso è incompleto. Esso guarda verso i principi più universali del funzionamento mentale che collegano gli stati psicopatologici alla normalità. Con la diagnosi sindromica, anziché eziologica, e con l'implicita ipotesi dell'esistenza di specifici e innati difetti che predispongono a specifiche malattie mentali, abbiamo perso la visione di una proposta di ricerca di più ampio respiro quale quella formulata da Freud per comprendere i meccanismi, senza alcuna considerazione per le cause.

Gli psicoanalisti contemporanei si trovano a lavorare a livello di una frattura tra la visione di Janet e quella di Freud. I loro pazienti, e spesso loro stessi, credono che ci sia qualcosa di organico che non va nel cervello e che sia alla base dei sintomi con cui si confrontano. Eppure l'approccio organicistico del "mettere una toppa alla bell'e meglio" non produce un grande sollievo. I farmaci possono diminuire i sintomi d'ansia e di depressione, ma i modelli di vita che producono conflitto e sofferenza sono molto più difficili da eliminare. In realtà, senza la sofferenza, i pazienti possono perdere l'incentivo al cambiamento. Vorrei spiegare ciò con un esempio.

Un paziente venne in consultazione dopo aver assunto fluoxetina per 13 anni. Prima di iniziare il trattamento farmacologico era stato "depresso con manifestazioni suicidarie". Con il farmaco si era sentito bene, ma la moglie lo aveva trovato insopportabile e talora sinistro. Egli ne dava la colpa al farmaco: "E' come un liberatore dal dolore", mi disse, "tu non sai dove sei ferito, così tu continui a sentirti ferito e non guarisci mai". Il trattamento di quest'uomo ha richiesto un tempo eccezionalmente lungo - ci incontriamo regolarmente da circa 20 anni - ma nel corso di esso, non proprio il suo modo di vivere, ma piuttosto l'intera storia della sua vita si è trasformata. Proprio come suggeriva Freud, abbiamo imparato il perché egli si sentisse e si comportasse come faceva per così tanto tempo, e come potesse andare diversamente. <<Scrivere prescrizioni è facile>> scriveva Kafka <<ma pervenire ad una comprensione con le persone è difficile>>(1919, p. 140).

Gli psicoanalisti contemporanei trovano anche nuovamente utile il concetto di dissociazione. Come termine descrittivo, non in senso eziologico quindi, esso utilmente descrive  molti stati della mente, senza tener conto se li concepiamo come segni di fragilità cerebrale, prodotti della rimozione, cicatrici del trauma o se abbiano qualsiasi altra origine. La dissociazione descrive uno stato, non una causa, e quindi segnala un ritorno allo spirito della teorizzazione di Freud - solo con l'enfasi che da una  presunta causa (rimozione) si è rivolta al risultato osservabile, ossia "uno sconvolgimento delle funzioni normalmente integrate della coscienza, della memoria, dell'identità o della percezione dell'ambiente"(DSMIV, 1994). Nei circoli psicoanalitici oggigiorno si sente di rado parlare di rimozione (o, per lo stesso motivo, persino di inconscio), ma molto spesso di "stati del sé dissociati". E le scoperte terapeutiche di cui sentiamo arrivano, non più col ritorno del represso, ma con l'integrazione di ciò che è dissociato. E' questo null'altro che un capriccio terminologico? La dissociazione non è altro che la nuova rimozione? Per un certo riguardo, sì. Quando impieghiamo un solo e sempre lo stesso termine per riferirci ad uno stato mentale, al processo che lo rappresenta ed ad un miscuglio di fenomeni vaganti che sembrano poco più che tematicamente correlati tra di loro, lo stiamo usando in modo altrettanto impreciso di quando lo utilizzavamo nel vecchio gergo. Se usiamo il termine con l'intenzione, tuttavia, di racchiudere un insieme prima disparato di stati psichici e di processi che ora riconosciamo come manifestazioni di un principio di gran lunga più generale del metabolismo mentale, allora la nostra sintassi potrebbe aprire la strada per una più accurata concezione dell'argomento di discussione. 

Forse in modo più efficace di chiunque altro Philip Bromberg (1998) ha avanzato l'ipotesi che la dissociazione giochi un ruolo fondamentale nella vita mentale più di quanto non si riconoscesse in precedenza. <<La capacità della mente umana di limitare a scopo adattativo la propria capacità autoriflessiva>> egli scrive <<è il contrassegno della dissociazione>> (p.7). In altre parole, la nostra capacità auto-riflessiva cede alla dissociazione sotto l'influenza di pressioni adattative. Ciò non è qualcosa di diverso dalla formulazione di Freud, se si sostituisce lo specifico meccanismo della rimozione con quello di "adattamento" in generale. Io sono d'accordo con Bromberg, e vorrei estendere questa formulazione in due direzioni. La prima consiste nel proporre che tutta l'esperienza di sé, tanto normale quanto patologica, emerga dalla tensione dinamica tra riflessione, che costituisce il sé, e dissociazione, che lo delimita. Nella seconda direzione suggerisco che una simile situazione prevalga tra sé individuali in relazione tra di loro e tra sé e gruppi a cui appartengono. Nel seguito di questo articolo cercherò di illustrare tali nozioni. Nel corso di esso indicherò certe scoperte neuroscientifiche che suggeriscono una possibile fisiologia di tali processi, dando di nuovo uno sguardo all'originale progetto di Freud di una teoria unitaria del funzionamento fisiologico e psicologico.

 

 

(fine della prima parte dell'articolo che verrà pubblicato nella sua interezza in un volume di prossima uscita per le Edizioni Frenis Zero)

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

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