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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari),

Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 13, anno VII, gennaio 2010

"Malessere delle Culture"

 

   "MULTICULTURALITA'. Dalle identità etniche alle identità individuali"

Rivista Italiana di Gruppoanalisi (Vol. XXII, n.2/2008)

 

 

  Recensione di Giuseppe Leo

 

 

   
 

 

 

Prosegue l’interessante progetto editoriale della  Rivista Italiana di Gruppoanalisi di proseguire le sue pubblicazioni con dei numeri monografici. Abbiamo già recensito su Frenis Zero il numero dedicato alla “Bioetica”, e ora, data anche la concomitanza con l’uscita del numero di Frenis  Zero  dedicato al “Malessere delle culture”, ci accingiamo a recensire il secondo numero del 2008 (Vol. XXII) intitolato “Multiculturalità. Dalle identità etniche alle identità individuali”, a cura di Mariella Cesana e Diego Napolitani.

Nel  suo editoriale, Mariella Cesana ci indica le sfide che la globalizzazione e il multiculturalismo ci pongono: di fronte alla <<necessità di declinare al plurale (…)- le culture, le religioni, le filosofie, le psicologie, le economie – ambiti che nelle loro declinazioni singolari compongono il quadro della comunque faticosa costruzione delle sicurezze identitarie>>(pag.5), siamo chiamati a operare <<un rimodellamento riflessivo dei nostri paradigmi, dei nostri saperi di ordine sia teorico sia pratico (…), cioè della nostra cultura>>(pag.5) che i vari autori di questo numero della rivista affrontano ciascuno secondo la specificità della propria disciplina (antropologia, psicoanalisi, sociologia, filosofia, pratiche cliniche). L’impianto editoriale di questo numero della rivista prevede una serie di contributi, inframezzati da “conversazioni” o “interviste” con alcuni autori (con Francesco Remotti, con Gianluca Bocchi, con Marie Rose Moro), mentre altri presentano dei propri testi di riflessione su ambiti di “pratiche cliniche”.

L’articolo iniziale è di Diego Napolitani e si intitola “Identità, alterità, culture”. Si tratta di un’indispensabile premessa filosofica riguardante la genesi dei fenomeni culturali, partendo dal “mistero della coscienza”, la quale, in quanto “cum-scire”, è strutturalmente accordata con l’altro (il “Mit-dasein”). L’identità individuale ed etnica poggia su basi pre-razionali, e l’identificazione con la propria cultura di appartenenza garantisce una stabilità dell’identità individuale e collettiva. L’incontro con l’altro, con il “diverso” rispetto al proprio gruppo culturale, può provocare le più svariate reazioni: dal rigetto, all’”addomesticamento” dell’altro, oppure all’accettazione del diverso come altro. Questo ultimo atteggiamento, questo processo di “alterificazione”, finisce per modificare l’identità stabilizzata del soggetto e per permettergli una transizione da un mono- ad un multi-culturalismo. Ma seguiamo ad uno ad uno i passaggi di questo processo di “alterificazione”. Due sono i contributi teorici a cui si rifà Napolitani: da una parte la distinzione tra simbolo “probletico” e simbolo “sinezetico” operata da Mario Trevi (1986), e dall’altra la triplice distinzione di Stanghellini(2008) sui tre modi di fare conoscenza dell’altro. <<(…) L’Altro si annuncia>> scrive Napolitani  <<in un alone simbolico che compone in sé un “già noto da sempre” e la promessa di un “impensabile nuovo”. (…) potrei dire: “ti ho identificato e ciò mi conferma nella mia identità”, oppure “lo sconosciuto che sei accende in me la curiosità (…)e seguendo questo percorso io stesso divento Altro rispetto alla mia consolidata identità”>>(pag.26). Nella prima accezione, più inscritta nel passato, l’altro è un simbolo sinezetico, mentre nella seconda, più proiettata verso una possibilità aperta al futuro, l’altro è un simbolo probletico. Napolitani viene poi ad illustrare quelli che Stanghellini ritiene siano i tre modi di fare conoscenza dell’altro: una conoscenza in prima persona (soggettiva o empatica o della consonanza intenzionale), una in terza persona (oggettiva) ed una in seconda persona. La conoscenza in prima persona è possibile solo se osservatore e osservato partecipano allo stesso senso comune, cioè <<se sono situati nel medesimo orizzonte culturale>>(pag. 27). In caso contrario, i due non possono conoscersi, essendo ognuno distinto dall’altro da propri codici culturali, ed allora l’osservatore ricorre ad una conoscenza in terza persona che <<è un tentativo di rimediare all’incomprensibilità attraverso una spiegabilità del “non comune”. E’ questo l’ambito della conoscenza scientifica oggettiva. La conoscenza in seconda persona, invece, è una <<conoscenza dialogica condivisa dal “soggetto” e dall’”oggetto” della ricerca. E’ un tipo di conoscenza centrata sul “noi” (…) essa dischiude, parallelamente alla comprensione dell’altro, la comprensione di sé>>(Stanghellini, 2008, pag.52). Quest’ultima modalità di conoscenza dell’altro è accostabile alla “terza conversione” che per Napolitani fa seguito, in una sorta di ontogenesi della coscienza, alla prima conversione (accesso all’identità) ed alla seconda conversione  (accesso alla cultura). E’ questa terza conversione che viene battezzata “alterificazione”, apertura all’altro che è terzo, grazie al quale, in senso heideggeriano, si passa dal Dasein al Mit-dasein: <<nel concepire l’Altro nella sua diversità, nel fare Altro l’altro, noi stessi ci “alterifichiamo”>>(pag. 40), ossia trasformiamo la nostra intima identità. Precisa poi Napolitani che questa terza conversione, questa alterificazione non è così stabile come le due prime conversioni da lui descritte: <<essa può essere abortita ed è in ogni momento esposta al ritornante dominio dell’identità secondo tradizione>>(pag.41), ossia della razionalità identificatoria tipica di un dato gruppo che diventa impermeabile ideologia di rifiuto dell’altro. Per questo essa è così sensibilmente “debole” e va continuamente “curata” (nel senso heideggeriano della cura autentica – Sorge – anziché di quella in autentica – Besorgen) e protetta dai  rigurgiti nazionalistici e fondamentalistici.

L’articolo di Francesco Remotti, che insegna Antropologia culturale all’Università di Torino, dal titolo “La comunicazione interculturale: dialoghi tra ‘noi’ incompleti”, analizza la comunicazione interculturale attraverso tre modalità differenti: la comunicazione a senso unico, la comunicazione priva di senso e la comunicazione indispensabile. Il primo tipo di comunicazione (“monologante” la denomina l’autore) è quella con cui l’Occidente conquistatore ed evangelizzatore si è rapportato con le culture “altre”; il secondo tipo ha contraddistinto l’orientamento relativistico in antropologia (si veda un autore come Geertz), per cui <<occorre rassegnarsi alla perdita dell’universalità sul piano antropologico: la cultura non è in grado di elaborare forme di umanità universali, tuttavia essa offre completezza>>(Remotti, 2008, op. cit.); la comunicazione indispensabile, <<secondo la quale l’incompletezza biologica dell’uomo richiede l’intervento della cultura (come nella concezione 2), ma la cultura – sempre particolare – non svolge una funzione di riempimento, bensì di sfrondamento e di riduzione (…). (…) questa incompletezza culturale appare come la motivazione più profonda del ricorso all’alterità e alla comunicazione inter-culturale>>(Remotti, 2008, ibidem). Il “disagio” di ogni cultura viene ricondotto da Remotti alla sua costitutiva incompletezza. E la concezione 3) ha una marcia in più rispetto alla 2) ed alla 1): infatti essa è in grado di spiegare le concezioni rivali.

Ugo Morelli, fondatore di “Polemos”(scuola di ricerca e educazione sui conflitti), nel suo articolo “Troppo o troppo poco. Rischi di dissolvenze gruppali nella civiltà planetaria”, pone delle questioni introduttive:<<l’individualismo, oggi dominante, può essere considerato un fallimento delle istanze mediatrici che caratterizzano il ruolo dei gruppi tra individuo e società? Quali effetti ha l’evidente degrado dei gruppi sociali (…), in ragione della crisi del legame sociale, sulla caduta dell’immaginazione, che si configura come la nuova veste di forme totalitarie?>>(Morelli, 2008, op. cit.). In termini di multiculturalità, <<l’altro ci fa paura perché è necessario>> afferma Morelli e la parola “conflitto” deriva dal latino e significa “incontrarsi con”. <<Il conflitto presuppone l’incontro con l’altro e gli altri sono sempre almeno in parte diversi da noi e da come ce li aspettiamo>>(Morelli, 2008, ibidem). Anche l’”aver paura”, il senso di sicurezza sociale, il ruolo dell’immaginazione che <<ci può salvare dal magnetismo del consueto>>, il rapporto tra i “conflitti di sguardi” e la plasticità delle culture costituiscono i titoli di alcuni paragrafi ed altrettanti spunti di riflessione sui temi della globalizzazione, della caduta di confini geopolitici (la caduta del muro di Berlino) e delle ri-cadute sul piano delle identità individuali e collettive, ecc.. In tema di pregiudizi culturali ed etnici, ciò che ostacola la possibilità di elaborazione delle differenze è la limitata capacità di mediazione gruppale <<che, spesso, vede prevalere la paranoia, l’identificazione delle responsabilità di ciò che non va con gli “altri”, con quelli che sono esterni al “noi”>>(Morelli, 2008, ibidem).

Ivana Cortellazzi, psicoterapeuta e vicedirettrice della rivista “Interdipendenza” per il dialogo tra le religioni e le culture, nel suo articolo “Quale realtà? Riflessioni sull’attuale” pone un interrogativo sulla definizione di “realtà” nel panorama attuale di incontro tra differenti culture: <<Esiste un’unica realtà, terreno comune nel quale diverse culture e identità possono incontrarsi e confrontarsi? Oppure questa unicità che diamo per scontata è da riformulare, lì dove il “non accordo” può invece significare che diversità di approcci costruiscono realtà che non hanno un presupposto comune reperibile?>>(Cortellazzi, 2008, op. cit.) Quest’ultima questione può apparire coerente col punto di vista scientifico che privilegia il “punto di vista” nell’interpretazione e nella costruzione del “dato di realtà”, col rischio però di fondare un’epistemologia dell’incomunicabilità tra mondi che non sono comparabili. In psicopatologia ed in psicoterapia, lo stesso “esame di realtà”, nel dilatarsi degli orizzonti referenziali, può perdere la sua affidabilità come elemento fondante del percorso introspettivo dello sviluppo dell’”insight” e della consapevolezza. L’autrice menziona una serie di autori (Ken Wilber, Jack Engler, Daniel Brown), le cui ricerche (raccolte nel libro “Le trasformazioni della coscienza”, Astrolabio, Roma, 1989), mettendo a confronto gli stadi di sviluppo secondo vari approcci psicologici occidentali con le tradizioni spirituali asiatiche, <<scoprono un percorso evolutivo invariante e interculturale, ma che tuttavia conduce inaspettatamente a mete diverse, a seconda delle prospettive in cui i percorsi sono inseriti>>(Cortellazzi, 2008, ibidem).

Stefano Tomelleri, docente alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Parma, nell’articolo “Altro affettivo: identità e risentimento nelle società plurali”, dopo aver analizzato il ruolo centrale delle emozioni nelle interazioni sociali, si concentra sulla fenomenologia del risentimento, coi suoi tratti di impotenza esplosiva, di stanchezza e di rabbia che sembra contraddistinguere le società occidentali alle prese con le sfide della multiculturalità. <<Il rancore si coglie negli sguardi dei poveri che vorrebbero partecipare al banchetto del benessere diffuso>>(Tomelleri, 2008, op. cit.), ma coinvolge non solo i vinti: <<anche i vincitori possono essere travolti da una rabbia repressa>>(Tomelleri, 2008, ibidem). C’è altresì un uso politico del risentimento ad opera delle classi dirigenti che negli stati nazionali moderni hanno fondato su di esso la loro egemonia politica e culturale. La mondializzazione ha messo in crisi il progetto di uno stato nazionale unitario e omogeneo al suo interno, con elites economiche transnazionali che hanno sovvertito il patto tra cittadini e Stati, le congiunture economiche globali che creano gravi rischi sociali mettendo a repentaglio il patto fiscale tra generazioni e tra cittadini di strati sociali differenti. <<Questo cambiamento strutturale delle società occidentali che investe il nostro paese nei modi dagli effetti imprevedibili, proprio a causa di una modernizzazione mancata e a macchia di leopardo, ha favorito l’emergenza di “micro storie”(…), di una moltitudine di identità individuali ripiegate su se stesse nel tentativo di rivendicare sempre nuovi diritti. Le rivendicazioni identitarie, culturali e localiste in nome di una logica progressista sono inflazionate e la ricerca tecnocratica di una soluzione a ogni problema sta mostrando tutta la sua inadeguatezza>>(Tomelleri, 2008, ibidem). L’odio per lo straniero sembra assolvere un’inedita funzione oggi rispetto a ieri: non più solo ricopre una funzione di aggregazione del gruppo del “noi” rispetto a quello del “loro”, ma piuttosto sembra trovare nel “narcisismo delle piccole differenze”(Freud, “Il disagio della civiltà”, 1929) un’amplificazione di sempre maggiori lacerazioni interne alla comunità di appartenenza, questo perché <<la contrapposizione noi/loro, come modalità di sublimazione del rancore, sembra oggi inefficace, perché le società sono sempre più espressione di una contaminazione culturale reciproca>>(Tomelleri, 2008, ibidem). Il risentimento per il singolo si può tradurre in un senso di impotenza nell’incontro con l’altro, ma anche nel tentativo di cambiare le strutture e le relazioni sociali. Esso ha un valore positivo nel senso che costituisce un antidoto rispetto all’indifferenza e all’oblio, a patto che esso possa <<risvegliare in chi lo vive il desiderio di un nuovo legame fiduciario che fino a pochi attimi prima si pensava fosse ovvio>>(Tomelleri, 2008, ibidem).

In “Cannibali alla mensa di Montaigne” Sergio Benvenuto mostra quanto oggi il “relativismo” sia un fantasma, evocato dai pensatori “assolutisti”, sia di tipo religioso che razionalista, per promuovere il proprio assolutismo. Rimandiamo il lettore al testo dell’articolo di questa ricostruzione critica del saggio di Montaigne “Dei cannibali”, per rivolgerci alla sezione della rivista dedicata alle “Pratiche cliniche” (sorvolando per motivi di spazio sulle conversazioni e sulle interviste accolte in questo numero).

Virginia De Micco, psicoanalista della S.P.I., in “Corpi Nomi Storie. Vicissitudini dell’identità in bambini migranti” tratta dei figli della seconda generazione di migranti, caratterizzati da una identità “nomade” che si ancora a differenti identità culturali. Per questi bambini due aspetti centrali dell’identità, la filiazione e la corporeità, <<diventano terreno di contesa tra ordine originario (paese di emigrazione) e trama della quotidianità (paese di immigrazione) e si manifestano come luoghi di intensa conflittualità sia intrapsichica che relazionale>>(De Micco, 2008, op. cit.). L’autrice desume le sue riflessioni da un lavoro con ragazzi migranti all’interno di un centro di accoglienza per minori (accoglienza limitata al sostegno scolastico per bambini di seconda generazione, le cui famiglie erano presenti sul territorio): <<gli incontri si proponevano di sondare l’intreccio singolare tra identità e memoria che veniva a delinearsi nell’esperienza di questi bambini>>, ed in particolare al modo di <<autorappresentarsi in termini “storici”>> che <<implicava (…) un vincolo simbolizzante in cui era inclusa la propria origine o, meglio, sottintendeva una domanda sulla propria appartenenza>>. La migrazione mette in risalto una dimensione costitutiva della psiche individuale che è la sua costituzione culturale. Essa può rappresentare un’esperienza di “rinascita”, con il rischio però di non riuscire a ri-simbolizzare i contenuti psichici secondo i nuovi codici culturali. <<Strutturazione psichica e strutturazione culturale “conservano dei rapporti omologhi: una è il doppio dell’altra”, come sostiene Tobie Nathan>>(De Micco, 2008, ibidem). Quest’ultimo autore mette in evidenza come la migrazione possa mettere in pericolo il sentire la propria realtà interna come qualcosa di intimo e di inviolabile, rendendo labile il confine tra interno ed esterno. L’autrice parla, in particolare, della difficoltà per i bambini di origine africana di riconoscere il colore della propria pelle. Secondo Sayad, l’immigrato fa una differente esperienza del proprio corpo, lo scopre socialmente ed esteticamente definito come corpo estraneo, innaturale. Da qui possono partire tutta una serie di tentativi di ri-naturalizzarlo, cioè renderlo conforme al nuovo ordine culturale. L’esperienza dell’Io-pelle (Anzieu) è inscindibile dai depositi transgenerazionali che a loro volta dipendono dalla trasmissione di eredità culturali e simboliche investite sul corpo del bambino. Nel caso di bambini figli di genitori africani si può avere una frattura tra la pelle come involucro tattile-auditivo e la pelle come rappresentazione visiva di sé: se l’ambiente non riesce ad essere supportivo rispetto alla costituzione identitaria, la pelle diventa una sede problematica di intensa interrogazione su cosa significa essere nero. Lo sguardo rispecchiante della madre non può essere avulso da fattori culturali condizionanti, <<nel momento in cui lo sguardo materno fa “nascere” il suo bambino in quanto soggetto (…) lo rende soggetto culturale, con tutte le intuibili conseguenze che possono verificarsi nel momento in cui quello stesso “sguardo fondatore” è abitato da una costante inquietudine “rappresentativa” e “affettiva”(…) I figli della migrazione sono in un certo senso tutti figli bastardi, figli senza padre, senza quel garante dell’ordine simbolico che consente allo stesso sguardo materno di funzionare in una compiuta direzione “soggettivante”>>(De Micco, 2008, ibidem). Allora, se la divergenza tra percezione e riconoscimento, tra superficie percepita e rappresentata di sé si amplifica, i bambini si sforzeranno <<di rendere impercettibile la loro differenza al fine di rendere pienamente visibile e accettabile la loro presenza>>(De Micco, 2008, op. cit.). Anche la scelta del nome del bambino della seconda generazione può assolvere la funzione di curare profonde ferite transgenerazionali. I bambini vengono chiamati col nome di battesimo, mentre il loro cognome, per la sua difficoltà di pronuncia e di collocazione simbolica da parte della comunità circostante, viene da essi percepito come ingombrante e “incollocabile” nelle situazioni pubbliche. Quindi il bambino, indicato solo col nome di battesimo, finisce per “scivolare” verso uno stato di “naturalità”(nome come estensione del corpo), senza una parallela appartenenza ad una comunità “umana”(etnica, nazionale) e senza una trasmissione patrilineare che lo possa identificare appieno nelle situazioni pubbliche grazie ad un cognome. I genitori immigrati cercano, attraverso l’italianizzazione dei nomi dati ai figli, di fornire un ambiguo omaggio alla nuova cultura di appartenenza e, dall’altra, di incorporare e di imprimere in loro il  potere che questi nomi danno.

Trovo senz’altro interessanti le riflessioni di Virginia De Micco, anche se, forse, nel suo lavorare sul confine (peraltro “scomodo”) tra psicoanalisi ed antropologia, avrei visto il ricorso ai concetti di “garante metapsichico” e di “garante metasociale” di Kaës come più funzionale per un discorso più centrato su uno spazio “transoggettivo”(sulla scia di autori come Amati Sas, Berenstein, Puget), anziché basato sul doppio binario  delle corrispondenze biunivoche tra mondo intra-psichico e mondo culturale.

Robi Friedman, psicologo clinico individuale e di gruppo e co-fondatore dell’Istituto Israeliano di Gruppoanalisi, nel suo articolo “Aspetti interculturali della terapia di gruppo in una zona di guerra e dialogo in situazione di conflitto” analizza gli aspetti interculturali che emergono, in generale, nella terapia di gruppo e, in particolare, se la terapia di gruppo si svolge in un paese-scenario di guerra come Israele. In generale, nella psicoterapia di gruppo emergono una serie di tipi diversi di “disordini della relazione”: il “disordine di rifiuto”, il “disordine di deficienza”, il “disordine di esclusione”. Con l’aiuto del gruppo, e grazie ad un suo strumento che è l’”addestramento dell’ego in azione”(“ego-training in action”), i disordini della relazione portati da individui “culturalmente differenti” possono diventare contenibili e non diventeranno un “destino” cronico per loro. In Israele, secondo Friedman, esiste un problema aggiuntivo che caratterizza un paese sede di una guerra: <<le differenze culturali possono non solo essere percepite come “primitive”, difficili da accettare o comprendere, ma l’effettivo elemento antagonistico può essere vissuto come una minaccia alla propria esistenza>>(Friedman, 2008, op. cit.). Un aspetto centrale del lavoro di gruppo sugli aspetti interculturali è che in Israele alcuni dei “diversi” non sono immigrati (come ad es. lo sono gli ebrei di origine russa). <<(…) le reciproche animosità tra le popolazioni ebree e arabe hanno come conseguenza la sensazione di percepire la controparte come un “nemico”. Quando un paziente arabo entra nel gruppo, le “normali” istanze interculturali sembrano aumentare di peso>>(Friedman, 2008, op. cit.). L’autore analizza quindi il principio che è alla base del dialogo col nemico: <<stabilire uno spazio che possa dare la sicurezza che tutti o quasi tutti i temi antagonistici possano essere discussi senza distruggere lo spazio>>(Friedman, 2008, op. cit.). Il primo obiettivo è quello di creare uno “spazio sicuro”. Naturalmente, la scelta di non lavorare sugli aspetti interculturali all’interno di un gruppo può avere effetti disastrosi. In alcuni casi, il carico emozionale che comportano tali aspetti interculturali è talmente soverchiante che è preferibile optare per un gruppo più omogeneo.

Rossella Del Guerra in “Mito sogno e gruppo. Andata e ritorno. Sogni e miti di migranti”, partendo da un’ottica che fa riferimento al rapporto tra mito, fiaba e sogno, propone una riflessione sulla funzione mitopoietica della mente e sulla sua importanza elaborativa e terapeutica. Una breve vignetta clinica proposta dall’autrice illustra quanto il gruppo possa offrire un valido scenario alla pensabilità di problematiche psichiche relative alla migrazione.

Infine, Natale Losi, antropologo e psicoterapeuta, fondatore  della Scuola Etno-Sistemico-Narrativa di Roma, nel suo articolo “I pazienti pensano difficile: dall’etnopsichiatria al pensiero etno-sistemico-narrativo”, descrive questa prospettiva (etno-sistemico-narrativa) partendo dalla discussione di un caso clinico. Nella parte conclusiva egli descrive alcuni punti nodali di tale approccio: il processo di costruzione diagnostica e terapeutica in riferimento alla cultura del paziente, il setting e la struttura della prescrizione come rito di passaggio e co-costruzione narrativa.

Il tema della multiculturalità viene sviluppato anche nella sezione “Voci in formazione” della rivista con gli articoli “Koiné – La casa internazionale dei diritti umani delle donne” di Angela Fiorletta e “Tra al di là e al di qua” di Davide Scotti. Vorrei concludere questa recensione con le ultime parole di quest’ultimo lavoro, che mi sono sembrate serbare quelle necessarie dosi di speranza e di fiducia per intraprendere un qualsiasi viaggio nella dimensione multiculturale del nostro agire terapeutico:<<Nell’accoglimento di un nuovo inspiegabile avvenimento, ciascun adulto può rinnovare proprio quello sguardo curioso e aperto all’ignoto che in principio gli ha permesso di giocare con tutti i bimbi indipendentemente dalla cultura di provenienza o dal grado di reciproca conoscenza>>(Scotti, 2008, op. cit.).

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Trevi M., “Metafore del simbolo. Ricerche sulla funzione simbolica nella psicologia complessa”, Raffaello Cortina Editore,  Milano, 1986.

 

Stanghellini  G., “Psicopatologia del senso comune”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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