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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività
Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness 

  

 

 "UNA CASA PER IL CUORE". Il trattamento IN “hopital de jour”delle psicosi INFANTILI. 

 

di Giuseppe Leo

 

 

Foto: una veduta di Strasburgo (Francia)

<<Un’istituzione, come un essere umano, è corpo e anima; e come un essere umano dovrebbe essere conosciuta per le sue azioni. Se il corpo e l’anima non sono in armonia, se l’uno serve male l’altro, ci saranno conflitto e frustrazione.>>

 

 

<<L’ambiente terapeutico dovrebbe essere progettato in modo tale da sottrarre gli eventi al caso, sottoponendoli invece a una pianificazione e a un esame minuziosi e realizzando in tal modo una sana integrazione della personalità fondata su una risoluzione permanente di quei conflitti o di qualunque cosa sia stata all’origine del conflitto.>>

 

 

B. Bettelheim, “A home for the  heart” (1974) 

PREMESSA

Foto: interno dello S.P.E.A. dell'Elsau (Strasburgo)

     

Il richiamo all’opera di Bruno Bettelheim ( a cui allude anche il titolo di questo articolo) ci porta ad affrontare una questione cruciale che si ripresenta ogni qualvolta “pensiamo” un luogo come dotato di potenzialità terapeutiche: è il problema dell’”isomorfismo” tra integrazione psichica, come fine del trattamento, ed integrazione istituzionale, come mezzo dello stesso. Se accogliamo il suggerimento di Bettelheim, l’istituzione per essere terapeutica deve avere alla base una <<chiara comprensione di ciò che ha causato il disturbo psicologico e delle particolari esigenze emotive che devono essere soddisfatte>>. (Bettelheim, op.cit., 1974). Riferirsi ad una certa teoria eziologica dell’autismo, ad es., implica necessariamente predisporre una determinata organizzazione del Servizio che sia coerente con gli assunti di partenza. Una cosa è partire, a proposito dell’autismo infantile, da un approccio “difettuale” (autismo come modalità di funzionamento mentale dovuto a lacune nelle diverse funzioni neuropsicologiche), altra cosa, invece, è concepire i sintomi come risultato di un processo difensivo che <<miri a proteggere il soggetto da una disorganizzazione dovuta agli afflussi eccitatori>> (Hochmann, 1990)[1]. L’”anima” istituzionale, a cui fa riferimento Bettelheim, è in gran parte una metafora di quel nucleo di teorie, di derivazione psicodinamica, che conferiscono “senso” al sintomo psicotico. Dare “senso” non significa automaticamente “conoscere le cause iniziali” del disturbo, bensì accedere, nonostante il ripiegamento autistico, ad una comprensione delle angosce massive a cui deve far fronte il bambino. Se non tutti i grandi psicoanalisti infantili si sono preoccupati, come hanno fatto ad esempio, B. Bettelheim e M. Mannoni, di creare dei luoghi istituzionali di cura fortemente impregnati delle riflessioni teoriche e delle tensioni ideali dei loro fondatori, tuttavia ciascuno dei differenti approcci psicodinamici alla psicosi infantile può costituire un punto di partenza per riconoscere al bambino psicotico lo status di soggetto nel processo di cura. La psicoanalisi, quindi, non solo apportatrice di “senso” nei confronti dell’oggetto di studio (il funzionamento mentale del bambino psicotico e dei contesti che intorno a lui si muovono), ma anche  reperage” del soggetto. E' utile, a questo punto, richiamare una  breve rassegna delle teorie psicoanalitiche concernenti le psicosi infantili, per poterne valutare la capacità di dare “senso” al lavoro in ambiente istituzionale[2]. In seguito, passeremo alla trattazione delle principali caratteristiche del trattamento istituzionale delle psicosi infantili, sulla base delle osservazioni effettuate nel 1994 dall’autore presso gli “hopitaux de jour”  del  “Service Psychotherapeutique pour Enfants et Adolescents” (S.P.E.A.) di Strasburgo (Direttore: Prof. Claude Bursztejn) .

Lo “hopital de jour” è un centro semiresidenziale aperto cinque giorni alla settimana dalle ore 9.00 alle ore 15.30 che accoglie bambini affetti da patologie gravi (tra cui l’autismo infantile) provenienti dal “settore”[3] di riferimento (uno o più Comuni, a seconda della loro estensione) e suddivisi per fasce di età [4].

 

Par. 1: Concezioni psicodinamiche delle psicosi infantili.

   Foto: M. Klein

Tra i fondatori della psicoanalisi infantile, Melanie Klein non ha in realtà elaborato una teoria delle psicosi infantili, al contrario di alcuni suoi allievi come la Tustin o Meltzer. La Klein ha ipotizzato l’esistenza in tutti i lattanti, della posizione schizoparanoide, mostrando delle analogie tra questa e la patologia psicotica dell’adulto. Ciò che spiegherebbe una mancata risoluzione della posizione schizoparanoide (e la conseguente “fissazione”) sarebbe un deficit di gratificazioni provenienti dall’”oggetto buono” esterno (la madre): ciò si tradurrebbe in una eccessiva intensità dei processi difensivi primordiali di scissione e delle angosce persecutorie. Se a ciò si aggiunge l’incapacità di introiettare, durante la posizione depressiva, l’oggetto totale e di mantenere delle identificazioni stabili con gli oggetti d’amore reali o interiorizzati, la “fissazione” alla posizione schizo-paranoide potrà essere un elemento favorente un movimento regressivo psicotico. Le critiche che sono state mosse alla Klein hanno riguardato soprattutto la scarsezza dello spazio accordato alla dimensione storica (storia dei conflitti vissuti come continuità di un dramma individuale, secondo la concezione di S. Lebovici e di E. e J. Kestemberg) ed alla realtà esterna nella relazione bambino-genitore. La Klein parla di seno, di oggetto, ma non a sufficienza di madre, di inconscio materno, di padre, di triangolazione.

  Foto: D. Meltzer 

Prendendo l’avvio dall’opera di M. Klein, di Bion (col concetto di funzione materna come “contenente” e capace di “reverie”) e della Bick (coll’idea di una “pelle” contenente come fattore di organizzazione  del sé), Meltzer attribuisce al processo autistico un’assenza di vita mentale, caratterizzato da uno “smantellamento” degli oggetti introiettati. Lo smantellamento, responsabile della dissociazione tra le varie modalità sensoriali, deriverebbe dal fallimento primario della funzione di contenimento dell’”oggetto” materno: l’esperienza di essere contenuto è indispensabile perché si formi un sé contenente attraverso dei processi di identificazione o introiezione dell’oggetto contenente. Ma non solo sono condizioni di origine materna (depressione o “disattenzione”) che possono lasciare il lattante in periodi più o meno lunghi di attività non mentale, bensì anche fattori che <<appartengono molto più intrinsecamente al bambino>> e che sono solo <<modificati da una “falla” dell’ambiente>> [ Meltzer D., Bremner J., Hoxter S., Weddell S., Wittenberg I., “Explorations dans le monde de l’autisme”, Payot, Paris, 1980 (edizione inglese 1975) (cit. in M.H. Ledoux, “Conceptions psychanalytiques de la psychose infantile”, PUF, Paris, 1984)] Meltzer parla a questo proposito di una “predisposizione ossessiva” del bambino, nel senso di una difesa nei confronti dell’angoscia sotto forma di fantasmi di controllo onnipotente degli oggetti. Il fallimento iniziale della funzione di contenimento e l’incapacità del bambino di identificarsi coll’oggetto contenente condurrebbero ad una confusione tra essere all’interno ed essere all’esterno dell’oggetto, all’impossibilità di introiettare un oggetto con un interno, e quindi di un sé contenente. La scissione, secondo Meltzer, si manifesta secondo la modalità particolare dello smantellamento delle componenti sensoriali del sé: in questo senso, <<l’oggetto ed il sé sono segmentati: sé che gusta, che vede, che sente; oggetto materno che ha un sapore, che ha un odore>> (Meltzer, 1980, op.cit.).  Nell’autismo fa difetto l’identificazione introiettiva, che consente di stabilire un mondo interno e di far fronte alla separazione degli oggetti esterni: la “quadridimensionalità” della psiche corrisponde all’utilizzazione di tale meccanismo.  Caratterizzano, invece, l’autismo l’identificazione proiettiva (tridimensionalità) e l’identificazione adesiva (bidimensionalità): quest’ultimo meccanismo porta ad una dipendenza dall’oggetto (concepito come non separato), ad una identificazione per imitazione (e non per introiezione), alla non differenziazione tra animato ed inanimato, tra umano e non umano nella percezione degli oggetti, all’”aggrapparsi” ed all’”aderire” agli oggetti, evitandone la  mutabilità.

  Foto: F. Tustin

Per Frances Tustin <<... l’autismo patologico è un arresto o una regressione, ad uno stadio primario dello sviluppo, in cui il soggetto resta fissato>> (Tustin, 1972)[Tustin F., “Autisme et psychose de l’enfant”, Le Seuil, Paris, 1977 (edizione inglese 1972) (cit. in Ledoux M.H, op.cit., 1984)]. Quindi, esisterebbe un “autismo fisiologico” della prima infanzia, suscettibile di essere superato o, al contrario, di predisporre all’autismo patologico. Nell’”autismo normale” originario il bambino ha la percezione che tutto sia prolungamento del proprio corpo. La rottura evolutiva  della continuità corporea (e della equivalente continuità lingua-seno) conduce all’esperienza di un “buco nero” persecutorio (corrispondente ad uno “stato depressivo psicotico primordiale”) di fronte al quale, a scopo difensivo, il bambino cerca  di ripristinare l’illusione della continuità originaria. E’ la qualità della relazione madre-bambino (e non tanto la madre o il bambino in sé) che consente di sostenere il lattante durante questa fase di depressione “psicotica”, evitando l’approdo all’autismo patologico. <<Nella prima infanzia, l’assenza di discriminazione nel lattante e l’adattamento della madre, grazie ad una identificazione empatica, sotto forma di “reverie” con lui, permettono di ridurre il fossato (generatore di esplosione) tra illusioni primitive e realtà. Questa reciprocità empatica mantiene l’illusione di una continuità corporea e permette alla coppia madre-bambino di adattarsi progressivamente all’idea di separazione che comincia a profilarsi vagamente >> (Tustin, 1972, op.cit.). La Tustin, a proposito dell’autismo patologico,  ne differenzia tre quadri: l’autismo primario anormale, l’autismo secondario “a carapace”, l’autismo secondario regressivo. L’autismo primario anormale è un prolungamento anomalo dell’”autismo primario”, dovuto ad assenza totale o parziale di cure materne. Alla base dell’autismo secondario “a carapace” ci sarebbe un rifiuto delle cure materne, come conseguenza di una difesa nei confronti dell’angoscia insopportabile della separazione corporea: il risultato è un processo di incapsulamento, di ripiegamento del bambino su se stesso. Mentre nell’autismo primario anormale si avrebbe un appiattimento delle differenze tra io e non-io, nell’autismo secondario “a carapace” esse si intensificano ed esplodono a tal punto da richiedere una barriera nei confronti del non-io. L’autismo secondario regressivo è, poi, il risultato di uno sviluppo fino ad allora quasi normale, ma con delle basi precarie, essendo una parte della personalità rimasta autistica. Se fino ad un certo momento dello sviluppo si notava una iperadattabilità del bambino alla madre, sotto l’effetto di avvenimenti traumatizzanti, si ha l’esplosione del processo regressivo con intensificazione dei meccanismi di identificazione proiettiva (al fine di proteggere parti di sé dentro oggetti esterni ‘affidabili’). Quest’ultima categoria di autismo viene anche denominata dalla Tustin ‘schizofrenia infantile’. In definitiva, per la Tustin, <<se il bambino prende coscienza della perdita della mammella prima di essere capace di una rappresentazione interiore degli oggetti assenti, avrà l’impressione che questo ponte (sul fossato che separa madre e lattante) sia rotto. E’ ciò che sembra prodursi nel bambino autistico che vuole evitare la ripetizione di tale esperienza dolorosa>> (Tustin, 1972).

  Foto: D.W. Winnicott

Donald W. Winnicott riconosce l’importanza di un ambiente “sufficientemente buono”, capace di rispondere ai bisogni del lattante, nell’assicurare il “sentimento della continuità dell’esistenza” nel bambino. All’interno dell’unità originaria madre-lattante, la capacità adattativa della madre è assicurata da una “preoccupazione materna primaria”, uno stato di disposizione particolare all’ascolto delle richieste del bambino. Pur potendo il lattante partire da condizioni di un ambiente sufficientemente buono, tuttavia a poco a poco scopre l’esterno. Dapprima il bambino entra nella fase dell’”illusione”, <<stato intermedio tra l’incapacità del bambino piccolo a riconoscere e ad accettare la realtà e la sua capacità crescente a farlo>>. Questa fase fisiologica e necessaria in cui il bambino ha il sentimento che la realtà esterna sia frutto delle sue capacità di creazione, è caratterizzata dal possesso di “oggetti transizionali”, esperienza intermedia tra l’erotismo orale e la relazione oggettuale vera e propria, tra realtà interna ed esterna. L’oggetto esterno, paradossalmente, per essere creato deve essere trovato. Successivamente il bambino entra nella fase di “disillusione”, che sarà attraversata tanto meglio quanto più la madre aveva consentito possibilità di illusione. Per quanto riguarda l’origine della psicosi, negli anni 1950-1960 Winnicott pensa allo scarso adattamento materno durante i primi mesi di vita del bambino come causa di tendenze difensive di scissione che gli permettano di fronteggiare l’invasione dell’esterno. E’ questa la tesi in “Psicosi e cure materne” del 1952. A differenza della Klein, Winnicott riconosce che <<è la ricostruzione dell’ambiente e dei suoi fallimenti che potrà chiarire>> quella parte dello sviluppo del soggetto che la Klein aveva trascurato (Winnicott, 1961). La psicosi infantile risale ad uno stadio anteriore all’Edipo, quello della relazione duale <<prima che il padre o un altro terzo entri in scena>> (Winnicott, 1963), essendo l’angoscia fondamentale né quella di separazione né di castrazione, ma di annichilimento.

  Foto: D.W. Winnicott

Nel 1962 compare l’articolo “Integrazione dell’io nel corso dello sviluppo del bambino”, in cui Winnicott introduce il concetto di “angoscia impensabile” sul bordo della quale si troverebbe il lattante. Nel 1974 nell’articolo “Fear of breakdown” la psicosi viene considerata <<una organizzazione difensiva legata ad una agonia primitiva>> (Winnicott, 1974), dove per “agonia primitiva” si intende (Ledoux, 1984):

-         un ritorno ad uno stato non integrato (difesa: la disintegrazione);

-         il non cessare di cadere (difesa: l’auto-mantenimento);

-         la perdita della collusione psicosomatica, il fallimento dell’esperienza di risiedere nel corpo (difesa: la depersonalizzazione);

-         la perdita del senso del reale (difesa: utilizzazione del narcisismo primario);

-         la perdita della capacità di stabilire una relazione oggettuale (difesa: stati autistici, lo stabilire delle relazioni unicamente con dei fenomeni scaturiti dal sé).

   Foto: M. Mahler

Margaret Mahler concepisce la psicosi infantile in termini di fissazione, di regressione rispetto alle prime fasi dello sviluppo. Ma, a differenza della Tustin, la Mahler non parla solo di una fase autistica normale, ma anche di una fase 'simbiotica' che si estenderebbe fino al 9°-11° mese e cesserebbe con l'inizio della fase di individuazione-separazione. Vengono ad essere descritti dalla Mahler due quadri sindromici distinti, la 'psicosi autistica' e quella 'simbiotica', anche se a partire dal 1951 la differenziazione si fa meno netta e più in termini di predominanza di un'organizzazione difensiva anziché un'altra.

Nella sindrome autistica mancherebbe la rappresentazione della madre come entità esterna, ed essa viene 'sentita' come un prolungamento del proprio corpo. La mahler parla a questo proposito di "atteggiamento difensivo", di "sdifferenziazione", di "perdita della dimensione animata". Nella sindrome simbiotica esisterebbe la rappresentazione della madre, ma senza un confine netto tra sé e non sé. Le esperienze di separazione possono avere degli effetti eclatanti, secondo la Mahler: il bambino, sentendo minacciato il suo senso di onnipotenza all'interno della 'bolla' con la madre, ricorre a tutta una serie di comportamenti sintomatici che sono un tentativo di 'restituirlo' alla fusione originaria. <<Nella psicosi simbiotica, la restituzione è tentata mediante dei deliri somatici e delle allucinazioni di riunione all'immagine materna onnipotente, narcisisticamente amata ed odiata, o talora mediante una fusione allucinata ad un'immagine condensata di padre-madre>> (M. Mahler, "On human symbiosis and the vicissitudes of individuation", 1968). <<...il problema centrale nel caso della psicosi infantile è dunque un deficit o un fallimento nell'utilizzazione intrapsichica da parte del bambino del partner 'maternante' durante la fase simbiotica e la sua conseguente incapacità di internalizzare la rappresentazione dell'oggetto 'maternante' per una polarizzazione. Senza ciò la differenziazione del sé dalla fusione simbiotica e dalla confusione con l'oggetto parziale non si può effettuare. In breve, è una cattiva individuazione o un'assenza di individuazione che si trova nel cuore della psicosi infantile >> (M. Mahler, op. cit., 1968). 

Foto: J. Lacan

La scuola di Lacan si è occupata della psicosi infantile soprattutto con Françoise Dolto, con Maud Mannoni e con Denis Vasse. Ciò che accomuna questi autori è la centralità del linguaggio e della funzione simbolica nella costituzione del soggetto, l'importanza per esso di avere un posto nella vita fantasmatica dell'altro, il situare il soggetto all'incrocio del desiderio e del rimosso genitoriale. Anziché parlare di maturazione, di fasi di sviluppo, di storia, questi autori collocano il sintomo all'interno di una rete di significanti, di un ordine simbolico: è la 'struttura ' che ha più peso rispetto al tempo.

  Foto: F. Dolto

Per la Dolto l'autismo è una perdita degli 'ormeggi' simbolici che sono necessari nella relazione con l'altro. Anche il cambiamento, nella vita del lattante, della figura che dispensa le cure è traumatizzante nella misura in cui nulla venga detto, poiché il bambino ha bisogno, oltre che di continuità di relazione, anche di parole, ed in particolare di parole 'personalizzate'. La psicosi del bambino viene collegata ad una patologia della dinamica libidica dei genitori. Si tratta di genitori in cui il complesso di Edipo non è stato risolto, e quindi ognuno di essi non è sicuro della propria appartenenza sessuale. L'io ideale del bambino ha difficoltà a svilupparsi a causa dell'inconsistenza del rivale edipico.  Tali genitori nevrotici, secondo la Dolto, in preda a paralizzanti angosce di castrazione, non possono che 'fissarsi' sul figlio di cui colpevolizzano ogni tentativo di autonomizzazione. se è l'edipo dei genitori la causa della psicosi infantile, è una prospettiva trigenerazionale che bisogna adottare: <<Sono necessarie dunque tre generazioni perché appaia una psicosi: due generazioni di nonni e genitori nevrotici nella genetica del soggetto, perché egli sia psicotico>< (F. Dolto, "Le cas Dominique", 1971).

Per Denis Vasse la psicosi infantile è figlia della 'perversione' dei genitori. Questa consiste nella 'derisione del linguaggio', che nega la 'Legge' e confonde il bambino. La 'Legge', il cui dominio è coestensivo a quello della parola che divide e nomina, limita e dà ordine alla pulsione, articolandola al desiderio dell'Altro. La perversione genitoriale confonde le parole, ne deride il riferimento ad una Legge e ad un Altro, lasciando il bambino nella posizione di oggetto di manipolazione dell'immaginario materno ed aprendo la strada alla psicosi.

Passiamo ora a due autori che hanno curato particolarmente l'aspetto dell'integrazione tra teoria 'etiologica' della psicosi infantile e concezione dell'ambiente istituzionale: Bruno Bettelheim e Maud Mannoni. In entrambi si ritrova una preoccupazione di fondo comune, quella di creare un luogo di vita per i bambini psicotici. Le differenze sono marcate sia sul piano della teoria patogenetica delle psicosi sia per quel che concerne la specificità del piano terapeutico istituzionale.

  Foto: B. Bettelheim

Bettelheim, il quale sperimentò personalmente la prigionia nei campi di concentramento nazisti, fa esplicito riferimento, parlando dell'autismo, al concetto di 'situazione estrema'. <<Il libro "The informed heart" (1960) discuteva, fra molti altri problemi, che cosa significasse essere rinchiusi in un campo di concentramento nazista. Spesso, confrontando le mie reazioni a certi eventi con quelle di miei collaboratori, mi resi conto  che le mie erano fortemente influenzate dall'esperienza di essere stato alla mercé di altri che credevano di sapere come dovevo vivere, o piuttosto che non dovevo vivere (...). L'esperienza del campo di concentramento mi consentì infine di capire la schizofrenia. 

Non sono stato capace di rendermi pienamente conto di queste due esperienze finché le ho tenute distinte. Col tempo, quando mi resi conto della loro interconnessione, potei meglio rendermi ragione di entrambe >> (Bettelheim, 1974, dall'introduzione di "A home for the heart"). Secondo Bettelheim, il bambino autistico percepirebbe il mondo come insensibile ai propri sforzi, alle proprie reazioni: ciò potrebbe essere in rapporto non specificamente con una mancanza di reazioni soddisfacenti ai bisogni precoci del bambino ( come è il caso, ad es., della 'sindrome da ospedalizzazione precoce' descritta da Spitz), ma spesso, ammette Bettelheim, i loro bisogni essenziali sono stati soddisfatti al punto che il mondo non è stato per loro dall'inizio una "pura frustrazione". Egli crede che alla base della chiusura autistica ci sia, da parte del bambino, un'interpretazione corretta dei sentimenti negativi che hanno nei suoi confronti le persone del suo 'entourage'. Ma la posizione di Bettelheim a proposito del ruolo dei genitori nella patogenesi dell'autismo è molto articolata, apparentemente contraddittoria. Nella "Fortezza vuota" (1967) egli afferma che <<non è l'atteggiamento materno che crea l'autismo, ma la reazione spontanea del bambino a tale atteggiamento>>,  e più avanti, <<l'immagine della madre distruttrice (la strega divoratrice) è la creazione  dell'immaginazione del bambino, benché tale immaginazione abbia origine nella realtà, ossia le intenzioni distruttive del personaggio materno>>. Quindi sembrerebbe che, da una parte, l'autismo venga concepito come difesa nei confronti di una percezione soggettiva della madre come distruttiva, ma l'aspetto immaginativo sarebbe in qualche modo giustificato sul piano della realtà. Bettelheim si spinge oltre, nello stesso libro, ammettendo: <<Lungo tutto questo libro, sostengo che il fattore che precipita il bambino nell'autismo infantile è il desiderio dei suoi genitori che egli non esista>>. Tuttavia, egli si mostra perplesso circa la possibilità di enucleare le 'cause prime': quello di cui è persuaso è l'importanza capitale delle reazioni della madre di fronte al ritiro del bambino e <<sebbene gli atteggiamenti materni davanti al ritiro del suo bambino siano capitali, non possiamo dedurre che essi l'abbiano provocato >> (Bettelheim, 1967, op.cit.).

Nella 'storia naturale' dell'autismo infantile la prima tappa sarebbe costituita da una 'perdita di regole comunicative' tra il lattante e la madre: ciò può essere dovuto ad una errata interpretazione dei messaggi da parte del bambino o ad una sua confusione per evitare una risposta.  Questa iniziale 'patologia della comunicazione' sarebbe dovuta ad un'angoscia schiacciante: quando questa diventa intollerabile per il bambino, il contatto con la realtà viene tagliato, l'io diviene insensibile, 'nega' il mondo esterno. Il ritiro indebolisce l'immaginazione, svuota la capacità di investire il mondo esterno che perde di interesse come cosa da osservare e da agire. Il bisogno di non fare e di proteggersi dall'agire viene sentito come fondamentale per l'esistenza stessa, e l'io va incontro ad una 'atrofia da non uso'.

L'approccio terapeutico di Bettelheim, accanto all'ispirazione psicoanalitica, si caratterizza per un orientamento umanistico nel promuovere la capacità di ascolto rispettoso di questi bambini. << Così, al centro del nostro lavoro non c'è un sapere particolare o un metodo in quanto tale, ma c'è in noi, così come noi siamo, un atteggiamento interiore verso la vita e verso coloro che sono sopraffatti dalle sue lotte >> (Bettelheim, 1967, op.cit.). Ma oltre a queste doti individuali di chi è impegnato nel processo del trattamento, Bettelheim ravvisa una serie di condizioni, un luogo in cui possa venire alla luce una ristrutturazione della personalità, un ambiente sufficientemente 'buono' in modo che il bambino reinvesta affettivamente l'esterno. Tale luogo è un qualcosa d'altro rispetto al contesto familiare: perché il bambino possa tentare di uscire dalla 'corazza' che lo protegge dalla disintegrazione è necessario un ascolto continuo, una coerenza di propositi che solo un terapeuta che <<si offre in carne ed ossa in quanto (...) oggetto permanente, onnipresente >> può fare in modo che <<la sua personalità possa unificarsi intorno a questa immagine... >> (Bettelheim, 1967, op.cit.). Il posto della psicoanalisi è insostituibile nell'offrire un modello di funzionamento non solo mentale, ma anche istituzionale. E' anche vero, però che le finalità dichiarate del trattamento tradiscono una concezione umanistica della presa in carico che è anche 'prendersi cura' della persona. L' accento posto sugli scopi dell'istituzione (far 'rinascere' il paziente, rispondere ai suoi bisogni), sull'orientamento della cura (favorire l'autostima, il sentimento che la vita valga la pena di essere vissuta, rivivere delle esperienze 'buone', persuadere i pazienti che preoccupazione continua del personale è rispettare ogni loro forma di espressione ) testimonia l'adesione di Bettelheim ad una radicale concezione della vita prima ancora che ad una teoria psicopatologica e psicoterapeutica.

Maud Mannoni è uno dei principali esponenti della scuola psicoanalitica lacaniana: questa discendenza teorica verrà coniugata, nella pratica terapeutica, con l'influenza dell'antipsichiatria (R. Laing e D. Cooper). Nel posto che accorda al linguaggio ed al registro simbolico è vicina alla Dolto: il bambino prima di poter parlare è immerso in un mondo di significanti che ne situano la posizione nel mondo, prima di essere nato  egli ha un posto nel desiderio genitoriale, in un discorso collettivo. L'appropriazione del linguaggio da parte del bambino significa emanciparsi dal discorso alienante che su di lui ed intorno a lui è stato tenuto 'ab initio', conquistare lo statuto di soggetto svincolato dal desiderio dell'altro. Se si nasce sempre all'interno di un ordine simbolico precostituito, se si viene al mondo sempre come oggetto di desiderio dell'Altro, è necessario che tale Altro accordi al bambino lo statuto di essere desiderante, perché egli possa divenire soggetto. Nel caso dei bambini psicotici, l'analisi del mondo fantasmatico genitoriale può svelare un desiderio, un 'voto' mortifero che fissa il bambino nella posizione alienante di oggetto: <<Il suo avvento come soggetto dipende dal desiderio genitoriale di lasciarlo nascere oppure no allo stato di (soggetto) desiderante >> (M. Mannoni, "L'enfant, sa maladie et les autres", 1967). Ed ancora precisa: <<Se la risposta materna dà al bambino l'impressione che è respinto come soggetto desiderante, egli resterà identificato all'oggetto parziale, oggetto della domanda materna >> (Mannoni, 1967, op.cit.). Il bambino come oggetto parziale occupa un luogo fantasmatico imposto dall'Altro al fine di colmare una mancanza in genere della madre: egli per esistere, per essere pensato deve restare nel desiderio materno in funzione di significante di un difetto. Se la madre non ha accettato la mancanza del fallo, dice la Mannoni coerentemente con Lacan, il bambino ricopre il ruolo per lei di un fallo simbolico, di prolungamento del corpo materno. Facendo il bambino parte del corpo materno, ogni separazione sarà vissuta fantasmaticamente come un attentato all'integrità narcisistica del corpo materno. L'investimento narcisistico del bambino come continuazione del proprio corpo, fa sì che la madre crei uno spazio in cui egli non può accedere alla situazione triangolare dell'Edipo e quindi all'ordine simbolico. Se l'io del bambino non può venire alla luce se non dopo l'ingresso di un terzo, il padre, la 'castrazione' è espressione di una rottura, operata dal padre, della fusione duale originaria. E' attraverso la 'castrazione' che il bambino ha accesso al simbolico, che nasce alla vita: è la 'castrazione' il corrispettivo simbolico della 'Legge', del 'Nome del Padre', la cui interdizione fondamentale è il divieto dell'incesto. <<Il destino dello psicotico>> scrive nell'articolo del 1967 "La psychotherapie des psychoses chez l'enfant" <<non si fissa tanto a partire da un avvenimento reale perturbante quanto a partire dal modo in cui il soggetto è stato ecluso da uno o l'altro genitore da una possibilità di entrare nella struttura triangolare>>. L'importanza di collocare il sintomo psicotico all'interno di un linguaggio familiare implica il coinvolgimento dell'"entourage" nel lavoro psicoterapeutico: qui la Mannoni si discosta decisamente da Bettelheim. Il trattamento del solo bambino è sterile, così come un lavoro di aiuto educativo ai genitori, o le psicoterapie parallele del bambino e della madre fatte da due analisti distinti. E' l'ascolto del discorso genitoriale il quadro in cui procedere nella cura del bambino. La psicoterapia se deve permettere al bambino di dare parole al proprio desiderio, di inserirlo come soggetto in una catena significante sottraendolo alla posizione di oggetto del desiderio genitoriale, deve contemporaneamente aiutare i genitori a colmare il vuoto lasciato dall'oggetto assente, il bambino.

E' con la creazione dell'istituzione di Bonneuil, nel 1969, che la Mannoni mette le proprie idee alla prova della pratica istituzionale. A Bonneuil non si fa psicoanalisi individuale, ma tutto ciò che si fa è basato sulla psicoanalisi. L'istituzione è una struttura di accoglienza, luogo di vita che consente tanto l'aprirsi quanto il ripiegarsi. E' la dialettica interno-esterno, assente-presente uno dei caratteri fondamentali di Bonneuil. L'esistenza di un luogo istituzionale e di un altrove (i luoghi dei soggiorni esterni) richiama il gioco tra presenza ed assenza, fondamentale nel processo di personalizzazione del bambino che <<diviene soggetto nella misura in cui è l'oggetto assente >>. E' in relazione all'assenza, ad una perdita per il bambino (ma anche per la madre) che <<una possibilità è data a ciascuno di metaforizzare il proprio rapporto con l'altro >> (Mannoni, "Education impossible", 1973).

Per la Mannoni l'istituzione non è, come per Bettelheim, una buona madre che gratifica i bisogni narcisistici, che è capace di offrire ai pazienti un'immagine sufficientemente buona del mondo esterno, di contenere le loro angosce di frammentazione tramite una presenza (meglio onnipresenza!) continua del personale. In realtà, una tale struttura si configura come un'"istituzione totale", almeno nel senso che <<(...) tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità >> (E. Goffman, 1968). Bettelheim, a proposito dell'"Orthogenic School", se da una parte difende in modo non sempre convincente il suo progetto di un ambiente terapeutico totale (<< se l'istituzione total è impegnata non nella carcerazione bensì nella terapia sui pazienti, sarà terapeutica >>), dall'altra parte sembra esservi mosso da una consapevolezza quasi religiosa che per riuscire in un'impresa così ardua sia necessaria una pianificazione rigorosa, escludendo qualsiasi fattore casuale di disturbo. L'ambiente terapeutico assume i contorni di una madre buona o di una famiglia estesa, in cui non c'è spazio per la famiglia reale: <<Perché un ambiente sia veramente terapeutico, esso deve proteggere il paziente finché questi sia in grado di far fronte, nel corso di confronti potenzialmente distruttivi, con le figure del suo passato che hanno contribuito a questa incapacità di affrontare la vita >> (Bettelheim, 1974, op.cit.). Al contrario, Bonneuil è un luogo aperto, in cui i bambini ritornano quotidianamente a casa propria. <<Bonneuil non è un luogo in cui rinascere ma piuttosto un luogo di vita>> dice Ledoux, cogliendo il fatto che per Bettelheim l'autismo, derivante da una 'situazione estrema', richieda condizioni 'estremamente' pianificate per non incontrare lo scacco terapeutico. Bonneuil non funziona come una micro-società così marcatamente 'altra' rispetto alla realtà esterna, ma include l'"altro" e l'"altrove" (attraverso i soggiorni all'esterno).Il registro su cui si lavora non è quello del soddisfacimento di 'bisogni narcisistici' , il raggiungimento dell'autonomia e dell'autostima, ma quello di far emergere il bambino come soggetto che desidera. I laboratori a Bonneuil sono luoghi di regole di comunicazione, di una ritualità legata al 'fare' in un contesto di scambi di tipo simbolico.  Il divieto non dev'essere imperniato su una relazione duale ( col rischio di una regressione del bambino ad una condizione di oggetto-prolungamento della madre), ma bisogna che sia riferito ad una 'Legge' in cui vige il principio della mutualità.

   

Par. 2: Il quadro istituzionale dello “hopital de jour”: tempi e luoghi.

 

Il funzionamento dello “hopital de jour” si basa sul rispetto di certi tempi, certi ritmi istituzionali la cui permanenza ha un preciso scopo terapeutico. Gli orari dello “hopital de jour” tendono a ricalcare quelli scolastici, permettendo così al bambino di differenziarsi il meno possibile, da questo punto di vista, dai suoi fratelli e coetanei del quartiere. La regolarità con cui giornalmente il bambino alterna la vita in famiglia a quella nell’ambiente di cura è un’opportunità di cui non potrebbe beneficiare se vivesse in internato in un centro residenziale. La sua giornata è infatti scandita da una ritmicità (essere pronto alla fermata dell’autobus, entrare nel “gruppo di vita”, fare colazione, partecipare alle attività di gruppo, al pranzo, ecc.) che fa parte della funzione “contenente” dell’istituzione e del suo valore di “limite” in senso psicoterapeutico.

Altro fattore terapeutico che contraddistingue il funzionamento dello “hopital de jour” è l’alternanza tra permanenza e discontinuità nella presa in carico. Mentre l’educatore, colui che condivide col bambino la maggior parte della vita nel gruppo (il cosiddetto “gruppo di vita”), assicura una presenza permanente, altre figure come lo psicoterapeuta, lo psicomotricista o il logopedista intervengono in momenti prestabiliti della giornata secondo durate fisse, determinando una rottura nella continuità temporale ma anche spaziale della vita in istituzione del bambino.

In realtà ci sembra importante come avvenga questo passaggio. Dato che il bambino psicotico ha già familiarità con vissuti di frammentazione del sé, è necessario introdurre tra le varie attività terapeutiche un “tessuto connettivo” che unisca ma anche differenzi luoghi differenti ed interlocutori differenti. Perché il bambino, come dice Hochmann (1990, op.cit.), possa vedere nella successione dei diversi momenti istituzionali un film anziché una serie di diapositive senza alcun nesso tra di loro, non sono sufficienti le sole riunioni d’”equipe”. Queste sono importantissime per la comprensione del bambino da parte degli operatori che con lui lavorano, ma è necessario che <<tale comprensione sia anche condivisa dal bambino>> e perciò <<è importante che gli elementi di collegamento tra le opposizioni significative dei diversi spazi o attività  che formano ciò che si può analogamente chiamare il “discorso istituzionale” siano rappresentati dal va e vieni reale ... da un luogo all’altro, della persona che è maggiormente investita da lui>> (Hochmann, 1990, op.cit.). Quindi far accompagnare il bambino dall’educatore ‘referente’ nei suoi cambiamenti di luogo e di attività (psicoterapia, logopedia, psicomotricità, laboratori, ecc.) contribuisce a creare uno “spazio transizionale” tra la presenza “maternante” dell’educatore e le altre figure del quadro istituzionale.

La continuità delle funzioni assicurate dagli educatori può significare  per un bambino psicotico che non lo si lascia “cadere”. Frances Tustin[5] ha mostrato che questi bambini manifestano in analisi il fantasma spaventoso di “cadere in un abisso senza fine” ed ha posto in relazione ciò col vissuto del lattante di non sentirsi sufficientemente contenuto dalla madre. 

Foto: Frances Tustin

Come sottolineano P. e C. Geissmann <<l’educatore deve restare consapevole che questa permanenza non significa eternità: durante la presa in carico il bambino evolve, può darsi che reclamerà altre figure di riferimento ad un certo punto, o almeno si può pensare che egli avrà bisogno di altre figure. D’altronde, per l’igiene mentale dell’educatore del gruppo, al termine di un tempo molto lungo consacrato ad un bambino (tre anni, ad es.) è talora necessario dargli il cambio>> (P. e C. Geissmann, 1984)[6]. L’organizzazione dello “hopital de jour” non esige un impegno ed una dedizione assoluta da parte dei membri del personale, come invece auspicava Bettelheim: questi addirittura riteneva che <<quanto maggiore è il numero dei membri del personale che vivono all’interno dell’istituto, tanto meglio>> e che <<un’istituzione che è anche una casa per una parte significativa del personale, e particolarmente per quei membri che lavorano a più stretto contatto coi pazienti, è ancora più una casa per i pazienti>> (Bettelheim, 1974, op.cit.). Ora, uno degli aspetti più terapeutici dello “hopital de jour” sembra essere il suo configurarsi come contesto per una relazione “maternante” tra educatore e bambino, relazione che comunque è e deve essere volontaria, di tipo professionale e che non impegna l’educatore fuori dalle mura dell’istituzione. La figura dell’educatore, che è permanente ma non onnipresente nella vita quotidiana del bambino, introduce così nella relazione con lui un fattore di “limite” temporale che ha per quest’ultimo valore strutturante. Ciò sembra ricalcare ciò che avviene nella relazione madre-lattante in cui è attraverso la successione di allontanamenti e di ritorni della madre che il bambino impara ad accettare la sua assenza.

 

Par.3: Il ruolo dell’educatore nello “hopital de jour”.

 

L’educatore, <<essendo chiamato a svolgere contemporaneamente  il ruolo di sostituto genitoriale e quello di educatore – nel senso lato del termine – è necessario che abbia una formazione che gli permetta di acquisire da un lato una conoscenza ed un sentimento profondi delle relazioni interpersonali, e dall’altro la conoscenza dei principi pedagogici>> ( Buckle, Lebovici,  Tizard, 1964)[7]. In realtà l’educatore, nei confronti del quale i bambini sviluppano il cosiddetto “transfert genitoriale”, oltre ad avere una comprensione profonda del bambino che a lui è affidato, deve saper comprendere le proprie reazioni alle difficoltà che insorgono in questa relazione. Il suo ruolo è ambiguo: se da una parte egli deve osservare l’”equipe” e, secondo le proprie osservazioni, indirizzarne gli sforzi terapeutici, dall’altra deve ugualmente partecipare dall’interno alla vita del gruppo e saper regredire, in certi momenti, con esso.

  Foto: Serge Lebovici

Sempre secondo Buckle, Lebovici e Tizard (1964, op.cit.) i compiti istituzionali dell’educatore sono i seguenti:

<< 1) Comprendere il bambino e le sue reazioni all’interno del gruppo, il suo atteggiamento verso gli adulti, così come i propri atteggiamenti verso il gruppo di adulti che lavorano nell’istituzione;

2) Conoscere i bisogni del bambino nell’istituzione, essere capace di subentrare ai genitori e mettere in piedi un programma di attività;

3) Dare alla propria azione un carattere educativo e professionale, occupandosi dei divertimenti dei bambini e dei laboratori, così come organizzando degli spazi di ricreazione per loro>>.

Hochmann (1990, op.cit.) connota in modo originale la relazione terapeutica tra il bambino psicotico e l’educatore: è attraverso una “seduzione” che quest’ultimo può <<costruire uno spazio di comunicazione possibile>>, laddove nello psicotico il <<comportamento ben lontano dal mettere in scena simbolicamente le angosce profonde ha per funzione essenziale di negare, annullare o distruggere qualsiasi possibilità di simbolizzazione>>. E’ attraverso degli atti che, inizialmente, questa “seduzione terapeutica” si manifesta: l’educatore cerca con discrezione di entrare in comunicazione col bambino attraverso la corporeità, e risponde ai gesti del bambino con altri gesti che all’inizio hanno un carattere imitativo. L’importanza dell’imitazione “differita” e “transmodalizzata” (ad es., imitazione di un suono mediante un gesto, o viceversa) è stata rilevata da Daniel Stern[8] nella relazione madre-lattante come possibile precursore dell’attività simbolica. <<Nella misura in cui egli traduce in una modalità un gesto espresso in un’altra, o ancora riproduce un gesto trasformandolo leggermente, egli annuncia la possibilità di rappresentare-ripresentare (in francese “re-presenter”, riportare al presente) ciò che non c’è più ed introduce, di conseguenza, in un modo tollerabile un riferimento al tempo che passa con cui sottintende la separazione. L’oggetto del tempo (t+1) non è in effetti più l’oggetto del tempo t, riconoscerlo come cambiato ed allo stesso tempo come permanente è già astrarre la sua permanenza dalla successione dei cambiamenti, è dunque considerarlo ad una certa distanza, in senso etimologico, “teorizzarlo”, e staccarsi dall’adesività alla sua concretezza e dalla compulsione della ripetizione >> (Hochmann, 1990, op.cit.).

  Foto: Jacques Hochmann 

Ma di cosa l’educatore deve parlare col bambino psicotico? Per Hochmann, egli <<parla col bambino di ciò che (l’educatore) fa, di ciò che egli (il bambino) fa e del senso che la sua “illusione anticipatrice” scopre negli atti ancora privi di senso>> (Hochmann, 1990, op.cit.). Parlare col bambino psicotico significa stimolarlo a provare piacere nell’uso della voce e del pensiero, ma anche utilizzare la funzione di “para-eccitazione” che la parola in generale possiede. Attraverso la parola l’educatore crea una sorta di “involucro sonoro”, che lo avvolge insieme al bambino e che protegge quest’ultimo dalla riattualizzazione di conflitti o di angosce distruttive che non è in grado ancora di gestire.

Ad una certa fase del rapporto educatore-bambino, quando le difese autistiche si sono attenuate grazie alla “seduzione” operata dal “maternage”, il raccontare delle storie al bambino  lo aiuta ad accedere al pensiero simbolico. Il racconto trae la sua terapeuticità non dal suo grado di “verità” (non è un’interpretazione psicoanalitica), ma dal suo valore “estetico”. Il bambino, identificandosi con l’educatore, può provare lo stesso piacere nell’inventare e nel narrare una storia, potendo arrivare a raccontare se stesso alla fine. Costruire una storia richiede il rispetto dei vincoli logici della causalità, dell’ordine temporale degli eventi, significa creare un apparato di contenimento delle angosce di annientamento e di frammentazione del sé.

 

Un aspetto importante da considerare è il senso da dare al termine “cura” a proposito del lavoro in gruppo degli educatori. Se il “prendersi cura” equivale alla creazione di un “contenente”, di una “bolla”, di uno spazio fisico e mentale in cui ciascun bambino possa trovare sicurezza, che rapporto ha il lavoro così inteso dei “soignants” con le altre forme di “cura” rappresentate nell’istituzione, ed in particolare con la psicoterapia?

Intanto, va detto che ciò dipende, in gran parte, dall’”anima” (cfr., Bettelheim, 1974, op.cit.) istituzionale: se questa ha un carattere “riadattativo” oppure “psicoterapeutico” (P. & C. Geissmann, 1984, op.cit.). Nel secondo caso, sono possibili differenti posizioni teoriche. Per la scuola kleiniana, ad es., non si può parlare, a rigor di termini, di “funzione psicoterapeutica degli educatori”. Hanna Segal così dichiarava: <<Diffido delle istituzioni (...) che hanno delle ambizioni terapeutiche, analitiche o pseudo-analitiche, come ambiente per un malato che è in psicoanalisi: credo che gli interventi pseudo-analitici verso il malato, sempre confusi, svalorizzino l’intervento psicoanalitico dello psicoanalista>>.

All’estremo opposto troviamo le posizioni di chi <<rivendica al contrario per tutti i membri l’uso generalizzato degli strumenti specifici della psicoanalisi, in particolare dell’interpretazione (...)>> (Mises, 1980)[9]. In realtà, Mises, sostenitore  di un rispetto del valore insostituibile di ogni professionalità all’interno dell’”equipe”, intravede i rischi dell’uso “selvaggio” dell’interpretazione: <<Riteniamo solamente che la funzione educativa – in senso lato nelle sue differenziazioni – si dissolva nell’ipertrofia sommergente dell’individuazione del senso e della sua manipolazione ripetitiva >> (Mises, 1980, op.cit.). Egli pensa di risolvere il problema in questi termini: <<In contraddizione con l’uno e l’altro di questi orientamenti, per noi la cura comporta allo stesso tempo una “dimensione educativa” che poggia sul coinvolgimento diretto, sul sostegno portato al bambino, sull’apertura a nuove esperienze, ed una “dimensione psicoterapeutica” che poggia sulla comprensione e l’elaborazione degli investimenti reciproci, secondo i diversi piani che autorizza un approccio dinamico d’orientamento psicoanalitico. La partita si gioca nel legame dialettico situato tra queste due dimensioni senza che si abbia tra esse rottura o confusione>> (Mises, 1980, op.cit.). Insomma, ci sembra di condividere in toto quest’ultima affermazione, in quanto si può dire che qualsiasi membro dell’”equipe soignante” che condivida nell’istituzione il lavoro in un “gruppo di vita” svolga una funzione psicoterapeutica nella misura in cui è <<impegnato in una ricerca di significati, una valutazione dei fattori dinamici, una riflessione sul posto che egli occupa nei suoi tentativi personali di approccio al bambino e nella trama istituzionale considerata in senso più ampio. In questo modo, non c’è da un lato un personale incaricato esclusivamente di organizzare la vita quotidiana e di promuovere delle azioni educative mentre, da un altro lato, degli psicoanalisti che realizzerebbero degli approcci che soli meriterebbero di essere chiamati psicoterapeutici. Al contrario, tutti gli adulti che operano nell’istituzione sono interamente impegnati nello svolgimento della cura>> (Mises, 1990)[10].  Gli educatori non devono rinunciare a ciò che ha di specifico la loro professionalità per snaturarla in una presa in carico che, a ogni pié sospinto, faccia interpretazioni che si vorrebbero “psicoanalitiche”: parlare attorno al bambino non significa pronunciare le parole più efficaci in vista dell’”insight”, ma creare quell’”involucro sonoro” che, come dice la Chiland (1974)[11], indichi al bambino lo stato di “buona salute” dell’”equipe”. Spesso, persino per lo psicoterapeuta <<il silenzio in buona salute può essere la sola risposta positiva, mentre l’interpretazione viene a volte anni più tardi>> (Chiland, 1974, op.cit.). Se il compito “psicoterapeutico” dell’educatore consiste nell’aprire al bambino opportunità di nuove esperienze partendo dalle situazioni quotidiane, nel trasmettergli un atteggiamento rassicurante, nel rilanciare, come dice Mises (1990, op.cit.), un movimento che parta dal bambino o sia ripreso da lui, esso richiede, tuttavia, un impegno comune di tutti i “soignants” di individuare un senso nelle dinamiche relazionali, di dare valore ad una presenza, di reperire nella relazione col bambino psicotico punti di apertura e accentuazioni di difese, di svelare richieste laddove la parola si nega. Gli psicoterapeuti dell’istituzione hanno un posto centrale in quest’opera continua di chiarificazione delle “linee di forza” (Mises) che sono in gioco nelle relazioni tra educatore e bambino, e le riunioni dell’”equipe” dei “soignants”  costituiscono lo spazio riconosciuto perché le comunicazioni siano condivise da tutti gli interessati.

  Foto: Rogier Mises

 

Par. 4: Le attività nei “gruppi di vita” : il gioco e l’area           transizionale.

 

Nonostante nello “hopital de jour” ogni bambino abbia, all’interno del suo “gruppo di vita”, un educatore “referente”, il gruppo si propone di accrescere le possibilità di scambi relazionali tra le persone che lo costituiscono. Il rischio che bisogna evitare è che nel gruppo si creino delle coppie bambino-educatore “privilegiate”, che favoriscano l’insorgenza di stati regressivo-fusionali massivi nella diade. Di fatto molti bambini accolti “in hopital de jour” manifestano richieste affettive rivolte sempre verso lo stesso adulto: per quest’ultimo è sempre molto difficile occuparsi ad un dato istante di uno o due bambini e contemporaneamente continuare a “restare nel gruppo”. In alcune istituzioni si è cercato di risolvere il problema stabilendo un rapporto di 1:1 tra educatori e bambini di ciascun gruppo, ma ciò sembra maggiormente favorire quegli stati regressivi di cui si parlava sopra. Fenomeni di regressione che sono analoghi a quelli che si possono verificare nella relazione duale psicoterapeuta-bambino psicotico durante le sedute, in cui però la strutturazione del “setting” costituisce un utile fattore di protezione. Relazioni “simbiotiche” tra bambino e “soignant” possono obbedire a profondi bisogni psicologici di quest’ultimo, come rileva Jean Kestemberg (1974)[12]: <<Una presa di possesso, da parte del “soignant”, del malato a cui egli ha dato molto >> conduce ad una <<”depersonificazione” di questo stesso malato. Da individuo venuto nell’istituzione, egli è diventato oggetto di soddisfacimento, di disappunto o di scambio, destinato a contribuire al buon funzionamento interiore del “soignant”, come al buon funzionamento interno dell’istituzione, divenuto anche per essa stessa il suo fine. L’individualità del malato, la sua persona, la sua uscita dall’istituzione, vengono perse di vista e rimandate ad un orizzonte lontano di cui si sa l’esistenza ma a cui non si crede affatto (...)>>.

Il modello che ci sembra di condividere, sperimentato negli “hopitaux de jour” di Strasburgo, è quello in cui gli educatori di norma propongono le attività educative a tutti i bambini del gruppo, favorendo la possibilità che ciascun bambino possa interagire col maggior numero possibile di persone, adulti ma anche bambini. Ci sembra a questo riguardo importante la composizione del gruppo: gli “hopitaux de jour” di Strasburgo non accolgono solo bambini psicotici, e ciò indubbiamente aumenta le opportunità per gli educatori di rinforzare i “canali comunicativi” tra i bambini dello stesso gruppo. In Francia esistono anche esperienze di “hopitaux de jour” per soli bambini psicotici o autistici, e ci sono autori (Geissmann C. & P., 1984, op.cit.) che sostengono che <<la presenza di bambini non psicotici nello “hopital de jour” porta a privilegiare le relazioni degli educatori con essi, a scapito delle relazioni coi bambini più disturbati>>. Alla luce dell’esperienza di Strasburgo ci sembra, invece, che nonostante questo rischio ci possa essere l’eterogeneità nella composizione dei gruppi abbia un sicuro valore terapeutico.

Ma cosa significa per gli educatori proporre delle attività ai bambini? L’atteggiamento degli educatori di un’”equipe”, a questo riguardo, può oscillare tra gli estremi dell’assenza di regole e del sovra-investimento della “dimensione psicoterapeutica” da un lato, e dall’altra dell’”attivismo” esasperato. Alcuni degli educatori con minore esperienza vorrebbero avere delle istruzioni precise (dagli educatori più anziani o dai medici) sul “cosa fare nel gruppo”, reagendo con apprensione ad ogni appello fatto alla loro personale creatività. In realtà, se l’educatore deve padroneggiare tutta una serie di tecniche educative, dovrebbe focalizzare la propria riflessione più che sul “cosa fare” sul “come fare”. Come dice Mises (1980, op.cit.), <<ciò che introduce la dimensione psicoterapeutica non sono gli strumenti tecnici codificati in anticipo, ma l’uso che se ne fa>>. L’”attivismo” degli educatori ha come conseguenza negativa che nel gruppo alcuni bambini possono seguire “meglio” l’educatore nel suo attivismo di altri che finiscono per essere esclusi da una qualsiasi forma di relazione con l’adulto. E’ bene quindi che durante le riunioni d’”equipe” si affrontino frequentemente questi argomenti, tenendo presente che <<le attività, la vita di gruppo sono là per servire di sostegno alla funzione psicoterapeutica dell’educatore>> (P. & C. Geissmann, 1984, op.cit.).

In questa direzione, l’atteggiamento mentale degli educatori di fronte ai bambini del gruppo dovrebbe essere improntato alla nozione “winnicottiana” di “gioco”[13]. “Giocare” in questa accezione non significa dirigere le attività, proporle in modo autoritario, ma offrire una grande quantità di materiali possibili, permettendo al bambino di scegliere ciò che a lui “conviene” all’interno di un dato quadro spazio-temporale. In questo senso è possibile che si crei un’area transizionale, come dice Winnicott, tra la creatività primaria e la percezione oggettuale basata sull’esame di realtà. Come dice Cahn[14] (1978), l’educatore <<deve mostrare una presenza non intrusiva e favorire tutto ciò che può essere dalla parte del bambino (...) iniziativa, azione, scoperta, oggetto di manipolazione o di gioco, d’interesse spontaneo, di espressione simbolica, verbale, artistica, di curiosità, di conoscenza, a condizione che il movimento parta da quest’ultimo o a lui sia presentato senza costrizione>>.

  Foto: D.W. Winnicott

L’esigenza di educare il bambino psicotico pone una serie di interrogativi impegnativi. Gli educatori si sentono “pressati” dalla necessità che il paziente impari a mangiare da solo, a badare all’igiene  personale, ecc., e questi apprendimenti spesso vengono acquisiti al prezzo di favorire nel bambino una costituzione tipo “falso sé” (Winnicott), fondata sulla sottomissione e sulla iperadattabilità alle richieste ambientali. E’ questa la ragione per cui tutta una serie di “programmi educativi” (ad es. il T.E.A.C.C.H.) che siano adottati senza la preliminare preoccupazione di permettere al bambino di entrare in relazione con l’oggetto totale, possono portare a delle acquisizioni non sufficientemente integrate  in una personalità ancora in preda alla scissione, tutt’al più a delle “sovrastrutture pseudo-ossessive” di personalità.

 

Par. 5: La funzione di “contenente” nell’istituzione.

 

Abbiamo visto come sia gli educatori sia il quadro spazio-temporale dello “hopital de jour” funzionino da “contenente” per il bambino psicotico. Quest’ultimo, secondo Bion, mediante identificazione proiettiva tende a proiettare negli oggetti parti scisse di sé che finiscono per animare la realtà esterna di oggetti persecutori. Questi oggetti, sempre secondo Bion, sono costituiti dagli elementi “beta”, frammenti di pensiero non utilizzabili: colui che “si prende cura” del bambino psicotico deve non lasciarsi invadere da tali oggetti, ma contenerli, metabolizzarli e rinviarli al bambino in forma ‘assimilabile’. E’ un fenomeno analogo a quello della “reverie” materna nella relazione madre-lattante.

  Foto: W.R. Bion

Il riferimento a Bion può essere utile nel chiarire le dinamiche che i ‘soignants’ si trovano a fronteggiare in occasione di episodi di aggressione fisica da parte di bambini psicotici.

La distruzione dell’arredo e dei locali deve essere fermamente impedita non per ragioni meramente economiche, ma perché degli ambienti sporchi e degradati non possono assolvere alcuna funzione ‘contenente’. Tuttavia, in occasione di tali episodi di violenza clastica i ‘soignants’ devono evitare di colpevolizzare il bambino, ed impegnarsi, magari aiutati dagli altri bambini del gruppo, a riparare, per quanto possibile, gli oggetti danneggiati.

Per i bambini autistici, poi, la funzione di ‘contenente’ deve essere pensata in modo differente. E’ necessario accennare a tal riguardo ai lavori di Esther Bick sulla funzione contenente della pelle. Per la Bick, << nella loro forma più primitiva, le parti della personalità sono sentite come prive di alcuna forza legante tra di loro e devono di conseguenza essere mantenute insieme, in un modo che sia vissuto passivamente da esse, grazie alla pelle funzionante come una frontiera. Ma tale funzione interna di contenimento delle parti del sé, dipende inizialmente dall’introiezione di un oggetto esterno sentito come capace di assolvere tale funzione>> (Bick, 1968)[15]. E’ quindi necessario un contenente esterno che possa essere introiettato perché uno spazio interiore possa fare la sua comparsa, e la pelle viene a significare tale contenente esterno.

Didier Anzieu ha introdotto, invece, il concetto di “io-pelle”. Esso indica <<(...) una figurazione di cui l’io del bambino si serve durante le fasi precoci del suo sviluppo, per rappresentarsi  come io, a partire dalla sua esperienza della superficie corporea. L’io-pelle trova la sua base su tre funzioni della pelle. La pelle, come prima funzione, è il sacco che trattiene all’interno il buono ed il pieno che l’allattamento, le cure, il bagno di parole vi hanno accumulato. La pelle, come seconda funzione, è la superficie che segna il limite con il fuori e lo mantiene all’esterno, è la barriera che protegge dall’ingordigia e dalle aggressioni provenienti dagli altri, esseri o oggetti. La pelle, infine, come terza funzione, come la bocca ed almeno quanto essa, è un luogo ed un mezzo primario di scambio con l’altro>> (Anzieu, 1974)[16].

Nel caso del bambino autistico gli educatori ed il quadro istituzionale rappresentano per lui una sorta di pelle sostitutiva, realizzando l’esperienza,mai fatta fino ad allora, di sentirsi avviluppati da una pelle senza “falle”.

Questa pelle sostitutiva è una pelle metaforica: gli educatori, nelle loro attività di “maternage”, stabiliscono un contatto attraverso la pelle biologica (carezze, bagno, pulizia dei bambini), che non deve divenire “erotizzato” perché il bambino potrebbe essere sommerso da eccitazioni che non riuscirebbe a controllare.

  Foto: Didier Anzieu

Anzieu ha anche parlato dell’importanza che il lattante sia avvolto da un “involucro sonoro” di rumori significativi provenienti dalla madre:<<Il sè si forma come un involucro sonoro nell’esperienza del bagno di suoni, concomitante di quella dell’allattamento. Questo bagno di suoni prefigura l’io-pelle e la sua duplice faccia rivolta verso l’interno e l’esterno, poiché l’involucro sonoro è composto di suoni alternativamente emessi dall’ambiente e dal bebé>> (Anzieu, 1976)[17]. Col bambino autistico è necessario creare un analogo “involucro sonoro”, indirizzandosi a lui, ascoltando ciò che dice, non abbandonandolo al suo silenzio.

 

Par.6: I pasti.

 

All'Elsau i pasti sono presi dai bambini all'interno del proprio gruppo di vita. L'arrivo dei bambini alle ore 9 è seguito dalla colazione: è un momento molto importante della vita del gruppo durante il quale i bambini riprendono contatto con gli educatori e parlano di ciò che è accaduto in famiglia la sera precedente. Il rituale della colazione consente al bambino una presa di possesso dello spazio istituzionale ad un livello orale, così come al momento del ritorno a casa la ripresa del proprio posto in famiglia passa spesso attraverso l'apertura del frigorifero. 

Il pranzo è un altro momento della vita del gruppo in cui la ritualizzazione di certi atti riveste un valore terapeutico. I pasti sono preparati nella cucina centrale dell'Elsau e, all'ora dovuta, sono trasportati nei vari padiglioni dei 'gruppi di vita'. In questi la sala da pranzo è preparata dal personale di servizio ('aide-menageres') e non dal personale 'soignant' che, fino al momento di sedersi a tavola, resta coi bambini. Questa differenziazione dei compiti al momento del pranzo <<permette ai 'soignants' di differenziare le loro funzioni di nutrizione simbolica dalla funzione di nutrizione reale che è assicurata dall''aide-menagere'>> (P. & C. Geissmann, 1984, op.cit.).

Al tavolo si siedono tutti i componenti dell''equipe', bambini e 'soignants', ma all'occorrenza possono condividere il pasto anche altre persone (specializzandi di psichiatria, tirocinanti, psicologi, ecc.). A tavola non passa in secondo piano alcuno degli aspetti della presa in carico da parte degli educatori. L'osservazione del comportamento alimentare è uno dei compiti basilari: ciò non consiste solo nel riportare se un bambino è anoressico o bulimico o estremamente selettivo nei gusti, bensì si tratta anche di considerare, in termini spaziali, il posto che ciascun bambino sceglie a tavola, se egli si isola o accetta la vicinanza dell'educatore oppure scambia del cibo con un altro bambino. Il pasto viene consumato tra gli schiamazzi di un bambino, mentre un altro non riesce a stare fermo a tavola e si alza spesso per correre via, un altro versa ripetutamente sul tavolo dell'acqua. Al momento del pranzo il lavoro terapeutico degli educatori, in continuità con quello svolto nelle altre fasi della giornata, è molto impegnativo ed, a volte, difficile. Lo stesso progetto educativo può prendere spunto, poi, dall'attività di mangiare in compagnia: in questo caso, gli educatori frequentemente stimolano i bambini a denominare i cibi che mangiano.

E' anche importante notare che ciascuno degli operatori ha, rispetto al cibo, idee ed abitudini correlati alla sua cultura ed all'educazione: <<ci sarà quindi per i bambini, durante il pasto preso in comune, ogni sorta di esempio dato dai 'soignants' sull'arte e la maniera di mangiare: i vegetariani, i carnivori, i 'dolci', i 'salati', i 'piccoli appetiti', 'chi mangia qualsiasi cosa'>> (Gaetner).

Per i bambini anoressici, alcuni autori (come la Gaetner) indicano l'assenza di tensione dell'ambiente circostante e la libera scelta del cibo da mangiare come fattori importanti perché il paziente mangi, ma non sempre sono condizioni realizzabili. La vista di chi mangia non stimola, ma anzi peggiora l'atteggiamento di rifiuto del cibo: i meccanismi proiettivi giocano un ruolo importante, poiché i mangiatori sono per il bambino anoressico dei persecutori potenziali ed a sua volta egli li perseguita non identificandosi con loro.

La bulimia dei bambini psicotici è legata ad un vuoto interno, il riempirsi potendo evitare l'annientamento. Se ad un tale bambino diamo qualcosa che non sia il cibo per colmare questo vuoto (la relazione con un educatore o l'interesse per un'attività) possiamo ridurre il comportamento bulimico senza imporre unicamente delle restrizioni che avrebbero un effetto depressogeno. Qualsiasi dieta alimentare che sia assunta allo 'hopital de jour' deve ovviamente essere concordata con la famiglia: la collaborazione è tanto più necessaria durante le feste e le vacanze!

Bisogna aggiungere che all'Elsau anche il momento della merenda si inscrive entro un quadro temporale ben preciso: c'è lo spuntino di metà mattinata (ore 10,30) e quello pomeridiano, che precede il ritorno a casa. In generale, il personale non concede che i bambini a qualsiasi ora mangino dolciumi o 'sandwiches' (sia che siano distribuiti da loro sia che provengano da casa). Ciò non era condiviso da Bettelheim quando affermava: <<Uno fra i principali messaggi che il paziente riceve circa le intenzioni dell'istituto è se l'istituto non soltanto gli fornirà un cibo adeguato, ma anche se attraverso i pasti forniti gli dimostrerà una cura amorevole. Questo messaggio è non soltanto simbolico ma anche reale.  Fornire il cibo soltanto a ore stabilite nel refettorio non è il sistema migliore. Ma se un cibo gustoso è sempre disponibile, sarà accettabile anche il fatto che i pasti principali siano serviti in ore preordinate - un'esigenza che non si può non rispettare quando si debba nutrire un numero di persone abbastanza grande -, perché in tal caso se una persona non ha voglia di mangiare oppure se non ha molto appetito all'ora di un pasto, non perderà tutto. Perciò a ogni ora e in tutti i luoghi della Scuola il cibo era facilmente disponibile per poter essere consumato in forma relativamente privata ogni volta che qualcuno, membro del personale o paziente, ne sentisse il desiderio. Una scatola piena di biscotti e di dolci era a disposizione di chiunque in tutti i locali, fossero essi usati dai pazienti, dal personale o dai visitatori (...). Nel caso che i pazienti non gradissero queste cose o desiderassero qualcos'altro, a ogni dormitorio era adiacente un cucinino per preparare altre cose. Così alle ore dei tre pasti regolari i pazienti non erano necessariamente affamati e non erano quindi costretti a mangiare quel che veniva loro offerto; né avevano alcuna ragione di temere che, se non avessero mangiato a crepapelle durante il pasto, potessero soffrire la fame più tardi>> (Bettelheim, 1974, op.cit.). In realtà, l'impostazione della 'Orthogenic School' di Chicago non sembra dare una risposta al problema che spesso non è tanto di insegnare al bambino come si mangia, ma come giungere a 'dare' al bambino il piacere di mangiare in una situazione di convivialità. Lasciare che il bambino ad ogni ora trovi il frigo aperto non fa che perpetuare comportamenti spesso già presenti in famiglia, dove il bambino non mangia insieme agli altri, ma il cibo passa direttamente "dal frigo alla bocca". Mantenere degli orari regolari per i pasti consente di privilegiare la funzione di nutrizione simbolica che hanno gli educatori nei confronti dei pazienti.

 

 

CONCLUSIONI.

 

Nell’assumere come oggetto di studio lo “hopital de jour” dell’intersettore E3 di Strasburgo, esso mi è sembrato rappresentativo di un modo di organizzare l’assistenza psichiatrica in cui la preoccupazione centrale è quella di garantire una presa in carico globale al bambino affetto da disturbi gravi della strutturazione della personalità. A questo scopo, ho respinto un’impostazione della ricerca che privilegiasse gli aspetti più squisitamente tecnici del trattamento: non di “belle” psicoterapie ho voluto trattare, bensì di valori ed esperienze professionali (individuali e collettivi) maturati in un particolare Servizio nell’arco di due decenni. Ciò che conservo dell’esperienza di quel soggiorno non è l’eco di voci singole, ma il ricordo di un discorso “corale”, all’interno di una trama istituzionale, a cui partecipano figure professionali molteplici, di cui alcune non sempre adeguatamente “gratificate” dall’attenzione della letteratura psichiatrica (ad es.,  gli educatori). Al paziente lavoro di queste persone va il mio più profondo riconoscimento.

 

 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: 

 

 

[1] Hochmann J., “L’autisme infantile: deficit ou defense?”, in Ph. Parquet, C. Bursztejn  & B. Golse, “Soigner, eduquer l’enfant autiste ?”, Masson, Paris, 1990.

[2]  Per una più ampia rassegna teorica e discussione   concernente il trattamento in "hopital de jour " delle psicosi infantili si veda la tesi di specializzazione da cui è tratto questo articolo: Leo G., “L’ospedale di giorno nel trattamento delle psicosi infantili. Esperienze terapeutiche in un servizio di pedopsichiatria francese”, relatore Prof. Mario Scarcella, tesi di specializzazione in Psichiatria, Università di Bari, a.a. 1994-1995. Cfr. anche Ledoux M.H., “Conceptions psychanalytiques de la psychose infantile”, P.U.F., Paris, 1984.

[3]  Per il concetto di “settore” nell’assistenza sanitaria francese e per altri dettagli organizzativi e legislativi riguardanti i servizi psichiatrici in francia si veda il cap. I (“La settorizzazione”), II (“Organizzazione dell’Intersettore E3 di Strasburgo”), VI (“L’integrazione scolastica e le strategie educative”) della tesi di specializzazione già citata. Per altri aspetti dello “hopital de jour” si veda anche: Lozito V., Leo G., “Lo hopital de jour: un modello di integrazione degli interventi terapeutici e riabilitativi in un Servizio pedopsichiatrico francese”, relazione presentata al Convegno Internazionale “La riabilitazione in età evolutiva: verso l’integrazione degli interventi” (Capri, 23-25 giugno 1995); Leo G., Chindemi A., Piscitelli L., “L’organizzazione dell’area di primo contatto in un hopital de jour”, relazione presentata al I° Congresso Europeo di Psicopatologia del bambino e dell’adolescente (Venezia, 17-19 ottobre 1996).

[4]  Gli “hopitaux de jour” dell’”Unité de l’Elsau” di Strasburgo sono tre, suddivisi per fasce di età: “Horizon” (bambini sotto i 4 anni di età), “Helios” (dai 5 ai 6 anni), “Albatros” (età corrispondente alla nostra scuola elementare).

[5]  Tustin F., “Aurisme et psychose de l’enfant”, Le Seuil, Paris, 1977 (edizione inglese 1972) .

[6]  Geissmann C. & P. “L’enfant et sa psychose”, Dunod, Paris, 1984.

[7]  Buckle D.F.,  Lebovici  S., Tizard J., “Le traitement psychiatrique des enfants placés en institution en Europe”, La Psychiatrie de l’Enfant, vol. VII, 2, 1964.

[8]  Stern D.N., “Il mondo interpersonale del bambino”, Bollati Boringhieri, Torino, 1987.

[9]  Mises R., “La cure en institution”, E.S.F., Paris, 1980 (citato da C. & P. Geissmann, 1984, op.cit.).

[10]  Mises R., “Elements d’orientation dans le traitement des psychoses autistiques”, in Ph. J. Parquet, C. Bursztejn, B. Golse, “Soigner, eduquer l’enfant autiste?”, Masson, Paris, 1990.

[11]  Chiland C., “Resumé de la discussion” in “Traitement au long cours des etats psychotiques”, Privat, Toulouse, 1974 (citato in C. & P. Geissmann, 1984, op.cit.).

[12]  Kestemberg J., “Institution et Psychanalyse”, in “Traitement au long cours des etats psychotiques”, op.cit.

[13]  Winnicott D. W. , “Gioco e realtà”(1971), trad. ital. 1979, Armando, Roma.

[14]  Cahn R., "“A propos du processus therapeutique en institution pour jeunes psychotiques”, in “Le devenir de la psychose de l’enfant”, P.U.F., Paris, 1978.

 

[15] Bick E., “L’experience de la peau  dans les relations d’objet precoces”, in Int. J. Psychoanal., 49 (cit. in Ledoux, op. cit.)

[  16] Anzieu D., “Le moi peau”, N.R.P., n.9, 1974  (citato in Geissmann P. & C., op.cit.).

 [17] Anzieu D., “L’enveloppe sonore du soi”, N.R.P., n.13, 1976.

 

 

   

 

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