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Un Momento...c'è di più

              

  

A  

Analisi

(contrapposta a sintesi) Scomposizione di un tutto, concreto o astratto, nelle parti che lo costituiscono, soprattutto a scopo di studio.

Nella filosofia europea, da Cartesio in poi, è considerata come uno dei due metodi fondamentali  e complementari della conoscenza; l'altro è la sintesi. 

Di analisi parlano anche filosofi precedenti Cartesio, Aristotele in particolare, ma attribuendo al termine un significato in parte diverso da quello che si è poi imposto.

 

Analogia

Da Aristotele in poi, nella logica classica, indica un tipo di predicazione diverso dall'univocità e dalla equivocità: è detto analogo il termine che si predica di più soggetti, con un contenuto in parte uguale e in parte diverso. 

Per esempio, il termine "sano" attribuito all'uomo, alla medicina e al colorito ha un contenuto in parte identico, che è il riferimento alla salute, in parte diverso, che è il modo di riferirsi alla salute (l'uomo ha la salute, la medicina cura la salute, il colorito indica la salute).

La logica contemporanea intende l'analogia come uguaglianza di rapporti.

 

Argomentazione

Vedi ragionamento.

 

Astrazione

Procedimento mediante il quale l'intelletto umano ricava concetti, idee generali, a partire dalla conoscenza di oggetti individuali, prescindendo dalle specifiche caratteristiche spazio-temporali di questi: essi vengono raffrontati per isolarne i tratti comuni.

Nella filosofia antica, l'astrazione è il procedimento che permette di attingere le essenze universali (nelle quali risiede la verità delle cose).

Aristotele distingue tre gradi di astrazione:

  • l'astrazione fisica, che prescinde dalle note individuanti ma non dalla materia sensibile;

  • l'astrazione matematica, che prescinde dalle note materiali sensibili ma non dall'estensione della materia (che ha proprietà intelligibili);

  • l'astrazione metafisica, che prescinde anche dall'estensione, per considerare l'ente solo in quanto ente.

Ancora oggi (anche in psicologia) si parla di livello di astrazione, intendendo la distanza tra una data rappresentazione mentale e la realtà sensibile cui essa è legata, tra un dato atto mentale e gli oggetti su cui esso opera. 

La concezione classica dell'astrazione viene però radicalmente criticata già nel Settecento, dall'empirismo moderno che, con Berkeley e Hume, nega la possibilità di giungere a cogliere essenze universali: nel processo astrattivo l'intelletto non fa altro che assumere determinate rappresentazioni particolari come simboli di altre rappresentazioni particolari. 

Analogamente, la filosofia contemporanea, tende a svincolare l'astrazione dalla conoscenza degli universali, e a considerarla solo come il procedimento conoscitivo consistente nell'isolare determinati aspetti delle cose per prenderli in esame tematicamente.

 

Atto

(contrapposto a potenza) L'esistenza dell'oggetto in quanto pienamente realizzata e non soltanto possibile.

Questa accezione del termine ha una precisa derivazione dalla filosofia aristotelico-scolastica.

 

Atto mentale

Attività mentale di qualsiasi tipo: percettivo, mnemonico, intellettivo, espressivo.

Nell'ambito della lettura che noi abbiamo dato della distinzione di Feuerstein tra funzioni e operazioni mentali (vedi pagina precedente), questo termine viene però ad avere un'accezione più ristretta, così che può essere considerato sinonimo di "funzione cognitiva" (di conseguenza si parlerà di fasi delle operazioni, o processi, mentali invece che degli atti mentali).

 

B

Bisogno

Generalmente inteso come il sentimento della mancanza di qualcosa e, contemporaneamente, come lo stimolo alla sua ricerca.

Più specificatamente, in psicologia, indica "la tendenza a soddisfare una necessità, manifestata attraverso un tensione fisiologica o affettiva. Si fa risalire alla generale auto-regolazione dell'organismo che tende a proteggere l'equilibrio di uno stato interno costante (Bernard) od omeostasi (Cannon), sia evitandone la rottura, sia riparandola quando sia avvenuta. In tutti i casi il bisogno opera come un apparecchio segnalatore (Claparede) mettendo in azione i meccanismi protettori. Avvertito come tensione o disagio, nei casi gravi come dolore, il bisogno spinge l'organismo ad agire in modo da rimuovere la causa o da colmare la carenza che provoca lo stato sgradevole" (Di Mauro, Nuove Metodologie per la formazione, l'integrazione e lo sviluppo della persona). 

Il termine "bisogno" ha quindi in psicologia un significato simile a quello di "motivazione", intesa come l'insieme dei fattori dinamici del comportamento animale o umano (ossia dei fattori che attivano un individuo e lo dirigono verso una meta). 

La distinzione dei due termini andrebbe rintracciata nell'accentuazione della carenza, della mancanza connessa al termine "bisogno". Tale distinzione non è però sempre così chiara, e talvolta i termini sono usati come sinonimi.

Nell'analisi del funzionamento cognitivo compiuta da Feuerstein, e conseguentemente nel sistema operativo da lui proposto per migliorare tale funzionamento, il bisogno ha un ruolo rilevante. 

Egli enuclea in particolare tre bisogni fondamentali ai fini di un buon funzionamento cognitivo: 

  • il bisogno di precisione e di accuratezza (nella fase di input, cioè nella raccolta di dati, così come nella fase di output, nella comunicazione delle soluzioni elaborate), 

  • il bisogno di pianificazione (nella fase di elaborazione dei dati),

  • il bisogno di evidenza logica (sempre nella fase di elaborazione).

Nell'esperienza di apprendimento mediato, il mediatore deve appunto far prendere coscienza all'allievo della carenza che ha riscontrato (per esempio, carenza di comportamento esplorativo sistematico, o mancanza di un concetto necessario all'elaborazione mentale di una situazione, di un problema, o ancora mancanza dei vocaboli necessari a esprimere il concetto con precisione), in modo che nell'allievo stesso possa nascere il desiderio di rimediare a tale carenza, attivando determinati processi cognitivi. Ciò significa ampliare il sistema dei bisogni dell'allievo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Blocco L'improvvisa inibizione dello svolgimento del pensiero, l'arrestarsi di un movimento o di una risposta. Può essere totale o parziale.

Spesso causato da fattori affettivo-motivazionali, come la paura di fallire, implica però anche fattori cognitivi quali l'insufficiente controllo razionale delle emozioni (che - in presenza di situazioni problematiche e ansiogene - impedisce l'elaborazione di valide strategie risolutive) e la carenza di strumenti verbali adeguati all'espressione e comunicazione del pensiero.

 

C

Campo

"Metafora spaziale assai usata in psicologia e in sociologia per designare l'ambito, l'area, l'estensione di una determinata funzione o attività. 

Si parla pertanto di campo visuale, campo uditivo, campo percettivo, campo psicologico, campo di coscienza, campo sociale, campo di relazioni. 

Un particolare significato ha acquisito il termine nella psicologia della forma o Gestalt. Esso in tale caso significa la totalità dei fatti coesistenti che sono concepiti come mutuamente interdipendenti (Lewin)" (Di Mauro, Nuove Metodologie per la formazione, l'integrazione e lo sviluppo della persona). 

La teoria di campo - applicata dalla Gestaltpsychologie allo studio della percezione e da Lewin allo studio delle motivazioni individuali e dei processi interpersonali - viene originariamente elaborata dalla fisica moderna.

L'aspetto fondamentale del concetto di campo delle scienze fisiche, che viene ripreso in ambito psicologico, è che esso permette di ragionare sui fenomeni non più in base alle caratteristiche dei corpi (che nel campo si situano) - ad esempio la massa, il volume, ecc. - quanto invece sulla base della configurazione globale del sistema (in cui i corpi sono compresi e che essi stessi contribuiscono a formare, con le loro relazioni reciproche).

Le leggi di campo non dipendono pertanto dalle caratteristiche singole degli elementi presenti nel campo, ma dalla configurazione e dal movimento interno del campo, globalmente considerato.

Gli eventi che si verificano in un campo dato, ad un momento dato, non hanno quindi altra spiegazione valida se non quella che deriva dalle proprietà del campo stesso, così come esso è, in quel momento in cui l'evento si verifica (qui ed ora, here and now, secondo una celebre formulazione).

A una spiegazione dei fenomeni basata sulla causalità temporale (ciò che avviene prima è causa di ciò che avviene dopo) si sostituisce quindi una spiegazione basata sulla dinamica del sistema (che comprende gli elementi in gioco), spiegazione che pone una specifica enfasi non sull'elemento in sé ma sulla relazione tra gli elementi. 

 

 

 

 

 

 

 

Categoria

Generalmente intesa come partizione nella quale si comprendono individui o cose di una medesima natura o di un medesimo genere.

Il termine deriva dalla tradizione filosofica, nell'ambito della quale ha assunto valenza logica (le categorie designano il nostro modo di conoscere la realtà) e/o valenza ontologica (le categorie designano i modi d'essere della realtà).

Per Aristotele, le categorie sono i concetti generali sotto cui si può comprendere ogni realtà. Oltre alla funzione logica, esse hanno anche una funzione ontologica: permettono di definire esattamente gli enti in quanto li riconducono alla loro essenza più generale.

Nella filosofia moderna e in particolare nel pensiero kantiano, le categorie hanno invece solo funzione logica: sono le forme a-priori della nostra conoscenza, concetti puri che rappresentano le funzioni attive del pensiero, grazie alle quali ordiniamo la realtà fenomenica.

Nell'idealismo, con Hegel, le categorie acquistano nuovamente connotazione ontologica: rappresentano momenti del divenire sia del pensiero che del reale. 

Nella filosofia contemporanea, prevale la concezione logica anche se le categorie hanno ancora valenza ontologica nell'indirizzo fenomenologico (Peirce e Husserl) dove designano le strutture ideali che la descrizione pura ricava dalla realtà.

 

Quando sono considerate dal punto di vista logico, le categorie sono dunque qualcosa di simile ai concetti, rispetto ai quali risultano però avere maggiore generalità.

 

 

 

Causa

Generalmente intesa come il fatto o l'avvenimento che provoca (che è origine di) un determinato effetto, e come motivo, ragione.

Il termine ha derivazione filosofica: nasce con l'atomismo greco (V secolo a.C.) e caratterizza la tendenza verso la spiegazione razionalistica dei fenomeni naturali che è tipica del pensiero filosofico e scientifico occidentale.

La nozione di causalità, o di relazione causale, stabilisce una connessione necessaria tra i fatti dell'esperienza (a prescindere dal fatto che le cause considerate siano esclusivamente fisiche e meccaniche o che si ammettano anche cause intelligenti e finalistiche).

Aristotele identifica espressamente la conoscenza scientifica con la ricerca delle cause, che egli ritiene siano di quattro tipi:

  • la causa materiale (ciò di cui una cosa è fatta)

  • la causa formale (il modello o l'essenza della cosa)

  • la causa finale (il fine per cui una cosa viene prodotta)

  • la causa efficiente (l'agente che produce la cosa).

Il pensiero moderno e scientifico conserva solo quest'ultimo tipo di relazione causale, e cerca di tradurre la relazione tra causa ed effetto in una funzione di grandezze matematicamente misurabili.

Il concetto di causalità trova però, nel Settecento, un grande critico in Hume, che afferma che tra causa ed effetto non vi è un legame necessario ma solo una connessione di fatto: la presenza di leggi universali in natura è una mera ipotesi, motivata unicamente da un'abitudine psicologico-associativa dell'uomo.

In epoca contemporanea, poi, a seguito di nuove scoperte scientifiche, il concetto di causa entra in crisi nell'ambito della stessa scienza.

Frutto dei tentativi di ripensare questo concetto è la concezione delle leggi scientifiche secondo cui esse non sono traduzioni realistiche dei fenomeni naturali ma schemi pratici e funzionali in cui riassumere, convenzionalmente, le misurazioni quantitative e le previsioni sperimentali degli scienziati.

Nell'ambito della fisica, emerge inoltre la teoria di campo, che a una spiegazione dei fenomeni basata sulla causalità temporale (ciò che avviene prima è causa di ciò che avviene dopo) sostituisce una spiegazione basata sulla dinamica dei sistemi.

Tale teoria viene poi applicata sia allo studio della percezione (dalla scuola tedesca della Gestaltpsychologie, o psicologia della forma) che allo studio delle motivazioni individuali e dei processi interpersonali (da Lewin, che alla Gestaltpsychologie fa riferimento).

 

Codice

Nella teoria della comunicazione e nella semiotica, sistema per trasmettere e conservare informazioni, costituito da un insieme di segni convenzionali o simboli (alfabeto) e da un insieme di regole per la loro combinazione (grammatica).

In questa accezione, il termine è strettamente legato a quello di messaggio, di codifica e di decodifica.

 

Codifica

(contrapposta a decodifica) Procedimento di traduzione dell'informazione in una forma adatta per essere elaborata o trasmessa, tramite uso dei simboli e delle regole di un sistema convenzionale (o codice).

Come esempi di messa in codice si possono considerare il parlare (come uso di un codice orale) e lo scrivere (come uso di un codice scritto).

Il passaggio da un codice all'altro (per esempio, la trascrizione di un messaggio orale oppure la traduzione di un messaggio da una lingua all'altra) viene invece propriamente detto transcodificazione.

 

Complesso

(contrapposto a semplice) Formato da più parti o elementi, che si uniscono dando vita a qualcosa di diverso da ciò che essi sono presi singolarmente.

 

Comportamento

L'insieme degli atteggiamenti osservabili che un soggetto assume in determinate situazioni, in reazione a stimoli ambientali o a bisogni interni.

Normalmente, il comportamento consiste in una serie di atti che non si succedono casualmente bensì secondo una direzione: sono orientati verso un fine, hanno un senso per chi li compie. 

Inteso in questo modo, il comportamento implica due dimensioni: 

- quella relativa agli atti osservabili, 

- quella relativa al modo in cui un individuo 

   comprende la situazione.

La prima dimensione implica la seconda; la seconda dimensione si manifesta nella prima.

Nell'analisi del comportamento cognitivo (ossia relativo alla conoscenza) dell'uomo, e in particolare nell'ambito della teoria di Feuerstein, vengono isolati specifici comportamenti: 

  • il comportamento esplorativo, ossia l'insieme degli atteggiamenti che sono finalizzati all'indagine, all'investigazione relativa a un dato oggetto (o campo) e che permettono di scoprire e acquisire elementi rilevanti, ad esso attinenti.

  • il comportamento comparativo, ossia l'insieme degli atteggiamenti che sono finalizzati al confronto tra elementi e che permettono quindi di scoprire somiglianze e differenze, di stabilire relazioni;

  • il comportamento sommativo, ossia l'insieme degli atteggiamenti che permettono di "mettere insieme", di raggruppare in "campi" - secondo determinate relazioni - elementi già sperimentati. 

  • il comportamento sistematico, ossia l'insieme degli atti che si compiono seguendo ordinatamente certi criteri, e quindi controllando l'impulsività.

 

Comprensione episodica

Rappresentazione mentale della realtà in cui ogni oggetto o evento viene visto come unico, isolato e senza alcuna relazione con ciò che precede o segue.

 

Concetto

Pensiero concepito dalla mente, contenuto o oggetto mentale, idea

Nella nostra tradizione culturale il termine è stato però usato anche in un senso ben diverso da quello di qualsivoglia rappresentazione mentale, lo si è infatti anche inteso come universale, e dunque come: 

  • ciò che è comune ai membri di un insieme omogeneo; 

  • il genere rispetto alla specie ("mammifero" rispetto a "uomo", "cavallo", "cane", ecc.);

  • l'essenza che è propria di molti ("razionale", detto degli "uomini", ecc.). 

Del concetto inteso in questo senso, cioè come conoscenza dell'essenza della cosa, Aristotele considera scopritore Socrate: per Socrate il concetto (logos) di una cosa è dato dalla sua corretta definizione, che sottrae la conoscenza alla variabilità dell'opinione e all'accidentalità dell'esperienza.

Nel pensiero moderno, l'identificazione del concetto con l'universale si ha in Kant.

Per Kant il concetto si riferisce sempre a una pluralità di oggetti ed è funzione dell'intelletto o del pensiero (a differenza dell'intuizione che è apprensione diretta del proprio oggetto ed è funzione della sensibilità). Ma tra concetti è poi possibile compiere una distinzione, in quanto vi sono:

  • concetti empirici, astratti per generalizzazione dall'esperienza;

  • concetti puri (o categorie): condizioni a-priori dell'esperienza, in quanto costitutivi di essa.

Per Hegel invece il termine "concetto" è da riservare solo alle categorie.

 

Nella logica tradizionale (a partire dalla scolastica medievale), il termine "concetto" ha un significato ancora diverso: indica ogni termine componibile con altri a formare un giudizio (cioè una funzione logica che connette un soggetto con un predicato), e viene distinto tanto dalla cosa che esso rappresenta quanto dalla parola con cui viene espresso. 

Viene quindi proposta la distinzione tra:

  • comprensione o intensione (che oggi definiremmo connotazione) di un concetto, consistente nelle note caratteristiche che lo costituiscono;

  • estensione (che oggi definiremmo denotazione) di un concetto, consistente negli oggetti designati dal concetto.

 

Congettura

Supposizione, giudizio fondato su indizi e apparenze probabili.

 

Conoscenza

Una delle modalità dell'esperienza e dell'attività mentale dell'uomo, che la nostra tradizione culturale ha distinto da altre modalità, quali l'opinione, la credenza, l'immaginazione, la fede.

Il termine può indicare sia la facoltà (capacità) e l'atto del conoscere, sia il prodotto finale di tale atto.

Relativamente alla definizione della conoscenza si possono individuare due grandi correnti di pensiero: 

  • l'una concepisce la conoscenza come un'immagine adeguata (di natura mentale) dell'oggetto di conoscenza (modello iconico),

  • l'altra concepisce la conoscenza come una proposizione vera; ancora meglio, come un enunciato scientifico (modello proposizionale).

Il modello iconico attribuisce grande importanza alla percezione e alla memoria e si pone come problema specifico la delimitazione dei confini tra ciò che - in una conoscenza - deve essere attribuito all'oggetto e ciò che viene invece dal soggetto conoscente, e quindi anche dei confini tra "apparenza" e "realtà".

Il modello proposizionale, pur ritenendo che la conoscenza debba corrispondere ai fatti (che non sono le cose, ma le loro relazioni), attribuisce fondamentale importanza alla derivazione logica della conoscenza da principi universalmente validi. 

 

In ambito psicologico e pedagogico più che tentativi di definizione di cosa sia la conoscenza e di quali debbano essere i criteri di validità ad essa relativi, si trovano descrizioni dell'atto conoscitivo e delle componenti della conoscenza. 

Così, secondo un'impostazione ampiamente condivisa, nella conoscenza si possono distinguere due componenti: 

  • l'informazione;

  • l'abilità. 

L'informazione consiste nei dati e nelle nozioni - riguardo a oggetti, eventi, situazioni - che l'individuo raccoglie ed elabora, organizzandoli in concetti e categorie, ecc. e conservandoli. 

L'abilità consiste nelle attività che l'individuo svolge per conseguire l'informazione. Queste attività vengono organizzate e conservate come procedure, strategie, processi.

In altri termini, l'informazione è la conoscenza dichiarativa o concettuale; l'abilità è la conoscenza procedurale

 

Costante

Ciò che risulta immutabile e caratteristico di qualcosa, al di là dei cambiamenti che possono coinvolgere questo qualcosa.

In matematica, la costante è una quantità, una grandezza che non varia al variare dei parametri con cui è in relazione.

In fisica, si parla di costanti universali: grandezze connesse a leggi naturali fondamentali, le quali non mutano per totale indipendenza da condizioni di luogo e di tempo e dallo stato fisico dei corpi interessati (per esempio, la carica dell'elettrone e la velocità della luce nello spazio).

 

Criterio

La regola in base alla quale si distingue, si discerne, si classifica, si giudica. 

La si può porre (in funzione di uno scopo e in base a una logica) o la si può adottare, se già posta.

 

D

Decodifica

(contrapposta a codifica) Procedimento di interpretazione di messaggi espressi in codice, che permette di risalire dai simboli del codice all'informazione che tramite essi è stata elaborata o trasmessa.

Come esempi di decodificazione si possono considerare l'ascolto (come interpretazione di un codice orale) e la lettura (come interpretazione di un codice scritto).

Deduzione

(contrapposta a induzione) Il processo logico nel quale, date certe premesse e certe regole, che ne garantiscono la correttezza, una conclusione consegue come logicamente necessaria.

Permette di ottenere proposizioni particolari da premesse generali, di ricavare le proprietà di un oggetto a partire dalla definizione  di quell'oggetto.

Secondo Aristotele, la forma esemplare ed elementare della deduzione è il sillogismo: l'argomentazione logica in cui, poste due premesse, ne deriva di necessità una conclusione (logicamente implicita nelle premesse).

Per un approfondimento sulla logica deduttiva, vedi "logica".

 

Definizione

Generalmente intesa come l'atto, il fatto, il modo di determinare le caratterisriche essenziali (fondamentali, permanenti) e specifiche (vedi differenza specifica in differenziazione) di una cosa con le parole; oppure di delimitare esattamente il significato di una parola, di una frase, con altre parole.

Più precisamente, essa consiste nell'identificazione, di carattere postulatorio, tra due oggetti o concetti, avente lo scopo di caratterizzare compiutamente il primo (definiendum) nei termini del secondo (definiens).

Per essere corretta, una definizione deve dunque essere non circolare: il definiens non deve contenere il definiendum (o termini la cui comprensibilità dipenda da quella del definiendum).

Lo scopo della definizione è quello di ridurre al minimo il ricorso all'intuizione nella comprensione dei termini del discorso, risolvendone il significato in quello di altri termini la cui comprensibilità è stata preventivamente assicurata. 

Poiché questo processo di risoluzione non può procedere all'infinito, ogni ambito di discorso ben delimitato deve prevedere l'esistenza di termini non definiti la cui comprensibilità è assunta per principio. La definizione dovrebbe trasmettere la comprensibilità di questi a tutti gli altri termini.

 

Deprivazione

L'essere privato di qualcosa, specie di natura sociale o culturale; la carenza di situazioni favorevoli allo sviluppo psichico del bambino, e gli effetti che ne derivano.

 

Differenziazione

Il termine indica sia l'atto di differenziare, ossia distinguere, che la differenza attraverso esso istituita.

Il concetto è molto importante per la psicologia in quanto risulta cruciale nella descrizione dello sviluppo.

Per esempio, rispetto alle emozioni, esiste una teoria secondo la quale, inizialmente, nel neonato, sarebbe possibile distinguere soltanto uno stato di minore o maggiore eccitazione: solo successivamente, e progressivamente,  avverrebbe quella differenziazione che permette di distinguere tra stati emotivi diversi.

In particolare, Lewin (1890-1947) sottolinea come emozioni, sentimenti e comportamenti si differenzino tra loro diventando sempre più complessi.

Rispetto allo sviluppo del linguaggio, Jakobson afferma che il bambino tende a produrre inizialmente solo i fonemi che si differenziano massimamente tra di loro, per attuare poi differenziazioni sempre più sottili.

Rispetto allo sviluppo cognitivo, Feuerstein, come molti altri studiosi, è convinto che la capacità di differenziare vari aspetti della realtà, interiore o esteriore, sia strettamente legata alla capacità di denominare e descrivere questi aspetti in maniera corretta e precisa. Un'adeguata verbalizzazione facilita infatti la formazione di un'immagine mentale dell'oggetto specifica, individuale, non ambigua e dunque una sua corretta concettualizzazione.

Del resto, già la filosofia antica attribuiva una grandissima importanza alla differenziazione.

Nella logica aristotelica, che ancora influenza il nostro modo di pensare, ciò che caratterizza una specie, distinguendola da tutte le altre appartenenti allo stesso genere è proprio la differenza specifica

Per esempio, ciò che caratterizza la specie "uomo" distinguendola dalle altre specie contenute nel genere "animale" è l'attributo della "razionalità".

In tal modo, la differenza specifica, insieme con il genere prossimo (ovvero con il genere immediatamente successivo alla specie, distinto sia dai generi gerarchicamente superiori che dal genere sommo che tutti li contiene) costituisce la base della teoria aristotelica della definizione (riprendendo l'esempio, l'uomo è definito come "animale razionale").

 

Dimostrazione

Generalmente intesa come ragionamento, o procedimento di carattere discorsivo, con cui si vuole provare la verità di un'asserzione.

Aristotele (Analitici secondi) fu il primo ad analizzarla e definirla rigorosamente come quella forma di sillogismo che deduce una conclusione da principi primi, veri, evidenti e indimostrabili.

Nelle scienze deduttive classiche, come la geometria di Euclide, la funzione primaria della definizione è quella di ricondurre la verità di certe proposizioni (i teoremi) a proposizioni la cui verità sia riconoscibile senza bisogno d alcun procedimento discorsivo (assiomi e postulati).

La logica contemporanea ha invece cercato di dare una definizione generale di dimostrazione che eliminasse ogni riferimento al concetto di verità delle proposizioni facendo ricorso alla nozione di sistema formale.

 

Un tipo particolare di dimostrazione è la dimostrazione per assurdo, un'argomentazione che si basa sul principio della doppia negazione (secondo cui non-non-A equivale ad A). 

Essa dimostra infatti una proposizione (A) refutando la sua negazione (non-A), in quanto da questa discenderebbe una proposizione contraddittoria, (ossia del tipo B e non-B) che non si può accettare per il fondamentale principio logico di non-contraddizione. 

 

Discriminazione

Generalmente intesa come distinzione, differenziazione, operata fra situazioni, cose, persone apparentemente simili che vengono poi trattate in modo diverso.

Più specificatamente, in psicologia, è la facoltà percettiva di distinguere tra stimoli differenti.

 

E

Egocentrismo

Tendenza a porsi al centro del mondo, riferendo e attribuendo tutto a sé e valutando la realtà solo dal proprio punto di vista, non riuscendo ad assumere, o non valutando sufficientemente, punti di vista diversi. 

Un linguaggio che non tiene in adeguata considerazione le istanze di chiarezza e precisione - che assicurano la reciproca comprensione e la condivisione dei significati - viene definito egocentrico: il soggetto che lo usa dimostra di non essere in grado di decentrarsi da sé, dai propri sistemi di riferimento, anche quando questi non sono condivisi dagli interlocutori.

Secondo lo psicologo svizzero Piaget (1896-1980) - maestro di Feuerstein -  l'egocentrismo e il linguaggio egocentrico sarebbero caratteristici dell'età infantile, pur potendosi talora riscontrare anche nell'adulto (soprattutto quando questi si trova in situazioni particolarmente difficili, completamente inattese, euforizzanti). 

Tra i tre e i sei anni, i bambini sarebbero incapaci di considerare la realtà da un punto di vista diverso dal proprio e la maggior parte della loro produzione linguistica non avrebbe finalità comunicative (basate sulla domanda e la risposta, sulla critica, sulla preghiera e la minaccia, o su altri elementi interazionali) ma sarebbe una sorta di monologo rispondente a un'intima necessità di espressione fine a se stessa. 

Lo sviluppo intellettivo porterebbe poi a un progressivo "decentramento", per cui il bambino diverrebbe sempre più capace di tener conto delle diverse prospettive con cui gli altri individui comprendono il mondo, orientando quindi la sua azione e comunicazione su questa comprensione.

 

Elemento

Ciascuna delle parti strutturali che entrano nella costituzione di qualcosa e che si possono isolare dalle altre (attraverso un processo di analisi), in quanto indivisibili o aventi una funzione unitaria. 

Il termine viene dalla filosofia antica, che considerava elementi ciascuna delle sostanze semplici con cui sono formati i corpi (e da cui tutto deriva).

 

Equivalente

Cosa che, pur avendo natura diversa, ha (o è ritenuta di) valore uguale.

Esistono, in vari campi, principi di equivalenza, che postulano l'uguaglianza di effetti prodotti da cause (apparentemente) diverse o la trasformabilità l'una nell'altra di grandezze considerate precedentemente di natura diversa.

 

Evidenza logica

Generalmente intesa come ciò che si presenta chiaramente vero a tutti, così da non richiedere prove, dimostrazioni.

Nella filosofia antica l'evidenza era la caratteristica della scienza (contrapposta all'opinione), in particolare del grado più alto della scienza, attingibile attraverso l'intelletto intuitivo (noûs).

Aristotele considerava, in senso più ristretto, l'evidenza come la caratteristica dei principi: dei principi supremi dell'intelletto (principio di non-contraddizione e principio del terzo escluso) e di quelli di determinate scienze (per esempio: il tutto è maggiore della parte).

Anche nella filosofia moderna l'evidenza risulta connessa all'intuizione intellettuale. 

Per Cartesio, per esempio, la regola principale del metodo che bisogna seguire per distinguere con chiarezza il vero dal falso è: prendere per certo solo ciò che è evidente (chiaro e distinto), anche se egli si rende conto che l'evidenza è un fenomeno meramente psicologico (è il sentimento di certezza per cui ci si sente costretti ad assentire a qualcosa) e che per farne il criterio della verità oggettiva sono necessari ulteriori passaggi (che, nel suo caso, comportano il ricorso a Dio).

In epoca contemporanea questa concezione dell'evidenza viene ripresa dalla fenomenologia, ma anche contestata dalle correnti che negano l'intuizione quale fonte di conoscenza privilegiata.

 

F

Fase (del processo mentale)

Ciascuno dei momenti fondamentali in cui si può suddividere il processo di pensiero, secondo il modello di funzionamento della mente proposto dal cognitivismo (in analogia con il computer).

La fase di input è la fase di ingresso delle informazioni in un sistema in grado di conservarle ed elaborarle, dunque la fase in cui il soggetto che si trova in una situazione problematica raccoglie i dati relativi alla situazione stessa.

La fase di elaborazione è la fase centrale del processo di pensiero, in cui il soggetto seleziona, confronta le informazioni raccolte (sia tra loro che con quelle già in suo possesso), elimina quelle non pertinenti e pone in relazione, organizza quelle pertinenti.

La fase di output è la fase finale, in cui il soggetto fornisce il risultato dell'elaborazione, comunicata attraverso la risposta.

 

Funzione

Attività svolta (abitualmente o temporaneamente) in vista di un fine, per lo più considerata nel complesso di un sistema.

 

Funzioni cognitive

Vedi pagina precedente 

Ne proponiamo la seguente lista, non esaustiva:

(per la fase dell'input) 

(per la fase dell'elaborazione)

(per la fase dell'output)

 

G

Generale

(contrapposto a particolare) Ciò che è comune a tutti, a molti, a un complesso di cose o individui. 

Può essere usato come sinonimo di "universale", termine che nella tradizione filosofica indica ciò che è comune a più realtà individuale, a una molteplicità o totalità di enti, o che può essere predicato di più soggetti.

 

I

Idea

Generalmente concepita come contenuto del pensiero; nozione o rappresentazione che la mente si forma o riceve di una cosa reale o immaginaria.

In questa accezione, è sinonimo di concetto

In un'accezione meno comune indica anche il modello, l'archetipo perfetto di qualcosa (l'idea del bello, del bene, ecc.)

Il termine (che deriva da un verbo greco che significa "vedere") ha avuto grande rilevanza nella tradizione filosofica, assumendo, nelle varie scuole di pensiero, significati alquanto diversi. 

E' anche per questo motivo - ossia per il suo essere carico di rimandi culturali - che questo termine compare oggi, nel vocabolario specifico delle varie discipline, molto meno frequentemente del termine "concetto" (il quale, pur derivando dalla stessa tradizione culturale, risulta più "neutro").

In Platone l'idea rappresenta l'essenza intelligibile e immutabile delle cose (contrapposta al molteplice e mutevole mondo sensibile) e assume il significato specifico di: oggetto di una visione, o intuizione, intellettuale.

In età moderna, con Cartesio, l'idea viene a designare qualsiasi contenuto mentale, che si rappresenti alcunché.

Per Cartesio sono infatti idee:

  • sia le rappresentazioni che ci provengono dal di fuori, che hanno origine sensibile (avventizie)

  • sia quelle che provengono dall'immaginazione (fattizie in quanto fatte da noi)

  • sia quelle indipendenti dalla sensibilità e dall'immaginazione (innate).

Circa l'esistenza delle idee innate, e più in generale circa l'origine delle idee (se tutte le nostre idee dipendano - o se alcune di esse non dipendano - dall'esperienza sensibile), esistono posizioni opposte nella storia della filosofia, riconducibili essenzialmente alla disputa tra razionalisti ed empiristi, disputa che si è soliti considerare risolta nel criticismo kantiano. 

 

Identità

Generalmente intesa come la perfetta uguaglianza.

Più precisamente, in logica, è la relazione che ogni oggetto intrattiene esclusivamente con se stesso, caratterizzabile quindi come la meno estesa delle relazioni riflessive.

La prima formulazione del principio d'identità, solitamente espresso nella forma "A=A", si deve ad Aristotele (Topici), che lo identifica come presupposto fondamentale di ogni dimostrazione logica.

In psicologia, l'identità personale è il senso e la consapevolezza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo.

 

Implicito

(contrapposto a esplicito) Giudizio, concetto o fatto che, senza essere espressamente enunciato, è contenuto in un altro (dal quale si può ricavare per inferenza). 

 

Indizio

Segno, cosa che indica l'esistenza di un'altra e che lascia dedurre un fatto non ancora avvenuto o non conosciuto direttamente.

 

Induzione

(contrapposta a deduzione) Il processo logico nel quale, partendo dall'osservazione di casi particolari si sale ad affermazioni generali, la cui portata si estende al di là dei casi esaminati.

Le argomentazioni induttive hanno di norma la seguente forma: poiché gli oggetti di una certa classe individuata attraverso la proprietà P godono anche della proprietà Q, qualsiasi altro oggetto che goda di P godrà anche di Q.

Già Hume (Trattato sulla natura umana, 1740) osservò che i ragionamenti induttivi si fondano sulla credenza, psicologica e non razionale, nell'uniformità della natura, sull'assunzione di un rapporto necessario tra causa ed effetto.

E nel Novecento Popper assunse questa critica come punto di partenza per contestare la possibilità stessa della verifica delle proposizioni scientifiche, alla quale propose di sostituire la falsificazione (perché se nessun numero di esempi confermati può giustificare la verità di una proposizione universale, un solo esempio contrario consente invece di dimostrarne la falsità). Considerare la falsificabilità e non la verificabilità come tratto caratteristico delle teorie scientifiche fa sì che la direzione stessa dell'indagine venga invertita: non si muove più dai fatti alla costruzione delle teorie, ma dalle teorie al controllo mediante fatti. E poiché questo controllo avviene traendo deduttivamente dalle teorie le loro conseguenze osservabili, Popper parla di metodo ipotetico-deduttivo.  

Oggi si riconosce generalmente che nessuna regola meccanica è in grado si portare alla scoperta di leggi generali, e nemmeno di garantirne la validità; compito della logica induttiva sarebbe pertanto quello di esplicitare i canoni metodologici atti a determinare il grado di conferma fornito a un'ipotesi da un certo insieme di dati (Carnap).

 

Inferenza

Procedimento consistente nel trarre una conseguenza, una conclusione, a partire da un dato, da una premessa.

Più precisamente, in filosofia, è un ragionamento con cui si dimostra il logico conseguire di una verità dall'altra.

 

Informazione

Dato, elaborato o memorizzato, che consente di avere conoscenza di fatti, eventi, situazioni.

Per la linguistica, le informazioni tradotte in un codice costituiscono un messaggio, che può essere trasmesso, scambiato tramite opportuni canali.

La psicologia distingue tra informazioni e abilità nell'ambito della conoscenza.

 

Intelletto

La facoltà (capacità) di generare e intendere le idee, i concetti, e di formulare giudizi.

A questa facoltà si può riconoscere - ed è stato storicamente riconosciuto - un valore diverso a seconda del ruolo che le si assegna rispetto ad altre facoltà umane, quali:

  • la sensibilità (facoltà di un essere vivente di conoscere attraverso i sensi),

  • la ragione (la facoltà umana di pensare, mettendo in rapporto i concetti e le loro enunciazioni e distinguendo tra vero e falso, giusto e ingiusto, bene e male. Facoltà che può governare le passioni e gli impulsi). 

Quando fa la sua comparsa (nel Medioevo, per tradurre il noûs greco), il termine "intelletto" indica il grado supremo della conoscenza.

Platone, infatti, nel campo della vera conoscenza, aveva distinto la conoscenza intellettuale da quella matematica, per il suo carattere completamente non sensibile e non ipotetico: l'intelletto era contemplazione delle idee e dei loro rapporti (vedere puro, intuizione intellettuale dell'essere vero). 

Nella sua originaria accezione, pertanto, la conoscenza intellettuale risulta contrapposta (e sovraordinata) - in quanto conoscenza intuitiva - alla conoscenza mediata (diánoia, o ragione), che procede per dimostrazioni, passando discorsivamente da una proposizione all'altra.

Questa contrapposizione è anche dell'altro principale pensatore dell'antichità, Aristotele, per il quale però l'intuizione intellettuale non coglie contenuti concettuali determinati ma solo principi (il principio di non-contraddizione e il principio del terzo escluso, ossia i principi che permettono ogni dimostrazione e che non possono essere a loro volta oggetto di dimostrazione: devono essere intuitivi).

In epoca moderna la distinzione tra intelletto e ragione ha avuto vicende alterne.

Nel XVII secolo Locke la rifiuta: l'intelletto diviene la facoltà del conoscere in generale, in quanto tale opposta all'altra facoltà spirituale preminente, quella della volontà (intesa come principio dell'azione). 

Nel XVIII secolo Kant invece riprende la distinzione intelletto/ragione, ma reinterpretandola, in quanto assume come criterio l'oggetto cui queste facoltà si rivolgono: l'intelletto si rivolge ai fenomeni, la ragione al trascendente. Di conseguenza egli rovescia la scala gerarchica: la ragione (quanto a pretese) è superiore (anche se la superiorità è fittizia perché le pretese restano insoddisfatte).

Sulla stessa linea Hegel, che però intende l'intelletto come la facoltà dell'astrazione, che determina e fissa rigidamente le proprie rappresentazioni, lasciandosi sfuggire il movimento e la vita: solo la ragione (con la dialettica), riesce a cogliere questi e risulta pertanto realmente superiore all'intelletto.

Nel pensiero contemporaneo la distinzione tra intelletto e ragione è pressoché scomparsa: la ragione non viene più contrapposta all'intelletto, ma semmai al pensiero mitico e alla metafisica (considerati irrazionali in quanto privi della possibilità di controlli empirici e critici). 

Resta invece la distinzione tra intelletto, come facoltà superiore della conoscenza, e sensibilità. Distinzione di cui vengono date diverse interpretazioni. 

Per alcuni pensatori, come Kant (che esclude l'intuizione intellettuale), tra le due facoltà si ha una distinzione di natura (la sensibilità è passiva, ricettiva, ed è intuitiva; l'intelletto è spontaneo e non è intuitivo: è conoscenza mediata).

Per altri pensatori, come Liebniz,  si ha invece semplicemente una distinzione di grado (la conoscenza sensibile è oscura, quella intellettuale è chiara e distinta).

La contrapposizione tra intelletto e sensibilità è ancora diffusa, e vede la sensibilità come facoltà inferiore. 

Infine, gli antichi distinguevano la facoltà, l'intellectus, dal suo effettivo esercizio, l'intelligentia

Anche questa distinzione si è andata perdendo e oggi il termine "intelligenza" identifica la facoltà, le funzioni mentali superiori.

Intelligenza

Complesso di facoltà (capacità) psichiche e mentali, proprie dell'uomo, che consentono di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare, adattarsi all'ambiente.

 

Se la filosofia ha pensato l'intelligenza come intelletto, contrapponendola ad altre facoltà e interrogandosi sulla sua specificità, in psicologia lo studio dell'intelligenza è stato a lungo trascurato, non divenendo oggetto di studi adeguati alla sua importanza. Questo per vari motivi:

  • l'obiettiva difficoltà dello studio dell'intelligenza (se paragonato, per esempio, allo studio della sensazione o percezione);

  • l'impossibilità di diventare oggetto di sperimentazione rigorosa, implicando essa processi mentali superiori, complessi;

  • la riduzione dello studio dell'intelligenza al solo problema dell'apprendimento, compiuta da indirizzi quali il comportamentismo.

Nella prima metà del Novecento i pochi studi non semplicistici sull'intelligenza sono stati compiuti all'interno di ambiti specifici: 

  • la Gestaltpsychologie, o psicologia della forma, si è occupata soprattutto di intelligenza animale (anche se introducendo il concetto innovatore di insight: improvvisa illuminazione che consente di risolvere un problema pratico o teorico senza ricorrere al procedimento "per prove ed errori", e che nasce da una ristrutturazione del campo percettivo o mentale, tale per cui è possibile cogliere nuovi legami tra mezzi e fini),

  • Piaget si è occupato essenzialmente dello sviluppo dell'intelligenza.

Quanto alla ricerca applicata, essa si è occupata soprattutto di mettere a punto metodi di misurazione dell'intelligenza (test) che sono stati in seguito molto criticati, sia per i condizionamenti culturali di cui risentivano, sia per la visione statica e riduttiva dell'intelligenza che esprimevano.

Indirizzi più recenti di ricerca, e in particolare il cognitivismo (uno dei più importanti movimenti della psicologia sperimentale contemporanea), hanno messo a tema sia il grande rapporto esistente tra intelligenza (o pensiero) e linguaggio (per esempio con Vygotskij o Chomsky), sia la complessità dell'intelligenza umana, che:

  • coinvolge molte altre funzioni psichiche (l'attività sensomotoria, la memoria a breve e lungo termine, il linguaggio, la motivazione, ecc.);

  • presuppone sia l'intervento di fattori genetici che l'integrità del sistema nervoso;

  • risente delle esperienze di apprendimento vissute dal soggetto.

"Oggi si incontrano nell'uso psicologico del termine due definizioni prevalenti, l'una derivante soprattutto dalle discipline logico-formali, l'atra dalle discipline biologico-funzionali. 

La prima considera l'intelligenza come potere di astrazione e di giudizio, che coglie nei dati percettivi (elaborati dalle associazioni immaginative) alcuni momenti o aspetti, li confronta e li esprime nelle loro strutture e nei loro rapporti, secondo regole di formazione dotate di una relativa costanza o invarianza. E' questa la definizione più vicina al significato tradizionale del termine.

La seconda considera piuttosto l'intelligenza come potere operatorio, come attitudine generale a elaborare schemi di azione. Essa consisterebbe principalmente nella capacità di risolvere problemi di adattamento all'ambiente, con una flessibilità maggiore dell'istinto grazie a un potere inventivo di nuove soluzioni" (Di Mauro, Nuove Metodologie per la formazione, l'integrazione e lo sviluppo della persona) 

In particolare, secondo la definizione di Gardner (teorico della pluralità delle intelligenze), l'intelligenza è la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti che sono apprezzati all'interno di uno o più contesti culturali.

 

Interesse

Partecipazione attiva a qualcosa che si manifesta come desiderio di conoscere, come impegno nello svolgimento di un'attività.

Gli interessi sono qualcosa di diverso dalle motivazioni e dai bisogni in quanto hanno maggiormente a che fare con l’intelligenza dell’individuo e la cultura di appartenenza. 

In altri termini, potremmo considerarli come motivazioni consapevoli e indirizzate a una meta specifica.

 

Ipotesi

Generalmente intesa come spiegazione logica, fondata su indizi e congetture, che si dà provvisoriamente di fatti noti o accertabili in sé, ma non nelle loro cause

Richiede di essere verificata (dimostrata vera, esatta, fondata) o falsificata (dimostrata falsa, inesatta, infondata).

Più precisamente, enunciato assunto per verificarne la validità e le eventuali conseguenze, a prescindere dalla sua correttezza. 

Ciò risulta evidente nelle dimostrazioni per assurdo, in cui si assume come ipotesi la negazione dell'enunciato che si vuol dimostrare, per ricavarne una contraddizione (rapporto tra due affermazioni, due fatti, per cui uno esclude l'altro).

 

Ipotetico-deduttivo

Generalmente si definisce "ipotetico" ciò che costituisce o contiene un'ipotesi, o si fonda su un'ipotesi, o si suppone per ipotesi.

La filosofia e la logica parlano di:

  • giudizio ipotetico, come giudizio che si basa su una condizione (ossia del tipo: "Se A è, B è", oppure "Se A è B, C è D");

  • sillogismo ipotetico, come sillogismo che sia composto, totalmente o parzialmente, di giudizi ipotetici;

  • ragionamento ipotetico-deduttivo, come ragionamento che partendo da premesse ipotetiche basate sull'osservazione dei fatti, ne deduce le conseguenze al fine di verificare se esiste o no accordo tra le ipotesi e la realtà empirica.

Con l'espressione metodo "ipotetico-deduttivo" alcuni studiosi hanno inteso sottolineare le caratteristiche comuni al metodo ipotetico e a quello deduttivo (in particolare, l'assunzione di ipotesi e la derivazione da queste di conseguenze logiche).

 

L

Logica

In senso lato, il termine "logica" si applica alla riflessione sulla natura del pensiero, e in questa accezione la storia de termine coincide praticamente con la storia della filosofia. Le dottrine filosofiche hanno in tutti i tempi affrontato sia la questione della natura e dei fondamenti delle leggi logiche sia l'elucidazione di concetti di base della logica.

In senso stretto, il termine "logica" si applica alla teoria dell'inferenza valida, ossia delle condizioni alle quali un ragionamento risulta corretto, qualunque sia l'universo di discorso cui esso appartiene.

Si riserva quindi usualmente il termine "logica", senza ulteriori qualificazioni, alla logica deduttiva (che si occupa appunto delle condizioni alle quali un ragionamento risulta corretto). 

Una conclusione è validamente inferita o dedotta da certe premesse (cioè è una loro conseguenza logica) se non può essere falsa quando le premesse sono vere; un'argomentazione deduttiva è valida se la conclusione è validamente inferita dalle premesse, ed è inoltre corretta se le premesse sono vere.

 

Vi è però anche una logica induttiva, che si occupa delle condizioni alla quali una conclusione è - sulla base di certe premesse vere - non necessariamente vera, ma asseribile con un certo grado di certezza (probabilità). 

 

 

 

M - Z

 

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