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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

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Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 14, anno VII, giugno 2010

Recensione del libro "LA PSICOANALISI E I SUOI CONFINI"

 

   

 

 

  di  Giancarlo Rigon

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa recensione è stata  pubblicata sulla rivista "Psicoterapia e Scienze Umane"( www.psicoterapiaescienzeumane.it ), 2010, XLIV, 1, pagg. 117-119. Si ringrazia sentitamente oltre che l'autore anche il direttore responsabile della rivista per averne autorizzato la pubblicazione su Frenis Zero.

Giancarlo Rigon è psichiatra, neuropsichiatra infantile, Direttore dell’UO di NPI, Azienda Usl Città di Bologna, Responsabile del Centro Diurno per Adolescenti con gravi disturbi psicopatologici e del Servizio Ospedaliero di Psichiatria e Psicoterapia dell’Età Evolutiva. Docente di Psicoterapia presso le scuole di specializzazione in Psichiatria e Neuropsichiatria infantile dell’Università degli Studi di Bologna. Autore di numerose pubblicazioni fra cui segnaliamo il testo “Interventi in psichiatria e psicoterapia dell’età evolutiva”, Franco Angeli, 2002.

 

 

I confini sono un tema classico della psicoanalisi. Questo libro ha il pregio di presentare

il tema secondo una prospettiva interessante che viene proposta nella Introduzione

da Giuseppe Leo, psichiatra e direttore della rivista di psicoanalisi Frenis Zero,

curatore di questa raccolta. La prospettiva scelta si fonda sul doppio significato che il

vocabolario assegna alle parole confine: «termine, limite estremo di un territorio», ma

anche «zona di transizione a ridosso di un limite geografico, culturale, amministrativo

» (Il Nuovo Zingarelli, Bologna: Zanichelli, 1986)

Seguendo questa impostazione, Leo evidenzia alcune aree in cui, per la psicoanalisi,

il confine diventa un aspetto cruciale: la dimensione intrapsichica, quella “interpsichica”

riferita al funzionamento della coppia analitica al lavoro, quella transgenerazionale,

quella intradisciplinare interna alla psicoanalisi, e infine quella interdisciplinare.

Su queste aree intervengono gli otto contributi qui raccolti che meritano di essere

citati: “«Sento ciò che mi emoziona e perciò sono!». Il contributo unico di Matte

Blanco alla nostra comprensione degli affetti” di James S. Grotstein; “Il significato di

trattamento in psicoanalisi, con particolare riferimento alla psicosi” di Salomon Resnik;

“Fallimenti del trattamento psicoanalitico con pazienti a rischio di suicidio” di

Glenn O. Gabbard; “Dopo il pluralismo: verso un nuovo integrato paradigma psicoanalitico”

di Juan Pablo Jimenéz; “Psicoanalisi oggi” di Peter Fonagy; “Psicoanalisi:

princìpi, partigianeria ed evoluzione personale” di Otto F. Kernberg; “Psicoanalisi in

Gran Bretagna. Punti di accesso culturale: 1893-1918” di Robert D. Hinshelwood;

“Di cosa sono testimonianza le mani dei sopravvissuti? Dell’annientamento dei viventi,

dell’affermazione della vita” di Janine Altounian. Fatta eccezione per il curioso articolo

di Hinshelwood che è del 1995, i lavori qui presentati sono recenti, tutti compresi

fra il 2004 e il 2007.

Ho trovato interessante lo studio condotto da Hinshelwood, appena citato, relativamente

a «come, quando e perché Freud e le sue idee vennero all’inizio notati [in

Gran Bretagna] durante i primi anni della psicoanalisi» (p.151); la ricerca si riferisce

infatti agli anni compresi fra il 1893 e il 1918, ed evidenzia «sette differenti collocazioni

culturali che adottarono qualche elemento delle idee di Freud» (p.151): dalla

Society for Psychical Research per la quale nel 1893 Frederic Myers diede notizia,

con grande tempestività, del lavoro di Breuer e Freud, a Havelock Ellis che pubblicizzò

le teorie psicoanalitiche sulla sessualità per sostenere le proprie idee a favore della

libertà sessuale, alla psichiatria, alla filosofia, ambito al quale apparteneva Karin Costello,

una delle più promettenti studentesse che frequentavano allora le lezioni di

Bertrand Russel e che divenne psicoanalista. La storia personale di questa giovane ci

dice della ricchezza della vita culturale inglese dell’epoca: sposò infatti il fratello di

Virginia Woolf il cui marito, Leonard Woolf, aveva recensito nel 1914 la traduzione

inglese della Psicopatologia della vita quotidiana (1901), confermando l’interesse

che il gruppo di Bloomsbury aveva verso la psicoanalisi, «affascinati in modo iconoclastico

dall’idea di Freud di porre le radici delle energie umane negli istinti» (p. 165).

La ricerca di Hinshelwood mostra come l’ingresso nella cultura britannica delle

idee psicoanalitiche attraverso sette collocazioni culturali diverse abbia utilizzato altrettanti

diversi aspetti del lavoro di Freud o, meglio, altrettanti diversi Freud. L’autore sostiene che

 questo successo della psicoanalisi fu dovuto a due ragioni: la qualità

polivalente delle idee di Freud da un lato, e dall’altro al fatto che «la cultura britannica

in quel particolare periodo di cambiamenti storici sembra aver offerto una multivalenza

di confronti che si è intrecciata con quella di Freud» (p. 178). Trovo convincente

questa ipotesi che stimola una riflessione sulla situazione di oggi, caratterizzata da

un lato da una caduta del valore culturale della psicoanalisi a favore della sua utilizzazione,

peraltro sempre più scarsa, come tecnica terapeutica, e dall’altro dal grigio appiattimento

che offre il panorama culturale, in particolare nel nostro Paese, ma non

solo. Se, come scrive Hinshelwood, «c’è una cultura che è ricettiva ad ogni nuova idea

che vi ricade, e un’altra cultura che non lo è» (p. 178), dobbiamo constatare che

da alcuni decenni viviamo in una cultura ben poco ricettiva alle nuove idee, e al tempo

stesso che le nuove idee difettano. Non voglio lamentare o tempora o mores, ma

sottolineare la urgente necessità di una riflessione di adeguato respiro culturale anche

nel nostro campo; certamente, guardando alla altre aree del sapere e del fare – a proposito

di confini della psicoanalisi, oltre i quali guardare – possiamo facilmente constatare

che anche in quelle aree i ritardi sono enormi, a cominciare dalla politica. Questo

invece che consolare aumenta l’urgenza di proposte in grado di promuovere un

lavoro culturale che per spessore, complessità, incisività e tenuta sia in grado di misurarsi

con il presente. C’è chi sostiene che una tale prospettiva è irrealistica per ambizione

e gigantismo, e sia preferibile, nel medio periodo, un lavoro culturale fatto di

piccole iniziative diffuse che prendono corpo là dove le occasioni contingenti le favoriscono.

Detto nei termini di Hinshelwood: l’incontro fra un buon seme e un terreno

fecondo. Praticare queste due diverse prospettive, e mettere a confronto ciò che si

viene realizzando, già sarebbe un buon risultato.

L’articolo di Janine Altounian presentato in questo libro è dedicato alle conseguenze

psichiche nelle generazioni successive a quelle che hanno subìto una violenza

di massa come lo sterminio. È un articolo intenso, toccante, e sofisticato sul piano

tecnico. Conosciamo una letteratura ormai piuttosto ampia relativamente a questo tema

per quel che riguarda gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Qui si parla del genocidio

degli armeni perpetrato nel 1915; l’occasione è il diario del padre dell’autrice

che, allora adolescente, subì con la famiglia tale violenza. L’autrice sostiene che «la

testimonianza della resistenza come valore si trasmette, dai rifugiati a noi, molto più

attraverso ciò che fanno le loro mani che attraverso ciò che dicono o tacciono le loro

parole. Il linguaggio resta in effetti per loro spesso inchiodato a un ritiro quasi autistico

oppure all’iper-realtà della ripetizione ostinata e del pensiero operativo, poiché la

violenza di una realtà senza senso ha rotto in loro qualsiasi continuità transizionale tra

la realtà dei fatti e la realtà psichica» (p. 193). E più avanti: «Il far fronte psichicamente

e culturalmente all’alterità richiede un fondamento narcisistico che in loro le

tracce del terrore, dell’insicurezza profonda e dell’essere ghermiti durante la persecuzione

di tutti hanno minato. I processi di differenziazione, sessuale così come generazionale,

si trovano intralciati» (p. 195). Per descrivere l’effetto profondamente devastante

che il genocidio ha sulla psiche dei sopravvissuti, l’Autrice riporta le parole di

una giovane rwandese: «Quando penso al genocidio, rifletto per sapere dove metterlo

nell’esistenza, ma non trovo alcun posto» (p. 199). La citazione ci ricorda al tempo

stesso la dimensione psichica di queste tragedie e il fatto che il genocidio non si è

fermato ad Auschwitz. Per quanto si sia detto “mai più Auschwitz!”, abbiamo avuto il

Rwanda, la Bosnia con Srebrenica; la Cambogia, il Darfur, e non solo. Il genocidio

per essere realizzato richiede una volontà politica ed una conseguente organizzazione

della violenza, anche amministrativa, fondata sulla banalità del male come Hannah

Arendt ha definito il misto di acquiescenza al potere, indolenza morale, negazione e

rifiuto a vedere quanto accade, che caratterizzarono il modo di essere di molte persone

durante il nazismo (La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme [1963]. Milano:

Feltrinelli, 1964). A questo dobbiamo aggiungere la diffidenza, la paura e persino

l’odio per chi è diverso; sentimenti le cui sfaccettature psicologiche sono state ampiamente

studiate. Tra tanta letteratura, un articolo a cui ritornare è quello di Paul Parin

pubblicato 25 anni fa su questa Rivista (The mark of oppression: studio etnopsicoanalitico

su ebrei e su omosessuali in una cultura relativamente permissiva. Psicoterapia

e Scienze Umane, 1985, XIX, 4: 3-27).

Il contributo di Gabbad prende spunto dal fatto che egli fu incaricato dall’International

Psychoanalytic Association (IPA) di presentare una delle relazioni introduttive

al Congresso di Toronto nel 2003; scelse di affrontare il tema “lavorare alle frontiere”

trattando dei «deragliamenti psicoanalitici che ho osservato quando pazienti con rischio

suicidario sono stati gravemente mal gestiti da ben intenzionati psicoanalisti»

(p. 53). Le considerazioni di Gabbard sono introdotte dalla descrizione di un caso tra i

tanti, oltre 150 all’epoca, per il quale gli era stata richiesta una supervisione; si trattava

di situazioni in cui «analisti avevano commesso serie violazioni del setting coi loro

pazienti» (p. 54); la sua casistica non riguarda soltanto casi di «violazioni in senso

sessuale», ma anche di «analisti preoccupati [che] hanno preso in casa dei loro pazienti

a rischio di suicidio e li hanno trattati come membri della loro famiglia; sono

andati a fare la spesa con loro e hanno condiviso con loro i pasti al ristorante. In altri

casi gli analisti hanno trattato il paziente gratuitamente, si sono impegnati in ampie

confessioni dei propri problemi personali, e hanno avuto numerosi contatti extraanalitici

col paziente in luoghi pubblici e a casa sua» (p. 59). La tesi di fondo è che il

mancato controllo da parte dell’analista dei movimenti controtransferali si traduce in

agiti che provocano il «collasso dello spazio della azione analitica e la parallela incapacità

di mentalizzazione» (p. 63). L’articolo è un’ampia riflessione dedicata al controtransfert,

ricca di qualificati riferimenti bibliografici, ben fondata sul piano teorico

(i riferimenti bibliografici sono puntuali e completi) e su quello clinico, dove si raccomanda

di uscire dal proprio guscio (dal proprio confine) psicoanalitico per prendere

contatto con i colleghi psichiatri onde procedere, in collaborazione con loro, sia alla

attenta valutazione diagnostica e del rischio suicidario del paziente sia al trattamento

combinato che associ anche interventi di sostegno e farmacologici. Una raccomandazione

che condivido e che trovo di puro buon senso (vedi i nostri contributi su Psichiatria

dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2006, 73: 583-597, e 2008, 75: 113-135),

ma che proprio per questo sembra confermare quanto la psicoanalisi sia lontana dalla

pratica psichiatrica; se questo vale per gli Stati Uniti c’è da chiedersi quanto un tale

atteggiamento culturale sia esteso anche nel nostro Paese.

Per la recensione di questo libro ho preferito soffermarmi su tre degli otto articoli

utilmente qui raccolti da Giuseppe Leo, per dare esempio di come, in realtà, ciascuno

di essi offra spunti per riflettere, riandare a vecchie bibliografie, discutere; va aggiunto

inoltre che pur essendo uniti, come detto, dal filo del limite, gli articoli presentano

tale diversità tematica che ogni lettore troverà quello per lui più coinvolgente.

 

 

 

 

Giancarlo Rigon

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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